COLLECTION #1 - Insider Magazine

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#1
Marzo/Aprile 2014
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Copia omaggio
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Numero 43 - Collection #1
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Anno 6
M A GA Z I N E
SEI ANNI DI IMPEGNO EDITORIALE
INSIDER MAGAZINE NASCE PER PORTARE
UN NUOVO STILE DI FREEPRESS A ROMA, MILANO E NAPOLI
Con INSIDER magazine abbiamo voluto realizzare una rivista mensile raffinata e di qualità.
Oggi, al sesto anno dalla nostra prima uscita, siamo sempre più convinti di aver centrato
l’obiettivo: un prodotto editoriale costruito su contenuti di interesse vario, con immagini
selezionate attentamente e una confezione curata.
Sappiamo che i nostri lettori apprezzano quello che abbiamo fatto fino ad oggi e li abbiamo
ringraziati sempre cercando di migliorarci ad ogni nuovo numero. Per questo oggi decidiamo
di raccontare il nostro percorso editoriale pubblicando alcuni “speciali” che raccolgono il
meglio di quanto secondo noi è stato pubblicato in questi anni.
In questa prima selezione troverete i viaggi più emozionanti, eccezionali resort, interviste a
personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport, approfondimenti vari e tante piccole
storie che raccontano curiosità e insoliti argomenti, a testimoniare la nostra volontà di
presentarvi il mondo sotto una prospettiva diversa, mai banale.
Abbiamo inoltre deciso di ripubblicare l’intervista a Piero e Raimondo D’Inzeo, leggenda
dell’Equitazione Azzurra, recentemente scomparsi, per commemorarne la lunga e gloriosa
carriera.
Nel numero troverete anche una inedita Cover Story e due articoli sul Salone del Mobile di
Milano 2014 e su Cape Town, capitale mondiale del design per l’anno in corso.
Con la speranza di aver fatto cosa gradita e con la certezza di aver condiviso ancora una
volta con tutti voi, cari lettori, la nostra visione del mondo, con questo prezioso numero da
collezione.
Mariela A. Gizzi e Raimondo Cappa
Editori
Editore Insider Srl • direttore editoriale Mariela A. Gizzi • redazione@insidermagazine.it • www. insidermagazine.it
Editore
Insider Srl
Largo Messico, 15 - 00198 Roma
+39 06 98353089
Presidente
Angela Grimaldi
angela.a.grimaldi@insidermagazine.it
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Rapporti Istituzionali
Alessandro La Rocca
alessandrolarocca@insidermagazine.it
Amministratore Delegato
Raimondo Cappa
amministrazione@insidermagazine.it
direttore responsabile
Francesca d’Aloja
direzione@insidermagazine.it
direttore editoriale
Mariela A. Gizzi
redazione@insidermagazine.it
Cover
Quel parco sull’Appennino
Polyommatus icarus - ph Luciano Cremascoli
coordinamento REDAZIONE
Donatella Codonesu
redazione2@insidermagazine.it
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progetto grafico
e impaginazione
info@csgraphicdesign.it
grafica@insidermagazine.it
hanno collaborato
Alessandra Vittoria Fanelli
Alessandro Pini
Angelo Troiani
Antonella De Santis
Aura Gnerucci
Carlotta Miceli Picardi
Francesco Mantica
Laura Pagnini
Maria Laura Perilli
María Margarita Segarra Lagunes
Marilisa Verti
Monia innocenti
Renata Biserni
Roberto Volterri
Vittoria di venosa
stampa
Printer Group Italia Srl
www.printergroup.it
resort
resort
travel
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hotel brunelleschi
duodo palace hotel
bhutan
DISTRIBUZIONE
Clodia Service
www.clodiaservice.it
PROGETTAZIONE E SVILUPPO APP
Paolo Carrazza
www.cpcagency.it
ANNO 6 - NUMERO 43
Insider Collection #1
Periodicità bimestrale
marzo/aprile 2014
Registrazione presso il Tribunale di Roma
al n. 58/2009 del 25/2/2009
Iscrizione del marchio presso
l’Ufficio Italiano Marchi e Brevetti
è vietata la riproduzione anche parziale
di testi, grafica, immagini
e spazi pubblicitari realizzati da: INSIDER Srl
PER LA TUA PUBBLICITà
info@insidermagazine.it
travel
art
interview
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44
50
praga e dintorni
john ratner
carlo verdone
Questo periodico è associato
all’Unione Stampa Periodica
Italiana
interview
sailing
Architecture
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70
106
pero e raimondo d’inzeo il rancio di bordo
www.insidermagazine.it
kimbell art museum
Thanks to
HARRY’S BAR
ROMA
www.vanni.it
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www.splendorparthenopes.com
www.ilgianfornaio.com
Madura viene da lontano, è il nome di una splendida isola dell’arcipelago malese,
nella quale un imprenditore parigino ha trovato ispirazione per la creazione della sua
azienda di prodotti tessili per la casa, conquistando da subito il pubblico francese e
oggi anche quello internazionale.
Da New York a Mosca, Panama, Ryad e Saint Tropez, solo per citare alcune delle oltre 40
boutique presenti in 10 paesi nel mondo, lo charme parigino e l’arte di decorare tipica
francese approdano in Italia, grazie alla presenza della boutique Madura a Roma in Via
Ugo Ojetti, 70 e alle prossime aperture nelle più prestigiose città italiane.
La boutique, nella sua vasta esposizione, accoglie lo charme parisienne attraverso la
collezione di tende di ogni foggia e trama, oltre 250 fantasie di cuscini, biancheria da
letto e piccoli ricercati accessori per la casa.
Proprio le tende, prodotto di punta del marchio Madura, hanno la peculiarità di essere
“pret à poser”, grazie alla facilità del loro sistema di montaggio ed all’alto livello di
rifinitura.
Dalle parole del presidente di Madura Paris Gil Bourgeois: “Il Madura Design Studio,
che si trova a Parigi sulle rive della Senna, è costantemente alla ricerca di proposte
alternative ed uniche rispetto a quanto già offre il mercato in termini di tende, cuscini
e biancheria da letto.
Le nostre principali fonti di ispirazione sono i diversi luoghi e culture del mondo e le
collezioni di moda.”
Infinite fantasie e stili, tessuti semplici o molto lavorati dal lino alla seta, permettono
ad ogni casa di rinnovarsi seguendo il passo ed i colori delle stagioni con abbinamenti
che vanno dai più moderni e particolari a quelli più classici ed eleganti. Grazie a
questo vasto assortimento di prodotti ed all’unicità del pret à poser, Madura riesce a
soddisfare ogni tipologia di cliente.
Madura - Via Ugo Ojetti 70, 00137 Roma - Tel. 06 69314946
Dal lunedì al sabato dalle 10 alle 19.30 - Domenica dalle 10 alle 19
www.madura.it
Quel Parco sull’Appennino
Sospesa fra monti e mare,
l’area protetta vive da sempre
di un felice connubio fra natura, storia e cultura.
Anche enogastronomica
di Donatella Codonesu - ph Luciano Cremascoli
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rgoglio di appartenenza, moderne vocazioni
economiche e antico senso della comunità:
sono questi i pilastri su cui si fonda l’esistenza
del Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano. Area
naturale protetta, ma anche progetto territoriale e umano, che
mira alla difesa di flora e fauna, nonché alla valorizzazione
delle molte produzioni agroalimentari di alta qualità, legate
alla tradizione contadina e all’utilizzo di antiche ricette, oggi
spesso rielaborate in chiave moderna.
Agriturismi, b&b, hotel, rifugi e piccoli alberghi sono i
presidi umani sparsi su questo territorio verde, selvaggio
Prati di Sara e Monte Cusna
ma accogliente, dove è possibile dormire o degustare i
molti prodotti di fama mondiale, come il farro I.G.P. della
Garfagnana, il miele e la farina di castagna D.O.P. della
Lunigiana - ingredienti base di un buon “castagnaccio” -, il
Crudo di Parma e il Parmigiano Reggiano. Sono solo le punte
di diamante fra i molti alimenti di riconosciuto valore nazionale
ed europeo, i prodotti tradizionali e i Presidi Slow Food.
Parallelamente alle caratteristiche naturalistiche, infatti, questa
è da sempre terra di insediamenti umani, ricca di storia e
cultura, dove si perpetuano gli antichi mestieri dei boscaioli,
dei carbonai, dei “picciarìn”, dei pastori, dei “cavallari” e dei
contadini. L’uomo ha vissuto qui fin da epoche molto antiche,
costruendo borghi arroccati sui versanti boscosi, sfruttando
la forza delle acque per alimentare le macine dei mulini,
difendendosi nei castelli fortificati e nelle case torre. Sono
ben 50 i borghi che conservano la memoria di una storia
pluricentenaria raccontata nei versi dei poeti - primo fra tutti
Dante - e testimoniata da una ventina di castelli ed altrettante
tra chiese, pievi, cappelle, 15 mulini, 4 siti archeologici e 9
musei. Difficile quantificare il numero di turisti del Parco,
che si estende su 2 Regioni, 4 Province e 16 Comuni, con
paesi che tornano a popolarsi nella stagione estiva. Meta di
un turismo ‘di ritorno’, è su quest’ultimo che si è basato un
progetto strategico dall’ambizioso nome di ’Parco nel Mondo’.
“Interessante per noi sono anche i numeri, se pur piccoli, ma
incoraggianti di un certo flusso turistico legato ai progetti del
Parco Nazionale come ‘Neve Natura e Cultura d’Appennino’
e ‘Autunno d’Appennino’ destinati ai giovani, alle famiglie e
alle scuole. Molto graditi da un turismo straniero i progetti di
Parco Bike come il percorso Parma-Lucca. Grande interesse
anche per l’Alta Via promossa in modo sinergico dai territori
coordinati dalla Regione Emilia Romagna” spiega Giuseppe
Vignali, Direttore del Parco.
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M AGA ZINE
Fiume Secchia
La popolazione locale vive il turismo come un’opportunità
importante. Diversi operatori privati e cooperative
di comunità in questi anni si sono impegnati nella
ristrutturazione e nella gestione di Centri Visita, ostelli, rifugi
e strutture ricettive. Grazie al loro impegno il numero di
posti letto disponibili è aumentato, ma soprattutto è cresciuta
la qualità delle strutture disponibili e del servizio offerto.
“Il volano del turismo e la valorizzazione delle attività
agro-silvo-pastorali rappresenta un vero piano di sviluppo
socio economico per il Parco Nazionale che cerca di dare
risposte ai suoi abitanti e ai visitatori che sempre in modo
più consistente scoprono e apprezzano i nostri crinali”.
Lago Verde
Faggi al Ventasso
Pietra di Bismantova
Eppure il trend demografico della popolazione è un fattore
critico, insieme alla grandissima fragilità idrogeologica
soprattutto nel versante Toscano fortemente piovoso. “Per
prevenire il degrado idrogeologico il Parco Nazionale si
è fatto promotore di progetti volti a sostenere le attività
agricole legate a doppio filo alla filiera corta e al turismo –
afferma il Direttore -. Per quanto riguarda l’invecchiamento
è evidente invece come sia difficile trovare soluzioni. In
Appennino i giovani sono pochi e anche se alcuni di loro,
negli ultimi anni, hanno scelto di investire sul loro territorio,
siamo di fronte solo a piccolo episodi, incoraggianti, ma pur
sempre limitati a scelte individuali”.
Torrente Parma del Lago Santo
Amanita muscaria
Boletus edulis
Lago Calamone
Lagoni
Torrente Parma di Badignana
Faggeta
Lago Calamone
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M AGA ZINE
Ciclidia phoebe
Mia Canestrini e Luigi Molinari, zoologi del Wolf Apennine Center,
Parco Nazionale dell’Appennino Tosco Emiliano.
Ricerca tramite segnale VHF di un lupo dotato di collare GPS GSM
e rara: Primula appenninica, Rododendro e Genzianella
sono solo alcuni tra le piante e i fiori protetti la cui raccolta
all’interno del territorio del Parco è vietata. Senza scordare
che il parco è abitato da una variegata fauna che include
esemplari protetti come lupo, aquila e falco pellegrino, oltre
a cervi e caprioli.
L’Appennino Tosco-Emiliano può insomma essere considerato
da tutti i punti di vista una formidabile cerniera tra il Nord
padano, la penisola e il mare di Luni. Ed è proprio questa
sua cruciale posizione ad averne fatto da sempre un luogo
unico e raro, dove uomo, natura e paesaggio coesistono
felicemente ◆
www.parcoappennino.it
Polyommatus eroides
Zerynthia cassandra
I suggestivi nomi di Lunigiana, Garfagnana e Bismantova
delimitano un territorio su cui si sono incrociate le vie di
personaggi fondamentali nella storia del nostro Paese, da
Matilde di Canossa agli Este, e su cui hanno avuto luogo
episodi cruciali di Risorgimento e Resistenza. Anche se per
molti oggi sono l’aspetto paesaggistico e le molte possibilità
di sport all’aria aperta ad avere la meglio sulle suggestioni
storiche facendone una meta per quattro stagioni. Il crinale
appenninico circondato da colline, la grande varietà di
esposizioni e di quote (fino a 2.000 metri) hanno generato
diversi ambienti, da quelli più freddi e nudi alle foreste, che
arrivano a lambire i 1.700 metri di altitudine. Microclimi
diversi, come le brughiere a mirtilli, i boschi di faggio e
quercia, i castagneti, che ospitano flora spesso endemica
Luciano Cremascoli
Ha cominciato a lavorare come fotografo freelance nel 1988, con l’Agenzia
Fotografica Overseas e Farabolafoto di Milano. Risiede alla Spezia.
Suoi reportage sono stati pubblicati su riviste specializzate sul mare in tutte le sue
declinazioni, natura e viaggi come: Yacht Digest, Arte Navale, Yacht Capital, Mondo
Barca, Mondo Sommerso, Airone, Dove, Qui Touring, Aqua, Oggi, Uomo Mare
Vogue, De Agostini Ediore, Peruzzo Ediitore, Scienza&Vita ecc.
La sua attività lo porta a realizzare anche diversi servizi fotografici industriali per
aziende quali: Le Navi Agenzia Marittima MSC, Fondazione Carispe, Camera di
Commercio della Spezia, Rimorchiatori Riuniti Spezzini, LSCT ecc.
Organizza periodicamente workshop dedicati alla fotografia di paesaggio, natura e
macrofotografia, nonché corsi di fotografia.
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relais con vista
I
l piccolo relais si trova comodamente inserito
al sesto e settimo piano di un palazzo nella
zona del Colle Oppio. Un ambiente intimo
e raffinato che ospita sole sei stanze, tutte
diverse, tutte luminose, eleganti, con pezzi di
arredo antichi in armonia con gli spazi lineari
e freschi. I dettagli curati, gli oggetti scelti
con amore nelle camere come negli spazi comuni.
Ogni ambiente racconta un frammento di storia diversa
e gode di un affaccio differente sulla città: Colosseo,
Campidoglio, Piazza Venezia, e tutto intorno Roma con
la sua bellezza sospesa nel tempo. Un incanto di cui
godere anche dalla bella terrazza, scenario ideale per
la colazione o per un aperitivo al tramonto.
Luxury in Rome
Via delle Terme di Tito, 92
Tel. + 39 064820723
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M AGA ZINE
“Well, actually, next month I’m lecturing
at a conference in Florence.
I’ll be there a week without much to do”.
“Is that an invitation?”
“We’d be living in luxury. They’re giving
me a room at the Brunelleschi”.
Tratto da ‘The Da Vinci Code’ by Dan Brown
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Hotel BRUNELLESCHI
camera con vista per ospiti esigenti
Citato nel famosissimo libro ‘Codice da Vinci’
dallo scrittore Dan Brown, che termina il suo best seller
facendo invitare il protagonista Robert Langdon
a soggiornare al Brunelleschi di Firenze,
l’hotel è il luogo ideale per vivere pienamente
il fascino della città del giglio
ostruito attorno a una cilindrica Torre Bizantina del
XII secolo e alla attigua Chiesa della Visitazione
che nel corso dei secoli hanno subìto numerosi
trasformazioni, l’hotel Brunelleschi, dopo diversi interventi di
restauro che hanno inglobato le vestigia del passato, è ora un
raffinato hotel quattro stelle situato nel cuore di Firenze creato
per offrire un’impeccabile ospitalità unita alla magia di una
delle città più belle del mondo.
Già dal suo ingresso l’hotel Brunelleschi racconta la storia
di Firenze attraverso i differenti stili che lo compongono:
dalla hall ricavata dall’antica chiesa del periodo Carolingio
all’impronta dell’Impero Romano (nei suoi sotterranei infatti
dopo un’accurata ricerca archeologica è venuta alla luce un
Calidarium delle terme romane) fino ai fasti Ottocenteschi
del sontuoso salone Liberty arricchito da pregevoli vetrate
originali decorate da Galileo Chini, discendente da una nota
famiglia di artisti ceramisti fiorentini, e attualmente adibito a
sala lettura e relax.
L’hotel dispone attualmente di 96 camere perfettamente
equipaggiate di cui 70 sono state completamente ristrutturate
con un intervento stilistico ispirato alle abitazioni rinascimentali
dell’epoca di Lorenzo il Magnifico e quelle Ottocentesche di
Firenze Capitale, appena dopo l’Unità d’Italia.
Il concept architettonico delle nuove camere e suite
dell’hotel Brunelleschi è stato sviluppato dalla filosofia
dello studio di architettura Benelli-Masi che ha valorizzato
l’edificio da restaurare rispettandone la tipologia originale
armonizzandola però alle esigenze di una clientela moderna
in modo di offrirle un’ospitalità al passo con i tempi. Quindi
camere insonorizzate, connessione Internet e Ipod, televisore
a cristalli liquidi a 42”, sessanta canali satellitari, due telefoni
multi linea, minibar, Nespresso coffee machine (solo nelle
Junior e Executive suite), lussuosa biancheria da letto e in
bagno e una cassaforte, tra l’altro, in grado di alloggiare un
laptop con possibilità di ricarica elettrica.
Tutto è stato pensato e disegnato per ottenere un look molto
italiano e fiorentino, a partire dai timpani sopra le porte delle
camere che si rifanno ad archetipi rinascimentali ripresi
nell’Ottocento.
Anche il design delle camere è stato sviluppato seguendo
gli schemi decorativi tardo ottocenteschi, con pavimenti in
parquet di rovere di Slavonia tagliato appositamente in misure
non standard, pareti trattate con imbiancature e decorate
con riquadri e stucchi, soffitti molto alti. I bagni, le cui porte
sono rivestite da un disegno ricavato da un particolare della
Cappella dei Pazzi progettata da Brunelleschi, hanno pareti
rivestite in travertino mentre i pavimenti sono in marmorino
con sezioni contrassegnate da tesserine di vetro argentato.
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M AGA ZINE
M AGA ZINE
I letti delle nuove camere del Brunelleschi, ridisegnate con
tocco sapiente dallo studio ‘tutto femminile’ Benelli-Masi,
hanno delle testate alte in velluto, affiancate da specchio ai
due lati, oppure un mezzo baldacchino a parete di un leggero
tessuto trasparente che ricorda la cupola di Brunelleschi. I colori
scelti sono tre nuance sobrie e riposanti: un prugna violaceo
(il colore di Firenze), un verde leggero che ricorda gli ulivi e
un tenue tortora. I tessuti, su proposta dallo studio BenelliMasi, sono stati prodotti a Como e tinti appositamente a Prato
esclusivamente per l’hotel in quanto sul mercato non esistevano
tessuti desiderati dalla committenza. Tende di un taffetà molto
pesante incorniciano finestre dove la luce è schermata da
veneziane di stecche di legno argentate, rigide ma preziose.
Alcune delle camere inaugurate lo scorso anno hanno una
vista spettacolare sulla cupola ‘ricamata’ del Brunelleschi e
sul campanile di Giotto del Duomo di Firenze che dista solo
50 metri dall’hotel: una ‘camera con vista’ cara agli inglesi
ma non solo!
E se anche il controverso libro ma di successo planetario
‘Codice da Vinci’ scritto da Dan Brown da cui è stato tratto
un altrettanto famoso film parla dell’hotel Brunelleschi di
Firenze e la visita nei suoi sotterranei dove è stato ricavato
il Museo della Pagliazza che racchiude i reperti archeologici
(soprattutto delle ceramiche) e un calidarium di origine
romana rinvenuti nel corso del restauro della Torre rendono
ancora più magico il luogo, è certo che oggi l’ospite che
soggiorna all’hotel si può sentire partecipe di una storia
affascinante tuttora da raccontare ◆
www.hotelbrunelleschi.it
AVF
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M AGA ZINE
M AGA ZINE
Dettaglio soffitto affrescato camera rosa
La suite
DUODO PALACE HOTEL,
DIMORA STORICA NEL CUORE DI VENEZIA
Dettaglio dell'ingresso
In una zona che ancora profuma delle magiche atmosfere veneziane,
Un palazzetto del 1600 è stato completamente restaurato e trasformato
in un hotel-boutique per offrire un’esclusiva ospitalità
S
di Alessandra Vittoria Fanelli
ituato nelle immediate vicinanze di piazza
San Marco, dalle Gallerie dell’Accademia e al
Ponte di Rialto, fuori dal grande via-vai delle
calle affollate che portano alla Basilica e al Palazzo Ducale,
si trova il Duodo Palace Hotel, un resort completamente
rinnovato ma che, grazie ad un intervento architettonico
conservativo, ha mantenuto la sua specificità veneziana.
L’hotel dispone di solo 38 camere tutte arredate in puro stile
veneziano sottolineato da stucchi, dallo stemma dell’antica
famiglia che lo abitava e da un originale pozzo di pietra
arenaria situato nella lobby, che dà il benvenuto agli ospiti.
Al Duodo Palace Hotel si può arrivare da due ingressi: uno
si apre su una piccola calle (facilmente raggiungibile a piedi,
a pochi passi dalla fermata San Marco del vaporetto delle
linee 1 e 2); l’altro, con accesso diretto sul canale, sia con una
romantica gondola sia con un più pratico water-taxi.
Deluxe suite
L’accoglienza è quella raffinata degli hotel più esclusivi: un
addetto alla lobby e alla reception sono a disposizione degli
ospiti per accoglierli e far sentire loro subito l’incanto della
Serenissima.
Infatti, proprio grazie alle poche ed esclusive camere, gli
ospiti del Duodo Palace Hotel (che ricordiamo fa parte
del circuito Dimore Storiche) vengono immediatamente
‘coccolati’ con un cordiale e personalizzato benvenuto
in modo di dare loro la sensazione di essere in un luogo
speciale.
Le camere e le suite dell’ultimo piano (da cui si gode
una magnifica vista che spazia sui campanili e i maggiori
monumenti della città) sono tutte arredate con mobili
del Settecento veneziano, da lampadari tipo chandelier
e applique lavorati artisticamente in cristallo di Murano,
da rivestimenti di preziosa seta dai colori tenui come il
resort
La reception
rosa polvere, il verde smeraldo, il bianco gardenia, l’oro
antico e decorati con gli stemmi nobili veneziani. Tutto
è coordinato: i rivestimenti delle pareti, i tendaggi alle
finestre e i copriletto. Anche le stanze da bagno sono state
completamente ristrutturate e dotate di tutti gli accessori
per l’accoglienza: ampi accappatoi, ciabattine in spugna,
prodotti per la cura del corpo, particolarmente delicati e
profumati, per il comfort più assoluto.
L’hotel dispone anche di una sala per la colazione, posta
su due livelli, che si apre sul canale e accompagna, con
lo sciabordio delle acque mosse dalle gondole, la gustosa
colazione mattutina: un ulteriore piccolo dettaglio per
apprezzare l’ospitalità del Duodo Palace Hotel.
23-25 maggio 2014
Gondola all'ingresso del Duodo Palace Hotel
La Sala del Pozzo
Ingresso
E ancora, nella Sala del Caminetto, attigua al bar si trova una
sala di lettura, dove in un’atmosfera ovattata sottolineata dal
colore rosso delle pareti, dal soffitto a cassettoni e illuminata
da applique in vetro di Murano satinato, ci si può rilassare
sfogliando quotidiani e riviste internazionali. Nella Sala del
Pozzo invece, davanti all’autentico pozzo del 1600 si ha la
sensazione di riascoltare le voci del passato e i pettegolezzi
odierni.
L’hotel è a anche il posto ideale per gli amanti della musica
da camera e dell’opera lirica: si trova a soli 50 metri del rinato
teatro La Fenice, luogo-simbolo di Venezia, dove un intenso
programma musicale, invita a condividere grandi momenti di
musica classica e operistica.
Perché quindi non approfittare del Duodo Palace Hotel per
organizzare una viaggio culturale di fine estate partendo
dalla Mostra Internazionale di Architettura (29 agosto/21
novembre), dalla Mostra Internazionale del Cinema (1°
settembre/11 settembre), dal Premio Campiello di letteratura
che si tiene 4 settembre e last but not least della magnifica
Regata Storica che si svolge la prima domenica di settembre.
Un modo di vivere Venezia fuori dagli schemi e rilassarsi
al Duodo Palace Hotel dove la realtà del luogo si fonde
con l’immaginazione delle tele di Canaletto, il pittore che
magnificamente ha immortalato la Serenissima ◆
- mostra mercato PATROCINI:
SPONSOR TECNICI:
Comune di
Vaprio d’Adda
Villa Castelbarco - Via per Concesa 4 - Vaprio D’Adda (Mi)
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M AGA ZINE
M AGA ZINE
ph Lisa DeSimone
Dzong a Punakha
Bhutan:
terra del Drago tonante
di María Margarita Segarra Lagunes
C
on un ristretto e accidentato territorio, il Bhutan,
Paese lontano e misterioso, sembra farsi spazio,
non senza fatica, tra le piegature montuose dei
due immensi colossi che lo circondano, la Cina e l’India.
Popolato da circa un milione di abitanti, concentrati in poche
cittadine o sparsi nelle campagne, il regno del Drago tonante
guarda attento a Oriente e a Occidente, cercando di resistere
alla spinta irrefrenabile della globalizzazione omologante
che ha già coinvolto i suoi poderosi vicini.
Protetto dalle alture dell’Himalaya, il Paese mantiene infatti
un calibrato distacco dal mondo contemporaneo, sotto
la guida del quinto re Jigme Khesar Namgyel Wangchuck,
nato nel 1980 e incoronato nel 2006, che ha saputo,
Haa Valley
sulla strada inaugurata da suo padre, condurre il Paese in
questo difficile processo di modernizzazione controllata,
basata sull’originale principio di felicità interna lorda, che
contrappone allo sviluppo incentrato esclusivamente sulla
crescita economica, meccanismi mirati ad aumentare la
felicità attraverso il miglioramento della qualità della vita,
agendo e indirizzando le trasformazioni sullo sviluppo degli
uomini, sul buon governo, sul progresso equilibrato ed
equo, sulla conservazione del patrimonio culturale e sulla
protezione dell’ambiente.
Una scommessa così ambiziosa presuppone evidentemente
scelte precise, in grado di equilibrare i vantaggi della modernità
con i benefici della salvaguardia delle pratiche tradizionali,
certamente più confacenti a quella specifica cultura e a quel
particolare contesto geografico. L’introduzione del Buddismo
sin dall’VIII secolo d.C., ad opera del Guru Rinpoche,
significò infatti non solo il propagarsi di una religione ma,
soprattutto, la diffusione di modi di vita, che attecchirono
profondamente consolidando tradizioni e costumi. Pietanze,
feste, vestiti, danze, colori e riti ma anche il rispetto della
natura in tutte le sue manifestazioni contribuirono a formare
il carattere e a rafforzare quell’identità della quale oggi i
bhutanesi sono fieri.
Quella natura, intatta nella maggior parte del territorio,
è segnata da immense distese di boschi che invitano alla
meditazione e all’isolamento mistico. In qualsiasi punto
panoramico si dispiegano davanti agli occhi cinque, sei,
sette piani di montagne che si allontanano e si perdono in
Dochu La pass
un orizzonte ondeggiante e nebbioso. Le silenziose cime
innevate appaiono solcate da strettissime strade e da sentieri
che collegano una valle all’altra e accompagnano le risaie,
ricavate modellando pazientemente il terreno a formare
terrazze incurvate che addolciscono i pendii scoscesi.
Le costruzioni tradizionali si assomigliano tra di loro: a due
o tre piani, hanno una struttura portante in legno e muri
realizzati in terra cruda, intonacata e tinteggiata a calce.
Tutti gli elementi lignei mostrano decorazioni colorate: fiori,
motivi geometrici, segni augurali. Ma di questi è impossibile
determinare l’età: laddove si è reso necessario, per un
incendio o per il deperimento proprio dei materiali, una
tradizione ininterrotta ha permesso di riprodurre quei motivi
e quegli elementi costruttivi con le stesse tecniche e materiali
e con la medesima qualità manuale, per consentire a quegli
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M AGA ZINE
ph explorehimalaya.com
ph Retlaw Snellac
Changlimithang Stadium
ph explorehimalaya.com
Il monastero Taktshang
edifici, sacri e civili, di attraversare i secoli e giungere
immutati fino ai giorni nostri.
Alcuni dei più antichi monasteri buddisti sono emblematici
della tenacia e dell’ostinazione dell’uomo per realizzare
monumenti magnifici in luoghi inimmaginabili. Annidati
nelle rocce, la loro costruzione resta un mistero della tecnica:
sono ancora oggi irraggiungibili da qualsiasi veicolo e per
visitarli è necessario percorrere per varie ore sentieri in salita
a più di 3.000 metri di altitudine. Tra i più impressionanti
è Taktshang, il monastero noto come il Nido della tigre;
ma anche quello chiamato Tango, uno dei più importanti
centri per lo studio del Buddismo. Nell’antica capitale estiva,
Punakha, è celebre, nella confluenza di due fiumi, uno dei più
bei Dzong: un complesso fortificato, nei cui cortili, animati
dal canto dei monaci buddisti, si respira un’aria limpida e
serena che parla di altri tempi, di altri modi di rapportarsi
alla natura, per vivere in pace con essa e in armonia con gli
altri uomini ◆
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PRAGA E DINTORNI:
I NUOVI LEGGENDARI
SITI UNESCO
Arte all’aperto nei giardini di Lytomišl
IN VIAGGIO CON L’UNESCO
M AGA ZINE
Attraverso le magiche atmosfere
della Moravia e Boemia
alla scoperta dei luoghi Patrimonio dell’Umanità
di Alessandra Vittoria Fanelli - ph Carlo Montanari by Il Turista info
T
utti conoscono il fascino di Praga ma
la magia dell’Unesco World Heritage &
Cultural List si estende in tutta la Repubblica
Ceca. E da Praga, città delle cento torri, dopo aver scoperto
o ‘riscoperto’ il suo Castello così ricco di storia, la cattedrale
di San Vito, perla dell’architettura gotica, attraversato il
ponte di San Carlo, il più antico ponte della capitale ceca
voluto da Carlo IV così maestoso con le sue trenta statue
barocche installate nel XVII secolo e, ovviamente trascorso
una serata a ‘U Pinkasû’, la più anticha birreria di Praga, nei
giorni successivi è d’obbligo andare alla scoperta degli altri
monumenti culturali Unesco distribuiti su tutto il territorio.
I vari siti Patrimonio dell’Umanità della Repubblica Ceca
contrassegnati da notevoli opere, sono il risultato di come
questo piccolo Paese situato in posizione cruciale dell’Europa
Centrale, ha sempre attirato nel corso dei secoli, personaggi
eccellenti che in questo fecondo ambiente hanno trovato
ispirazione per progettare chiese, monumenti, castelli e
fortezze connotandoli di forti ‘segni’ architettonici.
L’Unesco tour, lasciata Praga, prosegue a Est nel regno di
Boemia verso il villaggio di Kutná Hora dove si trova un
vero gioiello: la cattedrale di Santa Barbara, ex-monastero
cistercense, ricco di fascino, costruito nel XIII secolo che
si erge imponente sul borgo. Imperdibile la visita della
cattedrale per il prezioso dettaglio delle volte a rete del
Praga
Colonna della Santissima Trinità a Olomouc
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soffitto, delicate come un ricamo e per la magnifica
Collegiata dei Gesuiti costruita nel 1626 da Domenico Orsi,
architetto italiano già al servizio di questo ordine religioso.
Un ampio e lungo ponte terrazzato, contrassegnato da
dodici statue barocche di vari santi, collega maestosamente
la cattedrale al collegio gesuita.
Proseguendo per Lytomišl, città natale del grande compositore
ceco Bedrˇick Smetana, famoso per aver composto il poema
sinfonico Moldava, si ritrova ancora l’impronta italiana nelle
arcate del grandioso castello rinascimentale del XVI secolo
dedicato all’Arte e alla Musica dove al suo interno si trova
ancora intatto un piccolo teatro. Il Castello di Lytomišl
è circondato da un complesso di edifici perfettamente
conservati che rappresentano le residenze dei nobili di allora
e da un ampio e accurato giardino che ospita, disseminate nel
prato inglese, una serie di esili statue di bronzo: praticamente
un museo di arte contemporanea all’aperto.
Al centro della Moravia centrale troviamo Olomouc, città
arcivescovile iscritta Patrimonio dell’Unesco per il complesso
del suo centro storico ma soprattutto per la Colonna della
Santissima Trinità situata nella piazza principale della città.
Basilica Santa Barbara Kutná Hora
IN VIAGGIO CON L’UNESCO
Veduta di cˇ eský Krumlov
Questa colonna barocca riccamente decorata, alta 35 metri,
è opera di Václav Render, architetto e scultore che finanziò
di tasca propria la colonna ma che non vide mai ultimata
poiché quando nel 1754 fu consacrata dall’imperatrice Maria
Teresa d’Austria, l’artista era deceduto da oltre vent’anni.
Memorabili a Olomouc anche il Palazzo dell’Arcivescovado,
la Cattedrale gotica di San Venceslao, il gruppo di fontane
barocche con motivi mitologici del XVII e XVIII secolo e i
grandiosi bastioni di cui la città è circondata.
Da Olomouc si può rientrare a Praga con il treno ad alta
velocità Pendolino (il noto treno di fabbricazione italiana) e
proseguire alla scoperta di nuovi siti Unesco nel sud della
Boemia meridionale, ricca regione caratterizzata da una
natura eterogenea e da un’impressionante ricchezza di
monumenti Patrimonio dell’Umanità.
Seguendo le tracce storiche di Jobst di Moravia, re del Sacro
Romano Impero all’inizio del XIV secolo, abile ed esperto
uomo politico, troviamo uno dei più romantici villaggi della
Moravia, il borgo di Holašovice dove il tempo sembra si sia
fermato. Mirabile esempio di barocco rurale Holašovice si
distingue per le belle fattorie, disposte intorno ad uno stagno
Veduta della regione Moravia
perfettamente conservato e riccamente decorate con uno
stile architettonico particolare. Ogni anno a fine luglio si tiene
una festa campestre con esposizione e vendita di prodotti
alimentari e di artigianato locale.
Infine ecco cˇ eský Krumlov, meraviglioso borgo medievale,
incastrato tra i meandri del fiume Vltava (Moldavia in italiano)
e dominato dalla torre variopinta del Castello e dal complesso
della fortezza situata su un promontorio roccioso al di
sopra della città. Centro culturale e turistico molto animato
cˇ eský Krumlov è un gioiello architettonico intatto e ricco di
eventi culturali. Da visitare assolutamente il prezioso Teatro
Barocco riccamente decorato con maschere veneziane e il
piccolo museo Egon Schiele Art Centrum, dedicato al grande
pittore espressionista viennese che spesso soggiornava qui
nella casa materna di cˇ eský Krumlov per vivere liberamente
il suo stile bohemien.
Un viaggio nei siti Unesco che certamente affascinerà molti
traveller che cercano storia, natura e ovviamente, anche una
buona pinta di birra. Na zdravi! ◆
Le casette del villaggio barocco di Holašovice
INFO GUIDE
Arrivare a Praga con Czech Airlines
voli da Roma Fiumicino, Milano Malpensa e Bologna
www.czech.it
Dormire
Hotel Neruda, Praga www.hotelneruda.cz
Hotel Adria, Praga www.adria-prague.com
Hotel Gemo, Olomouc www.hotel-gemo.cz/en
Cenare con musica tradizionale
U Pinkasû, Praga www.upinkasu.cz
Dacˆický, Kutná Hora www.dacicky.com
Moravian Restaurant, Olumouc www.moravskarestaurace.cz
Mastal, cˇ eský Krumlov www.satlava.cz
Per informazioni in Italia
Ente Nazionale Ceco per il Turismo
CzechTourism a Milano www.turismoceco.it
Fontana con motivi mitologici piazza del municipio Olomouc
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Ferrara, Palazzo dei Diamanti - ph Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea
N
el corso del XV secolo all’architettura
e alla pianificazione della città furono
assegnati importanti significati simbolici
e politici; il cambiamento delle forme di governo, con il
passaggio dal governo comunale allo sviluppo del regime della
signoria, modificò il modo in cui queste si rappresentavano
e proiettavano la loro immagine, portando, assieme alla
riscoperta dell’antichità classica, alla progettazione di un
nuovo tipo di quartiere residenziale urbano.
La più rilevante pianificazione urbana di tutto il
Quattrocento si trova a Ferrara, e fu commissionata nel
1492 dal duca Ercole I d’Este all’architetto Biagio Rossetti.
Questo intervento, che prende il nome di Addizione Erculea,
consistente in una espansione della città a nord, che occupa
una superficie doppia di quella della città medievale e si
sviluppava su due assi ortogonali, via dei Prioni che correva
da est ad ovest e via degli Angeli, oggi corso Ercole I d’Este,
che correva da nord a sud. Questa strada era larga sedici
metri e prevedeva una suddivisione del traffico, destinando
circa quattro metri ai pedoni. La strada divenne dunque un
luogo di autoaffermazione, e il modo in cui gli edifici vi si
rapportavano, un nuovo tema architettonico.
Il piano prevedeva la realizzazione di quattro chiese ed otto
palazzi, da realizzarsi sotto la supervisione dell’architetto
ducale Biagio Rossetti, il più importante dei quali, noto
per la sua particolare facciata, è Palazzo dei Diamanti,
che sorge proprio nell’intersezione dei due assi principali.
Accanto a questa pianificazione urbana fu portata avanti
anche una politica di agevolazioni fiscali affinché i nuovi
residenti edificassero nel distretto. Si venne così a creare
una zona di abitazioni prestigiose, dislocate in un tessuto
urbano svincolato dalle costrizioni spaziali della vecchia
città medievale; corso della Giovecca rappresenta la linea
di demarcazione tra l’Addizione Erculea e la vecchia città.
Il palazzo di famiglia, nel quale si cristallizza la sintesi tra
l’influsso del mondo classico ed il nuovo potere delle
signorie, fu concepito come una sorta di Biblia Pauperum, in
grado di trasmettere ai sudditi il prestigio della famiglia che
vi dimorava.
Il Palazzo dei Diamanti, iniziato nel 1493 su commissione
di Sigismondo d’Este, presenta una delle facciate dalla
decorazione più stravagante del tardo Quattrocento,
interamente ricoperta da pietre tagliate a forma di diamante,
simbolo degli Estensi, signori della città.
architecture
Ferrara, Palazzo dei Diamanti
Ferrara, l’Addizione Erculea
e il Palazzo dei Diamanti
di Aura Gnerucci
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M AGA ZINE
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Arpie - ph Sailko
Ferrara, Palazzo dei Diamanti - ph Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea
Soluzione d'angolo - ph Sailko
La facciata si articola su tre livelli, sui quali si impaginano
ben 8.500 blocchi a diamante, il cui asse, come ci fa notare
Zevi, ruota leggermente da un livello all’altro: la punta è
leggermente rivolta verso l’alto nella fascia del basamento;
orizzontale nella fascia centrale; leggermente orientata verso
il basso nell’ultimo livello. Le finestre del piano terra poggiano
su un delicato marcapiano lineare che separa il basamento
dalla fascia centrale. Il mezzanino, di influenza bolognese, è
caratterizzato da oculi ovali.
Gli angoli dell’edificio, così come il portale principale, sono
caratterizzati da elementi scultorei riccamente decorati con
basi tronco-piramidali. Rossetti dà prova del suo eclettismo
sia nell’edilizia religiosa che in quella civile utilizzando come
punto di partenza il tradizionale tipo ferrarese, unendolo ad
elementi formali bolognesi.
Il palazzo fu acquistato dal Comune nel 1832. Attualmente
al piano terreno sono situati gli spazi adibiti ad importanti
esposizioni temporanee, organizzate da Ferrara Arte e dalle
Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, mentre
al primo piano l’edificio ospita la Pinacoteca Nazionale di
Ferrara, che conserva una collezione storico-artistica di
eccezionale valore ◆
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Villa Lante
il gioiello di bagnaia
di Laura Pagnini
V
illa Lante si trova a Bagnaia, a soli quattro
chilometri da Viterbo. Fu costruita nella seconda
metà del Cinquecento per volere del cardinale
Gambara, a ridosso di un bosco già riserva di caccia. Il
cardinale Giovan Francesco Gambara, discendente da una
nobile famiglia bresciana, grazie alla protezione dei Farnese
(la madre era la vedova di Ranuccio Farnese), ottenne il titolo
di Vescovo di Bagnaia nel 1566 e immediatamente progettò
la realizzazione della sua villa richiedendo ai Farnese il
servizio del loro architetto Vignola.
La straordinaria particolarità di Villa Lante è insita nella
predominanza del giardino rispetto all’opera architettonica.
Un giardino che rientra nel circuito “Grandi Giardini Italiani”
rappresentandone uno degli esempi più significativi.
La residenza si sdoppia in due piccoli edifici gemelli (simmetrici
rispetto all’asse centrale del giardino), di cui solo uno fu
fatto costruire, nel 1566, dal cardinale Gambara. All’interno
quest’ultimo conserva meravigliosi soffitti a cassettoni,
stucchi e affreschi pregiati, alcuni raffiguranti Villa D’Este,
il Palazzo Farnese di Caprarola, il Palazzo di Capodimonte
e Villa Lante come era all’origine. L’altro edificio, chiamato
Palazzina Montalto, per il nome del cardinale che lo fece
costruire, venne terminato nel 1590. Esso riporta affreschi di
vari autori e un importante soffitto a cassettoni decorato.
L’architettura degli edifici risulta assai più elegante e semplice
rispetto alle coeve villa d’Este e palazzo Farnese di Caprarola
e risente del modello bramantesco del Belvedere da cui
Vignola trasse evidentemente diretta ispirazione, riprendendo
dalla precedente esperienza di Caprarola alcuni elementi del
Casino del Barco, ma lasciando assai più spazio al giardino.
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Fontana della Catena
Tavola del Cardinale
Soffitti affrescati
Giardini all’italiana
La fontana e Villa Gambara - ph Stefano Mascioli
Le due palazzine simmetriche non interrompono il flusso
d’acqua, elemento naturale e vero protagonista della
Villa, che scende con impeto attraverso la Fontana della
Catena, per andare a incanalarsi tra le chele di un gambero
(emblema del Cardinale Gambara) come a costituire una
catena d’acqua cristallina che va a sfociare nella Fontana dei
Giganti, rappresentante i fiumi Tevere e Arno (ossia i buoni
rapporti tra il papato di Roma e la famiglia Medici di Firenze)
per poi calmarsi nella Fontana della Tavola (o Tavola del
Cardinale) come a costituire, per un raffinato gioco di forme e
trasparenze, una tavola con tovaglia cristallina. Da qui l’acqua
riprende la sua corsa e va a zampillare nella Fontana dei
Lumini, formando tante fiammelle di candele argentate, per
poi finire nel quadrato della Fontana dei Mori. Quest’ultima
è uno specchio d’acqua che eleganti balaustre suddividono
in quattro bacini su cui galleggia una barca con un putto
zampillante e al cui centro si trova un triplice cerchio di
vasche culminanti nel gruppo dei quattro mori che reggono
lo stemma di Papa Sisto V. La Fontana del Diluvio infine (o
Monte della Pioggia) fa scendere le sue acque gorgogliando
e scrosciando tra rocce, caverne e vegetazione ◆
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Narrano antiche cronache...
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“...Quand’ecco dai pollai sereno e nuovo
il richiamo di Pasqua empie la terra
con l’antica pia favola dell’ovo...”
Pasqua
S
S
imbolo di nascita, di vita e di resurrezione
l’uovo ha da sempre affascinato non solo
Guido Gozzano, sensibile e crepuscolare
poeta di un tempo che fu, autore dei pochi versi con cui
ci avventuriamo in un brevissimo viaggio alla ricerca
delle origini del tradizionale ‘uovo di Pasqua’, ma esso ha
affascinato anche ogni altro essere umano più sensibile alle
tradizioni religiose e alle esoteriche simbologie a queste
ultime legate. Omne vivum ex ovo dicevano i Romani
che filosofeggiavano all’ombra di un Colosseo che stava
lentamente vedendo la luce. Tutte le cose viventi provengono
da un uovo: biologicamente parlando non sempre così
accade, ma questo i Romani non lo sapevano ancora, né lo
sapevano Greci ed Egiziani che ponevano delle uova nelle
sepolture come simbolo di rinascita, di “vita eterna”…
e l’antica
pia favola
dell’ovo...
fino agli anni Cinquanta, era ancora
abbastanza diffusa anche nel nostro Bel
Paese…
Risaliamo il “fiume del tempo” di molti,
moltissimi secoli e vediamo come nella
Germania di fine Ottocento le uova
di Pasqua fungano anche da… carta
d’identità! Un comune uovo pasquale
viene prima tinto con un pigmento
indelebile e poi il suo guscio viene inciso
disegnando con un ago un simbolo e i
succinti dati anagrafici di chi lo riceve.
Altro che riconoscimento facciale e “sensore
di riconoscimento pupillare” face detection,
dell’ultratecnologico cellulare Nokia N8!
Ma torniamo alle suggestive e ben più affascinanti
tradizioni pasquali…
di Roberto Volterri
Narrano le nostre antiche cronache - qui sconfinanti in una
improbabile leggenda metropolitana ambientata in Terra
Santa! - che il mercante di uova conosciuto come Simone di
Cirene, il “Cireneo” che aiutò il Cristo a portare la croce fin
sulla sommità del Golgota, tornato a casa si accorgesse che
tutto ciò che avevano deposto le sue galline fosse diventato
miracolosamente variopinto. Potenza della fede!
Però già dal II secolo d.C. la Chiesa inizia a celebrare sul
serio la Resurrezione del Cristo con un simbolo diffusissimo
e facilmente riconoscibile: l’uovo. I Vip dell’epoca iniziano
a regalare uova ricoperte da polvere o foglia d’oro, mentre i
contadini le colorano facendole bollire insieme a particolari
foglie, legni o insetti - come la cocciniglia - in grado di
conferire al simbolo pasquale una gradevole policromia.
Tradizione questa che - con opportune varianti - almeno
Alla fine del XIX secolo appaiono le più preziose uova di
Pasqua mai prodotte, dovute all’orafo Peter Carl Fabergé,
il quale nel 1883 riceve dallo Zar Alessandro II di Russia
il compito di ideare e realizzare un dono speciale per sua
moglie, la Zarina Maria Fodorovna. Il geniale orafo ci pensa
un po’ e nel 1886 crea un semplice uovo pasquale lungo
appena sette centimetri, con il guscio di smalto bianco senza
alcuna decorazione. Ma l’interno lascia strabiliata la Zarina:
apertolo, ai suoi occhi appare un tuorlo d’oro contenente a
sua volta una piccola gallina - ovviamente d’oro! - con gli
occhi di rubino. Incuriosita da tale meraviglia, la Zarina
tocca il becco del minuscolo animale e… meraviglia delle
meraviglie, esso contiene una perfetta replica della corona
imperiale. Con tanto di diamanti, rubini e altre pietre preziose!
Fabergè viene subito nominato “goielliere di Corte” e
la consuetudine di inserire nelle uova di cioccolata una
piccola sorpresa continua - molto più modestamente! - fino
ai nostri giorni… ◆
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JOHN RATNER
di Maria Laura Perilli
e lavora.
Ha realizzato mostre personali e collettive in gallerie nazionali
ed estere e, tra le sue opere, sono da ricordare l’affresco
per la Chiesa degli Odescalchi di Polo Laziale, i quadri per
l’Excelsior Hotel Gallia di Milano, per il bar Hassler Hotel di
Roma e la sala Ratner nel ristorante il Bolognese di Roma.
Alcune sue opere sono presenti in importanti collezioni
d’arte quali: BNL, Famiglia Getty, Bulgari, Ruspoli, Panza di
Biumo ecc.
Artista dotato di indubbie e rare capacità pittoriche riesce a
trasferire sulla tela protagonisti grandi e piccoli del mondo
animale e vegetale. La sua maestria è tale che bruchi, mosche,
libellule, soffioni e i tanti altri soggetti da lui rappresentati
sembrano, ad un primo impatto, un fermo immagine
fotografico. L’artista, con minuscole pennellate di colore dal
grande contrasto cromatico, riesce infatti a riprodurre anche
dettagli che normalmente sfuggono all’occhio del comune
osservatore.
È un lavoro, quello di Ratner, che non può però essere ridotto
a pure rappresentazioni iperrealitiche. Gran parte delle sue
opere su fondo nero e con monumentali scritte latine in oro,
tratte dal “De Rerum Natura” di Lucrezio, fanno trasparire
infatti il suo sconfinato amore per la natura e l’indubbia
trepidazione ecologica che lo accompagna. La sua ricerca
si concentra su ciò che lega e accomuna indissolubilmente il
mondo umano a quello animale e vegetale.
È così che questo pittore con i suoi bruchi e i suoi fiori
affronta, per esempio, il tema della metamorfosi. Sostiene
quindi che il soffione: “ ….è l’universo…una specie di
metamorfosi perché è un dente di Leone, piccolo fiore giallo,
morto; il Soffione con il vento spargerà i suoi petali bianchi e
tornerà ad essere un Dente di Leone”.
L’incontro con Lucrezio, ecologo e biologo ante litteram,
rafforza anche la metafora che Ratner traduce in pittura:
quella filosofia di vita, purtroppo persa, capace di porre
attenzione anche a ciò che è piccolo, quasi infinitesimale.
Il suo messaggio artistico vuole sottolineare l’odierno
disagio di una società che relega all’irrilevanza tutto ciò che
dell’esistere è piccolo e marginale, solo perché incapace di
apparire.
Una produzione, dunque, quella di questo autore, che non
solo stupisce ed emoziona per la sua qualità e raffinatezza,
ma che spinge anche a momenti di intensa riflessione.
art
J
ohn RATNER è nato a Barkeley in
California (USA) nel 1934 e nel 1958 si è
trasferito a Roma, dove attualmente vive
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M AGA ZINE
LUIS SERRANO
NATURA SOSPESA
Atmosfera di suggestioni
ed allusioni
di Maria Laura Perilli
I
l silenzio è la dimensione che connota, più
di ogni altra, le opere del maestro spagnolo
Luis Serrano avvicinandolo per certi versi alla
solitudine introspettiva di Edward Hopper e maggiormente
al nostro Valter Lazzaro. Per definire l’opera di Serrano
nulla calza meglio di quanto già detto per l’artista italiano:
‘...dalle opere emerge un senso di realtà sospesa dove tutto è
metafisicamente immoto ed allo stesso tempo in agitazione,
specchio di emozioni e sensazioni che nascono dal di dentro.
L’atmosfera è carica di suggestioni ed allusioni che invitano
ad andare oltre l’orizzonte per trovare l’infinito silente che è
proprio di tutti e di ognuno’.
Forse per questo, nei lavori di Serrano, l’oggetto della
rappresentazione non rimane mai circoscritto al campo
geometrico della tela; il carico di pathos che li contraddistingue
muove l’osservatore verso ‘l’oltre’, inducendolo a navigare in
una spazialità priva di confini, di margini di contenimento.
Le tematiche di ogni dipinto o disegno si snodano in una
atmosfera dove forte è la percezione di assenza di gravità.
Regna la leggerezza! Italo Calvino la definisce in quel
testamento che sono le ‘Lezioni Americane’, uno dei codici di
comportamento letterario del terzo millennio: fa riferimento,
per meglio chiarire il concetto, al De Rerum Natura di
Lucrezio, considerandolo ‘... la prima grande opera di poesia
in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della
compattezza del mondo’. La leggerezza al di là di ogni
previsione è ormai elemento caratterizzante il linguaggio di
tanti architetti ed artisti: dal primo ed antesignano il maestro
dell’architettura moderna Mies van der Rohe, noto per la
sua affermazione ‘il meno è il più’, per arrivare a Renzo
Piano e Fuksas. Serrano costruisce la sua idea di leggerezza
individuando il senso del sospeso; una dimensione che
l’artista rende con la capacità di captare il momento, di
impedire il passaggio, di fermare l’istante.
Operazione di estrema delicatezza mediante la quale riesce
a permeare le sue iconografie con quel senso dell’eterno,
della universalità poetica, nella quale è riscoperta la centralità
dell’essere umano recuperato alla posizione dell’ascolto e della
meditazione, oggi sempre più perduta in un infausto oblio.
Trionfa la riscoperta del culto del silenzio, della musica
silenziosa, del TACET. La profondità, lo spessore del
contenuto del messaggio, trovano valido sostegno in
un meccanismo della forma, reso con sapienza tecnica
ed ampio uso della citazione, a testimonianza della
cultura artistica del maestro spagnolo. Le lumeggiature
caravaggesche scorrono sulle nature morte in sinergia
con delle spatolature, impalpabili per la loro discrezione
e precise al punto di ricondurre il disegno dell’impianto
generale a sottintese rigorose geometrie tipiche della
lezione di Cezanne. Riaffiora, inoltre, la memoria di Luis
Egidio Melendèz De Rivera, autore di nature morte eseguite
in Spagna durante il regno di Carlo III per il suo erede
principe delle Asturie, Carlo IV, che ‘nella loro scrupolosa
e puntigliosa precisione… sembrano rispecchiare l’ansia di
scientificità del secolo dei Lumi’.
Alcune dissolvenze, poi, caratteristiche dei paesaggi di
Serrano, sottolineano sia ‘ricordi Turneriani’ che elementi di
quel naturalismo informale unico nel nostro Ennio Morlotti.
Anzi, proprio in alcuni paesaggi emerge, come in Morlotti,
una tendenza ad un ‘impianto astratto-naturalistico, anche
se di strutturazione cezanniana, risolto con una tecnica
vigorosa, gestuale in cui pace, solitudine, orizzonti liberi
annullano qualsiasi volontà descrittiva, facendo emergere,
così, la delicata sensibilità che è a fondamento dello stato
d’animo di un maestro dell’arte quale è Luis Serrano ◆
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All’Ippodromo di...
Tarquinio Prisco
“... L’aria del Paradiso
è quella che soffia
tra le orecchie
...s
di un cavallo”...
embra mormorino gli arabi quando
al tramonto, nella solitudine del
deserto, contemplano le criniere
dei loro potenti kuhailan, di qualche scalpitante siglavy
oppure di uno strano munigi, più veloce del vento che agita
la sua criniera, che sibila tra le sue orecchie...
Ma i Tyrsenoi - ma sì, i ‘nostri’ Etruschi! - non erano di certo
da meno.
Roma, più o meno verso la fine del VI secolo a.C., alle spalle
di dove è oggi la bella chiesa di Santa Maria in Cosmedin.
Lì, la chiesa non c’è ancora - dovremo attendere secoli e
secoli per vederla sorgere sulle rovine della Statio Annonae,
una sorta di ‘Caritas’ molto ante litteram - ma poco più in
là, sulle rive del ‘biondo Tevere, forse c’è già il sorridente
mascherone che oggi conosciamo come ‘Bocca della verità’.
Non ‘terrorizza’ ancora né i creduli fanciulli... d’altri tempi, né
la deliziosa Audrey Hepburn durante le sue ‘vacanze romane’
in compagnia di un aitante Gregory Peck. No, svolge solo mormorano le solite ‘malelingue’... - il non esaltante ruolo di
‘tombino’ della Cloaca Maxima voluta proprio dal quinto di
quei famosi ‘sette Re di Roma’ che ai bei tempi delle scuole
elementari ci hanno fatto penare un po’ per tenerli a mente
nella giusta sequenza. Il buon Tarquinio Prisco appena salito
al trono si occupa però anche dei circenses di quella che poi
sarebbe stata chiamata Urbs aeterna: Roma. Come narra Tito
Livio nel Libro I della sua Ab urbe condita - in cui espone
tutta la storia della Città Eterna fin dalla sua fondazione,
avvenuta a metà dell’VIII secolo a.C. - il Re etrusco “... scelto
per campo il Circo Massimo e insediati Senatori e cavalieri
nei palchi costruiti su un’armatura di dodici piedi d’altezza,
istituì i giuochi romani, nei quali presentò cavalli da corsa
e pugili che aveva fatto venire espressamente dall’Etruria...”.
Non è ancora il tempo degli indimenticabili Tornese e
Crevalcore, mentre le gloriosissime scuderie ‘Orsi Mangelli’,
magari con l’invincibile Varenne, compariranno all’orizzonte
decine di secoli più tardi, ma tale Aulo Cecina, erede di una
delle famiglie più in vista dell’etrusca Volterra, fa correre le
sue quadrighe al Circo Massimo e, per annunciare ai suoi
altolocati amici il risultato delle corse, porta con sé centinaia
di rondini che, liberate dopo essere state tinte del colore
del vincitore, si dice tornassero ai loro nidi. O almeno così
ci racconta Plinio il Vecchio nel Libro X della sua Naturalis
historia, poco prima che la sua insaziabile curiosità scientifica
lo facesse scomparire tra i lapilli della terribile eruzione del
Vesuvio avvenuta nell’anno 79 della nostra Era.
Forse è vero - tornando ai nostri amici con la criniera al vento
- che “Fra la sella e la terra c’è la grazia di Dio”... ◆
Narrano antiche cronache...
di Roberto Volterri
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S
e noi italiani non fossimo così esterofili,
cosa avrebbe Carlo Verdone da invidiare e
Kevin Spacey?!… Mi sorprendo a fare questa
considerazione non appena lo vedo arrivare nella sala Fellini,
all’interno di Cinecittà, dimagrito ed elegantissimo in un look
tra il “new Miamy-Vice”e il “clerical-chic”: abito scuro dal
taglio perfetto, lupetto in seta nera, scarpa impeccabile…
Mancano alcuni minuti all’inizio della conferenza stampa
per la presentazione del suo ultimo film “Io, loro e Lara”,
prodotto dalla Warner Bros. Pictures, e del quale è regista,
oltre che interprete.
Lo accompagna la sua partner cinematografica Laura Chiatti,
che sfoggia un taglio e un colore di capelli del tutto inediti,
nonché un giacchino verde-Irlanda, in pendant con gli occhi
luminosi. Poco distante, l’amico e collaboratore di sempre,
Pierluigi Ferrari, spiritoso, ma molto misurato.
Nel corso dell’incontro con i giornalisti, Verdone illustra la
trama di quella che definisce “una commedia teatrale”. Verrà
girata tra Roma e il Kenya e, attraverso la AMKA onlus, che
opera in Congo, contribuirà alla realizzazione di un ospedale,
di una scuola e di alcuni pozzi di acqua potabile. Sarà sugli
schermi l’8 gennaio 2010.
L’attore affronta il complesso ruolo di un missionario italiano,
confinato in una zona sperduta del centro Africa.
Sciamano, sceriffo, ma soprattutto uomo solo in una realtà
durissima, si troverà a dover gestire una profonda crisi di fede.
I Superiori gli consiglieranno una pausa di riflessione nel
proprio paese, con il supporto psicologico dei suoi cari, ma
il ritorno sarà devastante: ad attenderlo non troverà il calore
degli affetti, bensì la distrazione di un padre, impegnato a
combattere la vecchiaia a colpi di hennè - Sergio Fiorentini
- l’indifferenza di un fratello vizioso - Marco Giallini - e la
schizofrenia di una guida turistica - Laura Chiatti - nelle vesti
succinte di una novella Messalina che, in un montaggio
parallelo, si inserirà a sorpresa nella storia.
Del cast fanno parte, inoltre, Anna Bonaiuto, Angela
Finocchiaro e Pierluigi Ferrari, nei panni dell’avvocato, tale
Arnaldo Panbianco. Al termine dell’incontro visitiamo il
teatro 8, dove Luigi Marchione ha curato magistralmente
la ricostruzione di un appartamento del quartiere Prati. Via Crescenzio 16a! - esclamo entusiasta, percorrendo il
corridoio in quadrelle di graniglia, sul quale si aprono le
grandi stanze del set… Verdone approva, sorridendo. Intanto,
un gruppo di colleghi della Rai e di Sky viene fermato appena
in tempo, mentre si accingeva a scendere una splendida…ma
finta scalinata d’epoca.
Alle 15.45, dopo l’assalto al buffet e le ultime interviste,
rimaniamo in pochi nel salone, accomodati sui bei divani
di scena: Carlo Verdone, l’unico a non aver ancora toccato
cibo, ma ugualmente disponibile e cortese, Pierluigi Ferrari,
suo collaboratore e amico da circa mezzo secolo, Enrico
Lucherini, storico Ufficio Stampa, che però si allontana
per una telefonata e io… che non mi lascio certo sfuggire
l’occasione di una rilassata esclusiva.
dal Film Manuale d’amore 2
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dal Film Grande grosso e... Carlo Verdone e Pierluigi Ferrari
A che età vi siete conosciuti?
Verdone: “Ci incontravamo nel corso delle passeggiatine
pomeridiane sotto il portico di Lungotevere dei Vallati, già ai
tempi dell’asilo”.
Ferrari: “Io sono nato nel complesso del Palazzo Spada, a
cento metri dall’abitazione di Carlo. La frequentazione più
assidua è iniziata alle medie, quando mi sono ritrovato in
classe suo fratello Luca”.
Quali sono stati i luoghi della vostra adolescenza?
Verdone: “Via Giulia e i suoi dintorni, quasi un piccolo
paese, allora, dove ognuno sapeva tutto di tutti…C’era Gino
er meccanico, detto “Martello d’oro“, Santino l’olivaro,
Giggetto er carzolaro … mitici!”.
Ferrari: “Il nostro punto di riferimento, però, era il bar - er
bare - di Saverio, incredibile affabulatore con un lessico e
degli atteggiamenti talmente ricchi di spunti teatrali, da non
poter sfuggire ad un osservatore attento come Carlo…”.
Italians
Cosa facevate insieme, nelle ore libere dallo studio?
Verdone: “Ogni giorno si teneva a casa mia un originale
doposcuola: andavamo… in tournée per le camere, in
particolar modo nello studio di mio padre - il professor
Mario, ndr - tra pile di libri e pareti fitte fitte di quadri…”
Ferrari: “Con dediche del tipo “A Mario, con stima, Pablo
Picasso”, oppure Filippo De Pisis… e via dicendo… Io vivevo
un doppio legame: da una parte c’era Luca con interessi quali
l’opera lirica, la musica classica, la letteratura… Dall’altra
Carlo, che rappresentava la trasgressione, l’esaltazione del
grottesco, gli effetti speciali, il rock…”.
Verdone, divertito: “Ti ricordi “Los chiodos”?”
Ferrari: “Come no?! Il nostro duo chitarra-pianoforte! E
il tuo assolo di batteria a finestre spalancate su via delle
Zoccolette?!!...Io sdraiato per terra davanti a te in segno di
rispetto… Che casino!”.
Verdone: “Mia madre Rossana, il venerdì, convocava una
sorta di assemblea nel corso della quale elencava meriti e
misfatti… Era una guida attenta e giusta, ci apprezzava”.
E le prime uscite serali?
Verdone: “Ci riunivamo al bar di Saverio e lì… giù con
dettagliate cronistorie di poveri cristi, con racconti di
misteriose sparizioni nel Tevere. Ricordate ”Un sacco bello”?”
Ferrari: “Carlo annotava mentalmente ogni dettaglio, poi
improvvisava strepitosi spettacoli domestici, magari davanti
a Franco Zeffirelli e Corrado Cagli, il pittore degli iperspazi”.
Verdone: “Frequentavamo il Teatro Alberico, con annesso
Alberichino, tempio del geniale Paolo Poli, dove, con poche lire,
si potevano gustare primi piatti, insalate… battute di spirito!…”
Ferrari: “Lì un noto critico teatrale di “Paese Sera” apprezzò
molto una pirotecnica performance di Carlo e scrisse: ”È nato
un nuovo Fregoli: si chiama Carlo Verdone”.
Il nostro cortometraggio “Elegia Notturna” vinse un premio a
Tokio, come miglior corto underground…”
Ma le ragazze…?!!
Ferrari: “Nel corso della settimana non c’era grande
condivisione… Il sabato, invece, si ballavano i lenti nel
magazzino di Fabio - un piacione da niente!!! - a vicolo
Savelli o alle feste-open della signora Lucia, l’antiquaria. Ci
fidanzavamo con l’aiuto dei Camaleonti e dei Procol Harum.
Eravamo dei romantici, in fondo”.
interview
L’inizio del successo…?
Verdone: “Ai tempi del liceo realizzammo dei minifilm in
super8. Pierluigi curava l’aspetto tecnico, io quello artistico.
Carlo, Pierluigi compare nei suoi film da “Bianco Rosso e
Verdone” in poi, impersonando un capoufficio, un medico, un
legale, ecc… mai un ingegnere, che è la sua vera professione…
Verdone: “Non ci ho pensato!… Prima o poi…”
E rivolge all’amico un allegro sguardo di sfida… C’è, tra
loro, un assoluta complicità, un linguaggio esclusivo, che
diviene quasi comunicazione in codice. Colgo, a tratti, quella
sensibilità maschile così rara, che tanto piace a noi donne ◆
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La Vespa,
da brutto “paperino”
a moto più diffusa
del mondo
Breve storia e curiosità
della moto
che ha segnato
intere generazioni
e un pezzo
di storia italiana
La prima 'Vespa' prodotta dalla Piaggio - 1946
Vittorio Gassman
Charlton Heston, Stephen Boyd - “Ben Hur”
di Francesco Mantica
Vespa Paperino
Vespa 125 - 1954
Vespa militare modello TAP
I
n principio era Paperino. Non il famoso
papero della Disney, ma un prototipo di
moto con una carrozzeria portante che,
alla lontana, richiamava la sagoma di un papero, con la
copertura della ruota anteriore assimilabile a un becco.
Il progetto però non convinceva il signor Piaggio, che
aveva assegnato a Renzo Spolti il compito di progettare
un mezzo economico che desse la possibilità a chi non
poteva permettersi un’automobile di spostarsi liberamente.
La realizzazione del prototipo fu così assegnata a Corradino
D’Ascanio, che ricominciò il progetto da zero e a tempo di
record realizzò il prototipo MP6. Prototipo approvato con
lode, con tanto di esclamazione di Enrico Piaggio che alla
sua vista esclamò: “Sembra una vespa!”. Era la nascita della
moto più famosa di tutti i tempi: la Vespa. Il prototipo venne
presentato in occasione della fiera di Milano, nell’aprile
del 1946. Si chiamava Vespa 98 e non aveva il cavalletto,
per cui bisognava appoggiarla su un fianco quando era
ferma. Il successo fu rapido ed entusiasmante. Negli anni
Vespa 125 - 1948
Vespa modello risciò
successivi vennero varati numerosi modelli, alcuni anche
particolarmente fantasiosi: dalla “Vespa modello risciò”, che
faceva l’occhiolino ad uno dei tipici mezzi di trasporto cinesi
e prevedeva che la moto trasportasse una carrozzina, alla
“Vespa siluro”, capace, con la sua sagoma a forma di missile,
di superare i 170 chilometri orari. Dalla “Vespa sidecar” alla
“Vespa T.A.P.” del 1956, colorata in mimetico, provvista
di lanciagranate e destinata come ovvio all’uso militare. La
Vespa di oggi é una moto moderna in tutto e per tutto, con
nuove motorizzazioni a 4 tempi e cambio automatico, oltre
che con una linea che si adatta alle esigenze dei tempi. Ciò
nonostante la nuova vespa mantiene ancora molti punti di
contatto con la progenitrice: rimane infatti uno degli esempi
di design industriale più riuscito al mondo. La sua linea, pur
variando nel particolare, rimane inconfondibile nell’insieme:
qualsiasi sia il modello, qualsiasi sia l’anno di produzione,
le sue caratteristiche fondamentali rimangono impresse a tal
punto che l’oggetto Vespa è identificabile in modo univoco.
Parlare di Vespa é però, soprattutto, un modo per ricordare
l’Italia del dopoguerra: il “mitico” mezzo della Piaggio resta
nella storia soprattutto per essere stato il veicolo utilitario
di molte famiglie italiane nel secondo dopoguerra, prima
dell’avvento delle automobili, rappresentando, di fatto, il
mezzo della prima motorizzazione “di massa” in Italia ◆
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stile ed eleganza made in Italy
anche su strada
La storia di Borile, costruttore di moto realizzate a mano
pezzo dopo pezzo, è un esempio di come sia ancora viva
la grande tradizione motoristica italiana,
capace di realizzare modelli unici e di altissimo livello
di Francesco Mantica
va avanti da oltre vent’anni ed è stata consolidata alla fine
del 2010 quando, dall’incontro tra lo stesso Umberto Borile
e la Famiglia Bassi, è nata la Umberto Borile&Co. Srl., una
nuova società che si pone l’obiettivo di portare avanti la
grande tradizione delle motociclette Borile.
È curioso - ma forse nemmeno così tanto - che, in epoca
post-industriale, tornino di moda quei prodotti che
sembravano essere stati cancellati dalla meccanizzazione
e omologazione del meccanismo produttivo. Se prima a
dominare era l’efficienza del rapporto costo-produzione,
si assiste ora a un ritorno, lento ma costante, della tecnica,
intesa come abilità nella realizzazione di prodotti unici ed
esclusivi, che facciano sentire tali anche chi li possiede.
I modelli proposti da Borile appartengono fuor di ogni
discussione a questa categoria. Emblema della filosofia
Borile è la B500 Ricky, una moto unica nel suo genere
e completamente fatta a mano da Umberto in soli 20
esemplari in onore dei 20 anni del figlio Riccardo, scomparso
prematuramente: una scrambler con telaio in carpental,
parafanghi e serbatoio in alluminio e dalle finiture particolari:
i materiali sono stati lasciati naturali, metallo puro per un
mezzo che deve far provare delle emozioni anche quando
lo si guarda. Altro modello particolarmente interessante è la
Multiuso, nata nel 2006. Una motoretta agile, leggera e tutta
in alluminio, dedicata agli appassionati di moto alpinismo,
E
ra il 1987 quando a Vò Euganeo, in provincia
di Padova, nasceva dalla passione di Umberto
Borile una piccola bottega artigianale che si
proponeva di costruire moto manualmente, usando solo il
miglior materiale in commercio. Quella di Borile non è la
storia di un costruttore di moto tradizionale, ma di un vero
e proprio artigiano che realizzava personalmente, nella sua
piccola officina, ogni singolo pezzo. Le moto Borile erano
effettivamente costruite a mano, una per una, ed anche
esteticamente non erano paragonabili a nessun’altra.
Negli anni la continua ricerca di stile, eleganza e perfezione
ha raggiunto livelli altissimi, dando vita ad una capacità
di realizzazione artigianale unica in Italia, capace di
proporre moto che entrano immediatamente nella testa
dell’appassionato, tutto metallo e niente fronzoli, meraviglie
di suoni e cromatismi. Il successo è tale che questa ricerca
ottima però anche per l’uso quotidiano e per lavori agroforestali, tanto da disporre di molteplici attacchi ai quali
applicare ganci da traino, sidecar da carico, tagliaerba e così
via. È una moto unica nel suo genere, semplice e adatta all’uso
quotidiano, ma che si trasforma all’occorrenza anche in moto
da lavoro. Un’altra proposta particolarmente interessante è la
Bastard, una linea di telai in lega leggera 7020, sia stradali,
sia fuoristrada che vengono prodotti e venduti completi
di ruote, sospensioni, serbatoio, manubrio ecc. ma senza
motore: chiunque potrà personalizzare la propria moto con il
motore che preferisce. Ne sono due esempi i modelli Café e
Country. In alternativa è disponibile la versione Bastard con
il nuovo motore 450cc con termiche Ducati o con motore
GM e cambio separato Norton.
Per il futuro l’ottica è quella di perfezionare sempre più
le proposte motoristiche, rimanendo però in linea con la
tradizione motoristica del nostro Paese. Si spiega così il
recente accordo siglato con Ducati per la fornitura dei gruppi
termici. In questo senso è già in produzione la prima moto
Borile costruita con il nuovo motore con termiche Ducati, la
B450Scrambler. La storia delle motociclette Borile è pronta
così a rinnovarsi, mantenendo però quello stile unico che ha
reso famose in Italia e nel resto del mondo le nostre moto ◆
www.borile.it
MORGAN:
TRE RUOTE PER UN RITORNO
AL PASSATO
La casa automobilistica inglese ha presentato al Salone di Ginevra
la “ThreeWheeler”, versione moderna dell’auto a tre ruote
che, uscita per la prima volta nel 1909, divenne famosa per la presenza
in film cult come Hollywood Party
L
motors
a Morgan Motor, un atelier inglese
specializzato in auto artigianali, ha appena
presentato al Salone di Ginevra un’auto
dal gusto retrò. A dire il vero parecchio retrò, visto che ha
tre ruote ed è stata messa in produzione per la prima volta
nel 1909. È la Morgan ThreeWheeler, chiaramente ispirata
all’autovettura omonima protagonista di film cult come
Hollywood Party del 1968 con Peter Sellers.
Fino agli anni ‘30 la Morgan concentrò la sua produzione
sui modelli a tre ruote, un mix tra automobile e motocicletta
dotata di telaio tubolare abbinato a motori JAP di derivazione
motociclistica. Dal 1909 ai primi Anni 50 le forme a sigaro
del treruote Morgan, costruite intorno al telaio in legno e
all’essenzialità, hanno accompagnato i desideri e le prime
esperienze dei pionieri a motore che volevano e riuscivano a
divertirsi con poco.
Oggi, tornare a quella formula, in un mondo diverso e dove
i costruttori di supercar lottano a colpi di cavalli e materiali
tanto sofisticati quanto costosi, con ruote larghe come divani,
sembra quasi irriverente. La 3 Wheeler del 2011 utilizza la
stessa filosofia dell’antenata e in particolare il design, che
riprende gli stessi canoni stilistici utilizzati sulla Threewheeler
del 1909: il corpo vettura è a forma di missile e il propulsore
in alluminio a vista è posizionato nell’avantreno del veicolo
insieme alle due ruote anteriori.
La coda rastremata, circondata da due scarichi in stile
custom, termina con la terza ruota posteriore. L’abitacolo,
scoperto e dotato di due piccoli parabrezza, è molto curato
e lussuoso. I sedili sono rivestiti in pelle pregiata che ricopre
anche una parte della plancia insieme ad alcuni dettagli
realizzati in alluminio, mentre la strumentazione sportiva ha
influenze aeronautiche.
Sia ben chiaro: ritornare al passato, almeno in questo caso,
non vuol dire proporre un’idea di auto del futuro. Più che di
una automobile da strada, siamo di fronte in questo caso a
un giocattolo per appassionati. Un’auto veramente ben fatta,
con tanto di parabrezza pensato per proteggere da aria e
moscerini pilota e passeggero (rigorosamente con occhiali
e berretto) e dotato degli immancabili cerchi a raggi con
pneumatici di sezione, tipici delle auto storiche.
Morgan stima che la Threewheeler 2011 potrà raggiungere
i 185 km/h e avrà una accelerazione da 0 a 100 km/h in
circa 4,5 secondi. Un giocattolo dunque, veloce e divertente,
ma anche piuttosto costoso: la Morgan 3 Wheeler sarà
disponibile a partire da circa 29.000 euro, tasse escluse.
Il prezzo si riferisce ovviamente alla versione base e può
aumentare considerevolmente se si attinge alla lunga lista di
personalizzazioni come le 6 livree speciali per la carrozzeria
e i numerosi materiali pregiati per gli interni ◆
FM
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BUGATTI,
AUTO DA GUINNESS DEI PRIMATI
È possibile che ci sia qualcuno disposto a spendere 40 milioni per un’automobile?
E che ci sia un modello in vendita capace di raggiungere i 430 chilometri orari?
La risposta ad entrambe le domande è sì.
Ed entrambi i modelli portano un unico vessillo, che di nome fa Bugatti
di Francesco Mantica
U
Bugatti Type 57SC Atlantic - ph supercars.net
n’auto così storica, così importante e così
cara che a comprarla non é stato un privato,
bensì un museo. Stiamo parlando dell’auto
più costosa del mondo. Il record è targato Bugatti: una Type
57SC Atlantic del 1936 è stata battuta all’asta in California
per un prezzo che la casa d’aste Gooding and Company,
specializzata nel settore, non ha comunicato con precisione
limitandosi a dire che è compreso fra i 30 e i 40 milioni di
dollari. Se si pensa che il record precedente era quello di
una Ferrari Testa Rossa del ‘57, pagata 9,5 milioni, si può
facilmente capire come questo sia il prezzo più alto mai
pagato per una automobile.
Numero di telaio 57347, il gioiellino apparteneva a Peter
Williamsons, un luminare della neurologia con una grande
passione per le auto d’epoca, e soprattutto per le Bugatti.
Come da tradizione nulla è stato rivelato sull’acquirente, ma
secondo il Wall Street Journal si tratterebbe di un museo, il
Mullin Automotive Museum di Oxnard, in California.
La Atlantic del ‘36 era stata acquistata dal professor
Williamsons nel ‘71 da un collezionista californiano, Bob
Oliver. Era stata fatta costruire nel ‘36 da Lord Philippe de
Rotschild, ma Oliver aveva apportato diverse modifiche.
Williamsons ha predisposto un restauro durato diversi
anni, che ha riportato la vettura al suo aspetto originale.
Un’operazione tutto sommato molto conveniente, visto che
lui l’aveva pagata 59 mila dollari.
Se l’auto più cara del mondo non poteva che essere un modello
storico, è invece nella modernità più attuale che possiamo
motors
Bugatti Type 57SC Atlantic - ph supercars.net
Bugatti Veyron
trovare l’auto più veloce. Ancora una volta il record appartiene
alla Bugatti ed il modello in questione é la Veyron 16.4
Super Sport. l’ultima versione della ipersportiva del gruppo
Volkswagen ha battuto il record di velocità per automobili di
serie, già detenuto dalla stessa Veyron, superando i 431 km/h
sulla pista del centro prove di Ehra-Lessien, in Germania,
lo scorso 26 giugno tra le ore 14 e le 15 alla presenza di
rappresentanti del TÜV e del Guinness Book of Records.
Missilistici i dati di accelerazione: i 100 km/h da fermo sono
raggiunti in 2,5 secondi, i 200 km/h in 7,3 secondi e 15
secondi bastano per vedere la lancetta del tachimetro toccare
la soglia dei 300. Più che piloti, per provarci bisogna essere
astronauti. La Bugatti Veyron 16.4 Super Sport ha debuttato
ufficialmente ad agosto al concorso di Eleganza di Pebble
Beach in California e sarà costruita in soli 30 esemplari
disponibili ad un prezzo (tasse escluse) di 1.434.000 euro,
i primi 5 con l’esclusiva livrea in carbonio nudo e arancio
dell’edizione World Record Edition.
Non è un caso che la Bugatti abbia recentemente
collezionato questi due record particolari: detenere nella
sua “scuderia” l’auto più veloce e quella più costosa del
mondo. Fin da quando venne fondata nel 1909 in Alsazia
(a quei tempi territorio tedesco, ma per convenzione la
casa automobilistica viene da sempre classificata tra quelle
francesi essendo l’Alsazia ritornata alla Francia dopo il trattato
di Versailles) dall’italiano Ettore Bugatti, infatti, questa casa
automobilistica è nota per le sue vetture sportive ed estreme
ma anche per modelli d’epoca lussuosi e particolari ◆
Bugatti Veyron
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MINI, la storia che non finisce mai
Ha già compiuto 50 anni, ma sembra ieri quando si vedeva
questa piccola vettura sfrecciare nella nostra quotidianità
Questo perché la MINI è sempre stata un’auto in bilico
tra tradizione e modernità, un’auto per tutti ma anche esclusiva,
storica ma con dentro i semi della modernità
Storia e futuro di una macchina che ha sempre colto nel segno
E
gitto, 26 luglio 1956. Un mese dopo il ritiro
delle truppe britanniche dalla zona del canale
di Suez, Gamal Abd el-Nasser, presidente
del paese che fu dei faraoni, decise la nazionalizzazione
della società di gestione del canale bloccando lo stesso al
traffico. Nonostante l’intervento militare successivo di inglesi
e francesi, che detenevano la maggioranza del capitale della
società, il canale rimase chiuso alcuni mesi. La conseguenza:
i prezzi del greggio e della benzina salirono alle stelle, mentre
l’Inghilterra propose di razionare la benzina a dieci galloni
al mese. Il mercato delle automobili, allora in piena ascesa
in tutti i settori, subì un cambio radicale: sembrava che
fossero destinate a sopravvivere solo macchine dai consumi
estremamente contenuti.
Fine del 1956. Leonard Lord, capo della British Motor
Corporation (BMC), non perse tempo. A fronte delle varie
esigenze del mercato, assegnò al progettista Alexander
Arnold Constantine Issigonis l’incarico di realizzare il più
presto possibile «un’utilitaria come si deve». L’idea fu quella
di realizzare una piccola quattro posti con sfruttamento
ottimale dello spazio e buon confort di marcia, tecnicamente
e otticamente differente da tutte le automobili esistenti e per
tutte le tasche. In altre parole, una piccola vettura dai consumi
ridotti secondo la tradizione del modello d’anteguerra Austin
Seven e della leggendaria Morris Minor.
Poiché a quei tempi la BMC - come anche molti altri
costruttori di automobili - disponeva di risorse finanziarie
limitate, Lord fece attenzione a mantenere bassi sia i costi di
sviluppo che i tempi di realizzazione. Una condizione che la
futura automobile dovette dunque soddisfare fu quella di usare
un motore già in produzione. dunque inevitabile che la scelta
cadesse sul motore cosiddetto di serie A. Questo motore, da
948 cc di cilindrata e usato anche nella Morris Minor, aveva
una potenza di 37 CV. Era pur sempre più che sufficiente:
una prima automobile sperimentale raggiunse una velocità di
ben 150 chilometri all’ora, che però la piccola vettura non era
capace di reggere: né le sospensioni, né i freni erano in grado
si sopportare tali sollecitazioni. La potenza venne dunque
ridotta a 34 CV riducendo la cilindrata a 848 ccm, soluzione
che permetteva pur sempre una velocità di ben 120 km/h.
Un particolare di spicco dell’automobile che si stava
costruendo erano le graffature della lamiera rivolte all’esterno,
fra i parafanghi e la carrozzeria. Questa soluzione era dettata
da puri motivi economici: infatti i cordoni di saldatura sono
molto meno costosi se eseguiti sul lato esterno. Un secondo
particolare che lasciava riconoscere una produzione più
economica erano le cerniere delle portiere, anch’esse situate
all’esterno. Dovettero rispettare questa filosofia minimalistica
anche gli interni: per l’apertura della portiera venne usato un
Circuit de la Corniche 1968 Lassus Mini Cooper et Bernardo R8 Gordini
semplice tirante mentre, davanti, il guidatore e il passeggero
guardavano invece che su un cruscotto su una semplice e
piccola mensola. Al suo centro era stato integrato come
strumento centrale il tachimetro con contamiglia e indicatore
del carburante. Al di sotto, due interruttori a bilancino per i
tergicristalli e per le luci.
Era nata così la MINI classic, un’automobile peso piuma di
600 chili che venne presentata ufficialmente il 26 agosto
1959. L’evento avvenne contemporaneamente in tutti i paesi
in cui la BMC era rappresentata. Essa fu introdotta sul mercato
dapprima in due varianti, come Morris Mini-Minor e come
Austin Seven, che si differenziavano però solo dalla griglia
del radiatore, dai colori della carrozzeria e dai copriruota.
l’Austin veniva costruita a Birmingham, mentre la Morris a
Oxford. Più tardi la BMC produsse entrambe le versioni in
entrambe le sedi. Nel suo paese di origine, la MINI Classic
costava 496 sterline inglesi ed era dunque la seconda vettura
più economica sul mercato.
Gli inizi non furono dei migliori. La concorrenza era pur
sempre forte e nemmeno le dimensioni ridottissime e la facilità
di guida facevano presa sul mercato. A un certo punto, però,
gli ambienti mondani londinesi scoprirono finalmente questa
versatile vettura, in capo a tutti Lord Snowdon, coniuge della
principessa Margaret. Anche sua sorella, la Regina stessa, si
fece convincere a fare un giro di prova con la MINI Classic
proprio con Alec Issigonis in persona, cosa che donò alla
piccola vettura quell’immagine che ancora le mancava.
Anche negli Stati Uniti nacque una certa curiosità per questo
pulcino europeo, che venne così accettato con benevolenza.
Era l’inizio di un successo che sarebbe presto divenuto
strepitoso. Se nel 1959 dalle linee di montaggio erano uscite
19.749 Austin Seven e Morris Mini-Minor, l’anno seguente
furono già 116.677. Ben presto si cominciarono a comprendere
le potenzialità della vettura e si proposero sul mercato delle
variazioni: si partì all’inizio del 1961 con la Mini Pick-up a
cui, sei mesi più tardi, seguirono due modelli sull’estremità
contrapposta della scala, quella più nobile, la Wolseley
Hornet e la Riley Elf, dotati di signorili radiatori diritti e alette
a coda di rondine sulla parte posteriore della vettura. Nel
secondo semestre seguì poi una variante che diede vita come
nessun’altra alla leggenda della MINI Classic: la Cooper.
Cooper si rivolse a Issigonis, di cui era buon amico, poco
dopo l’uscita della prima versione dell’auto con la proposta
di sviluppare dalla MINI Classic una piccola GT. George
Harriman, portatosi nel frattempo al timone della BMC, si
lasciò convincere dall’idea di Cooper e accettò di costruire
una piccola serie di 1.000 Mini Cooper, al fine di poter
analizzare la reazione del pubblico. Le reazioni a questa
vettura, che venne lanciata sul mercato nel settembre del
1961, furono euforiche, tanto che due anni dopo prese vita
una versione ancora più potente: la MINI Cooper S.
Nel 1969 la Mini diventò una marca a sé stante. La Mini classica
venne ulteriormente perfezionata, mentre la versione station
wagon prese la denominazione di Mini Clubman. La versione
più potente era la Mini Cooper S 1.3, con una potenza di 76
cavalli. Negli anni ‘80, la Mini Clubman era ormai uscita di
produzione e tutta la gamma venne riorganizzata. La Mini 1.0
Ed era alla base della gamma, seguita dalla Mini HLE. Negli
anni ‘90 si susseguirono ulteriori modifiche, che coinvolsero
anche la gamma della Mini Cabrio. Nel 1997, quando ormai
l’entusiasmo per la piccola Mini era del tutto scemato, la Bmw
rilevò il marchio e continuò a produrla con numeri ridotti.
Fino al 2000, quando venne presentata la nuova MINI.
La Nuova Mini in realtà era un prodotto del tutto nuovo.
Pick up
Innocenti Mini Cooper Mk3
Mini One
Con dimensioni maggiorate, ma pur sempre inferiori rispetto
a quelle della maggior parte delle berline compatte, si
presentava con una linea moderna e retrò al contempo, sia
esternamente che internamente. Il successo è stato travolgente
e la vettura, disponibile nelle versioni berlina e coupé, one e
cooper, è stata costantemente rinnovata fino ai giorni nostri.
Al Los Angeles Auto Show è stata presentata poi nel 2008
un’ultimissima versione, questa volta elettrica. La MINI E ha
debuttato come una “due posti”: lo spazio dei passeggeri
posteriori è stato infatti riservato all’accumulatore. Trattasi di
un progetto pilota, ma chissà che un giorno non possa essere
commercializzato. Nell’attesa sono in progettazione nuovi
modelli e nuovi restyling del classico modello a benzina. Pare
proprio che la storia della Mini non sia ancora terminata ◆
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Raimondo D´Inzeo su Regata
Olimpiadi di Completo Londra 1948
Piero D´Inzeo
PIERO E RAIMONDO D’INZEO
QUANDO eravamo piccoli e PASSAVA LA MILLE MIGLIA
P
di Carlotta Miceli Picardi
ercorro un lungo viale con i finestrini
aperti, tra l’odore del fieno e dell’erba
appena tagliata. Rallento per lasciar
passare alcuni cavalli, costeggiando un prato che sembra
dipinto insieme alla casina bianca, affacciata su quella
incredibile distesa verde smeraldo.
Lascio l’automobile nel piazzale, poi attraverso un arco di
gelsomini in fiore ed un grande gazebo, le cui tende candide
si sollevano ritmicamente seguendo il vento fresco, come
abiti leggeri di danzatrici. Al di là di un varco tra le siepi,
una figura femminile in controluce rincorre il cappello in
volo verso la piscina che, in mezzo alle foglie, diventa una
pennellata di smalto turchese.
Un giovane in livrea azzurra mi fa accomodare nel salotto
accogliente, con i divani color cuoio disposti intorno al
camino e sotto le finestre, poi si affretta a stendere la tovaglia
sul tavolo tondo, nella stanza attigua. Per un attimo ho
l’impressione di trovarmi in visita a ‘Casa Howard’, con le
finestre spalancate sulle tinte della campagna inglese. Ma il
Tamigi è lontano... il Tevere a un passo: mi trovo al Roma
Polo Club, non distante dalla fonte dell’Acqua Acetosa.
I due gentiluomini che mi accolgono con un baciamano
sono storia e leggenda dell’equitazione italiana: si tratta
dei fratelli Piero e Raimondo D’Inzeo, rispettivamente
argento e oro alle Olimpiadi del 1960, le ultime non
contaminate dallo show-business.
Trionfatori assoluti al Concorso Internazionale di Salto ad
Ostacoli di Piazza di Siena, percorso tra i più complessi
al mondo, dove l’uno ha ottenuto 64 vittorie e l’altro
54, appartengono entrambi all’Associazione Medaglie
d’Oro al Valore Atletico. Piero D’Inzeo è inoltre l’unico
cavaliere ad aver conquistato per tre volte la King George V
Golden Cup.
Con notevole senso dell’umorismo, si prestano ad affrontare
un’intervista doppia in puro stile ‘Iene’, perché “le novità
aiutano a non invecchiare”.
Allora,... presentatevi! - esordisco, scherzosamente
perentoria e subito stanno al gioco: “Generale Piero D’Inzeo,
Cavalleria. Nato nella capitale il 4 marzo 1923. Ottantasette
anni, dunque. Segno zodiacale: Pesci”.
“Colonnello Raimondo D’Inzeo, Carabinieri. Nato a Poggio
Mirteto il 2 febbraio 1925, Acquario”.
Tra voi, soltanto ventitre mesi di differenza: un po’ di
gelosia nell’infanzia?
Piero: “Assolutamente no!”
Raimondo: “Anche se lui mi ripeteva spesso ’Tu, poverino,
sei stato trovato sotto un ponte...’ ”
- si scambiano uno sguardo divertito -.
Dove avete studiato?
Piero: “Prima al Convitto Nazionale, in seguito ho preferito
cambiare”.
Raimondo: “Io, sempre al Convitto”.
distinguevano talenti come Formigli, Lequio, Alvisi: i miei idoli”.
Raimondo: “Papà inforcava la bicicletta e noi, in calzoni corti, gli
correvamo accanto, ai lati del manubrio, fino a Villa Borghese”.
Fu lui ad accorgersi che possedevate delle qualità non
comuni?
Piero: “Sì e decise di trovare un luogo per farci allenare:
scoprì la fornace sul colle della Farnesina”.
Raimondo: “Pensò che, imbottendo le colonne con dei
materassi, sarebbe divenuto uno spazio perfetto. Infatti..”.
Poi, sceglieste l’esercito...
Raimondo: “E tutto divenne semplice”.
Piero: “Oggi l’equitazione si rivolge alle persone abbienti,
che possono permettersi di montare animali di pregio. Noi
avevamo a disposizione i cavalli dello squadrone. Un’ottima
opportunità, comunque”.
interview
A che età avete iniziato a cavalcare?
Piero: “A dieci anni”.
Raimondo: “A otto”.
Qualcuno vi ha trasmesso questa passione?
Piero: “Nostro padre Costante. Abbiamo imparato sui pony
dell’Istituto Equestre mussoliniano. Intanto a Piazza di Siena si
Ci sono stati periodi bui nelle vostre splendide carriere?
Raimondo: “Durante la guerra fu terribile. Dovevamo
nasconderci. Vivevamo la paura, la precarietà, la necessità
della fuga. I nostri cavalli venivano condotti ogni sera in una
diversa scuderia, attraverso le strade della città, cambiando
continuamente itinerario, perché i tedeschi non se ne
impadronissero”.
67
Raimondo D´Inzeo
Al Carosello dei Carabinieri - Arena Milano 1975
Dicembre 1988 Bruxelles
Premiazione della Regina Fabiola di Belgio
Piero: “I renitenti alla leva erano ricercati. Io mi ero rifugiato
nel retrobottega del noto cappellaio Radiconcini. Annesso al
giardino di Palazzo Torlonia, godeva della extraterritorialità
quale residenza dell’Infanta di Spagna, paese non belligerante”.
Raimondo: “Io, invece, avevo ricevuto ospitalità dalla
famiglia Finzi, nell’agro romano”.
Il conflitto ebbe fine e, dal ’48 in poi, la vostra divenne una
coppia praticamente imbattibile.
Momenti indimenticabili?
Piero: “Le soddisfazioni della squadra di polo da me
selezionata, che in India non ebbe rivali per ben 78 volte”.
Raimondo: “La scelta di Merano, il baio dell’allevamento
Morese dal temperamento davvero particolare, sfuggito
per fortuna, all’attenzione di Piero. Con lui ho collezionato
innumerevoli sgroppate, ma anche ventidue successi nello
CSIO ed il titolo di Campione del Mondo ad Aquisgrana,
nel 56, che ottenni nuovamente quattro anni dopo. In sella a
Gowan Girl, però. Compagno di gara nella vittoria olimpica
fu invece il sauro Posillipo”.
Raccontatemi un’emozione assolutamente condivisa.
Piero: “La nostra corsa notturna per assistere nei pressi di
Ponte Milvio al passaggio della Mille Miglia, che tornava verso
Brescia da cui era partita, dopo un tragitto di circa 1600 Km.
Si trattava di un avvenimento di enorme
partecipazione popolare”.
Raimondo: “Eravamo lì, col cuore in gola
e a bocca aperta, ad ascoltare il rombo
dei motori, a riconoscere le sagome
delle automobili dietro le luci dei fari.
Uno scenario talmente suggestivo, una
magia, per dei ragazzi...!”
Quali altri sport vi entusiasmano?
Piero: “Il calcio e la vela. Sono
romanista e... navigatore solitario!”
Raimondo: “Io, juventino e amante
interview
M AGA ZINE
Piero D'Inzeo
Concorso Ippico Internazionale di Nizza - mt. 2.20
del fuoribordo. Non avrei il coraggio di avventurarmi
con lui.
Sua moglie Maria Angela lo segue, poi si sfoga con la mia!”
Chi è il meno trasgressivo tra voi?
Piero: “Senza dubbio Raimondo... Vede, io sono casual,
anticonvenzionale - mi dice con una luce provocatoria
negli occhi vivissimi, - mentre lui non può fare a meno
della giacca! Per me conta quello che c’è dentro ad ‘un bel
vestito’. Mi piace la Roma, per esempio, perché può essere
‘borgata’, Testaccio e Garbatella, nella propria essenza, ma
anche ineguagliabile classe ed eleganza nel tocco di palla di
un Totti o di un De Rossi!”
Raimondo, serafico: “Preferisco lo ‘stile Juventus’, la
riservatezza di Del Piero... Apprezzo la sobrietà e il rigore.
L’organizzazione che non lascia nulla al caso. Anche la
fantasia va tenuta in ordine”.
Vi accade di essere d’accordo? - li stuzzico Praticamente all’unisono: “Davanti a un buon piatto di
pastasciutta!”
Ho ascoltato affascinata questi due straordinari personaggi,
così giovani nello spirito, con un’intatta abitudine alla
competizione persino nella dialettica. Campioni tanto
differenti e tanto simili nel racconto di un’ epoca e di
un’avventura forse irripetibile. Ma
soprattutto, tanto vicini nella risposta
che concluderà il nostro incontro.
Roma Polo Club - I fratelli D'Inzeo ricevono la targa
AMOVA per i 50 anni dalle Olimpiadi di Roma '60
Da dx: Presidente Aldo d'Andria, Michele Maffei,
Piero e Raimondo D'Inzeo, Raimondo Cappa
Cosa
fa
dell’equitazione
una
disciplina speciale?
Piero: “Il fatto che un cavallo non è
una racchetta, né una sciabola o una
moto, ma una creatura con un suo
carattere che, se lo vuoi e lo meriti,
può assecondarti fino in fondo..”.
Raimondo: “... Respira con te, soffre
con te, vince con te” ◆
69
M AGA ZINE
Il cavallo
a due ruote
Pierre de Lorillard IV
S
i ‘mormora’ - a ragione, si direbbe... - che
l’abbia inventata Leonardo.
Ma, si sa, il genio vinciano è quasi come i Cinesi:
ha inventato quasi tutto ciò che ai suoi tempi nessun altro è in
grado di concepire. Leonardo o altro genio, la bicicletta - il
‘cavallo a due ruote’ - è entrato man mano nell’uso comune
di uomini e donne amanti dell’ebbrezza della ‘velocità’ e del
progresso. Forse prendendo spunto dall’idea leonardesca,
qualche isolato inventore francese, seguito ‘a ruota’ - è il caso di
dirlo! - da colleghi tedeschi e scozzesi ha l’idea di trasmettere
il moto dai denti della demoltiplica al mozzo dell’altra ruota.
Idea, a dire il vero, preceduta da un curioso ‘biciclo’ dotato di
uno spropositato ‘cerchione’ anteriore, seguito da una sorta di
minimalista rotella posteriore. Non comuni doti di coraggio,
di abnegazione e uno sviluppato masochismo sono necessari
per rimanere in sella e pedalare a folle velocità! Piano piano, si
può dire quasi ‘strisciando’ sull’asfalto di strade che di asfalto
ne hanno visto pochissimo, la bicicletta prende il posto del
cavallo, almeno per i piccoli spostamenti. Inoltre - è non è
poco! - quando è ferma, non mangia il fieno, non sporca le
strade e con un po’ di buona volontà, solidi polpacci e tanto,
ma tanto sacrificio raggiunge l’incredibile ‘velocità’ di ben
20 chilometri orari contro i dieci - va bene, diciamo dodici!
- chilometri all’ora di un qualsiasi ronzino. Insomma, quasi
un... jet in cui il manubrio sostituisce le redini e ci si può
anche divertire a suonare la tromba, premendo una nera pera
tondeggiante di gomma, che sostituisce il suono dei lacchè
che precedono le carrozze nobiliari.
Sport a parte, il ‘cavallo a due ruote’ si diffonde subito in ogni
ambiente, anche in quello contadino dove, assolti a dovere
i compiti di trasportare al mercato o nei campi il bracciante,
viene amorevolmente posto nella stalla insieme al badile, alla
carriola, ai vari ‘ferri del mestiere’. Un cavallo avrebbe ben
diverse esigenze e richiederebbe cure quotidiane che quel
curioso ‘pezzo di ferro’ non esige!
Gli abitanti della ‘perfida Albione’ - ebbene sì, gli Inglesi inventano subito degli accessori che trasformano l’antico
cavaliere in un modernissimo ciclista. Nasce così il caratteristico
berretto con la visiera di cartone, seguito da un’apposita
maglietta di ‘Jersey’ abbellita da bretelle d’ordinanza, mentre
qualcuno produce degli occhialoni protetti lateralmente da
una guarnizione in gomma e delle apposite ‘mollette’ che
hanno il compito di non far attorcigliare i lembi dei calzoni o delle gonne! - con i raggi delle ruote o gli ingranaggi della
‘catena’. Ma le nuove ‘amazzoni’ debbono ancora fare i conti
con il moralismo imperversante...
‘Lussuriosamente’ aggrappate al manubrio, le chiome al
vento, quasi ‘Menadi’ inebriate dalla folle velocità, le gentili
dame dei primi del Novecento sono il quotidiano pane delle
onnipresenti, maliziose opinioniste di un ‘gossip’ ante litteram.
Perciò anche i cronisti dell’epoca debbono ‘dribblare’ con il
lessico dell’idioma gentile e definiscono ‘soprassella’ la parte
anatomica delle ‘sfrontate’ pulzelle che osano ‘cavalcare’ il
neonato meccanico destriero.
Ma ai maschietti non va certo meglio: nel 1909 il quasi
misconosciuto Luigi Ganna, fresco vincitore del primo Giro
d’Italia, al cronista che gli chiede quali siano le sue prime
impressioni dopo quella eccezionale performance, risponde
candidamente, senza inutili ed imperscrutabili perifrasi, “Me
brusa tanto el cul!”◆
RV
Narrano antiche cronache...
Un elegantissimo abito da sera...
nato per caso!
“L
a moda è una forma di bruttezza così
intollerabile che siamo costretti a
cambiarla ogni sei mesi.”
Parola di Oscar Wilde! Ma poiché siamo in vena di autorevoli
citazioni, non possiamo dimenticare come la grande Coco
Chanel ebbe modo di chiosare che “...La moda passa, lo stile
resta!”. Però, lo stile e la moda sono spesso dettati anche da
inconsueti ‘colpi di genio’ di qualcuno che ama andare molto
contro corrente come, ad esempio, avviene molto tempo fa
in una cittadina a sessanta chilometri da Manhattan...
Estate del 1886, a Tuxedo Park fa caldo, molto caldo e Pierre
de Lorillard IV, nobil ed aitante rampollo di origine francese,
erede di sterminate ricchezze derivate dalle coltivazioni del
tabacco, deve recarsi all’annuale Ballo d’Autunno. Che fare?
Indossare la tradizionale marsina, scomodo abito da cerimonia
con le ‘ingombranti’ falde a coda di rondine? Manco a
dirlo, perché anche se è autunno inoltrato il caldo è ancora
opprimente. E allora, come risolvere l’inquietante ‘dilemma’?
Presto detto! Le nostre ‘antiche cronache’ suggeriscono infatti
che all’aitante VIP dell’epoca viene in mente ciò che ha già
fatto Edoardo VII, Principe di Galles e indiscusso maître à
penser nel campo della moda quando, durante un’afosissima
sua permanenza in India, dà ordine di tagliare le code della
marsina, trasformandola in una giacca ben più comoda e forse
anche più elegante. In fin dei conti, dopo i ‘tagli’ essa sembra
proprio una di quelle stupende, rosse giacche da equitazione
diffusissime tra chi si dedica alla caccia alla volpe...
Così il nostro Pierre de Lorillard commissiona al suo sarto
di fiducia alcune giacche nere, prive di ‘code’, e le ripone
ordinatamente nel suo già ben nutrito armadio guardaroba.
Ma la notte della grande occasione mondana... gli manca
il coraggio di indossarle! Però, si sa, le giovani generazioni
superano senza remore gli inesistenti ‘tabù’ che condizionano
a volte la società, così suo figlio Griswold, insieme a molti
suoi amici, approfitta dell’occasione, fa subito man bassa
delle giacche da sera, nere e prive di code, inventate dal suo
timoroso ‘daddy’, le indossa e - ‘ciliegina’ sulla inconsueta
‘torta’! - sfoggia anche un bel panciotto rosso che gli ricorda
le eleganti uniformi da equitazione tanto in voga tra la
nobiltà della Perfida Albione. L’innovativo abbigliamento
fa subito presa soprattutto tra i giovani ‘dandies’ e stuzzica
anche la fantasia di chi si dedica anima e corpo a confermare
l’apodittico aforisma di Oscar Wilde che abbiamo riportato
nell’incipit di queste brevissime note. Così, per matrimoni,
cerimonie e balli studenteschi all’inconsueta giacca viene
abbinata una fascia di seta, annodata alla vita, derivata dal
kamarband in uso tra gli indù e - gran tocco di classe! - essa
viene in seguito abbellita anche da un farfallino, papillon, di
seta o raso nero, annodato rigorosamente a mano.
Quasi dimenticavo! Perché chiamarlo ‘smoking’? Il termine
deriverebbe - ma non ci giurerei... - da ‘smoking jacket’,
ovvero ‘giacca da fumo’, con riferimento ad una veste da
camera indossata dagli accaniti fumatori degli olezzanti
sigari, proprio per evitare che i loro abiti si impregnassero
dell’odore del tabacco... ◆
RV
Narrano antiche cronache...
71
M AGA ZINE
Guerra 1940-43: rancio al posto di combattimento
Il panificio di bordo
Il rancio di bordo:
da Noè alle portaerei
di Capitano di Vascello Alessandro Pini
Foto storiche gentilmente concesse dall’Ufficio Storico della Marina Militare Italiana
M
angiare in mare non è cosa semplice.
Noè, il primo “marinaio” della Storia, sopravvisse a 40
L’ambiente
particolarissimo,
un
giorni di diluvio universale seguendo le “istruzioni” che
clima spesso infido, le difficoltà
Dio “in persona” gli aveva dato: “Quanto a te, prenditi ogni
di conservazione e la mancanza di vivande fresche hanno
sorta di cibo da mangiare e raccoglilo presso di te: sarà di
costituito le principali sfide dei marinai di ogni epoca e tutti
nutrimento per te e per loro”. Nei “Testi dei messaggeri” dei
gli autori di narrazioni di mare
Sumeri (fine III millennio a.C.),
hanno evidenziato la semplicità
troviamo tutte le informazioni
e la frugalità dei marinai,
sul vettovagliamento per la
Il termine “rancio” proviene dallo spagnolo
caratterizzati
dalla
galletta
navigazione fluviale, mentre dal
“rancho”, “rancharse” e dal francese “se ranger”,
immersa nella zuppa, dall’odore
Papiro di Harris (XIII sec. a.C.)
disporsi in fila e, nel tempo, ha indicato non solo il
di cucina che li rivestiva,
conosciamo l’uso egiziano della
pasto in sé, ma anche il gruppo di marinai che lo
dal rhum sempre vicino, dal
focaccia (“rehes”), della carne
consuma a turno e anche chi doveva apparecchiare,
mangiare scomodo, rapido,
secca e di ben trenta tipi diversi
cuocere e scodellare il rancio stesso.
senza concessioni alla gola.
di pane. Anche sulle Navi dei
Rancio all’aperto su Torpediniera, 1915
Fenici i pasti erano costituiti da legumi, olio di oliva, vino,
miele e il grano e l’orzo venivano consumati sotto forma di
focacce o di pane lievitato.
Tucidide, nella “Guerra del Peloponneso”, raccomanda
agli Ateniesi in partenza per la conquista della Sicilia di
mantenere la propria superiorità navale, portando con sé
frumento e orzo abbrustolito.
Roma ebbe una flotta stabile tardi e le sue Navi non avevano
cabine, ma solo due ripostigli, uno a prora (per le vivande) e
uno a poppa (per l’acqua e per il “foculus”). Plinio il Vecchio,
nella sua “Naturalis historia”, parla del “panis nauticus” o
“buccellatum” e fornisce informazioni preziose sul vitto dei
marinai, che prevedeva formaggio, vite e vino, olivo e olio,
miele e sale. A bordo, l’alimentazione comprendeva la
“maza” (zuppa di farina, acqua, olio o vino, sale, miele) e il
“moretum” (farina, formaggio, aglio, ruta, aceto, olio e uova).
Nel Medioevo (XIII-XIV secolo), si assiste ad una vera e propria
“Rivoluzione nautica”, dovuta all’introduzione della bussola,
alla navigazione “a stima”, alla matematica applicata alla
navigazione e cambia l’organizzazione di bordo: si naviga tutto
l’anno, salgono sulle navi anche viaggiatori e pellegrini diretti
ai Luoghi Santi e emerge la figura del cuoco di bordo. La dieta
prevede biscotto, zuppe, carne e lardo, formaggi, sardine, vino
e olio, per un apporto calorico di circa 4.000/5.000 Kcal, metà
del quale proveniente dai carboidrati.
Tra le Repubbliche marinare, Genova e Pisa furono le prime a
spingersi fino a Londra e l’alimento base a bordo era il “pane
cotto due volte (bis-cotto), per impedire di ammuffire e in
grado di mantenersi duro e commestibile per un anno”. Sulle
navi genovesi, oltre a brodo di pesce, zuppe, cappon magro,
capponata (galletta, acciughe salate, mosciame, olive, olio
e sale) e “mesciua” (ceci, fagioli, granfano), ogni membro
dell’equipaggio doveva ricevere almeno 800 grammi al
giorno di biscotti e i panettieri erano tenuti a giurare che
avrebbero consegnato un biscotto “bonus et idoneus”. I
condannati sulle galee (galeotti) della Serenissima Repubblica
di Venezia, ricevevano una libbra e mezza di gallette al
giorno (circa mezzo chilo) e uno speciale “Provveditore del
biscotto” si prendeva cura della produzione delle gallette. La
Razione del 1320 per un’armata navale prevedeva gallette,
maiale salato, fave, formaggio e vino, per un totale di circa
3.900 Kcal.
Con i grandi navigatori iniziano i viaggi lunghi, con i
problemi ad essi connessi (l’acqua in primis) e sulle caravelle
72
73
M AGA ZINE
M AGA ZINE
Prova rancio - Nave Zara
Il “lavagamelle”
Pelatura patate in navigazione
di Colombo in partenza da Palos furono imbarcati farina,
vino e “bizcocho” (o “pan biscocho”), oltre all’acqua e alla
legna, per una dieta che prevedeva: tre mestoli di vino rosso
al mattino e 3 alla sera; ogni giorno una razione consistente
di gallette, doppia la Domenica; a pranzo: carne essiccata,
zuppa calda di ceci, fave, lenticchie, con olio, aceto, cipolle
e moltissimo aglio (in funzione antiscorbuto); a cena:
formaggio, lardo, pesce salato, con rucola, senape e aglio.
Magellano, nel 1521, per la sua ciurma di 265 uomini di varie
nazionalità (tra cui 24 italiani), aveva fatto caricare i cinque
velieri di 21.000 libbre di gallette (circa 8.400 Kg), 6.000
libbre di carne fresca (2.400 Kg), 984 forme di cacio, 200
botti di sardine e poi vino, farina, riso, legumi, e perfino 7
vacche (che non dovettero campare a lungo…).
James Cook, con un’équipe di scienziati al seguito, fece fare
grandi progressi all’alimentazione di bordo e all’equipaggio
della “Resolution” distribuì estratto di malto, cavoli salati e
crauti, perché antiscorbutici, mostarda, marmellata di carote,
sciroppo di limone e arance, mosto di birra e le “tavolette
di brodo trasportabili” (“portable broth”), che precorrevano
l’estratto di carne del barone tedesco Justus von Liebig.
Ma è con Napoleone che avviene la svolta nel sistema delle
provviste di bordo e nasce la Logistica moderna, grazie anche
alla scoperta del pasticciere Nicolas Appert e al suo metodo
per la conservazione ermetica dei cibi, cento anni prima
che Louis Pasteur dimostrasse che il calore era in grado di
uccidere i batteri. Nel contratto di fornitura dei viveri del 1810,
si nominano le razioni di giornaliere, di campagna, di mozzo,
di truppa, di prigioniero di guerra, di Guarda ciurme, di
forzato al lavoro, di forzato senza lavoro, di forzato invalido e
Ritiro del vino con piccole damigiane
si raccomanda che nessuna derrata venga imbarcata prima di
essere stata riconosciuta conforme da apposita Commissione,
di cui faceva parte il Comandante, l’Amministratore, l’Officiale
di Sanità, un Sottufficiale e un marinaio.
Con la Regia Marina, il 1/1/1866 vengono adottate tavole e
panche per i ranci sulle Navi, si introducono i primi lavagamelle
e nella tabella di composizione viveri del marinaio a terra e a
bordo compare il primo menu a rotazione settimanale.
Nel 1913 viene istituita la “prova” del rancio, fatta dal
Comandante o dal Comandante in II e nel 1951, nell’ormai
nata Marina Militare Italiana, vengono introdotti i vassoi
sagomati per il rancio della truppa, passaggio obbligato per
l’abolizione, nel 1962, delle stoviglie in alluminio, a favore di
scodelle e piatti in vetro china, bicchieri in vetro pressato e
bottiglie di mezzo cristallo.
Guerra 1940-43: rancio al posto di combattimento
Cucina Nave Cavour
Distributorio Nave Cavour
Il nero
‘elisir di lunga vita’...
Portaerei Cavour
di Roberto Volterri
Esperto di alimentazione militare, ha collaborato/
collabora con:
Nato Research & Technology Organization;
NATO/COMEDS Food and Water Safety and
Veterinary Support Expert Panel;
■ Natick Soldier System Center (U.S.A.);
■ Bundesamt
für Wehrtechnick und Beschaffung
(Germania);
■ Heereslogistikschule (Austria);
■ Università di Wageningen (Olanda);
■ Defence Food Services (U.K.);
■ Istituto Nazionale per la Ricerca sugli Alimenti e la
Nutrizione (I.N.R.A.N.);
■ Dipartimento di Fisiopatologia Medica (Sezione
Scienza dell’Alimentazione), Facoltà di Medicina e
Chirurgia, Università La Sapienza, Roma;
■ Facoltà di Medicina dell’Università di Palermo;
■ RAI;
■ Mediaset;
■ Sole 24 ore.
■
■
Attualmente, pur se le moderne tecnologie assicurano
certamente un livello di igiene alimentare molto elevato,
nella sua sostanza il mangiare a bordo ha mantenuto
alcuni caratteri che lo contraddistinguono e lo rendono
unico: la necessità di essere preparato in spazi ristretti; il
condizionamento dei fattori atmosferici; l’essere consumato
nell’intervallo tra un turno di guardia e l’altro; il suo carattere
di convivialità, in un ambiente ristretto qual è la Nave, dove
le attività sociali vengono drasticamente ridotte e, forse più
importante di tutti, il fatto che il mangiare rimane una delle
poche attività piacevoli possibili a bordo e assume un ruolo
compensativo di un complesso di “vuoti”, determinati dal
distacco dal proprio consueto ambiente di vita ◆
Portaerei Garibaldi
È autore di numerosi articoli e scritti, tra i quali:
“Guida esplicativa sulla razione viveri speciali da
combattimento italiana” - 2008;
■ “Protocollo d’Intesa tra il Ministero della Difesa e
l’I.N.R.A.N.”, per lo sviluppo e l’identificazione delle
strategie poste alla base dell’identificazione delle
migliori scelte nutrizionali in materia di alimentazione
militare e per lo studio e l’identificazione di standard
nutrizionali specifici per le FF.AA. italiane” - 2008;
■ “Vademecum per una corretta nutrizione del personale
a bordo delle Unità della M.M. Linee Guida per i
Comandanti e il personale addetto” - 2009.
■
Foto stato Maggiore della Marina
Nave Scuola Amerigo Vespucci
Narrano antiche cronache...
Il Capitano di Vascello Dottor Alessandro Pini, è
stato Rappresentante Nazionale Italiano presso l’ONU,
nel Gruppo di Lavoro Internazionale per la revisione
della razione alimentare delle truppe ONU e presso
la NATO, nel Gruppo di Lavoro Internazionale per la
standardizzazione dei requisiti alimentari ai fini della
realizzazione di una nuova razione da combattimento
per la “Nato Response Force”.
O
gni tanto, si sa, qualcuno sostiene di
aver trovato la vera Panacea in grado di
sconfiggere qualsiasi male. Il ‘Fungo cinese’,
tanto di moda negli anni Cinquanta, il ‘Kefir’, l’Aloe (ma mi
raccomando che sia quella ‘vera’!), la “Kombucha” e vari
altri ritrovati di matrice quasi sempre orientale compaiono
e scompaiono dalle tavole dei consumatori più propensi a
credere che tale Panacea esista davvero. Il caffè - almeno per
un certo periodo di tempo - ha subito la stessa sorte...
In tempi ormai andati un medico olandese, il dottor
Cornelius Dekker approfitta della diffusione che in tutto il
mondo ha avuto la ‘magica’ bevanda ed esalta oltre ogni
limite in conferenze, pubblici dibattiti, articoli e libri le
medicamentose virtù di quei piccoli semi tostati, macinati
e fatti bollire. Firma tutti i suoi scritti con lo strano nome di
“Bontekoe” che pare significhi “mucca screziata” dal nome
di una locanda di proprietà di suo padre. Un’innocente
stranezza, ma nulla in confronto a ciò che farà più tardi. La
sua terapia inizia con ben dieci tazze di caffè al giorno per
arrivare a farne sorbire anche cinquanta. Non è dato sapere
quali e quante siano state le catastrofiche conseguenze di
tali ‘dosi da cavallo’ di caffeina sulla salute dei suoi creduli
pazienti ma, evidentemente, il nostro Cornelius è fortunato
poiché entra nelle grazie del Principe Elettore di Berlino, il
quale lo vuole al proprio servizio come medico personale
dopo essere stato guarito dalla podagra grazie alla curiosa
terapia... ‘al vetro’, come spesso si sente dire nei nostri bar.
É il momento in cui la Compagnia Olandese delle Indie
Orientali sta distribuendo in tutto il mondo, in particolare in
Germania, il caffè. Così il nostro “Bontekoe” si monta la testa
e pubblica un ponderoso tomo dal rassicurante titolo “Come
allungare la vita umana”. Il nostro strano dottor Dekker, però,
non ha il tempo di riscuotere neppure un centesimo dei suoi
diritti d’autore perché con o senza caffè si ammala e, a soli
38 anni, passa a miglior vita...
Per tutti i tedeschi, convinti di diventare presto dei novelli
Matusalemme solo bevendo qualche caffè in più, la morte del
dottor Dekker è un colpo tremendo, ma subito si riprendono
cambiando… bevanda e tornando alla cara, vecchia,
‘bionda’ birra! Le piantagioni di caffè, dai possedimenti
olandesi, cominciano poi a diffondersi, quasi furtivamente,
qua e là per il mondo. A volte solo per caso, in seguito ad un
innocente regalo...
Il Borgomastro di Amsterdam una mattina dell’anno 1714
decide di inviare due innocenti piantine di caffè a Sua maestà
Luigi XIV, il Re Sole. Fin qui nulla di strano: usuali gesti di
cortesia tra due Paesi in pace tra loro. Ma non è così...
Il Re Sole è ormai vecchio e malandato, consegna le due
piantine ai suoi giardinieri e poi… diparte da questa terra.
Gli succede il nipote, Luigi XV che, divenuto adulto scopre
nelle reali serre quelle due strane piante ormai cresciute con
lui. Ci si diverte un po’ raccogliendo le bacche, tostandone i
semi e preparando un pessimo caffè che offre agli amici della
corte di Versailles. Le piante rimangono lì, quasi dimenticate
da tutti, ma non dal capitano Gabriel Mathieu de Clieu, il
quale sogna da anni di rubare una ‘margotta’ della pianta e
di portarla all’estero. Costi quel che costi!
Ci riesce e dopo mille e una inenarrabili peripezie le porta
in Martinica. Solo dopo qualche decennio in quelle isole
si possono contare circa venti milioni di esemplari della
‘magica’ pianta! E ancor oggi il caffè della Martinica è uno
dei più richiesti al mondo... ◆
77
M AGA ZINE
Si fa presto a dire CACIO
di Antonella De Santis
Latte crudo
“A latte crudo” è una denominazione che indica che il latte
usato non viene prima pastorizzato, ovvero riscaldato (a 72
gradi) per eliminare ogni batterio, processo che riduce anche
vitamine e flora batterica “buona”, quella che dona personalità
e caratteristiche nobili al formaggio. Pastorizzare significa
appiattire sapori e varietà. Il latte crudo richiede attenzione
allo stato di salute del bestiame e alle fasi di produzione che
preferibilmente devono avvenire nel luogo dei pascoli.
Non solo cantina
Famoso per la sua bontà e la fortuna di cui gode nonostante
le periodiche polemiche legate alla tecnica difficilmente
contenibile da regolamenti comunitari, il formaggio di fossa
ha una sua antichissima tradizione nelle Marche e in Romagna
(nello specifico a Sogliano al Rubiconde, a Talamello e a
Sant’Agata Feltria). Stagionato in autunno all’interno di fosse
scavate nella roccia, in origine per difenderlo da razzie,
acquista i caratteristici sentori di muschio, zolfo, tartufo che lo
rendono un prodotto da meditazione di grandissimo interesse.
S
i fa presto a dire cacio: latte e caglio e poco
più. Ma è quel poco più che fa la differenza: le
razze degli animali, la diversità dei pascoli e la
qualità dell’erba, la sapienza dell’uomo che trasforma, affina,
stagiona e che testimonia la grande capacità di adattamento
e valorizzazione del proprio ambiente. Quello dei formaggi
è un mondo vasto e raffinato, che percorre l’Italia intera
raccontando storie di uomini e di animali, di tradizioni e
cultura gastronomica, geografica, sociale.
Alla fine degli anni ‘80 l’istituto nazionale di sociologia rurale
censì circa 400 tipi di formaggio, una stima di certo per
difetto ma che non rappresenta i formaggi reperibili, molti
legati a piccolissime realtà non commercializzate o a piccole
varianti locali.
Negli ultimi anni un consumo più consapevole ha portato
alla conoscenza e al salvataggio di specialità che la grande
distribuzione stava schiacciando (non facciamoci illusioni, in
gran parte ancora accade) in favore di prodotti più incolori e
standardizzati. Oggi il formaggio è apprezzato, conosciuto e
riconosciuto, non più considerato rozzo alimento di pastori
come nei tempi passati.
Ma quale è il fenomeno per cui il latte, da liquido e
deperibile si solidifica e diventa conservabile? Tutto nasce da
un processo batterico che separa la componente proteica e
lipidica del latte da quella acquosa, la coagulazione avviene
per l’acidità o grazie a un attivatore, detto caglio, che viene
aggiunto al latte. Di origine vegetale (latte dei fichi, estratto
di carciofi), ma più di frequente di origine animale: dallo
stomaco di bovini o ovini. Tra tutti il più efficace, ma che
cede un sapore molto forte al formaggio, è quello di capretto.
Vi sembra un alimento da vegetariani ortodossi?
La caseina, tra i 28 e i 38 gradi, si coagula e trattiene una
parte dei grassi, formando la cagliata, generalmente rotta per
facilitare la separazione dal siero.
A questo punto la cagliata può essere di nuovo cotta a
diverse temperature, fusa oltre i 100 gradi, pressata, filata
(cioè fatta maturare nel siero caldo acido, poi tirata a mano,
come nella mozzarella, nel provolone o nel caciocavallo)
oppure lasciata cruda. Sono crudi tutti i formaggi freschi e
a pasta molle, come stracchino, crescenza, tome, quartirolo,
formaggi che subiscono una piccola stagionatura, il cui
sapore è delicato, con sentori erbacei e lievi note acidule,
ma sono a pasta cruda anche foraggi duri e semiduri come
castelmagno o bra, dal gusto più spiccato.
Dopo la messa in forma c’è la salatura e la stagionatura, che
varia da poche settimane e diversi anni, come nel bitto, in
locali con temperatura intorno ai 10-15 gradi e umidità alta
e costante, con una continua cura delle forme, lavate e unte
per evitare attacchi di parassiti e spaccature,
Il formaggio “nasce” durante la stagionatura: perde acqua,
si compatta, grassi e proteine si trasformano e gli zuccheri
residui fermentano, il colore diventa più giallognolo e i gas
che si formano a volte creano l’occhiatura, i famosi “buchi”.
Il latte è diventato formaggio.
gourmet
Mai provato con il miele?
I matrimoni di gusto, tradizionali o azzardati, volti a esaltare
sapori e caratteri unici di ogni prodotto e la straordinaria
varietà del patrimonio italiano, sono sempre più diffusi. L’uso
di accompagnare il formaggio con mieli e marmellate è molto
antico, il connubio perfetto l’asseconda senza mai sovrastarlo,
per assonanza o contrasto: ad esempio un formaggio dolce
con una confettura o una marmellata e uno piccante con una
mostarda, o al contrario, un erborinato, molto saporito, con
del miele. I mieli hanno consistenza diversa, e diversi profili:
delicato (acacia), aromatico (millefiori), intenso (castagno),
balsamico (tiglio), amarognolo (corbezzolo), fino alla melata
che avvicina molto le confetture, ogni formaggio trova quindi
il compagno ideale.
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gourmet
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Le stagioni e i luoghi del latte
Un buon formaggio racconta del pascolo e delle stagioni,
perché il latte cambia secondo l’alimentazione del bestiame e
un buon prodotto non ammette livellamenti, ma cambiamenti e
differenze rappresentano un pregio. In inverno il fieno sostituisce
l’erba fresca delle stagioni calde, quando il latte è più ricco e
profumato e il formaggio più saporito. Allo stesso modo i pascoli
di montagna usati nei mesi estivi, tra i 1300 e i 2300 metri, detti
alpeggi o malghe, sono migliori: qui l’erba è più aromatica e
l’ambiente incontaminato. Il latte prodotto si trasforma in loco,
dove inizia anche la stagionatura fino ai primi freddi.
Degenerazioni golose:
blu e a crosta fiorita
Per qualcuno è una prelibatezza irrinunciabile, per altri, la
presenza di muffe fuori o dentro la forma, rappresenta un
elemento di forzato rigetto. Tant’è che chi si avvicina al vasto
universo caseario non può ignorare la variegata famiglia
delle muffe che si presenta con diversi aspetti: l’innocente
e morbido bianco che riveste brie, toma o camembert altro
non è che la manifestazione della presenza della microflora
fungina, che altrove si rivela attraverso pigmentazioni e
macchioline. Dall’aspetto più o meno compatto e uniforme,
con o senza efflorescenze di colore rossastro o tendente al
blu, sono formaggi a crosta fiorita, con patina e a crosta lavata,
cioè spugnati periodicamente con diverse soluzioni per
favorire una specifica crescita batterica. Batteri, funghi, spore
e muffe sono dunque una presenza consueta per i formaggi,
anche sotto mentite spoglie. Altro discorso per gli erborinati:
striature verdognole o blu segnalano immediatamente la
presenza di muffe sviluppatesi naturalmente o provocate
mediante la foratura delle forme: è il caso del gorgonzola,
del blu del Monviso o dell’inglese stilton ◆
Narrano antiche cronache...
Il miele
è come il sole
del mattino...
di Roberto Volterri
R
imaniamo in ambito gastronomico,
‘svolazzando di fiore in fiore’...
“Ape, svegliati, lavora per Dio e per me!”
ancor oggi in Francia, nella Nièvre, cantano gli apicoltori il
giorno prima della Candelora - non a caso il ‘giorno dei ceri’,
delle candele - mentre ornano gli alveari con colorati nastri,
le bouillauds. Nella Vandea e nell’Aisne ogni apicoltore
degno di questo nome fabbrica delle candele particolari, le
fa benedire il giorno della Candelora e se le conserva con
cura affinché lo possano accompagnare, accese, durante il
suo… ultimo viaggio. Nel nord-est della Francia, il giorno
del Venerdì Santo, sugli alveari viene posta una piccola
croce di cera benedetta per assicurarsi un buon raccolto di
miele. Inoltre, a Saint-Martin-le Chatel, nella regione della
Bresne (Francia), c’è una chiesetta dedicata ai Santi Filippo
e Giacomo, da quelle parti ritenuti protettori delle api. Fino
a non molto tempo fa c’era anche una bella vetrata su cui
era raffigurato un alveare dorato, ornato ai lati da api d’oro e
fiori campestri. Gli apicoltori, il primo Maggio, vi si recavano
a… ‘brezonner’, ovvero ad imitare il volo e il ronzio delle
api, facendo tre giri ‘magici’ intorno all’altare per propiziarsi
un abbondante raccolta di miele alla fine dell’estate. Nel
villaggio di Beaumont, nella regione della Dombes, c’è una
cappella con una statua della Nostra Signora delle Mosche
- detto così sembra però qualcosa di più ‘demoniaco’ poiché
ci ricorda Baal-zabub, ovvero il ‘Signore delle Mosche’... -
alle cui braccia gli apicoltori appendono delle piccole sfere
di cera prodotta nelle loro arnie, prendendo in cambio un
frammento delle candele accese attorno alla statua per
propiziarsi un efficiente lavoro da parte dei volenterosi
insetti. Ma le api producono anche un potente ‘veleno’ scientificamente definito ‘apitoxina’ - che sembra produrre
eccezionali risultati nella cura di malattie reumatiche,
sciatalgie, asma bronchiale, ipertensione arteriosa, psoriasi,
eczema e molto altro ancora.
Narrano le ‘antiche cronache’ come anche le antiche
popolazioni che abitavano le rive del Nilo raccogliessero tale
‘veleno’ a scopo terapeutico, ma è solo da circa un secolo
che è stato messo a punto un metodo per indurle a depositare
su un particolare telo di nylon la sostanza medicamentosa
prodotta da alcune ghiandole poste nell’addome dell’operoso
insetto. In realtà iniziò, nel 1870, tale dottor Antony Tere per
la cura delle malattie reumatiche, ma un grande sviluppo
all’uso del ‘veleno’ delle api lo dette negli anni Trenta del
Novecento il professor Bodog Bach, di New York, seguito dal
collega dottor Joseph Broadman, il quale ottenne strepitosi
risultati nella cura delle artriti e di vari processi infiammatori.
‘Dat Rosa mel apibus’, sentenzia un motto diffuso in ambito
esoterico, ove il miele simboleggia l’ambrosia, il nettare degli
Dei, la bevanda dell’immortalità: forse non è proprio così,
ma quel che appare certa è la... ‘pungente’ ’utilità a tutto
tondo di questi piccoli, simpatici insetti! ◆
...da 90 anni la tradizione della cucina romana
nel cuore dei Parioli...
Celestina ai Parioli, il più antico ristorante nel cuore
dei Parioli, propone ogni settimana grandi serate di
degustazione per i propri ospiti. Sono momenti particolari
a tema, per proporre ai clienti percorsi eno-gastronomici
che valorizzano le eccellenze regionali, accompagnati
da una selezione di vini delle migliori cantine e birre
artigianali.
Queste serate offrono anche momenti di incontro tra i
nuovi proprietari e gli ospiti, che hanno così l’opportunità
di conoscerli meglio.
Viale Parioli, 184 • tel. 068078242 - 068079505
www.ristorantecelestina.it
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Carciofi
croce e delizia
delle nostre cucine
di Antonella De Santis
C
C
roce per la difficoltà con cui si puliscono,
annerendo tutte le dita se non si ha l’abitudine di
usare i guantini leggeri o di bagnare con acqua
e limone le mani mentre si eliminano le parti da togliere
prima della cottura, che, occorre dirlo, sono in quantità
considerevole. Ma non bisogna lesinare e andare giù decisi
con lo scarto: non c’è nulla di peggio di un carciofo pulito
male, le parti dure e pungenti rovinano il piacere di gustare
un buon carciofo, cotto o crudo che sia.
Delizia perché... beh perché sono semplicemente deliziosi!
Ciò che si mangia del carciofo è il fiore di una pianta erbacea
perenne tipica dell’area mediterranea dove gli inverni sono
miti e senza lunghe gelate. Simile al cardo, può raggiungere
un’altezza di oltre un metro e fiorisce dall’autunno alla
primavera inoltrata: le stagione dei carciofi è quella che dai
primi freddi ci accompagna fino al ritorno delle temperature
più alte. In questo lungo periodo si trovano diverse varietà
caratterizzate da differenti colori, forme, grandezze e dalla
presenza o meno delle spine. Le autunnali che, dopo una
stasi invernale, fioriscono fino a maggio, sono tipiche
dell’Italia meridionale, mentre quelle primaverili si coltivano
più a nord, nell’Italia centro settentrionale. Hanno un sapore
deciso, ben riconoscibile, amato/odiato dai sommelier per
la difficoltà di abbinamento data dalla forte ferrosità che
sembra voler sfidare ogni vino e che si addomestica appena
durante le preparazioni.
Crudi, fritti, bolliti, stufati, ripieni, arrosto, dorati: i carciofi si
prestano a essere consumati in moltissimi modi, facendone
un ingrediente versatile, adatto a contorni e insalate come
a condimenti per primi piatti di pasta o riso, zuppe o torte
rustiche, in secondi di carne o pesce, frittate o in irresistibili
patè o conserve sott’olio e sott’aceto. Una golosità che
incontra anche le esigenze della dieta, perché questo alimento
così gustoso e consistente, ricco di proprietà benefiche e
saziante è, al naturale, povero di calorie. Tutt’altra questione
se si prepara senza badare troppo alla linea; i carciofi amano
i condimenti ricchi, olio e sale in abbondanza, soprattutto
nelle due preparazioni tipiche laziali: alla romana e alla
giuda. Difficili da preparare? Non così tanto...
Varietà
Spine o non spine? Gli spinosi sono solitamente più affusolati
e di un verde intenso, ottimi da gustare anche crudi, sono il
pregiato di Albenga, il Masedu Sardo, il Siciliano, tenero e
polposo, il Veneto di Chioggia e il Violetto di Toscana. Tra
quelli non spinosi, tondeggianti e ideali per essere farciti ci
sono il Violetto di Catania, quello di Paestum (ora Igp) e il
nostro Romanesco, anch’esso Igp, detto anche mammola o
cimarolo: sferico, grosso, particolarmente morbido e privo di
spine con foglie verde-viola, perfetto da cucinare intero o
ripieno. Tutti contengono cinarina, che abbassa il livello di
colesterolo nel sangue e migliora la funzionalità del fegato.
Acquisto e preparazione
Al momento dell’acquisto bisogna assicurarsi che abbiano
la punta ben chiusa, il gambo dritto e sodo e le foglie di
colore verde scuro, quasi viola. Possono essere conservati
nell’acqua, proprio come un mazzo di fiori, inconsueto e
regale. Oppure puliti, lavati con acqua e succo di limone e
asciugati e si mantengono alcuni giorni in frigo dentro a un
sacchetto di plastica o un contenitore ermetico.
Le foglie devono essere eliminate, il gambo si deve recidere
fino a circa 4 cm dalla base e poi raschiare con un coltellino,
e si devono togliere anche le foglie esterne più fibrose, almeno
due file, e tagliare di netto la punta. Anche il fieno interno deve
essere eliminato. Per arrivare al cuore dei carciofi è necessario
gourmet
M AGA ZINE
tagliare ulteriormente le foglie esterne, recidere tutto il gambo
e asportare il fieno interno, facendo attenzione a non eliminare
anche la polpa chiara. Con un coltellino bisogna tornire la
base dei fondi come se si sbucciasse una mela.
Per evitare che anneriscano a contatto con l’aria bisogna
passarli in acqua acidulata o cospargerli di farina.
Alla Giudìa
Fritti interi, arrivano in tavola aperti come un fiore dorato
e croccante all’esterno, tenero internamente. Per ottenere
questo risultato bisogna friggere i carciofi immersi
completamente in olio due volte, dopo averli puliti e scolati
dall’acqua acidulata, conditi internamente con sale e pepe
e battuti uno contro l’altro per farli aprire. La prima frittura
a temperatura più bassa serve a cuocerli, la seconda a testa
in giù, dopo averli fatti raffreddare e aperti verso l’esterno, li
rende croccanti. Quasi a fine cottura si spruzzano con un po’
d’acqua per dorare le foglie più esterne.
Così venivano preparati per il kippur, la festa ebraica
dell’espiazione, e si mangiavano dopo un giorno di digiuno
totale e astinenza.
Alla Romana
Sono stufati in olio e acqua, insaporiti da aglio e aromi. Un trito
di mentuccia, aglio, prezzemolo, olio serve a farcire l’interno
dei carciofi insieme a un po’ di sale. Salati anche all’esterno i
carciofi sono pronti per essere cotti per circa mezz’ora in un
tegame alto, con un dito abbondante di olio e acqua, l’ideale è
ungere anche il gambo con olio salato e pepato.
Anche questa preparazione era in origine tipica della
comunità ebraica romana, poi passata alla tradizione romana
tout court ◆
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M AGA ZINE
Ben-essere
Risotto rose e fragole
Fare attenzione che le rose siano commestibili, non trattate
chimicamente.
Ingredienti per due persone:
200 gr. di riso carnaroli, 1 l. di brodo vegetale, 1/2 bicchiere
di vino bianco secco, 1 cipolla piccola (o 1 scalogno), 100 gr.
di fragole, 2 rose rosa, parmigiano grattugiato per mantecare.
Far imbiondire nell’olio la cipolla o lo scalogno tritati,
aggiungere il riso e farlo tostare un po’. Versare il vino, alzare
il fuoco, far evaporare e cominciare la cottura aggiungendo
un po’ alla volta un mestolo di brodo. Lavare le fragole e
frullarle. Sciacquare bene i petali di rosa e asciugarli con
delicatezza. Dopo 15 minuti di cottura del riso aggiungere
le fragole frullate, amalgamarle e far riprendere il bollore
per altri 5 minuti circa. Spegnere il fuoco e aggiungere 3/4
dei petali di rosa, spezzettati con le mani. Mantecare con il
parmigiano grattugiato. Portare in tavola decorando i piatti
con i restanti petali.
Ben-essere
di Marilisa Verti
Riso e Rose
La Regina dei fiori
È lei, la rosa, la regina dei fiori, diffusa e conosciuta nel
mondo intero, con oltre 150 specie differenti. Da sempre
rispecchia l’amore, in tutte le sue declinazioni, dal passionale
al platonico. Ma non solo: è simbolo del segreto, delle cose
da non rivelare o da trattare con la massima discrezione, ma
anche della realtà in divenire, della manifestazione in fieri.
Sacra a Iside in Egitto, a Ishtar in Mesopotamia, ad Afrodite
in Grecia, a Venere in Roma, nel mondo cristiano la rosa
bianca simboleggiò la purezza di Maria, mentre quella rossa,
il sangue dei primi martiri.
Note sono le sue proprietà terapeutiche: l'essenza è
utilissima alla pelle, l’acqua di rose è disinfettante e tonica,
specialmente per pelli secche, infiammate, invecchiate e
sensibili e, in cucina, oltre all’acqua di rose eccellente per i
dolci, i petali sono apprezzati per marmellate, aceti odorosi
e persino per i risotti.
La bella Rosina
Al Bella Rosina Relais, nel parco regionale della Mandria
- un polmone verde di seimila ettari nei pressi di Venaria dove un tempo vivevano re Vittorio Emanuele II e la sua
sposa morganatica Rosina Vercellana, affettuosamente
soprannominata dai torinesi “La Bela Rosin”, c’è anche la
beauty farm PrimaRosa, con programmi e trattamenti che
usano creme e prodotti creati appositamente con soli principi
naturali e biodinamici certificati, non testati sugli animali. In
particolare, sono da provare i trattamenti viso per differenti
problemi. Alla Rosa Rubiginosa, per pelli mature, rigenerante
cellulare, anti rughe, ottimo per schiarire le macchie, anti
radicali, anti ossidante; alla Rosa Gallica Canina, per pelli
rilassate atoniche, astringente, tonificante, levigante e alla
Centifolia o Rosa Mosqueta, lenitivo, emolliente e idratante,
indicato per pelli sensibili, sottili.
È la Monferrina, disegnata appositamente da Emanuele Luzzati
in collaborazione con Elio Carmi, il personaggio simbolo
della decima edizione di Riso & Rose, la manifestazione che
per tre weekend consecutivi, dal 7 al 23 maggio, animerà
tutto il Monferrato. La grande kermesse, che coinvolge anche
Alessandria e alcuni centri della Lomellina, è un contenitore
di eventi all’insegna del riso e delle rose, sui temi della
storia e delle tradizioni locali, rinnovati per l’attualità e gli
stimoli culturali. Più di 30 eventi, oltre 200 appuntamenti
con enogastronomia, florovivaismo, hobbistica e arte, dalla
pittura di Chagall sino ai mosaici in chicchi di riso. Tante e
variegate occasioni per scoprire la bellezza del Monferrato
con le colline in fiore, i castelli, le ville, i parchi e i giardini.
E, nelle soste, prelibatezze con il riso e le rose, degustando
vini di qualità della terra monferrina.
Latte alla rosa
Non è il latte di asina che usava Poppea, ma per la pelle è un
vero e proprio toccasana: il latte alla rosa canina della Nuova
BioLeaves è una emulsione per la pulizia del viso. Si può usare
sia come detergente, per donare alla pelle un substrato adatto
a ricevere il trucco, sia come struccante, data la sua completa
dermocompatibilità. Contiene saponaria e idrolizzato di riso,
quali basi detergenti naturali, il miele come idratante, l’olio
di girasole emolliente protettivo, l’estratto e gli oli essenziali
dalla funzione astringente ◆
pubblicato su Insider Magazine nel maggio 2010
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Profumo di fresco in casa
G
Fra aroma e proprietà terapeutiche:
le molte qualità di lavanda e lavandino
di Donatella Codonesu
garden
li antichi romani ne ponevano mazzetti fioriti
nei bagni termali, la usavano come base per
raffinati profumi o in decotti per trattare pelle
e capelli. In un passato più recente i sacchetti di lavanda
profumavano la biancheria e tenevano lontane le tarme:
una delicata consuetudine conservata in Provenza, terra di
lavande e lavandin, e che ora sta tornando di moda anche in
Italia, dove vengono coltivate alcune varietà di questo arbusto
perenne appartenente alla famiglia delle lamiaceae (labiate).
La Lavanda officinale (o vera, o fine, o angustifolia) cresce
spontanea sulle Alpi e sugli Appennini dai 300 ai 1000
metri di altitudine in luoghi aridi e sassosi, preferibilmente
calcarei, esposti al sole e ben drenati. È di piccole
dimensioni (dai 30 ai 60 cm) con un solo fiore per ogni
stelo, si riproduce per seme e la sua resa in olio essenziale
estratto in corrente di vapore è intorno allo 0, 8%. Fiorisce
in estate tingendo il paesaggio di azzurro/viola e oggi viene
largamente coltivata, come il lavandino, anche su ampia
scala e quasi sempre con metodo biologico, soprattutto in
Toscana, Piemonte, Lazio ed Emilia Romagna. La raccolta
avviene a luglio-agosto, in momenti diversi a seconda
dell’utilizzo dei fiori (erboristeria o distillazione), della zona,
dell’andamento climatico e della varietà.
Viene largamente utilizzata in farmacia ed erboristeria per
le innumerevoli proprietà terapeutiche dovute al Linaiolo
(antisettiche, analgesiche, cicatrizzanti, diuretiche, sedative
e molto altro): diffusa in un ambiente di lavoro stimola
la produttività, le nebulizzazioni curano stati ansiosi e
depressivi esercitando un’azione equilibratrice, mentre
impiegata negli asili aiuta la concentrazione, purifica l’aria
e sviluppa la capacità di resistere agli attacchi dei microbi.
Grazie al suo fresco e delicato aroma è tuttavia la profumeria
il settore che ne vede il maggior uso, dalla classica “eau de
toilette” fino a saponeria e cosmesi.
Diffuso a latitudini leggermente inferiori, il Lavandino è più
grande (fino a un metro di altezza), con tre infiorescenze
per stelo e un aroma decisamente più intenso, ottimo per
profumare ambiente e biancheria e per preparare prodotti
per l’igiene. È un ibrido fra Lavanda vera e Lavanda spica (o
spigo, o latifolia) e si può quindi riprodurre solo per talea. Fu
creato negli anni ’50 quando l’industria di prodotti detergenti
faceva grande richiesta di olio essenziale (la sua resa si aggira
intorno al 4%).
I fiori di entrambe le piante attirano molto le api, che
producono un ottimo miele aromatico, raro, pregiato e
molto richiesto. Il fiore essiccato della lavanda officinale
viene inoltre utilizzato in cucina per aromatizzare i cibi o
preparare infusi rilassanti, bevande alcoliche e bibite. In Italia
si coltivano anche Lavanda spica, dentata e stoechas, tutte
sensibili al freddo, ma le varietà nel mondo sono centinaia,
e gli appassionati possono collezionarle giocando con le
varianti di forme e colori ◆
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I
IL PEPERONCINO (capsicum)
suoi frutticini coloratissimi sono belli da
vedere, ottimi per la salute, preziosi in cucina.
Il peperoncino è una pianta che non dovrebbe
mai mancare nei nostri terrazzi. Si accontenta infatti di
crescere anche in piccoli vasi, dove si sviluppa con generosità,
senza richiedere quasi nulla. Originario
dell’America centro-meridionale, fu
trasferito con successo in Europa da
Cristoforo Colombo con il nome di
“pepe delle indie”. Pianta perenne
coltivata come una annuale, adatta ai
paesi caldi - temperati, il peperoncino
(Capsicum) appartiene alla famiglia
delle solanacee, che si compone di
piante medicinali, come lo stramonio
e la belladonna e piante alimentari,
come i pomodori, le melanzane e le
patate. Il peperoncino si distingue per
possedere tutte e due le caratteristiche. La
pianta sviluppa rapidamente, riempiendosi
di fiori bianchi con l’interno giallo. Il fogliame
è di un bel verde scuro; i frutti, di varie forme e
colori, possono essere eretti o pendenti, conici o
sferici, lisci o grinzosi, di colore arancio, rosso, nero, verde,
giallo o viola. Nel periodo primaverile ed estivo quindi
avremmo un terrazzo coloratissimo.
di Angelo Troiani
Sull’origine del nome Capsicum esistono due versioni: dal
latino capsa, che significa scatola dalla forma del frutto e dal
greco kapto, che significa mordere.
La specie più diffusa è il Capsicum annuum, cui appartiene
la maggior parte delle varietà dolci-medio piccanti; le altre
specie coltivate sono il Capsicum frutescens (il tabasco), il
Capsicum chinensis, il terribile habanero e il
Capsicum pubescens, il rocoto peruviano.
Il sapore più o meno piccante dipende
dal contenuto della capsaicina, un
alcaloide dall’azione rubefacente,
in grado di aumentare l’afflusso
sanguigno. In genere la capsaicina
è indirettamente proporzionale alla
grandezza dei frutti.
Per concludere, ecco delle curiosità.
Nella tradizione asiatica il peperoncino
viene utilizzato come antidepressivo e in
Cina costituisce un ansiolitico naturale e
stimolante dell’appetito.
Se inoltre avete esagerato con gli alcolici,
un sollievo immediato lo otterrete con la tisana
amara di assenzio con l’aggiunta di tre gocce di
peperoncino in tintura madre. E se volete attenuare il bruciore
dopo averlo mangiato, tenete a portata di mano dello yogurt
o un bicchiere di latte fresco ◆
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NON SOLO FIORI:
IL GIARDINO DELLE BACCHE
SONO MOLTI GLI ARBUSTI DECORATIVI, SPONTANEI
O FACILMENTE COLTIVABILI, CHE FORNISCONO
PICCOLI FRUTTI EDULI VARIOPINTI E GUSTOSI
L
e foglie caduche tingono l’autunno di caldi
toni giallo, arancio, fiammate di rosso,
porpora, bruno… ma sulla tavolozza di
questa stagione ci sono anche numerose bacche, i cui
cromatismi nulla hanno da invidiare a quelli dei fiori. Con
l’ulteriore vantaggio (in molti casi) di un ghiotto sapore. Si
tratta di alberelli ornamentali, che fioriscono in primaveraestate, sviluppando poi fra ottobre e dicembre variopinti
grappoli di piccoli frutti, spesso ottimi in marmellate, infusi
e salse o semplicemente per aggiungere un tocco di colore a
ricette tradizionali. Attenzione però: non tutte le specie sono
commestibili!
Fra i più comuni il Corbezzolo, coltivato per l’aspetto
decorativo e per i gustosi frutti, che convivono con i fiori color
crema a forma di campanella. Piccole sfere ricoperte da una
spessa scorza granulosa, morbidi e carnosi all’interno, che solo
un anno dopo la fioritura maturano colorandosi di arancio e
spinosi la pianta era utilizzata come siepe interpoderale.
Proprio per le sue punte acuminate, è considerata protettrice
delle case ed in grado di allontanare gli spiriti del male. In
medicina l’infuso di Biancospino si usa come riscostituente,
cardiotonico o per conciliare il sonno e il bagno rilassante
con i suoi fiori ha effetto sedativo.
L’intenso profumo del Mirto caratterizza la costa mediterranea,
soprattutto in Sardegna, dove l’omonimo liquore è fulcro
dell’economia regionale, in versione bianca (dai germogli)
e rossa (dalle bacche). I frutti, bluastri, rosso-scuro o più
raramente bianchi, maturano da novembre a gennaio
persistendo a lungo sulla pianta. Impiegato in erboristeria fin
dal medioevo, quando dai suoi fiori si distillava l’Acqua degli
Angeli, è oggi utilizzato per la cura dell’apparato digerente
e del sistema respiratorio grazie alle proprietà balsamiche,
antinfiammatorie e astringenti e presto se ne estrarrà l’olio
essenziale.
Del leggerissimo legno di Sambuco sono fatte secondo la
letteratura fantasy le più potenti bacchette magiche, oltre ad
alcuni giochi popolari di origine contadina. I fiori estivi sono
piccoli, bianchi e profumati, mentre le numerose bacche
quindi rosso scuro. Dolci e aciduli al tempo stesso, sono ottimi
al naturale, con zucchero e limone, canditi o sotto spirito,
oltre che in confetture e infusi; hanno proprietà antisettiche,
antinfiammatorie, astringenti, diuretiche e depurative. I Romani
attribuivano alla pianta poteri magici, durante il Risorgimento
era simbolo dell’unità nazionale per i suoi colori (il verde
delle foglie, il bianco dei fiori e il rosso dei frutti) e Giovanni
Pascoli gli dedicò addirittura un’ode. Simbolicamente la pianta
rappresenta la stima, i suoi fiori l’ospitalità e un ramoscello
con tre frutti appeso in casa porta fortuna.
In Grecia era invece considerato di buon auspicio il
Biancospino, posto sugli altari durante le cerimonie nuziali;
pianta perenne e longeva il cui nome deriva da kratos-forza,
oxus-aguzzo e anthos-fiore. I suoi frutti ovali di un bel rosso
vivo maturano fra novembre e dicembre; non si mangiano
freschi, ma se ne fanno marmellate, gelatine o sciroppi. Il
legno è un buon combustibile e per il fitto intreccio di rami
Mirto
Corniolo
Corbezzolo
garden
Sambuco
nero-violacee o rosse contengono un succo porpora scuro
impiegato per colorare vini. La pianta è tossica, ma non i suoi
fiori, usati per sciroppi dissetanti, né i frutti di alcune varietà,
con cui si fa una marmellata dalle proprietà lassative.
Ottime marmellate o, previa fermentazione, bevande alcoliche
derivano anche dal Sorbo, Rosacea il cui falso frutto, la sorba,
per divenire commestibile deve essere essiccata sotto su uno
strato di paglia per alcune settimane. Di gusto asprigno,
queste bacche sono ricche di vitamina C e hanno proprietà
diuretiche, astringenti, antiinfiammatorie, lenitive. Con la
polpa dei frutti maturi si fanno anche maschere detergenti,
tonificanti o lenitive per pelli delicate, mentre il tannino di
foglie e corteccia è impiegato nella concia delle pelli.
Meno conosciuto ma altrettanto comune il Corniolo, piccoli
fiori gialli e drupe rosso vivo, poi scure a maturazione e
ricercate dalla fauna selvatica più golosa. Adatte ad essere
consumate fresche o ad essere conservate sotto spirito o
in salamoia, se ne fanno bevande, liquori e dolci. Radici,
corteccia e germogli erano impiegati per curare la febbre, in
cosmesi la polpa dei frutti viene usata come astringente per
pelli grasse e il legno è adatto alla tornitura ◆
D.C.
Corniolo
Biancospino
“S
IL RITO DELLA MEDITAZIONE
Niente verde, ma placido equilibrio di forme e spazi
per raggiungere serenità e calma interiore
contemplando il giardino Zen
N
è foglie, né fiori, né colori. Neppure un
pugno di terra: il giardino zen è astratto,
filosofico e meditativo. Ma non certo
privo di fascino, che sta tutto nel delicato equilibrio degli
elementi, pietre e ghiaia, posti a simboleggiare l’acqua e le
piante del suo alter ego tradizionale.
Nell’interpretazione più diffusa la ghiaia costituisce infatti
l’acqua, il cui movimento viene tracciato dalle linee parellele
di appositi rastrelli, mentre grosse pietre disordinate
illustrano il dinamismo delle forme in natura; ‘isole’ che
rappresentano l’immortalità, la longevità e la salute. Quello
zen è un giardino destinato decisamente alla riflessione e
si suppone abbia un effetto rasserenante, tanto che esiste
anche in miniatura, contenuto in una piccola struttura
di lengo da collocare a portata di mano (Bonseki). Il più
celebre a grandezza naturale è quello di Ryoa-ji, a Kyoto,
uno dei migliori esempi di questa progettazione che viene
denominata arte suseki. È un ‘mare’ rettangolare di sabbia
bianca racchiuso fra la passerella del tempio ed il muro di
cinta; fra le morbide onde sono disposte quindici grandi
pietre in gruppi di cinque… ma da nessuna angolazione è
possibile vederne più di quattordici! L’apparente casualità
è insomma frutto di precisi criteri di proporzione, e il
giardino è un esempio di grande armonia. Un’opera
misteriosa e complessa, il cui volto di assoluta semplicità è
concepito per rasserenare e condurre all’illuminazione. Era
questo il percorso dei monaci zen verso la comprensione
dell’essenza delle cose: dalla contemplazione della roccia a
quella della montagna, ovvero dalla meditazione sull’io alla
comprensione dell’infinito.
Il termine si riferisce al fatto che questo stile di giardino si
è sviluppato grazie ai più importanti progettisti giapponesi
monaci o praticanti lo Zen, ma in effetti piccoli e grandi
spazi ‘da meditazione’ sono molti diffusi in Giappone, e
non sempre sono legati alla pratica buddista. Se tutto ciò vi
affascina, senza arrivare tanto lontano, potete organizzare un
piccolo ‘giardino da tavolo’ anche in casa, su un semplice
vassoio di legno. Aggiungere nuovi elementi o modificare
l’orientamento delle onde sarà un’occasione per rilassarvi.
Attenzione però: la sabbia utilizzata non è quella delle
spiagge, ma granito o marmo schiacciato (circa 2mm di
diametro) e di tonalità uniformi, dal bianco al beige. Le rocce
vanno poi scelte con cura e posizionate secondo la vostra
sensibilità e poi… Buona contemplazione! ◆
D.C.
piante del sogno
La camelia
ogno di trovarmi, dopo una lunga
corsa, in una radura. Sono stremata
e mi accascio al suolo. Sotto di me
c’è qualcosa di morbido, come un tappeto, di rose.
Delicatamente ne prendo una fra le dita: non è una rosa,
è un fiore bellissimo ma senza profumo, pallido e freddo.
Rabbrividisco al contatto, mi alzo e riprendo la corsa…”
Forse il misterioso fiore della nostra sognatrice è la
camelia. Originaria dell’Estremo Oriente arriva in Europa
nella seconda metà del Settecento. Secondo i giapponesi
simboleggia la vita stroncata perché, a differenza di
tutti gli altri fiori, la sua corolla si distacca intera dallo
stelo e non petalo dopo petalo. Per questa caratteristica
ben si addice a Marguerite Gautier, l’eroina di Dumas
precocemente stroncata dal “mal sottile”. Marguerite
portava una camelia bianca per venticinque giorni al
mese e una rossa per gli altri cinque. Da qui l’appellativo
di “ Signora delle camelie”. La stessa signora è anche la
“traviata” immortalata da Verdi, perciò nel vocabolario
dell’amore la camelia ha assunto una connotazione
peccaminosa. Amore e peccato, amore e morte: temi
cari al Romanticismo. Oggi le camelie ornano i nostri
giardini, sono belle, raffinate, fioriscono copiosamente
e a lungo e non richiedono particolari cure. Altro che
simbolo di morte! Sembrano piuttosto l’emblema della
generosa bellezza della natura. A ogni epoca la sua
simbologia. Oggi di “mal sottile” non si muore più e
neanche d’amore. Il sogno di cui sopra appartiene a
un’altra epoca ◆
Renata Biserni Psicoterapeuta-Psicodrammatista
rbiserni@tiscali.it
ART: www.stefanopizzato.c
LE CLEMATIDI
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M AGA ZINE
di Angelo Troiani
I
l genere Clematis appartiene alla famiglia
delle Ranuncolacee e comprende circa 250
specie, diffuse in tutte le zone temperate
della Terra, che hanno dato vita, in varie combinazioni, agli
splendidi incroci dai grandi fiori colorati oggi tanto ambiti
nei giardini e terrazzi. Le Clematis vanno
dal grande arbusto rampicante, fino a
piccole specie erbacee, che disseccano
completamente durante l’inverno.
Le Clematidi che più facilmente troviamo
nei vivai sono ibridi delle specie europee e
asiatiche, coltivati e selezionati per
le peculiari caratteristiche dei
loro fiori. Tutte presentano
infatti fiori molto grandi,
la cui parte più vistosa è
rappresentata dai sepali, colorati
come grandi petali. Quando il
fiore appassisce la pianta produce una
particolare infruttescenza, costituita da
una sfera di piccoli semi ricoperti da
una peluria. Questi ultimi le donano un
aspetto aggraziato. Il nome clematide
deriva dal greco “klema”, viticcio. In
antichità infatti veniva considerata una vite.
I romani facevano crescere le Clematis sui muri delle
abitazioni per la loro fragranza e per la loro presunta capacità
di proteggere dai temporali. I tralci flessibili, ma resistenti,
venivano inoltre impiegati dai contadini fino a poco tempo fa
per fabbricare i cesti e legare le viti. Nei paesi nordici esisteva
l’abitudine di prelevare sezioni di fusto legnoso e fumarlo.
Il succo urticante delle sue foglie provoca lacerazioni delle
pelle ed era per i mendicanti un pratico espediente per
impietosire i passanti.
Il loro carattere vigoroso le rende invadenti nelle maggior
parte delle situazioni, ma costituisce una buona risorsa per
coprire grandi recinzioni antiestetiche.
Le Clematidi, soprattutto gli ibridi, sono di facile coltivazione,
a patto di rispettare alcune regole. Esigono infatti terreni
fertili, un buon drenaggio e se si intende
addossarle a un muro è buona regola
distanziarle di circa 30 cm e direzionarle
verso quest’ultimo con dei supporti. Tutte
le Clematidi esigono di avere le radici
all’ombra e la chioma al sole. Occorre
dunque proteggere le radici con dei
sassi o del pacciamante.
Molto importante è la
potatura. Gli esemplari che
fioriscono su legno giovane
sono da potare a fine inverno;
le specie che fioriscono su rami
più vecchi vanno potate dopo la
fioritura, limitandosi all’ eliminazione dei
rami secchi e a un leggero diradamento.
Le specie più diffuse sono la Clematis
montana, l’alpina, l’armandii florida, la
jackmani, l’orientalis e altre innumerevoli,
tutte con degli splendidi colori dal bianco, al viola, rosa,
rosso e giallo ◆
w w w. l a d e g u s t a z i o n e . c o m
i n f o @ l a d e g u s t a z i o n e. c o m
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M AGA ZINE
M AGA ZINE
FEUDI DI SAN GREGORIO,
DIAMANTE DELL’IRPINIA
L’azienda campana, oltre 4 milioni
di bottiglie l’anno, è un gioiello
di innovazione e tradizione
che da oltre 20 anni
lavora per rivalutare la propria terra
S
di Monia Innocenti - ph Luca Vignelli
ono arrivata a Sorbo Serpico dopo quasi tre
ore di pioggia a dirotto. Ho attraversato paesi
che sembravano nati ieri: perfetti, curati,
quasi finti. E sono davvero nati ieri: dopo più di 20 anni
dal terremoto, l’Irpinia è stata ricostruita. E in cima a tutto
questo, oltre al sole che finalmente si faceva vivo, c’era Feudi
di San Gregorio. Un posto impensabile che si nasconde oltre
le colline e, come per magia, produce vini fra i più buoni
d’Italia. Non è magia però: è passione. È volontà, convinzione,
coraggio, innovazione, genialità, pazienza, sfida.
Feudi nasce nel 1986 proprio per una grande sfida:
riscrivere la storia vitivinicola del Sud Italia, salvaguardare
la tradizione cercandone tutte le potenzialità inespresse.
C’è soprattutto un profondo orgoglio e una forte volontà
di riscatto per tutto il territorio irpino, luogo dove le pietre
preziose sono rare ma eccellenti.
La cantina di Feudi è stupore dall’entrata: l’architetto
giapponese Hikaru Mori vi ha creato una sorta di giardino
zen e in Irpinia davvero non te lo aspetti; gli interni sono
di Massimo e Lella Vignelli, simboli del design italiano.
Tradizione ed innovazione, conoscenza e continua ricerca:
la cantina esprime il contributo tecnologico ed innovativo
al processo produttivo ed è capace di dare più consapevole
coscienza del vino, superando la contraddizione, anche
visiva, della cantina tradizionale. Esempio ne è la sbalorditiva
sala degustazione trasparente, con vista sulle botti.
Innovativi anche i prodotti. Feudi crea nel 2004, con coraggio,
il progetto Dubl, sviluppato con il noto champagnista
wine
francese Anselmo Selosse, che permette la realizzazione,
dai vitigni autoctoni di Falanghina, Greco e Aglianico, di
3 spumanti metodo classico. È l’unico caso nel Sud Italia.
Il Dubl Aglianico è la novità che cercavamo per le feste
natalizie, un sapore in grado di lasciare davvero il segno.
Non poteva essere altrimenti vista la grande tradizione di
questa uva e l’importanza che ha fra i vitigni del sud.
Una nota per le persone di Feudi, in grado di trasmettere
tutto il bello della loro terra, la forza e la gioia che si ha
quando ci si prodiga per qualcosa che si ama davvero. Dal
giovane AD Antonio Capaldo al maitre del ristorante Marennà
Angelo Nudo; dallo chef Paolo Barrale al fattore che mi ha
accompagnato a scoprire i vigneti, arrampicandosi per strade
davvero improponibili pur di farmi vedere la vite più vecchia
della proprietà. Se non è amore questo… Buone feste! ◆
Ristorante Marennà, luogo di incontro, confronto
e provocazione. Qui l’ospite incontra la tradizione
gastronomica irpina in un ambiente dove si percepisce
subito l’attenzione di Feudi per ogni dettaglio. Cucina
a vista, lini pregiati, texture della pelle, colori intensi si
alternano ai profumi e sapori di una cucina tradizionale e
creativa allo stesso tempo. Wine Bar, situato all’interno del
“Vulcano Buono” di Renzo Piano a Nola. Il wine bar non
è un semplice punto di degustazione ma l’interpretazione
di una raffinata civiltà del bere all’interno di un’architettura
firmata sempre dai Vignelli. Artigianato ed innovazione
sono di nuovo i punti focali: acciaio ma anche pareti e tavoli
dello stesso legno delle barriques, vetro, luci e colori.
www.feudi.it
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M AGA ZINE
M AGA ZINE
STILE FRESCOBALDI
Da 7 secoli, la famiglia Frescobaldi
produce i grandi vini toscani
ora famosi in tutto il mondo.
Qual è il loro segreto?
di Monia Innocenti
M
archesi de’ Frescobaldi
è senz’altro una delle
famiglie del vino più
note al mondo. Sono 700 anni che il nome
Frescobaldi si affianca a quello della produzione
dei grandi vini toscani: 30 generazioni, 5000
ettari di proprietà, oltre 1000 di vigneti, 9 tenute
in Toscana e una distribuzione in oltre 65 paesi
del mondo.
Frescobaldi è uno “stile”. Il segreto? Senza dubbio
la capacità di essere riusciti a coniugare tradizione
e innovazione, rafforzando una caratteristica con
l’altra e traendone così il massimo vantaggio.
L’ambizione ha poi svolto un ruolo determinate
nell’affermazione di questo brand e l’obiettivo,
essere il più prestigioso produttore toscano di vino,
sembra davvero raggiunto. Frescobaldi crede nel
rispetto del territorio, punta sull’eccellenza delle
proprie uve e, contrariamente ad altre aziende,
ha compreso l’importanza della comunicazione e
della professionalità delle risorse umane.
L’altissima qualità dei vini Frescobaldi è il risultato
dell’esaltazione dell’unicità territoriale: ogni
tenuta è espressione originale ed esclusiva di
quel territorio e i vini prodotti ne sono il risultato.
Ogni tenuta (e quindi ogni bottiglia prodotta) ha
una propria identità, storia, personalità che però vengono
coltivate con uno spirito comune.
Un prodotto esempio dei valori Frescobaldi è il Pomino
Pinot Nero 2008: qui troviamo eleganza e ricerca, un colore
rosso brillante, profumi e sapori di ciliegie e fragole di bosco.
Nonostante l’annata non buona per la grande quantità di
pioggia soprattutto durante la fioritura di giugno, il sole dei
mesi estivi (settembre compreso) ha permesso il recupero
del ritardo delle viti, favorendo un ottimo livello di qualità
di tutte le varietà.
La tenuta nella quale si ottiene questo vino è quella del
Castello di Pomino, opera del ‘500, che ospita le cantine
dell’azienda. Pomino è una realtà ambientale unica in
Toscana, che si estende per quasi 1500 ettari sulle pendici
degli Appennini Tosco Emiliani, con 108 ettari coltivati a
vigneto. Dal 1855, primi in Toscana, i Frescobaldi coltivano
a Pomino vitigni internazionali come Pinot Nero, Merlot,
Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Pinot Bianco e Pinot
Grigio. A questi si aggiunge il Sangiovese.
Il mondo Frescobaldi è però molto di più. Nel centro di
Firenze si trova il Dei Frescobaldi Ristorante & Wine Bar dove
la selezione completa di vini della famiglia accompagna i
piatti della tradizione toscana e stuzzicanti proposte per non
perdere mai il vizio della novità. All’aeroporto internazionale
di Fiumicino, Frescobaldi regala un assaggio di Toscana ai
viaggiatori grazie a 3 wine bar all’interno dei Terminal. Anche
Londra non è rimasta immune al suo fascino: un wine bar si
trova infatti nel notissimo Harrods a Knightsbridge, fornendo
l’opportunità di degustare un sorso di Toscana ◆
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M AGA ZINE
Museo
dei Cavatappi
ph Nevio Doz
di Aura Gnerucci
ph Nevio Doz
S
tappare una bottiglia di vino è un rituale che
ha sempre qualcosa di magico: gli occhi
dei presenti sono concentrati su chi svolge
l’operazione. Viene rimosso il sigillo di stagnola e posizionata
la punta del cavatappi al centro del turacciolo. La vite affonda
nel sughero fino a perforarlo ed infine con lo sforzo di trazione
necessario il tappo fuoriesce dal collo della bottiglia con un
leggero schiocco. Il turacciolo viene estratto e annusato per
verificare se presenta odore. Il nettare degli Dei ora è pronto
da servire e degustare.
Il Museo dei Cavatappi nasce dalla passione di collezionare
cavatappi antichi da parte di Paolo Annoni, un farmacista
nato a Torino e trasferitosi nelle Langhe vent'anni fa. Paolo
Annoni, da sempre appassionato di vino e gastronomia,
sviluppa la passione per i cavatappi grazie al regalo ricevuto
da un amico: un cavatappi antico, un esemplare francese
affascinante e molto bello, l’Excelsior brevettato da Jacques
Pérille nel 1880.
Questo dono stimola la sua curiosità e il suo interesse e lo
porta sia a cercare altri cavatappi d'epoca, sia a documentarsi
sulla loro storia e sulla loro evoluzione, sia dal punto di vista
tecnologico che artistico.
In seguito a un soggiorno a Barolo, a Paolo Annoni viene
l'idea di condividere il frutto di un meticoloso lavoro di anni,
Paolo Annoni
rendendo le collezioni un bene di tutti, decide così di dar
vita a un Museo dei Cavatappi a Barolo, località che per
ovvi motivi risulta ottimale; il museo, aperto il 13 Maggio del
2006, trova felice collocazione nei luoghi di una ex cantina
dai soffitti con volte a botte in mattone, recuperata e adibita
a museo grazie alla collaborazione ispirata degli architetti
albesi Danilo Manassero e Luigi Ferrando e dell'ebanista
restauratore di Benevagienna Massimo Ravera.
Il Museo dei Cavatappi presenta 500 esemplari dal '700
ai giorni nostri, di varie epoche, nazioni e tipologie.
L'allestimento proposto permette di comprendere quella che
è stata la nascita e l'evoluzione nei secoli di questo utensile
di uso quotidiano. Partendo dai 'cavatappi sospesi' e dalla
nomenclatura, il percorso ci porta ad ammirare esemplari
semplici a 'T' in legno, ferro, alluminio, ottone, osso, corno,
ebano, madreperla, bronzo, avorio, argento, tartaruga...e ci fa
conoscere l'era delle invenzioni con leve, viti e meccanismi
complessi come quello delle due viti, una destrogira ed una
levogira, inserite una nell'altra.
Nelle 19 sezioni in cui si articola il museo, nulla è stato
lasciato al caso, l'intento didattico e la divulgazione colta che
si coglie nei pannelli trilingue (italiano, inglese e tedesco),
sono abbinati alla spettacolarità dell'allestimento in teche
che evidenzia la bellezza dei cavatappi esposti.
Una sezione a parte è dedicata alle cartoline d'epoca con il
cavatappi come soggetto.
L'offerta globale del Museo è completata da una prima parte a
libero accesso nella quale possiamo trovare un'ampia vetrina
di bottiglie di tutti i produttori di Barolo, bottiglie di Barolo
storiche e un bookshop con vendita di libri, pubblicazioni,
cavatappi antichi e moderni, prodotti di enologia, souvenir,
cartoline, poster, gadget e prodotti alimentari tipici di Langa.
Il museo è aperto da marzo a dicembre ed è visitabile tutti i
giorni della settimana, a eccezione del giovedì, dalle 10 alle
13, e dalle 14 alle 18,30.
Visitare questo museo è divenuto un must per chiunque
abbia a transitare a Barolo o in terra di Langa ◆
103
M AGA ZINE
I SEGRETI DELLA CARTA
Il processo di produzione artigianale
secondo le tecniche di 700 anni fa:
un percorso affascinante da seguire nel dettaglio
nel museo di Fabriano
A
raccontare per primo il metodo cinese
di fabbricazione della carta fu Marco
Polo, che descrisse le fibre vegetali
impiegate allora: paglia di tè o di riso, canna di bambù e stracci
di canapa. Le tecniche di lavorazione furono gelosamente
custodite per secoli e si diffusero solo nel VII secolo, prima in
estremo Oriente, poi in Asia centrale, quindi finalmente nel
Mediterraneo. In Italia il polo storico di questa manifattura
fu da sempre Fabriano, nelle Marche, dove fu introdotta
dagli arabi e dove tutt’oggi la carta viene prodotta a partire
da lino e canapa, fibre resistenti al tempo e meno costose,
ad esempio, della pergamena. Un’attività tanto importante
economicamente, che nel 1400 fu vietato di insegnarne i
segreti a chi non risiedesse nel territorio del comune. Nella
seconda metà del XV secolo le tecnica di stampa con caratteri
mobili contribuì a consolidare la tradizione dei testi scritti
per comunicare e tramandare pensiero e opere di ingegno e
l’industria della carta nelle Marche continuò a fiorire.
La sintesi di questa storia secolare che dalla Cina conduce ad
un paesino in provincia di Ancona è narrata nell’affascinante
Museo della carta di Fabriano, dove sono presentati testi
antichi e viene illustrato nel dettaglio il processo manuale
di fabbricazione del pregiato strumento, anche attraverso
workshop per le scuole.
Nel corso della visita viene illustrato l’impiego delle fibre da
cui si parte per poi aggiungere collanti e coloranti arrivando
alla produzione di raffinati e ormai rarissimi manufatti.
Fabriano è infatti una delle pochissime città al mondo dove
ancora oggi si fabbrichi carta a mano, i macchinari sono
quelli originali e il grosso della lavorazione avviene ancora
secondo le tecniche di 700 anni fa: la selezione delle fibre,
l’immersione nel tino, l’estrazione manuale di una stessa
quantità di pasta e quindi la distribuzione uniforme su tutta
la superficie del telaio metallico. Il composto viene scolato,
impilato e infine steso. Dopo la collatura e l’essiccamento
le ultime operazioni di finitura producono i preziosi fogli
utilizzati per edizioni di pregio, disegno artistico e stampe
d’arte, corrispondenza e partecipazioni, diplomi di laurea,
buoni del tesoro...
Un percorso affascinante che merita assolutamente una visita ◆
www.museodellacarta.com
DC
104
M AGA ZINE
L
Le terme di Vals
Peter Zumthor e la ricerca
dell’atmosfera nell’architettura
«Montagna, pietra, acqua. Costruire nella pietra, costruire con la pietra,
costruire dentro la montagna, ricavare dalla montagna,
essere dentro la montagna: come possono essere interpretati architettonicamente,
trasformati in architettura i significati
e la sensibilità presenti nell’unione di queste parole?
Ponendoci questa domanda abbiamo progettato la costruzione
che, passo a passo, ha preso forma»
Peter Zumthor
e terme di Vals, nel Cantone dei Grigioni,
sono un’opera emblematica della poetica di
Peter Zumthor, architetto svizzero, insignito
del premio Pritzker nel 2009.
Il modus operandi di Zumthor, non confluisce in un linguaggio
caratterizzato da una sintassi che si ripropone in modo
incondizionato nel tempo e nello spazio, ma al contrario
rifiuta l’uso di immagini concettuali prestabilite, basandosi
su una continua ricerca formale, in stretto rapporto con il
contesto e con il Genius loci.
Parlando delle terme e del processo creativo che ha
portato alla loro forma, l’architetto svizzero racconta di non
essere partito da immagini mentali da adattare al compito
assegnato, ma di essersi posto fondamentali interrogativi
relativi al luogo, ai materiali, alla montagna, alla pietra e
all’acqua: cercando le risposte a questi quesiti, è riuscito a
creare particolari atmosfere.
Per Zumthor l’atmosfera, ovvero la capacità di un’architettura
di trasmettere emozioni e suscitare stati d’animo, è una vera
e propria categoria della bellezza, che si raggiunge solo
indagando a fondo le caratteristiche dei materiali e il loro
rapporto con la luce; uno stesso materiale, a seconda delle
sue lavorazioni e del tipo di luce da cui è investito, può
apparire in migliaia di modi diversi; scrupolosa attenzione
dedica inoltre all’accostamento dei vari materiali, “se sono
troppo distanti, non vibrano all’unisono, se sono troppo
vicini, sono morti”.
Durante una lezione tenuta nel 2003 in occasione del Festival
di musica e letteratura di Wendlinghausen, l’architetto
paragona il suo modo di progettare alla ricerca materica
dell’Arte Povera, in cui si ha un impiego dei materiali preciso
e sensuale, che allo stesso tempo è affrancato da forti
significati. Peter Zumthor utilizza i materiali in modo simile,
facendogli assumere qualità poetiche ricche di accezioni
e ricercando un legame adeguato tra forma e significato in
stretto contatto con il contesto.
L’attenzione verso i materiali può essere ricondotta alle
origini dell’architetto che, figlio di un ebanista, fin da piccolo
imparò l’arte della falegnameria.
Osservata dall’esterno, la struttura delle terme si presenta
come uno stereometrico volume monolitico sapientemente
traforato. L’intero edificio è costituito da un continuum di strati
di lastre di gneiss, sovrapposte l’una sull’altra, che sono state
estratte da una cava di pietra poco distante, caratterizzate da
strati verdi, leggermente bluastri. Le lastre di pietra vengono
unite al calcestruzzo andando a costituire una struttura
portante, una muratura composita che trova ispirazione nei
vecchi muri di sostegno delle strade di campagna.
L’interno, ottenuto concettualmente attraverso un processo di
scavo, si articola attraverso passaggi intimi e oscurati sul lato
della montagna, da cui si accede alle terme, fino a giungere ad
ambienti sempre più grandi che portano alla parte anteriore,
dove grandi aperture, come quadri sul paesaggio, permettono
la vista panoramica sul pendio della valle di fronte, creando un
forte legame con la tranquillità dei monti incantati ◆
AG
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M AGA ZINE
M AGA ZINE
Portico nord
Il Kimbell Art Museum:
Louis I. Kahn,
e il progetto
di ampliamento
di Renzo Piano
ph Robert La Prelle © Kimbell Art Museum, Fort Worth
Galleria sud - Antonio Canova
I
l Kimbell Art Museum, Fort Worth, Texas,
progettato da Louis I. Kahn a partire dal
1966 ed aperto al pubblico nel 1972, è
considerato una pietra miliare dell’architettura del XX secolo,
rappresentando una risposta all’International Style.
Nel Kimbell Art Museum, opera della maturità di Kahn,
vengono cristallizzati alcuni dei temi principali della
sua ricerca formale, come l’importanza della luce e la
sua capacità di significare lo spazio, come la volontà di
esprimere il procedimento costruttivo dell’edificio. Elementi
che rivelano l’influenza che ebbero per Kahn sia la filosofia
platonica che il pensiero di Heidegger.
Fondamentale nel contribuire allo sviluppo del suo personale
linguaggio architettonico, caratterizzato dalla volontà di
trascendenza, monumentalità e di durata nel tempo fu
il periodo trascorso a Roma, che gli permise di studiare
l’architettura romana ed in particolare le costruzioni in
mattoni dei grandi edifici, come le basiliche, le terme, le
tombe ed i principali monumenti.
Secondo Kahn, il processo che porta al progetto architettonico
si articola secondo tre stadi basilari: quello iniziale che definisce
l’idea, momento in cui la forma esprime la sua prima volontà
“Nessuno spazio, architettonicamente,
è spazio se non riceve luce naturale”.
Louis I. Kahn
concreta di esistere; il secondo, che attraverso i criteri della
composizione tradizionale e le leggi della geometria, porta
all’introduzione dell’ordine; infine l’ultimo, il disegno che risolve
e definisce le qualità di ciascuno spazio, la sua illuminazione, i
suoi elementi costruttivi ed i suoi materiali. Il momento basilare
della sua concezione architettonica, come esemplifica in uno
dei suoi scritti più noti I Love Beginnings, è quello iniziale
dell’idea, nel quale ponendosi l’interrogativo di influenza
heideggeriana ”che cosa vuole essere un edificio” si ricerca
l’esistenza delle cose con l’intenzione di arrivare all’essenza dei
tipi architettonici, di ogni sostanza e di ogni elemento.
Attraverso l’impiego di assi principali e secondari di
composizione, ed utilizzando un procedimento di
derivazione Beaux-Arts, consistente nella ripetizione di
forme semplici, Kahn arriva a definire per il Kimbell Art
Museum un impianto planimetrico a ”C”, organizzato attorno
ad una corte anteriore, e formato dall’aggregazione di unità
architettoniche autonome, “stanze” rettangolari allungate,
30 per 7 metri, voltate a botte. Le forme semplici di Kahn,
sono sempre cariche di valori trascendentali, simbolici e
gerarchici, e contribuiscono a raggiungere l’ideale di una
architettura eterna. Rispettando l’assunto secondo cui
Gallerie sud
“lo spazio non è tale se non è possibile percepire con chiarezza
com’è fatto”, la struttura viene dichiarata all’esterno attraverso
le tre campate aperte anteriori, ogni campata è costituita da
quattro pilastri in cemento armato che sostengono una volta
allungata in calcestruzzo con sezione a cicloide.
Il tema della luce viene risolto magistralmente attraverso
l’integrazione tra struttura ed illuminazione, anche se il
lucernario, che corre longitudinalmente per l’intera lunghezza
di ogni ambiente in corrispondenza della chiave di volta,
dimostra che le strutture non sono propriamente volte, ma
travi curvate in calcestruzzo gettato in opera e post-tese.
L’intensità del Sole texano viene attenuata da dei diffusori,
definiti da Kahn “apparecchiature della luce naturale” che
trasformano la luce del giorno in una diffusa luminosità
argentea che lambisce l’intradosso delle volte.
La corte esterna è caratterizzata da un boschetto di agrifogli
nani, delimitato ai due lati da due vasche in cui l’acqua tracima.
Questo visione naturale doveva presentarsi al visitatore ancor
prima che l’edificio, nascosto tra gli alberi, comparisse allo
sguardo. Kahn, non accettò mai il comportamento di coloro
che arrivando in automobile, attraversavano il parcheggio
entrando dalla parte posteriore.
Vista sud-ovest con Henry Moore
Nel corso degli anni, le mostre e le attività organizzate sono
cresciute oltre ogni previsione, tant’è che si è deciso di
ampliare la struttura del museo. Per realizzare l’intervento
è stato scelto Renzo Piano, sia per la sua esperienza
museografica sia per il fatto che è stato allievo di Kahn.
Il confronto con l’edificio di Kahn non si presentava
come un compito facile, Piano sceglie di intervenire
distaccandosi dalla struttura preesistente, dialogando
attraverso una scala rispettosa delle volumetrie originarie.
Inoltre crea un forte asse visivo tra l’ingresso principale
di Kahn, e l’atrio del nuovo edificio, operazione che
non solo rafforza il legame a distanza tra i due edifici,
ma che soprattutto andrà a correggere la tendenza della
maggior parte dei visitatori di entrare da quello che è il
dietro dell’edificio di Khan, restituendo dunque all’edificio
il suo ingresso, così come era stato pensato dall’architetto.
Con l’addizione al sito dell’edificio progettato da Renzo
Piano, la cui apertura è prevista per il 2013, la Kimbell Art
Foundation mantiene il suo impegno nei confronti di una
architettura di eccellenza ◆
AG
Ingresso Ovest
DESIGN RURALE:
IL FASCINO DEL CONTRASTO
Dall’amore per la natura e per i materiali poveri
nasce il recupero di una struttura agricola
in Salento, magicamente collocata
nel cuore di una campagna con vista mare,
ora sospesa fra antico e contemporaneo
di Donatella Codonesu - ph ©Luca Zanaroli
I
nnamoratisi del Salento e delle atmosfere
primordiali che ancora riesce a trasmettere,
l’architetto bolognese Luca Zanaroli e la
moglie Silvia Bernabei, appassionata di interior design, si
sono impegnati a conservare queste sensazioni autentiche
nel recupero di un piccolo complesso rurale abbandonato
nei pressi di Santa Maria di Leuca, oggi risorto a nuova vita
grazie ad un restauro modernissimo nella concezione, ma
fortemente ancorato al territorio.
Due i corpi originali, attigui ma non comunicanti fra loro, il più
antico dei quali, risalente al ‘700, era una tipica pagliara (deposito
di attrezzi e legna) con struttura a forma di trullo. Il secondo
spazio, una cosiddetta liama, a pianta quadrata con volta a
botte, era destinato ad accogliere i contadini che pernottavano
nei campi. Nella stessa proprietà, una terza costruzione adibita
al forno era invece praticamente distrutta.
Il fascino del luogo stava nell’autenticità: lo spazio, disabitato
da anni, aveva conservato intatta la sua originale essenza e la
forza di suggestioni ancestrali.
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Per mantenere lo stretto legame con la terra, l’architetto ha
scelto una soluzione altrettanto forte: quella di rinunciare a
letti e mobili, costruendo al loro posto superfici concrete in
materiali uniformi, come la malta cementizia utilizzata per
pavimenti e pareti interne, un intonaco a base di calce e
sabbia di tufo per rivestire i muri esistenti, pannelli di legno
ricoperti con tela di lino grezza, pietra viva all’esterno.
In questo contesto crudo ed essenziale, molto vicino
all’esperienza culturale contadina, pochi pezzi di design
contemporaneo e l’utilizzo di materiali moderni come
l’acciaio per le zone tecniche offrono un forte contrasto dal
retrogusto metropolitano. Bagno e guardaroba sono stati
ricavati all’interno delle spesse mura e una piccola galleria
scavata nella parete collega oggi i due spazi originali, adibiti
a zona giorno e notte, mentre la cucina è stata sistemata al
posto del vecchio forno.
A dare un tocco incredibilmente evocativo alcuni particolari
elementi, sempre frutto del recupero di vecchi materiali,
come la sagoma di una stella, luminaria residuo di feste
paesane, o come le esili sfere in fil di ferro sospese nella
cupola, costruite dallo stesso architetto, amante della
manualità e dell’artigianale: quasi un ricamo nell’aria,
riempiono lo spazio senza occludere la vista. Il risultato è
un ambiente assolutamente intimo ed accogliente, specchio
della semplicità dei luoghi, che evoca una fusione perfetta fra
la natura e la mano dell’uomo ◆
www.lucazanaroli.com
CAPE TOWN
WORLD DESIGN CAPITAL 2014
Cape Town, capitale mondiale del design 2014 conferisce
al design, con il tema ‘Live Design. Transform Life’
un nuovo forte messaggio: non solo qualcosa di bello
da vedere ma uno strumento utile che possa innovare
e migliorare la vita delle persone
di Vittoria di Venosa
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mostre ed eventi, la città sta dando il meglio di sé per lasciare
un’impronta importante nella storia del design.
Tra le molte proposte in corso a Cape Town e sparse per
tutta questa eclettica capitale, si segnala la realizzazione di
nuovi e confortevoli bus; la riqualificazione urbanistica delle
township in un’ottica green e il riutilizzo delle strutture nate
in occasione dei Mondiali del 2010.
The Fringe, insieme a Wookstock sono il cuore pulsante
dell’evento votato al design: in pratica sono il quartier generale
delle idee, della sperimentazione e della contaminazione.
Emblematica la manifestazione “Infecting the city” grazie
alla quale l’arte esce dai luoghi istituzionali e penetra nel
tessuto urbano rendendo tutti più consapevoli del patrimonio
del proprio paese. E ancora la Southern Guild Gallery, prima
galleria sudafricana a essere stata invitata alla Design Week
di Miami.
Showroom a Woodstock
I
l 2014 per Cape Town, la città più creativa
dell’Africa australe, selezionata dopo
Helsinki, Seoul e Torino, capitale mondiale
del design, è la prima città africana ad aver ricevuto l’onore
di rappresentare tutto il Sudafrica.
Quattro i temi-cardine di questa edizione: ‘African
Innovation. Global Conversation’; ‘Brindging the Divide’;
‘Today for Tomorrow’ e ‘Beautiful Spaces. Beautiful Things’.
Il design in tutte le sue declinazioni presente in questa
edizione è il mezzo per migliorare la vita quotidiana degli
oltre 3,6 milioni di abitanti che popolano la più dinamica
delle capitali africane, incastonata fra le pendici dell’altipiano
Table Mountain e la baia che si apre verso l’incredibile costa
frastagliata di Cape West.
Visitare Cape Town nel 2014 diventa quindi un’esperienza
unica. Grazie a un ricco calendario di festival, premiazioni,
esign
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Lampada da tavolo by Cara Judd e Heath Nash
Non manca la presenza di Design Indaba (maggio 2014),
attualmente impegnato nella creazione di una piattaforma
multidisciplinare per celebrare e promuovere le industrie
creative del paese.
In quest’ambito si inserisce il design esclusivo di Cape Best,
società creata nel 2009 da Ornella Colli e Andrea Garello
Cantoni, grandi estimatori e conoscitori del Sudafrica, che da
anni ricerca complementi d’arredo originali che racchiudono
un pezzo di storia e l’essenza stessa di Cape Town. Pezzi
capaci al contempo di adattarsi alla perfezione allo stile
metropolitano, per impreziosire con oggetti unici la propria
casa, come la lampada da tavolo di Cara Judd e Heath Nash
caratterizzata per il suo design pulito e formale in contrasto
al gioioso copri lampada a forma di fiore in plastica riciclata.
Cape Town è la prima tappa per conoscere questa parte
del continente africano che a vent’anni esatti dalla fine
dell’apartheid, nata sotto il segno di Nelson Mandela, si
mostra al mondo come nuova affascinante metropoli in
pieno fermento creativo.
Un appuntamento imperdibile per lasciarsi ispirare da tutti gli
eventi legati al design, alla moda e all’arte, che proseguiranno
per tutto il 2014.
Benvenuti a Cape Town, arrivederci in Sudafrica! ◆
www.wdccapetown2014.com;
www.southafrica.net;
www.sudafricaperte.it
design
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IL SALONE DEL MOBILE, MILANO
Star di questa prestigiosa vetrina
le linee minimali dell’arredo bagno e dello spazio cucina
di Vittoria di Venosa
Graff vasca da bagno
Milldue
design
È
tutto pronto per la 53a edizione del Salone
Internazionale del Mobile, che con le biennali
EuroCucina e il Salone Internazionale del
Bagno, oltre al SaloneSatellite, concentra su Milano, capitale
internazionale dell’arredo, tutte le novità del furniture design.
Ad animare i padiglioni di Fiera Milano di Rho-Pero, dall’8
al 13 aprile, quest’anno contribuisce anche un’importante
proposta culturale che vede coinvolti otto autorevoli nomi
dell’architettura internazionale. Si tratta dell’evento ‘Dove
vivono gli architetti’ che nel padiglione 9 della fiera le archistar Shigeru Ban, (Giappone); Mario Bellini, (Italia); David
Chipperfield, (Regno Unito); Massimiliano e Doriana Fuksas,
(Italia); Zaha Hadid (Iraq/Great Britain); Marcio Kogan,
(Brasile); Daniel Libeskind, (Polonia/Usa) e Bijoy Jain/Studio
Mumbai (India), apriranno le porte delle loro ‘abitazioni
private’ materializzando la loro poetica progettuale tra
architettura domestica e design.
Il Salone Internazionale del Mobile vanta, come ogni anno,
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Aran Cucine - collezione Bella
la presenza di consolidate aziende dell’arredo internazionale
quali Hästens, Kvadrat, Iittala, Tom Dixon e del settore
moda, come Ferré, Pierre Cardin, Ungaro, di fama mondiale,
rendendo ancora più ricca la già ampia offerta merceologica.
Anche a Eurocucina si vede il ritorno di grandi player del
settore che rispondono al nome di Alno, Dada, Doimo,
Schiffini e Valcucine, con proposte urban minimalist per
giovani coppie metropolitane.
Nella biennale dedicata al bagno, sempre più ampia e
completa, ospite nel padiglione ventidue, si possono
ammirare tutte le novità dell’arredo bagno: dagli accessori
alle cabine doccia, dagli impianti sauna alle vasche da bagno
e idromassaggio, dalla porcellana sanitaria alla rubinetteria
il visitatore è coinvolto da proposte sofisticate e trasparenze
luminose. Nel corso della settimana internazionale del Mobile
il design non è solo nei padiglioni di Fiera Rho-Pero ma in
diverse prestigiose location che animano la capitale rinomata
del design.
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Coro Sofa SABAL design Matteo Nunziati
design
Doimo Salotti divano Poesia
Da Doimo Salotti il divano Poesia è invece ideale per far
vivere in relax il corpo e la mente grazie alla sua linea
minimale e ai colori neutri, che lo rendono particolarmente
dedicato a chi ama le atmosfere sofisticate.
Dielle, altra azienda del Grupo Doimo, specializzata nella
Barovier&Toso Light E-motion
MDF Flow Collection by J.M. Massaud
produzione di camere per ragazzi propone ora Modus, un
sistema abitativo ad alto contenuto estetico che consente di
reinventare la zona notte. Modus by Dielle è un concept volto
a creare progetti fuori da schemi precostituiti che permette di
arredare con creatività e ingegno la camera da letto degli adulti.
Dielle div. Doimo - letto container
Calligaris - Gamera Chair rossa
Ecco ad esempio la collezione di Paola Lenti presente nei
Chiostri della Società Umanitaria in via Daverio, dove
il divano di Francesco Rota riflette, nei cromatismi e
nell’accurata scelta di materiale, l’essenza del ‘bello’.
I Chiostri sono quest’anno i protagonisti del percorso
del fuorisalone per i fashion & design-addict. Un altro
affascinante esempio è la suggestiva installazione luminosa
di Light E-Motion che Marcel Wenders, utilizzando i suoi
codici espressivi di gioco/poesia/fantasia, firma per Barovier
& Toso. Ospitata nella cornice dei Chiostri della Basilica
di San Sempliciano la rappresentazione scenografica di
lampadari atomizzati è assolutamente da vedere.
Al Salone nella divisione living ecco gli arredi più essenziali:
da MDF la seduta Flow declinata nella variante sedia e
poltroncina firmata da Jean-Marie Massaud, che non impone
dettami stilistici ma rimane sempre sé stessa come un oggetto
elegante e senza tempo. Anche la sedia Gamera ideata da
Pocci e Dondoli per Calligaris si materializza con uno stile
ricco di passione che la rende un classico della modernità o
moderna nella classicità.
Per il living ecco l’incredibile chaise-longue L3 della
collezione Coro che Sergio Brioschi ha disegnato puntando su
un tratto sempre pulito in un calibrato elemento geometrico
che coniuga moda e design.
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Gallotti Radice AKIM by Gabriele
Interiors by Aston Martin per Formitalia Luxury Group
Da Gallotti & Radice continua la raffinata ricerca di Gabriele
e Oscar Buratti sul tema design con l’impiego del vetro e dello
specchio come lo scultoreo tavolo Akim, caratterizzato dalla
base centrale a forma di ottagono in cui viene enfatizzato il
gioco di riflesso e di inaspettate profondità.
Più classico invece il divano avvolgente di Aston Martin
Interiors, prodotto e distribuito in esclusiva mondiale da
Formitalia Luxury Group, destinato a un pubblico designaddicted attraverso gli stessi codici che hanno costruito il
successo del prestigioso marchio automobilistico inglese.
Che dire invece della sorprendente libreria Oxymore che
Xavier Lust firma per DeCastelli che come un teorema di
geometria e grazie al suo gioco di cunei e incastri, crea in
modo fluido e intuitivo un vero poema poetico.
Arper design by Lievore Altherr Molina
DeCastelli Oximore by Xavier Lust
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Glass Idromassaggio linea Step
Nell’arredo bagno eleganza, leggerezza e soluzioni funzionali
sono le proposte delle varie aziende che rendono l’area bagno
un unico oggetto di desiderio. Ecco ad esempio la linea
minimalista di Glass Idromassaggio che può essere installata
anche in un living, così come la doccia sensoriale tailor-made
di Samo. E ancora le creazioni su misura di Planit, con la linea
purissima in corian del lavabo Wing e la raffinata collezione
della stanza da bagno di Milldue che si veste di materiali
preziosi e innovativi sottolineano il lusso contemporaneo.
E come sempre il salone si apre alla capitale del design con
eventi e performance che coinvolgono tutta la città come la
divertente installazione di Cracking Art che vede l’invasione
nei cortili e fossati del Castello Sforzesco di Milano delle
gioiose, pacifiche e benefiche rondini e uova di rondine
gigante multicolor che rallegreranno dal 10 aprile al 30
giugno 2014 la primavera milanese ◆
Planit lavabo Wing
Life in Touch
di Vittoria di Venosa
W
hirlpool, azienda leader nella produzione
e
commercializzazione
di
grandi
elettrodomestici, ha scelto Venezia per
presentare una showcooking svoltasi lo scorso febbraio
nell’ex Molino Stucky, storico e antico molino situato
alla Giudecca, ora Hilton Molino Stucky Hotel, le novità
dell’incasso 2014.
‘Life in Touch’ è l’emblema del tema della showcooking che
esprime alla perfezione l’ideale di vita moderno, vivace e
sempre ‘in con-tatto’.
Imponente e centrale, il tavolo rettangolare esprime socialità
e convivialità, contiene gli elementi vitali tipici della città
lagunare: una vasca d’acqua posta al centro favorisce
l’interazione tra i commensali ispirandosi all’acqua che
scorre nei canali veneziani mettendo in contatto persone
e luoghi diversi. Sul tavolo sono, inoltre, presenti otto
segnaposti realizzati in vetro di Murano, omaggio al tocco
creativo dei veneziani. Sempre in onore della città, sullo
sfondo della Showcooking è rappresentato un originale
canneto, realizzato attraverso coreografiche illuminazioni a
led. L’installazione è resa ancora più spettacolare attraverso
un gioco di luci e tonalità cromatiche gestite attraverso un
sistema tecnologico dedicato che rende ancora più piacevole
l’esperienza culinaria all’insegna della socializzazione.
La Showcooking di Whirlpool non è destinata a rimanere una
pura installazione: da maggio 2014 troverà una collocazione
permanente all’interno dell’Hilton Molino Stucky Venice
trasformandosi in un inedito palcoscenico culinario aperto al
pubblico in onore della storica Super Pasta Stucky, piatto alla
base della dieta mediterranea, la cui farina veniva prodotta
all’interno dell’antico mulino. Paradiso per tutti i ‘foodies’,
la Showcooking diventerà così simbolo del ‘social food’
all’insegna della condivisione e della passione per la cucina
della tradizione italiana ◆
design
www.whirlpool.it
O
#1
Marzo/Aprile 2014
N
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TI
Copia omaggio
EC
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LL
Numero 43 - Collection #1
O
•
C
Anno 6