O #1 Marzo/Aprile 2014 N • TI Copia omaggio EC • LL Numero 43 - Collection #1 O • C Anno 6 M A GA Z I N E SEI ANNI DI IMPEGNO EDITORIALE INSIDER MAGAZINE NASCE PER PORTARE UN NUOVO STILE DI FREEPRESS A ROMA, MILANO E NAPOLI Con INSIDER magazine abbiamo voluto realizzare una rivista mensile raffinata e di qualità. Oggi, al sesto anno dalla nostra prima uscita, siamo sempre più convinti di aver centrato l’obiettivo: un prodotto editoriale costruito su contenuti di interesse vario, con immagini selezionate attentamente e una confezione curata. Sappiamo che i nostri lettori apprezzano quello che abbiamo fatto fino ad oggi e li abbiamo ringraziati sempre cercando di migliorarci ad ogni nuovo numero. Per questo oggi decidiamo di raccontare il nostro percorso editoriale pubblicando alcuni “speciali” che raccolgono il meglio di quanto secondo noi è stato pubblicato in questi anni. In questa prima selezione troverete i viaggi più emozionanti, eccezionali resort, interviste a personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport, approfondimenti vari e tante piccole storie che raccontano curiosità e insoliti argomenti, a testimoniare la nostra volontà di presentarvi il mondo sotto una prospettiva diversa, mai banale. Abbiamo inoltre deciso di ripubblicare l’intervista a Piero e Raimondo D’Inzeo, leggenda dell’Equitazione Azzurra, recentemente scomparsi, per commemorarne la lunga e gloriosa carriera. Nel numero troverete anche una inedita Cover Story e due articoli sul Salone del Mobile di Milano 2014 e su Cape Town, capitale mondiale del design per l’anno in corso. Con la speranza di aver fatto cosa gradita e con la certezza di aver condiviso ancora una volta con tutti voi, cari lettori, la nostra visione del mondo, con questo prezioso numero da collezione. Mariela A. Gizzi e Raimondo Cappa Editori Editore Insider Srl • direttore editoriale Mariela A. Gizzi • redazione@insidermagazine.it • www. insidermagazine.it Editore Insider Srl Largo Messico, 15 - 00198 Roma +39 06 98353089 Presidente Angela Grimaldi angela.a.grimaldi@insidermagazine.it S O M A M R Z M O / A A R P I R I O L E Rapporti Istituzionali Alessandro La Rocca alessandrolarocca@insidermagazine.it Amministratore Delegato Raimondo Cappa amministrazione@insidermagazine.it direttore responsabile Francesca d’Aloja direzione@insidermagazine.it direttore editoriale Mariela A. Gizzi redazione@insidermagazine.it Cover Quel parco sull’Appennino Polyommatus icarus - ph Luciano Cremascoli coordinamento REDAZIONE Donatella Codonesu redazione2@insidermagazine.it 4 progetto grafico e impaginazione info@csgraphicdesign.it grafica@insidermagazine.it hanno collaborato Alessandra Vittoria Fanelli Alessandro Pini Angelo Troiani Antonella De Santis Aura Gnerucci Carlotta Miceli Picardi Francesco Mantica Laura Pagnini Maria Laura Perilli María Margarita Segarra Lagunes Marilisa Verti Monia innocenti Renata Biserni Roberto Volterri Vittoria di venosa stampa Printer Group Italia Srl www.printergroup.it resort resort travel 16 20 24 hotel brunelleschi duodo palace hotel bhutan DISTRIBUZIONE Clodia Service www.clodiaservice.it PROGETTAZIONE E SVILUPPO APP Paolo Carrazza www.cpcagency.it ANNO 6 - NUMERO 43 Insider Collection #1 Periodicità bimestrale marzo/aprile 2014 Registrazione presso il Tribunale di Roma al n. 58/2009 del 25/2/2009 Iscrizione del marchio presso l’Ufficio Italiano Marchi e Brevetti è vietata la riproduzione anche parziale di testi, grafica, immagini e spazi pubblicitari realizzati da: INSIDER Srl PER LA TUA PUBBLICITà info@insidermagazine.it travel art interview 28 44 50 praga e dintorni john ratner carlo verdone Questo periodico è associato all’Unione Stampa Periodica Italiana interview sailing Architecture 64 70 106 pero e raimondo d’inzeo il rancio di bordo www.insidermagazine.it kimbell art museum Thanks to HARRY’S BAR ROMA www.vanni.it www.caffetomeucci.it www.palombini.it www.barpompi.it www.ristoranteuclide.it www.ristorantedoney.it www.caffeportofino.it www.harrysbar.it www.aquaniene.it www.grancaffelacaffettiera.com www.mondiroma.it www.voy.it www.splendorparthenopes.com www.ilgianfornaio.com Madura viene da lontano, è il nome di una splendida isola dell’arcipelago malese, nella quale un imprenditore parigino ha trovato ispirazione per la creazione della sua azienda di prodotti tessili per la casa, conquistando da subito il pubblico francese e oggi anche quello internazionale. Da New York a Mosca, Panama, Ryad e Saint Tropez, solo per citare alcune delle oltre 40 boutique presenti in 10 paesi nel mondo, lo charme parigino e l’arte di decorare tipica francese approdano in Italia, grazie alla presenza della boutique Madura a Roma in Via Ugo Ojetti, 70 e alle prossime aperture nelle più prestigiose città italiane. La boutique, nella sua vasta esposizione, accoglie lo charme parisienne attraverso la collezione di tende di ogni foggia e trama, oltre 250 fantasie di cuscini, biancheria da letto e piccoli ricercati accessori per la casa. Proprio le tende, prodotto di punta del marchio Madura, hanno la peculiarità di essere “pret à poser”, grazie alla facilità del loro sistema di montaggio ed all’alto livello di rifinitura. Dalle parole del presidente di Madura Paris Gil Bourgeois: “Il Madura Design Studio, che si trova a Parigi sulle rive della Senna, è costantemente alla ricerca di proposte alternative ed uniche rispetto a quanto già offre il mercato in termini di tende, cuscini e biancheria da letto. Le nostre principali fonti di ispirazione sono i diversi luoghi e culture del mondo e le collezioni di moda.” Infinite fantasie e stili, tessuti semplici o molto lavorati dal lino alla seta, permettono ad ogni casa di rinnovarsi seguendo il passo ed i colori delle stagioni con abbinamenti che vanno dai più moderni e particolari a quelli più classici ed eleganti. Grazie a questo vasto assortimento di prodotti ed all’unicità del pret à poser, Madura riesce a soddisfare ogni tipologia di cliente. Madura - Via Ugo Ojetti 70, 00137 Roma - Tel. 06 69314946 Dal lunedì al sabato dalle 10 alle 19.30 - Domenica dalle 10 alle 19 www.madura.it Quel Parco sull’Appennino Sospesa fra monti e mare, l’area protetta vive da sempre di un felice connubio fra natura, storia e cultura. Anche enogastronomica di Donatella Codonesu - ph Luciano Cremascoli O rgoglio di appartenenza, moderne vocazioni economiche e antico senso della comunità: sono questi i pilastri su cui si fonda l’esistenza del Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano. Area naturale protetta, ma anche progetto territoriale e umano, che mira alla difesa di flora e fauna, nonché alla valorizzazione delle molte produzioni agroalimentari di alta qualità, legate alla tradizione contadina e all’utilizzo di antiche ricette, oggi spesso rielaborate in chiave moderna. Agriturismi, b&b, hotel, rifugi e piccoli alberghi sono i presidi umani sparsi su questo territorio verde, selvaggio Prati di Sara e Monte Cusna ma accogliente, dove è possibile dormire o degustare i molti prodotti di fama mondiale, come il farro I.G.P. della Garfagnana, il miele e la farina di castagna D.O.P. della Lunigiana - ingredienti base di un buon “castagnaccio” -, il Crudo di Parma e il Parmigiano Reggiano. Sono solo le punte di diamante fra i molti alimenti di riconosciuto valore nazionale ed europeo, i prodotti tradizionali e i Presidi Slow Food. Parallelamente alle caratteristiche naturalistiche, infatti, questa è da sempre terra di insediamenti umani, ricca di storia e cultura, dove si perpetuano gli antichi mestieri dei boscaioli, dei carbonai, dei “picciarìn”, dei pastori, dei “cavallari” e dei contadini. L’uomo ha vissuto qui fin da epoche molto antiche, costruendo borghi arroccati sui versanti boscosi, sfruttando la forza delle acque per alimentare le macine dei mulini, difendendosi nei castelli fortificati e nelle case torre. Sono ben 50 i borghi che conservano la memoria di una storia pluricentenaria raccontata nei versi dei poeti - primo fra tutti Dante - e testimoniata da una ventina di castelli ed altrettante tra chiese, pievi, cappelle, 15 mulini, 4 siti archeologici e 9 musei. Difficile quantificare il numero di turisti del Parco, che si estende su 2 Regioni, 4 Province e 16 Comuni, con paesi che tornano a popolarsi nella stagione estiva. Meta di un turismo ‘di ritorno’, è su quest’ultimo che si è basato un progetto strategico dall’ambizioso nome di ’Parco nel Mondo’. “Interessante per noi sono anche i numeri, se pur piccoli, ma incoraggianti di un certo flusso turistico legato ai progetti del Parco Nazionale come ‘Neve Natura e Cultura d’Appennino’ e ‘Autunno d’Appennino’ destinati ai giovani, alle famiglie e alle scuole. Molto graditi da un turismo straniero i progetti di Parco Bike come il percorso Parma-Lucca. Grande interesse anche per l’Alta Via promossa in modo sinergico dai territori coordinati dalla Regione Emilia Romagna” spiega Giuseppe Vignali, Direttore del Parco. 7 M AGA ZINE Fiume Secchia La popolazione locale vive il turismo come un’opportunità importante. Diversi operatori privati e cooperative di comunità in questi anni si sono impegnati nella ristrutturazione e nella gestione di Centri Visita, ostelli, rifugi e strutture ricettive. Grazie al loro impegno il numero di posti letto disponibili è aumentato, ma soprattutto è cresciuta la qualità delle strutture disponibili e del servizio offerto. “Il volano del turismo e la valorizzazione delle attività agro-silvo-pastorali rappresenta un vero piano di sviluppo socio economico per il Parco Nazionale che cerca di dare risposte ai suoi abitanti e ai visitatori che sempre in modo più consistente scoprono e apprezzano i nostri crinali”. Lago Verde Faggi al Ventasso Pietra di Bismantova Eppure il trend demografico della popolazione è un fattore critico, insieme alla grandissima fragilità idrogeologica soprattutto nel versante Toscano fortemente piovoso. “Per prevenire il degrado idrogeologico il Parco Nazionale si è fatto promotore di progetti volti a sostenere le attività agricole legate a doppio filo alla filiera corta e al turismo – afferma il Direttore -. Per quanto riguarda l’invecchiamento è evidente invece come sia difficile trovare soluzioni. In Appennino i giovani sono pochi e anche se alcuni di loro, negli ultimi anni, hanno scelto di investire sul loro territorio, siamo di fronte solo a piccolo episodi, incoraggianti, ma pur sempre limitati a scelte individuali”. Torrente Parma del Lago Santo Amanita muscaria Boletus edulis Lago Calamone Lagoni Torrente Parma di Badignana Faggeta Lago Calamone 12 13 M AGA ZINE M AGA ZINE Ciclidia phoebe Mia Canestrini e Luigi Molinari, zoologi del Wolf Apennine Center, Parco Nazionale dell’Appennino Tosco Emiliano. Ricerca tramite segnale VHF di un lupo dotato di collare GPS GSM e rara: Primula appenninica, Rododendro e Genzianella sono solo alcuni tra le piante e i fiori protetti la cui raccolta all’interno del territorio del Parco è vietata. Senza scordare che il parco è abitato da una variegata fauna che include esemplari protetti come lupo, aquila e falco pellegrino, oltre a cervi e caprioli. L’Appennino Tosco-Emiliano può insomma essere considerato da tutti i punti di vista una formidabile cerniera tra il Nord padano, la penisola e il mare di Luni. Ed è proprio questa sua cruciale posizione ad averne fatto da sempre un luogo unico e raro, dove uomo, natura e paesaggio coesistono felicemente ◆ www.parcoappennino.it Polyommatus eroides Zerynthia cassandra I suggestivi nomi di Lunigiana, Garfagnana e Bismantova delimitano un territorio su cui si sono incrociate le vie di personaggi fondamentali nella storia del nostro Paese, da Matilde di Canossa agli Este, e su cui hanno avuto luogo episodi cruciali di Risorgimento e Resistenza. Anche se per molti oggi sono l’aspetto paesaggistico e le molte possibilità di sport all’aria aperta ad avere la meglio sulle suggestioni storiche facendone una meta per quattro stagioni. Il crinale appenninico circondato da colline, la grande varietà di esposizioni e di quote (fino a 2.000 metri) hanno generato diversi ambienti, da quelli più freddi e nudi alle foreste, che arrivano a lambire i 1.700 metri di altitudine. Microclimi diversi, come le brughiere a mirtilli, i boschi di faggio e quercia, i castagneti, che ospitano flora spesso endemica Luciano Cremascoli Ha cominciato a lavorare come fotografo freelance nel 1988, con l’Agenzia Fotografica Overseas e Farabolafoto di Milano. Risiede alla Spezia. Suoi reportage sono stati pubblicati su riviste specializzate sul mare in tutte le sue declinazioni, natura e viaggi come: Yacht Digest, Arte Navale, Yacht Capital, Mondo Barca, Mondo Sommerso, Airone, Dove, Qui Touring, Aqua, Oggi, Uomo Mare Vogue, De Agostini Ediore, Peruzzo Ediitore, Scienza&Vita ecc. La sua attività lo porta a realizzare anche diversi servizi fotografici industriali per aziende quali: Le Navi Agenzia Marittima MSC, Fondazione Carispe, Camera di Commercio della Spezia, Rimorchiatori Riuniti Spezzini, LSCT ecc. Organizza periodicamente workshop dedicati alla fotografia di paesaggio, natura e macrofotografia, nonché corsi di fotografia. www.lucianocremascoli.com, www.photonaturatour.com relais con vista I l piccolo relais si trova comodamente inserito al sesto e settimo piano di un palazzo nella zona del Colle Oppio. Un ambiente intimo e raffinato che ospita sole sei stanze, tutte diverse, tutte luminose, eleganti, con pezzi di arredo antichi in armonia con gli spazi lineari e freschi. I dettagli curati, gli oggetti scelti con amore nelle camere come negli spazi comuni. Ogni ambiente racconta un frammento di storia diversa e gode di un affaccio differente sulla città: Colosseo, Campidoglio, Piazza Venezia, e tutto intorno Roma con la sua bellezza sospesa nel tempo. Un incanto di cui godere anche dalla bella terrazza, scenario ideale per la colazione o per un aperitivo al tramonto. Luxury in Rome Via delle Terme di Tito, 92 Tel. + 39 064820723 www.relaistermeditito.com 17 M AGA ZINE “Well, actually, next month I’m lecturing at a conference in Florence. I’ll be there a week without much to do”. “Is that an invitation?” “We’d be living in luxury. They’re giving me a room at the Brunelleschi”. Tratto da ‘The Da Vinci Code’ by Dan Brown C Hotel BRUNELLESCHI camera con vista per ospiti esigenti Citato nel famosissimo libro ‘Codice da Vinci’ dallo scrittore Dan Brown, che termina il suo best seller facendo invitare il protagonista Robert Langdon a soggiornare al Brunelleschi di Firenze, l’hotel è il luogo ideale per vivere pienamente il fascino della città del giglio ostruito attorno a una cilindrica Torre Bizantina del XII secolo e alla attigua Chiesa della Visitazione che nel corso dei secoli hanno subìto numerosi trasformazioni, l’hotel Brunelleschi, dopo diversi interventi di restauro che hanno inglobato le vestigia del passato, è ora un raffinato hotel quattro stelle situato nel cuore di Firenze creato per offrire un’impeccabile ospitalità unita alla magia di una delle città più belle del mondo. Già dal suo ingresso l’hotel Brunelleschi racconta la storia di Firenze attraverso i differenti stili che lo compongono: dalla hall ricavata dall’antica chiesa del periodo Carolingio all’impronta dell’Impero Romano (nei suoi sotterranei infatti dopo un’accurata ricerca archeologica è venuta alla luce un Calidarium delle terme romane) fino ai fasti Ottocenteschi del sontuoso salone Liberty arricchito da pregevoli vetrate originali decorate da Galileo Chini, discendente da una nota famiglia di artisti ceramisti fiorentini, e attualmente adibito a sala lettura e relax. L’hotel dispone attualmente di 96 camere perfettamente equipaggiate di cui 70 sono state completamente ristrutturate con un intervento stilistico ispirato alle abitazioni rinascimentali dell’epoca di Lorenzo il Magnifico e quelle Ottocentesche di Firenze Capitale, appena dopo l’Unità d’Italia. Il concept architettonico delle nuove camere e suite dell’hotel Brunelleschi è stato sviluppato dalla filosofia dello studio di architettura Benelli-Masi che ha valorizzato l’edificio da restaurare rispettandone la tipologia originale armonizzandola però alle esigenze di una clientela moderna in modo di offrirle un’ospitalità al passo con i tempi. Quindi camere insonorizzate, connessione Internet e Ipod, televisore a cristalli liquidi a 42”, sessanta canali satellitari, due telefoni multi linea, minibar, Nespresso coffee machine (solo nelle Junior e Executive suite), lussuosa biancheria da letto e in bagno e una cassaforte, tra l’altro, in grado di alloggiare un laptop con possibilità di ricarica elettrica. Tutto è stato pensato e disegnato per ottenere un look molto italiano e fiorentino, a partire dai timpani sopra le porte delle camere che si rifanno ad archetipi rinascimentali ripresi nell’Ottocento. Anche il design delle camere è stato sviluppato seguendo gli schemi decorativi tardo ottocenteschi, con pavimenti in parquet di rovere di Slavonia tagliato appositamente in misure non standard, pareti trattate con imbiancature e decorate con riquadri e stucchi, soffitti molto alti. I bagni, le cui porte sono rivestite da un disegno ricavato da un particolare della Cappella dei Pazzi progettata da Brunelleschi, hanno pareti rivestite in travertino mentre i pavimenti sono in marmorino con sezioni contrassegnate da tesserine di vetro argentato. 18 19 M AGA ZINE M AGA ZINE I letti delle nuove camere del Brunelleschi, ridisegnate con tocco sapiente dallo studio ‘tutto femminile’ Benelli-Masi, hanno delle testate alte in velluto, affiancate da specchio ai due lati, oppure un mezzo baldacchino a parete di un leggero tessuto trasparente che ricorda la cupola di Brunelleschi. I colori scelti sono tre nuance sobrie e riposanti: un prugna violaceo (il colore di Firenze), un verde leggero che ricorda gli ulivi e un tenue tortora. I tessuti, su proposta dallo studio BenelliMasi, sono stati prodotti a Como e tinti appositamente a Prato esclusivamente per l’hotel in quanto sul mercato non esistevano tessuti desiderati dalla committenza. Tende di un taffetà molto pesante incorniciano finestre dove la luce è schermata da veneziane di stecche di legno argentate, rigide ma preziose. Alcune delle camere inaugurate lo scorso anno hanno una vista spettacolare sulla cupola ‘ricamata’ del Brunelleschi e sul campanile di Giotto del Duomo di Firenze che dista solo 50 metri dall’hotel: una ‘camera con vista’ cara agli inglesi ma non solo! E se anche il controverso libro ma di successo planetario ‘Codice da Vinci’ scritto da Dan Brown da cui è stato tratto un altrettanto famoso film parla dell’hotel Brunelleschi di Firenze e la visita nei suoi sotterranei dove è stato ricavato il Museo della Pagliazza che racchiude i reperti archeologici (soprattutto delle ceramiche) e un calidarium di origine romana rinvenuti nel corso del restauro della Torre rendono ancora più magico il luogo, è certo che oggi l’ospite che soggiorna all’hotel si può sentire partecipe di una storia affascinante tuttora da raccontare ◆ www.hotelbrunelleschi.it AVF 20 21 M AGA ZINE M AGA ZINE Dettaglio soffitto affrescato camera rosa La suite DUODO PALACE HOTEL, DIMORA STORICA NEL CUORE DI VENEZIA Dettaglio dell'ingresso In una zona che ancora profuma delle magiche atmosfere veneziane, Un palazzetto del 1600 è stato completamente restaurato e trasformato in un hotel-boutique per offrire un’esclusiva ospitalità S di Alessandra Vittoria Fanelli ituato nelle immediate vicinanze di piazza San Marco, dalle Gallerie dell’Accademia e al Ponte di Rialto, fuori dal grande via-vai delle calle affollate che portano alla Basilica e al Palazzo Ducale, si trova il Duodo Palace Hotel, un resort completamente rinnovato ma che, grazie ad un intervento architettonico conservativo, ha mantenuto la sua specificità veneziana. L’hotel dispone di solo 38 camere tutte arredate in puro stile veneziano sottolineato da stucchi, dallo stemma dell’antica famiglia che lo abitava e da un originale pozzo di pietra arenaria situato nella lobby, che dà il benvenuto agli ospiti. Al Duodo Palace Hotel si può arrivare da due ingressi: uno si apre su una piccola calle (facilmente raggiungibile a piedi, a pochi passi dalla fermata San Marco del vaporetto delle linee 1 e 2); l’altro, con accesso diretto sul canale, sia con una romantica gondola sia con un più pratico water-taxi. Deluxe suite L’accoglienza è quella raffinata degli hotel più esclusivi: un addetto alla lobby e alla reception sono a disposizione degli ospiti per accoglierli e far sentire loro subito l’incanto della Serenissima. Infatti, proprio grazie alle poche ed esclusive camere, gli ospiti del Duodo Palace Hotel (che ricordiamo fa parte del circuito Dimore Storiche) vengono immediatamente ‘coccolati’ con un cordiale e personalizzato benvenuto in modo di dare loro la sensazione di essere in un luogo speciale. Le camere e le suite dell’ultimo piano (da cui si gode una magnifica vista che spazia sui campanili e i maggiori monumenti della città) sono tutte arredate con mobili del Settecento veneziano, da lampadari tipo chandelier e applique lavorati artisticamente in cristallo di Murano, da rivestimenti di preziosa seta dai colori tenui come il resort La reception rosa polvere, il verde smeraldo, il bianco gardenia, l’oro antico e decorati con gli stemmi nobili veneziani. Tutto è coordinato: i rivestimenti delle pareti, i tendaggi alle finestre e i copriletto. Anche le stanze da bagno sono state completamente ristrutturate e dotate di tutti gli accessori per l’accoglienza: ampi accappatoi, ciabattine in spugna, prodotti per la cura del corpo, particolarmente delicati e profumati, per il comfort più assoluto. L’hotel dispone anche di una sala per la colazione, posta su due livelli, che si apre sul canale e accompagna, con lo sciabordio delle acque mosse dalle gondole, la gustosa colazione mattutina: un ulteriore piccolo dettaglio per apprezzare l’ospitalità del Duodo Palace Hotel. 23-25 maggio 2014 Gondola all'ingresso del Duodo Palace Hotel La Sala del Pozzo Ingresso E ancora, nella Sala del Caminetto, attigua al bar si trova una sala di lettura, dove in un’atmosfera ovattata sottolineata dal colore rosso delle pareti, dal soffitto a cassettoni e illuminata da applique in vetro di Murano satinato, ci si può rilassare sfogliando quotidiani e riviste internazionali. Nella Sala del Pozzo invece, davanti all’autentico pozzo del 1600 si ha la sensazione di riascoltare le voci del passato e i pettegolezzi odierni. L’hotel è a anche il posto ideale per gli amanti della musica da camera e dell’opera lirica: si trova a soli 50 metri del rinato teatro La Fenice, luogo-simbolo di Venezia, dove un intenso programma musicale, invita a condividere grandi momenti di musica classica e operistica. Perché quindi non approfittare del Duodo Palace Hotel per organizzare una viaggio culturale di fine estate partendo dalla Mostra Internazionale di Architettura (29 agosto/21 novembre), dalla Mostra Internazionale del Cinema (1° settembre/11 settembre), dal Premio Campiello di letteratura che si tiene 4 settembre e last but not least della magnifica Regata Storica che si svolge la prima domenica di settembre. Un modo di vivere Venezia fuori dagli schemi e rilassarsi al Duodo Palace Hotel dove la realtà del luogo si fonde con l’immaginazione delle tele di Canaletto, il pittore che magnificamente ha immortalato la Serenissima ◆ - mostra mercato PATROCINI: SPONSOR TECNICI: Comune di Vaprio d’Adda Villa Castelbarco - Via per Concesa 4 - Vaprio D’Adda (Mi) INFO t. +39 049 93 01 038 - info@bucolicacountry.com - www.bucolicacountry.com 24 25 M AGA ZINE M AGA ZINE ph Lisa DeSimone Dzong a Punakha Bhutan: terra del Drago tonante di María Margarita Segarra Lagunes C on un ristretto e accidentato territorio, il Bhutan, Paese lontano e misterioso, sembra farsi spazio, non senza fatica, tra le piegature montuose dei due immensi colossi che lo circondano, la Cina e l’India. Popolato da circa un milione di abitanti, concentrati in poche cittadine o sparsi nelle campagne, il regno del Drago tonante guarda attento a Oriente e a Occidente, cercando di resistere alla spinta irrefrenabile della globalizzazione omologante che ha già coinvolto i suoi poderosi vicini. Protetto dalle alture dell’Himalaya, il Paese mantiene infatti un calibrato distacco dal mondo contemporaneo, sotto la guida del quinto re Jigme Khesar Namgyel Wangchuck, nato nel 1980 e incoronato nel 2006, che ha saputo, Haa Valley sulla strada inaugurata da suo padre, condurre il Paese in questo difficile processo di modernizzazione controllata, basata sull’originale principio di felicità interna lorda, che contrappone allo sviluppo incentrato esclusivamente sulla crescita economica, meccanismi mirati ad aumentare la felicità attraverso il miglioramento della qualità della vita, agendo e indirizzando le trasformazioni sullo sviluppo degli uomini, sul buon governo, sul progresso equilibrato ed equo, sulla conservazione del patrimonio culturale e sulla protezione dell’ambiente. Una scommessa così ambiziosa presuppone evidentemente scelte precise, in grado di equilibrare i vantaggi della modernità con i benefici della salvaguardia delle pratiche tradizionali, certamente più confacenti a quella specifica cultura e a quel particolare contesto geografico. L’introduzione del Buddismo sin dall’VIII secolo d.C., ad opera del Guru Rinpoche, significò infatti non solo il propagarsi di una religione ma, soprattutto, la diffusione di modi di vita, che attecchirono profondamente consolidando tradizioni e costumi. Pietanze, feste, vestiti, danze, colori e riti ma anche il rispetto della natura in tutte le sue manifestazioni contribuirono a formare il carattere e a rafforzare quell’identità della quale oggi i bhutanesi sono fieri. Quella natura, intatta nella maggior parte del territorio, è segnata da immense distese di boschi che invitano alla meditazione e all’isolamento mistico. In qualsiasi punto panoramico si dispiegano davanti agli occhi cinque, sei, sette piani di montagne che si allontanano e si perdono in Dochu La pass un orizzonte ondeggiante e nebbioso. Le silenziose cime innevate appaiono solcate da strettissime strade e da sentieri che collegano una valle all’altra e accompagnano le risaie, ricavate modellando pazientemente il terreno a formare terrazze incurvate che addolciscono i pendii scoscesi. Le costruzioni tradizionali si assomigliano tra di loro: a due o tre piani, hanno una struttura portante in legno e muri realizzati in terra cruda, intonacata e tinteggiata a calce. Tutti gli elementi lignei mostrano decorazioni colorate: fiori, motivi geometrici, segni augurali. Ma di questi è impossibile determinare l’età: laddove si è reso necessario, per un incendio o per il deperimento proprio dei materiali, una tradizione ininterrotta ha permesso di riprodurre quei motivi e quegli elementi costruttivi con le stesse tecniche e materiali e con la medesima qualità manuale, per consentire a quegli 26 27 M AGA ZINE M AGA ZINE ph explorehimalaya.com ph Retlaw Snellac Changlimithang Stadium ph explorehimalaya.com Il monastero Taktshang edifici, sacri e civili, di attraversare i secoli e giungere immutati fino ai giorni nostri. Alcuni dei più antichi monasteri buddisti sono emblematici della tenacia e dell’ostinazione dell’uomo per realizzare monumenti magnifici in luoghi inimmaginabili. Annidati nelle rocce, la loro costruzione resta un mistero della tecnica: sono ancora oggi irraggiungibili da qualsiasi veicolo e per visitarli è necessario percorrere per varie ore sentieri in salita a più di 3.000 metri di altitudine. Tra i più impressionanti è Taktshang, il monastero noto come il Nido della tigre; ma anche quello chiamato Tango, uno dei più importanti centri per lo studio del Buddismo. Nell’antica capitale estiva, Punakha, è celebre, nella confluenza di due fiumi, uno dei più bei Dzong: un complesso fortificato, nei cui cortili, animati dal canto dei monaci buddisti, si respira un’aria limpida e serena che parla di altri tempi, di altri modi di rapportarsi alla natura, per vivere in pace con essa e in armonia con gli altri uomini ◆ 28 PRAGA E DINTORNI: I NUOVI LEGGENDARI SITI UNESCO Arte all’aperto nei giardini di Lytomišl IN VIAGGIO CON L’UNESCO M AGA ZINE Attraverso le magiche atmosfere della Moravia e Boemia alla scoperta dei luoghi Patrimonio dell’Umanità di Alessandra Vittoria Fanelli - ph Carlo Montanari by Il Turista info T utti conoscono il fascino di Praga ma la magia dell’Unesco World Heritage & Cultural List si estende in tutta la Repubblica Ceca. E da Praga, città delle cento torri, dopo aver scoperto o ‘riscoperto’ il suo Castello così ricco di storia, la cattedrale di San Vito, perla dell’architettura gotica, attraversato il ponte di San Carlo, il più antico ponte della capitale ceca voluto da Carlo IV così maestoso con le sue trenta statue barocche installate nel XVII secolo e, ovviamente trascorso una serata a ‘U Pinkasû’, la più anticha birreria di Praga, nei giorni successivi è d’obbligo andare alla scoperta degli altri monumenti culturali Unesco distribuiti su tutto il territorio. I vari siti Patrimonio dell’Umanità della Repubblica Ceca contrassegnati da notevoli opere, sono il risultato di come questo piccolo Paese situato in posizione cruciale dell’Europa Centrale, ha sempre attirato nel corso dei secoli, personaggi eccellenti che in questo fecondo ambiente hanno trovato ispirazione per progettare chiese, monumenti, castelli e fortezze connotandoli di forti ‘segni’ architettonici. L’Unesco tour, lasciata Praga, prosegue a Est nel regno di Boemia verso il villaggio di Kutná Hora dove si trova un vero gioiello: la cattedrale di Santa Barbara, ex-monastero cistercense, ricco di fascino, costruito nel XIII secolo che si erge imponente sul borgo. Imperdibile la visita della cattedrale per il prezioso dettaglio delle volte a rete del Praga Colonna della Santissima Trinità a Olomouc 30 M AGA ZINE soffitto, delicate come un ricamo e per la magnifica Collegiata dei Gesuiti costruita nel 1626 da Domenico Orsi, architetto italiano già al servizio di questo ordine religioso. Un ampio e lungo ponte terrazzato, contrassegnato da dodici statue barocche di vari santi, collega maestosamente la cattedrale al collegio gesuita. Proseguendo per Lytomišl, città natale del grande compositore ceco Bedrˇick Smetana, famoso per aver composto il poema sinfonico Moldava, si ritrova ancora l’impronta italiana nelle arcate del grandioso castello rinascimentale del XVI secolo dedicato all’Arte e alla Musica dove al suo interno si trova ancora intatto un piccolo teatro. Il Castello di Lytomišl è circondato da un complesso di edifici perfettamente conservati che rappresentano le residenze dei nobili di allora e da un ampio e accurato giardino che ospita, disseminate nel prato inglese, una serie di esili statue di bronzo: praticamente un museo di arte contemporanea all’aperto. Al centro della Moravia centrale troviamo Olomouc, città arcivescovile iscritta Patrimonio dell’Unesco per il complesso del suo centro storico ma soprattutto per la Colonna della Santissima Trinità situata nella piazza principale della città. Basilica Santa Barbara Kutná Hora IN VIAGGIO CON L’UNESCO Veduta di cˇ eský Krumlov Questa colonna barocca riccamente decorata, alta 35 metri, è opera di Václav Render, architetto e scultore che finanziò di tasca propria la colonna ma che non vide mai ultimata poiché quando nel 1754 fu consacrata dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria, l’artista era deceduto da oltre vent’anni. Memorabili a Olomouc anche il Palazzo dell’Arcivescovado, la Cattedrale gotica di San Venceslao, il gruppo di fontane barocche con motivi mitologici del XVII e XVIII secolo e i grandiosi bastioni di cui la città è circondata. Da Olomouc si può rientrare a Praga con il treno ad alta velocità Pendolino (il noto treno di fabbricazione italiana) e proseguire alla scoperta di nuovi siti Unesco nel sud della Boemia meridionale, ricca regione caratterizzata da una natura eterogenea e da un’impressionante ricchezza di monumenti Patrimonio dell’Umanità. Seguendo le tracce storiche di Jobst di Moravia, re del Sacro Romano Impero all’inizio del XIV secolo, abile ed esperto uomo politico, troviamo uno dei più romantici villaggi della Moravia, il borgo di Holašovice dove il tempo sembra si sia fermato. Mirabile esempio di barocco rurale Holašovice si distingue per le belle fattorie, disposte intorno ad uno stagno Veduta della regione Moravia perfettamente conservato e riccamente decorate con uno stile architettonico particolare. Ogni anno a fine luglio si tiene una festa campestre con esposizione e vendita di prodotti alimentari e di artigianato locale. Infine ecco cˇ eský Krumlov, meraviglioso borgo medievale, incastrato tra i meandri del fiume Vltava (Moldavia in italiano) e dominato dalla torre variopinta del Castello e dal complesso della fortezza situata su un promontorio roccioso al di sopra della città. Centro culturale e turistico molto animato cˇ eský Krumlov è un gioiello architettonico intatto e ricco di eventi culturali. Da visitare assolutamente il prezioso Teatro Barocco riccamente decorato con maschere veneziane e il piccolo museo Egon Schiele Art Centrum, dedicato al grande pittore espressionista viennese che spesso soggiornava qui nella casa materna di cˇ eský Krumlov per vivere liberamente il suo stile bohemien. Un viaggio nei siti Unesco che certamente affascinerà molti traveller che cercano storia, natura e ovviamente, anche una buona pinta di birra. Na zdravi! ◆ Le casette del villaggio barocco di Holašovice INFO GUIDE Arrivare a Praga con Czech Airlines voli da Roma Fiumicino, Milano Malpensa e Bologna www.czech.it Dormire Hotel Neruda, Praga www.hotelneruda.cz Hotel Adria, Praga www.adria-prague.com Hotel Gemo, Olomouc www.hotel-gemo.cz/en Cenare con musica tradizionale U Pinkasû, Praga www.upinkasu.cz Dacˆický, Kutná Hora www.dacicky.com Moravian Restaurant, Olumouc www.moravskarestaurace.cz Mastal, cˇ eský Krumlov www.satlava.cz Per informazioni in Italia Ente Nazionale Ceco per il Turismo CzechTourism a Milano www.turismoceco.it Fontana con motivi mitologici piazza del municipio Olomouc 32 33 M AGA ZINE M AGA ZINE Ferrara, Palazzo dei Diamanti - ph Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea N el corso del XV secolo all’architettura e alla pianificazione della città furono assegnati importanti significati simbolici e politici; il cambiamento delle forme di governo, con il passaggio dal governo comunale allo sviluppo del regime della signoria, modificò il modo in cui queste si rappresentavano e proiettavano la loro immagine, portando, assieme alla riscoperta dell’antichità classica, alla progettazione di un nuovo tipo di quartiere residenziale urbano. La più rilevante pianificazione urbana di tutto il Quattrocento si trova a Ferrara, e fu commissionata nel 1492 dal duca Ercole I d’Este all’architetto Biagio Rossetti. Questo intervento, che prende il nome di Addizione Erculea, consistente in una espansione della città a nord, che occupa una superficie doppia di quella della città medievale e si sviluppava su due assi ortogonali, via dei Prioni che correva da est ad ovest e via degli Angeli, oggi corso Ercole I d’Este, che correva da nord a sud. Questa strada era larga sedici metri e prevedeva una suddivisione del traffico, destinando circa quattro metri ai pedoni. La strada divenne dunque un luogo di autoaffermazione, e il modo in cui gli edifici vi si rapportavano, un nuovo tema architettonico. Il piano prevedeva la realizzazione di quattro chiese ed otto palazzi, da realizzarsi sotto la supervisione dell’architetto ducale Biagio Rossetti, il più importante dei quali, noto per la sua particolare facciata, è Palazzo dei Diamanti, che sorge proprio nell’intersezione dei due assi principali. Accanto a questa pianificazione urbana fu portata avanti anche una politica di agevolazioni fiscali affinché i nuovi residenti edificassero nel distretto. Si venne così a creare una zona di abitazioni prestigiose, dislocate in un tessuto urbano svincolato dalle costrizioni spaziali della vecchia città medievale; corso della Giovecca rappresenta la linea di demarcazione tra l’Addizione Erculea e la vecchia città. Il palazzo di famiglia, nel quale si cristallizza la sintesi tra l’influsso del mondo classico ed il nuovo potere delle signorie, fu concepito come una sorta di Biblia Pauperum, in grado di trasmettere ai sudditi il prestigio della famiglia che vi dimorava. Il Palazzo dei Diamanti, iniziato nel 1493 su commissione di Sigismondo d’Este, presenta una delle facciate dalla decorazione più stravagante del tardo Quattrocento, interamente ricoperta da pietre tagliate a forma di diamante, simbolo degli Estensi, signori della città. architecture Ferrara, Palazzo dei Diamanti Ferrara, l’Addizione Erculea e il Palazzo dei Diamanti di Aura Gnerucci 34 35 M AGA ZINE M AGA ZINE STABILIMENTO INDUSTRIALE IN PERFETTO STATO DI MANUTENZIONE TRA POMEZIA E ARDEA VIA PONTINA VECCHIA - LOCALITÀ “CARONTI” SUPERFICIE LOTTO MQ. 5.300 • MQ. 870 UFFICI • MQ. 2.300 MAGAZZINO • MQ. 1.300 AREA LAVORAZIONI • MQ. 290 ARCHIVIO Arpie - ph Sailko Ferrara, Palazzo dei Diamanti - ph Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea Soluzione d'angolo - ph Sailko La facciata si articola su tre livelli, sui quali si impaginano ben 8.500 blocchi a diamante, il cui asse, come ci fa notare Zevi, ruota leggermente da un livello all’altro: la punta è leggermente rivolta verso l’alto nella fascia del basamento; orizzontale nella fascia centrale; leggermente orientata verso il basso nell’ultimo livello. Le finestre del piano terra poggiano su un delicato marcapiano lineare che separa il basamento dalla fascia centrale. Il mezzanino, di influenza bolognese, è caratterizzato da oculi ovali. Gli angoli dell’edificio, così come il portale principale, sono caratterizzati da elementi scultorei riccamente decorati con basi tronco-piramidali. Rossetti dà prova del suo eclettismo sia nell’edilizia religiosa che in quella civile utilizzando come punto di partenza il tradizionale tipo ferrarese, unendolo ad elementi formali bolognesi. Il palazzo fu acquistato dal Comune nel 1832. Attualmente al piano terreno sono situati gli spazi adibiti ad importanti esposizioni temporanee, organizzate da Ferrara Arte e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, mentre al primo piano l’edificio ospita la Pinacoteca Nazionale di Ferrara, che conserva una collezione storico-artistica di eccezionale valore ◆ altezza magazzino 6 mt - scaffalature metalliche con separatori per carichi da 350 Kg - ingresso merci con carraio indipendente dotato di bussola automatica e serrande veloci - locale infermeria - area mensa attrezzata - cablaggio strutturato - impianto antifurto - illuminazione esterna - area verde - impianto antincendio - appartamento per custode LOCAZIONE O VENDITA hd real estate srl Via Giuseppe Tuccimei, 1 00197 Roma T. 06. 80 69 00 37 T. 06. 80 83 626 F. 06. 80 84 884 salesoffice@hdre.it www.hdteampartners.it 36 37 M AGA ZINE M AGA ZINE Villa Lante il gioiello di bagnaia di Laura Pagnini V illa Lante si trova a Bagnaia, a soli quattro chilometri da Viterbo. Fu costruita nella seconda metà del Cinquecento per volere del cardinale Gambara, a ridosso di un bosco già riserva di caccia. Il cardinale Giovan Francesco Gambara, discendente da una nobile famiglia bresciana, grazie alla protezione dei Farnese (la madre era la vedova di Ranuccio Farnese), ottenne il titolo di Vescovo di Bagnaia nel 1566 e immediatamente progettò la realizzazione della sua villa richiedendo ai Farnese il servizio del loro architetto Vignola. La straordinaria particolarità di Villa Lante è insita nella predominanza del giardino rispetto all’opera architettonica. Un giardino che rientra nel circuito “Grandi Giardini Italiani” rappresentandone uno degli esempi più significativi. La residenza si sdoppia in due piccoli edifici gemelli (simmetrici rispetto all’asse centrale del giardino), di cui solo uno fu fatto costruire, nel 1566, dal cardinale Gambara. All’interno quest’ultimo conserva meravigliosi soffitti a cassettoni, stucchi e affreschi pregiati, alcuni raffiguranti Villa D’Este, il Palazzo Farnese di Caprarola, il Palazzo di Capodimonte e Villa Lante come era all’origine. L’altro edificio, chiamato Palazzina Montalto, per il nome del cardinale che lo fece costruire, venne terminato nel 1590. Esso riporta affreschi di vari autori e un importante soffitto a cassettoni decorato. L’architettura degli edifici risulta assai più elegante e semplice rispetto alle coeve villa d’Este e palazzo Farnese di Caprarola e risente del modello bramantesco del Belvedere da cui Vignola trasse evidentemente diretta ispirazione, riprendendo dalla precedente esperienza di Caprarola alcuni elementi del Casino del Barco, ma lasciando assai più spazio al giardino. 39 M AGA ZINE Fontana della Catena Tavola del Cardinale Soffitti affrescati Giardini all’italiana La fontana e Villa Gambara - ph Stefano Mascioli Le due palazzine simmetriche non interrompono il flusso d’acqua, elemento naturale e vero protagonista della Villa, che scende con impeto attraverso la Fontana della Catena, per andare a incanalarsi tra le chele di un gambero (emblema del Cardinale Gambara) come a costituire una catena d’acqua cristallina che va a sfociare nella Fontana dei Giganti, rappresentante i fiumi Tevere e Arno (ossia i buoni rapporti tra il papato di Roma e la famiglia Medici di Firenze) per poi calmarsi nella Fontana della Tavola (o Tavola del Cardinale) come a costituire, per un raffinato gioco di forme e trasparenze, una tavola con tovaglia cristallina. Da qui l’acqua riprende la sua corsa e va a zampillare nella Fontana dei Lumini, formando tante fiammelle di candele argentate, per poi finire nel quadrato della Fontana dei Mori. Quest’ultima è uno specchio d’acqua che eleganti balaustre suddividono in quattro bacini su cui galleggia una barca con un putto zampillante e al cui centro si trova un triplice cerchio di vasche culminanti nel gruppo dei quattro mori che reggono lo stemma di Papa Sisto V. La Fontana del Diluvio infine (o Monte della Pioggia) fa scendere le sue acque gorgogliando e scrosciando tra rocce, caverne e vegetazione ◆ 40 M AGA ZINE 41 M AGA ZINE 42 43 Narrano antiche cronache... M AGA ZINE M AGA ZINE “...Quand’ecco dai pollai sereno e nuovo il richiamo di Pasqua empie la terra con l’antica pia favola dell’ovo...” Pasqua S S imbolo di nascita, di vita e di resurrezione l’uovo ha da sempre affascinato non solo Guido Gozzano, sensibile e crepuscolare poeta di un tempo che fu, autore dei pochi versi con cui ci avventuriamo in un brevissimo viaggio alla ricerca delle origini del tradizionale ‘uovo di Pasqua’, ma esso ha affascinato anche ogni altro essere umano più sensibile alle tradizioni religiose e alle esoteriche simbologie a queste ultime legate. Omne vivum ex ovo dicevano i Romani che filosofeggiavano all’ombra di un Colosseo che stava lentamente vedendo la luce. Tutte le cose viventi provengono da un uovo: biologicamente parlando non sempre così accade, ma questo i Romani non lo sapevano ancora, né lo sapevano Greci ed Egiziani che ponevano delle uova nelle sepolture come simbolo di rinascita, di “vita eterna”… e l’antica pia favola dell’ovo... fino agli anni Cinquanta, era ancora abbastanza diffusa anche nel nostro Bel Paese… Risaliamo il “fiume del tempo” di molti, moltissimi secoli e vediamo come nella Germania di fine Ottocento le uova di Pasqua fungano anche da… carta d’identità! Un comune uovo pasquale viene prima tinto con un pigmento indelebile e poi il suo guscio viene inciso disegnando con un ago un simbolo e i succinti dati anagrafici di chi lo riceve. Altro che riconoscimento facciale e “sensore di riconoscimento pupillare” face detection, dell’ultratecnologico cellulare Nokia N8! Ma torniamo alle suggestive e ben più affascinanti tradizioni pasquali… di Roberto Volterri Narrano le nostre antiche cronache - qui sconfinanti in una improbabile leggenda metropolitana ambientata in Terra Santa! - che il mercante di uova conosciuto come Simone di Cirene, il “Cireneo” che aiutò il Cristo a portare la croce fin sulla sommità del Golgota, tornato a casa si accorgesse che tutto ciò che avevano deposto le sue galline fosse diventato miracolosamente variopinto. Potenza della fede! Però già dal II secolo d.C. la Chiesa inizia a celebrare sul serio la Resurrezione del Cristo con un simbolo diffusissimo e facilmente riconoscibile: l’uovo. I Vip dell’epoca iniziano a regalare uova ricoperte da polvere o foglia d’oro, mentre i contadini le colorano facendole bollire insieme a particolari foglie, legni o insetti - come la cocciniglia - in grado di conferire al simbolo pasquale una gradevole policromia. Tradizione questa che - con opportune varianti - almeno Alla fine del XIX secolo appaiono le più preziose uova di Pasqua mai prodotte, dovute all’orafo Peter Carl Fabergé, il quale nel 1883 riceve dallo Zar Alessandro II di Russia il compito di ideare e realizzare un dono speciale per sua moglie, la Zarina Maria Fodorovna. Il geniale orafo ci pensa un po’ e nel 1886 crea un semplice uovo pasquale lungo appena sette centimetri, con il guscio di smalto bianco senza alcuna decorazione. Ma l’interno lascia strabiliata la Zarina: apertolo, ai suoi occhi appare un tuorlo d’oro contenente a sua volta una piccola gallina - ovviamente d’oro! - con gli occhi di rubino. Incuriosita da tale meraviglia, la Zarina tocca il becco del minuscolo animale e… meraviglia delle meraviglie, esso contiene una perfetta replica della corona imperiale. Con tanto di diamanti, rubini e altre pietre preziose! Fabergè viene subito nominato “goielliere di Corte” e la consuetudine di inserire nelle uova di cioccolata una piccola sorpresa continua - molto più modestamente! - fino ai nostri giorni… ◆ 45 M AGA ZINE JOHN RATNER di Maria Laura Perilli e lavora. Ha realizzato mostre personali e collettive in gallerie nazionali ed estere e, tra le sue opere, sono da ricordare l’affresco per la Chiesa degli Odescalchi di Polo Laziale, i quadri per l’Excelsior Hotel Gallia di Milano, per il bar Hassler Hotel di Roma e la sala Ratner nel ristorante il Bolognese di Roma. Alcune sue opere sono presenti in importanti collezioni d’arte quali: BNL, Famiglia Getty, Bulgari, Ruspoli, Panza di Biumo ecc. Artista dotato di indubbie e rare capacità pittoriche riesce a trasferire sulla tela protagonisti grandi e piccoli del mondo animale e vegetale. La sua maestria è tale che bruchi, mosche, libellule, soffioni e i tanti altri soggetti da lui rappresentati sembrano, ad un primo impatto, un fermo immagine fotografico. L’artista, con minuscole pennellate di colore dal grande contrasto cromatico, riesce infatti a riprodurre anche dettagli che normalmente sfuggono all’occhio del comune osservatore. È un lavoro, quello di Ratner, che non può però essere ridotto a pure rappresentazioni iperrealitiche. Gran parte delle sue opere su fondo nero e con monumentali scritte latine in oro, tratte dal “De Rerum Natura” di Lucrezio, fanno trasparire infatti il suo sconfinato amore per la natura e l’indubbia trepidazione ecologica che lo accompagna. La sua ricerca si concentra su ciò che lega e accomuna indissolubilmente il mondo umano a quello animale e vegetale. È così che questo pittore con i suoi bruchi e i suoi fiori affronta, per esempio, il tema della metamorfosi. Sostiene quindi che il soffione: “ ….è l’universo…una specie di metamorfosi perché è un dente di Leone, piccolo fiore giallo, morto; il Soffione con il vento spargerà i suoi petali bianchi e tornerà ad essere un Dente di Leone”. L’incontro con Lucrezio, ecologo e biologo ante litteram, rafforza anche la metafora che Ratner traduce in pittura: quella filosofia di vita, purtroppo persa, capace di porre attenzione anche a ciò che è piccolo, quasi infinitesimale. Il suo messaggio artistico vuole sottolineare l’odierno disagio di una società che relega all’irrilevanza tutto ciò che dell’esistere è piccolo e marginale, solo perché incapace di apparire. Una produzione, dunque, quella di questo autore, che non solo stupisce ed emoziona per la sua qualità e raffinatezza, ma che spinge anche a momenti di intensa riflessione. art J ohn RATNER è nato a Barkeley in California (USA) nel 1934 e nel 1958 si è trasferito a Roma, dove attualmente vive 46 47 M AGA ZINE M AGA ZINE LUIS SERRANO NATURA SOSPESA Atmosfera di suggestioni ed allusioni di Maria Laura Perilli I l silenzio è la dimensione che connota, più di ogni altra, le opere del maestro spagnolo Luis Serrano avvicinandolo per certi versi alla solitudine introspettiva di Edward Hopper e maggiormente al nostro Valter Lazzaro. Per definire l’opera di Serrano nulla calza meglio di quanto già detto per l’artista italiano: ‘...dalle opere emerge un senso di realtà sospesa dove tutto è metafisicamente immoto ed allo stesso tempo in agitazione, specchio di emozioni e sensazioni che nascono dal di dentro. L’atmosfera è carica di suggestioni ed allusioni che invitano ad andare oltre l’orizzonte per trovare l’infinito silente che è proprio di tutti e di ognuno’. Forse per questo, nei lavori di Serrano, l’oggetto della rappresentazione non rimane mai circoscritto al campo geometrico della tela; il carico di pathos che li contraddistingue muove l’osservatore verso ‘l’oltre’, inducendolo a navigare in una spazialità priva di confini, di margini di contenimento. Le tematiche di ogni dipinto o disegno si snodano in una atmosfera dove forte è la percezione di assenza di gravità. Regna la leggerezza! Italo Calvino la definisce in quel testamento che sono le ‘Lezioni Americane’, uno dei codici di comportamento letterario del terzo millennio: fa riferimento, per meglio chiarire il concetto, al De Rerum Natura di Lucrezio, considerandolo ‘... la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo’. La leggerezza al di là di ogni previsione è ormai elemento caratterizzante il linguaggio di tanti architetti ed artisti: dal primo ed antesignano il maestro dell’architettura moderna Mies van der Rohe, noto per la sua affermazione ‘il meno è il più’, per arrivare a Renzo Piano e Fuksas. Serrano costruisce la sua idea di leggerezza individuando il senso del sospeso; una dimensione che l’artista rende con la capacità di captare il momento, di impedire il passaggio, di fermare l’istante. Operazione di estrema delicatezza mediante la quale riesce a permeare le sue iconografie con quel senso dell’eterno, della universalità poetica, nella quale è riscoperta la centralità dell’essere umano recuperato alla posizione dell’ascolto e della meditazione, oggi sempre più perduta in un infausto oblio. Trionfa la riscoperta del culto del silenzio, della musica silenziosa, del TACET. La profondità, lo spessore del contenuto del messaggio, trovano valido sostegno in un meccanismo della forma, reso con sapienza tecnica ed ampio uso della citazione, a testimonianza della cultura artistica del maestro spagnolo. Le lumeggiature caravaggesche scorrono sulle nature morte in sinergia con delle spatolature, impalpabili per la loro discrezione e precise al punto di ricondurre il disegno dell’impianto generale a sottintese rigorose geometrie tipiche della lezione di Cezanne. Riaffiora, inoltre, la memoria di Luis Egidio Melendèz De Rivera, autore di nature morte eseguite in Spagna durante il regno di Carlo III per il suo erede principe delle Asturie, Carlo IV, che ‘nella loro scrupolosa e puntigliosa precisione… sembrano rispecchiare l’ansia di scientificità del secolo dei Lumi’. Alcune dissolvenze, poi, caratteristiche dei paesaggi di Serrano, sottolineano sia ‘ricordi Turneriani’ che elementi di quel naturalismo informale unico nel nostro Ennio Morlotti. Anzi, proprio in alcuni paesaggi emerge, come in Morlotti, una tendenza ad un ‘impianto astratto-naturalistico, anche se di strutturazione cezanniana, risolto con una tecnica vigorosa, gestuale in cui pace, solitudine, orizzonti liberi annullano qualsiasi volontà descrittiva, facendo emergere, così, la delicata sensibilità che è a fondamento dello stato d’animo di un maestro dell’arte quale è Luis Serrano ◆ 48 M AGA ZINE All’Ippodromo di... Tarquinio Prisco “... L’aria del Paradiso è quella che soffia tra le orecchie ...s di un cavallo”... embra mormorino gli arabi quando al tramonto, nella solitudine del deserto, contemplano le criniere dei loro potenti kuhailan, di qualche scalpitante siglavy oppure di uno strano munigi, più veloce del vento che agita la sua criniera, che sibila tra le sue orecchie... Ma i Tyrsenoi - ma sì, i ‘nostri’ Etruschi! - non erano di certo da meno. Roma, più o meno verso la fine del VI secolo a.C., alle spalle di dove è oggi la bella chiesa di Santa Maria in Cosmedin. Lì, la chiesa non c’è ancora - dovremo attendere secoli e secoli per vederla sorgere sulle rovine della Statio Annonae, una sorta di ‘Caritas’ molto ante litteram - ma poco più in là, sulle rive del ‘biondo Tevere, forse c’è già il sorridente mascherone che oggi conosciamo come ‘Bocca della verità’. Non ‘terrorizza’ ancora né i creduli fanciulli... d’altri tempi, né la deliziosa Audrey Hepburn durante le sue ‘vacanze romane’ in compagnia di un aitante Gregory Peck. No, svolge solo mormorano le solite ‘malelingue’... - il non esaltante ruolo di ‘tombino’ della Cloaca Maxima voluta proprio dal quinto di quei famosi ‘sette Re di Roma’ che ai bei tempi delle scuole elementari ci hanno fatto penare un po’ per tenerli a mente nella giusta sequenza. Il buon Tarquinio Prisco appena salito al trono si occupa però anche dei circenses di quella che poi sarebbe stata chiamata Urbs aeterna: Roma. Come narra Tito Livio nel Libro I della sua Ab urbe condita - in cui espone tutta la storia della Città Eterna fin dalla sua fondazione, avvenuta a metà dell’VIII secolo a.C. - il Re etrusco “... scelto per campo il Circo Massimo e insediati Senatori e cavalieri nei palchi costruiti su un’armatura di dodici piedi d’altezza, istituì i giuochi romani, nei quali presentò cavalli da corsa e pugili che aveva fatto venire espressamente dall’Etruria...”. Non è ancora il tempo degli indimenticabili Tornese e Crevalcore, mentre le gloriosissime scuderie ‘Orsi Mangelli’, magari con l’invincibile Varenne, compariranno all’orizzonte decine di secoli più tardi, ma tale Aulo Cecina, erede di una delle famiglie più in vista dell’etrusca Volterra, fa correre le sue quadrighe al Circo Massimo e, per annunciare ai suoi altolocati amici il risultato delle corse, porta con sé centinaia di rondini che, liberate dopo essere state tinte del colore del vincitore, si dice tornassero ai loro nidi. O almeno così ci racconta Plinio il Vecchio nel Libro X della sua Naturalis historia, poco prima che la sua insaziabile curiosità scientifica lo facesse scomparire tra i lapilli della terribile eruzione del Vesuvio avvenuta nell’anno 79 della nostra Era. Forse è vero - tornando ai nostri amici con la criniera al vento - che “Fra la sella e la terra c’è la grazia di Dio”... ◆ Narrano antiche cronache... di Roberto Volterri La stanza diversa Via Felice Giordano, 2a • 00197 Roma • +39 06 87652072 • +39 339 3882506 • info@lastanzadiversa.it • s.galbo@lastanzadiversa.it NOI, RAGAZZI DI VIA GIULIA CARLO VERDONE E PIERLUIGI FERRARI: STORIA DI CINEMA E DI AMICIZIA di Carlotta Miceli Picardi S e noi italiani non fossimo così esterofili, cosa avrebbe Carlo Verdone da invidiare e Kevin Spacey?!… Mi sorprendo a fare questa considerazione non appena lo vedo arrivare nella sala Fellini, all’interno di Cinecittà, dimagrito ed elegantissimo in un look tra il “new Miamy-Vice”e il “clerical-chic”: abito scuro dal taglio perfetto, lupetto in seta nera, scarpa impeccabile… Mancano alcuni minuti all’inizio della conferenza stampa per la presentazione del suo ultimo film “Io, loro e Lara”, prodotto dalla Warner Bros. Pictures, e del quale è regista, oltre che interprete. Lo accompagna la sua partner cinematografica Laura Chiatti, che sfoggia un taglio e un colore di capelli del tutto inediti, nonché un giacchino verde-Irlanda, in pendant con gli occhi luminosi. Poco distante, l’amico e collaboratore di sempre, Pierluigi Ferrari, spiritoso, ma molto misurato. Nel corso dell’incontro con i giornalisti, Verdone illustra la trama di quella che definisce “una commedia teatrale”. Verrà girata tra Roma e il Kenya e, attraverso la AMKA onlus, che opera in Congo, contribuirà alla realizzazione di un ospedale, di una scuola e di alcuni pozzi di acqua potabile. Sarà sugli schermi l’8 gennaio 2010. L’attore affronta il complesso ruolo di un missionario italiano, confinato in una zona sperduta del centro Africa. Sciamano, sceriffo, ma soprattutto uomo solo in una realtà durissima, si troverà a dover gestire una profonda crisi di fede. I Superiori gli consiglieranno una pausa di riflessione nel proprio paese, con il supporto psicologico dei suoi cari, ma il ritorno sarà devastante: ad attenderlo non troverà il calore degli affetti, bensì la distrazione di un padre, impegnato a combattere la vecchiaia a colpi di hennè - Sergio Fiorentini - l’indifferenza di un fratello vizioso - Marco Giallini - e la schizofrenia di una guida turistica - Laura Chiatti - nelle vesti succinte di una novella Messalina che, in un montaggio parallelo, si inserirà a sorpresa nella storia. Del cast fanno parte, inoltre, Anna Bonaiuto, Angela Finocchiaro e Pierluigi Ferrari, nei panni dell’avvocato, tale Arnaldo Panbianco. Al termine dell’incontro visitiamo il teatro 8, dove Luigi Marchione ha curato magistralmente la ricostruzione di un appartamento del quartiere Prati. Via Crescenzio 16a! - esclamo entusiasta, percorrendo il corridoio in quadrelle di graniglia, sul quale si aprono le grandi stanze del set… Verdone approva, sorridendo. Intanto, un gruppo di colleghi della Rai e di Sky viene fermato appena in tempo, mentre si accingeva a scendere una splendida…ma finta scalinata d’epoca. Alle 15.45, dopo l’assalto al buffet e le ultime interviste, rimaniamo in pochi nel salone, accomodati sui bei divani di scena: Carlo Verdone, l’unico a non aver ancora toccato cibo, ma ugualmente disponibile e cortese, Pierluigi Ferrari, suo collaboratore e amico da circa mezzo secolo, Enrico Lucherini, storico Ufficio Stampa, che però si allontana per una telefonata e io… che non mi lascio certo sfuggire l’occasione di una rilassata esclusiva. dal Film Manuale d’amore 2 52 53 M AGA ZINE M AGA ZINE dal Film Grande grosso e... Carlo Verdone e Pierluigi Ferrari A che età vi siete conosciuti? Verdone: “Ci incontravamo nel corso delle passeggiatine pomeridiane sotto il portico di Lungotevere dei Vallati, già ai tempi dell’asilo”. Ferrari: “Io sono nato nel complesso del Palazzo Spada, a cento metri dall’abitazione di Carlo. La frequentazione più assidua è iniziata alle medie, quando mi sono ritrovato in classe suo fratello Luca”. Quali sono stati i luoghi della vostra adolescenza? Verdone: “Via Giulia e i suoi dintorni, quasi un piccolo paese, allora, dove ognuno sapeva tutto di tutti…C’era Gino er meccanico, detto “Martello d’oro“, Santino l’olivaro, Giggetto er carzolaro … mitici!”. Ferrari: “Il nostro punto di riferimento, però, era il bar - er bare - di Saverio, incredibile affabulatore con un lessico e degli atteggiamenti talmente ricchi di spunti teatrali, da non poter sfuggire ad un osservatore attento come Carlo…”. Italians Cosa facevate insieme, nelle ore libere dallo studio? Verdone: “Ogni giorno si teneva a casa mia un originale doposcuola: andavamo… in tournée per le camere, in particolar modo nello studio di mio padre - il professor Mario, ndr - tra pile di libri e pareti fitte fitte di quadri…” Ferrari: “Con dediche del tipo “A Mario, con stima, Pablo Picasso”, oppure Filippo De Pisis… e via dicendo… Io vivevo un doppio legame: da una parte c’era Luca con interessi quali l’opera lirica, la musica classica, la letteratura… Dall’altra Carlo, che rappresentava la trasgressione, l’esaltazione del grottesco, gli effetti speciali, il rock…”. Verdone, divertito: “Ti ricordi “Los chiodos”?” Ferrari: “Come no?! Il nostro duo chitarra-pianoforte! E il tuo assolo di batteria a finestre spalancate su via delle Zoccolette?!!...Io sdraiato per terra davanti a te in segno di rispetto… Che casino!”. Verdone: “Mia madre Rossana, il venerdì, convocava una sorta di assemblea nel corso della quale elencava meriti e misfatti… Era una guida attenta e giusta, ci apprezzava”. E le prime uscite serali? Verdone: “Ci riunivamo al bar di Saverio e lì… giù con dettagliate cronistorie di poveri cristi, con racconti di misteriose sparizioni nel Tevere. Ricordate ”Un sacco bello”?” Ferrari: “Carlo annotava mentalmente ogni dettaglio, poi improvvisava strepitosi spettacoli domestici, magari davanti a Franco Zeffirelli e Corrado Cagli, il pittore degli iperspazi”. Verdone: “Frequentavamo il Teatro Alberico, con annesso Alberichino, tempio del geniale Paolo Poli, dove, con poche lire, si potevano gustare primi piatti, insalate… battute di spirito!…” Ferrari: “Lì un noto critico teatrale di “Paese Sera” apprezzò molto una pirotecnica performance di Carlo e scrisse: ”È nato un nuovo Fregoli: si chiama Carlo Verdone”. Il nostro cortometraggio “Elegia Notturna” vinse un premio a Tokio, come miglior corto underground…” Ma le ragazze…?!! Ferrari: “Nel corso della settimana non c’era grande condivisione… Il sabato, invece, si ballavano i lenti nel magazzino di Fabio - un piacione da niente!!! - a vicolo Savelli o alle feste-open della signora Lucia, l’antiquaria. Ci fidanzavamo con l’aiuto dei Camaleonti e dei Procol Harum. Eravamo dei romantici, in fondo”. interview L’inizio del successo…? Verdone: “Ai tempi del liceo realizzammo dei minifilm in super8. Pierluigi curava l’aspetto tecnico, io quello artistico. Carlo, Pierluigi compare nei suoi film da “Bianco Rosso e Verdone” in poi, impersonando un capoufficio, un medico, un legale, ecc… mai un ingegnere, che è la sua vera professione… Verdone: “Non ci ho pensato!… Prima o poi…” E rivolge all’amico un allegro sguardo di sfida… C’è, tra loro, un assoluta complicità, un linguaggio esclusivo, che diviene quasi comunicazione in codice. Colgo, a tratti, quella sensibilità maschile così rara, che tanto piace a noi donne ◆ 54 55 M AGA ZINE M AGA ZINE La Vespa, da brutto “paperino” a moto più diffusa del mondo Breve storia e curiosità della moto che ha segnato intere generazioni e un pezzo di storia italiana La prima 'Vespa' prodotta dalla Piaggio - 1946 Vittorio Gassman Charlton Heston, Stephen Boyd - “Ben Hur” di Francesco Mantica Vespa Paperino Vespa 125 - 1954 Vespa militare modello TAP I n principio era Paperino. Non il famoso papero della Disney, ma un prototipo di moto con una carrozzeria portante che, alla lontana, richiamava la sagoma di un papero, con la copertura della ruota anteriore assimilabile a un becco. Il progetto però non convinceva il signor Piaggio, che aveva assegnato a Renzo Spolti il compito di progettare un mezzo economico che desse la possibilità a chi non poteva permettersi un’automobile di spostarsi liberamente. La realizzazione del prototipo fu così assegnata a Corradino D’Ascanio, che ricominciò il progetto da zero e a tempo di record realizzò il prototipo MP6. Prototipo approvato con lode, con tanto di esclamazione di Enrico Piaggio che alla sua vista esclamò: “Sembra una vespa!”. Era la nascita della moto più famosa di tutti i tempi: la Vespa. Il prototipo venne presentato in occasione della fiera di Milano, nell’aprile del 1946. Si chiamava Vespa 98 e non aveva il cavalletto, per cui bisognava appoggiarla su un fianco quando era ferma. Il successo fu rapido ed entusiasmante. Negli anni Vespa 125 - 1948 Vespa modello risciò successivi vennero varati numerosi modelli, alcuni anche particolarmente fantasiosi: dalla “Vespa modello risciò”, che faceva l’occhiolino ad uno dei tipici mezzi di trasporto cinesi e prevedeva che la moto trasportasse una carrozzina, alla “Vespa siluro”, capace, con la sua sagoma a forma di missile, di superare i 170 chilometri orari. Dalla “Vespa sidecar” alla “Vespa T.A.P.” del 1956, colorata in mimetico, provvista di lanciagranate e destinata come ovvio all’uso militare. La Vespa di oggi é una moto moderna in tutto e per tutto, con nuove motorizzazioni a 4 tempi e cambio automatico, oltre che con una linea che si adatta alle esigenze dei tempi. Ciò nonostante la nuova vespa mantiene ancora molti punti di contatto con la progenitrice: rimane infatti uno degli esempi di design industriale più riuscito al mondo. La sua linea, pur variando nel particolare, rimane inconfondibile nell’insieme: qualsiasi sia il modello, qualsiasi sia l’anno di produzione, le sue caratteristiche fondamentali rimangono impresse a tal punto che l’oggetto Vespa è identificabile in modo univoco. Parlare di Vespa é però, soprattutto, un modo per ricordare l’Italia del dopoguerra: il “mitico” mezzo della Piaggio resta nella storia soprattutto per essere stato il veicolo utilitario di molte famiglie italiane nel secondo dopoguerra, prima dell’avvento delle automobili, rappresentando, di fatto, il mezzo della prima motorizzazione “di massa” in Italia ◆ 56 57 M AGA ZINE M AGA ZINE stile ed eleganza made in Italy anche su strada La storia di Borile, costruttore di moto realizzate a mano pezzo dopo pezzo, è un esempio di come sia ancora viva la grande tradizione motoristica italiana, capace di realizzare modelli unici e di altissimo livello di Francesco Mantica va avanti da oltre vent’anni ed è stata consolidata alla fine del 2010 quando, dall’incontro tra lo stesso Umberto Borile e la Famiglia Bassi, è nata la Umberto Borile&Co. Srl., una nuova società che si pone l’obiettivo di portare avanti la grande tradizione delle motociclette Borile. È curioso - ma forse nemmeno così tanto - che, in epoca post-industriale, tornino di moda quei prodotti che sembravano essere stati cancellati dalla meccanizzazione e omologazione del meccanismo produttivo. Se prima a dominare era l’efficienza del rapporto costo-produzione, si assiste ora a un ritorno, lento ma costante, della tecnica, intesa come abilità nella realizzazione di prodotti unici ed esclusivi, che facciano sentire tali anche chi li possiede. I modelli proposti da Borile appartengono fuor di ogni discussione a questa categoria. Emblema della filosofia Borile è la B500 Ricky, una moto unica nel suo genere e completamente fatta a mano da Umberto in soli 20 esemplari in onore dei 20 anni del figlio Riccardo, scomparso prematuramente: una scrambler con telaio in carpental, parafanghi e serbatoio in alluminio e dalle finiture particolari: i materiali sono stati lasciati naturali, metallo puro per un mezzo che deve far provare delle emozioni anche quando lo si guarda. Altro modello particolarmente interessante è la Multiuso, nata nel 2006. Una motoretta agile, leggera e tutta in alluminio, dedicata agli appassionati di moto alpinismo, E ra il 1987 quando a Vò Euganeo, in provincia di Padova, nasceva dalla passione di Umberto Borile una piccola bottega artigianale che si proponeva di costruire moto manualmente, usando solo il miglior materiale in commercio. Quella di Borile non è la storia di un costruttore di moto tradizionale, ma di un vero e proprio artigiano che realizzava personalmente, nella sua piccola officina, ogni singolo pezzo. Le moto Borile erano effettivamente costruite a mano, una per una, ed anche esteticamente non erano paragonabili a nessun’altra. Negli anni la continua ricerca di stile, eleganza e perfezione ha raggiunto livelli altissimi, dando vita ad una capacità di realizzazione artigianale unica in Italia, capace di proporre moto che entrano immediatamente nella testa dell’appassionato, tutto metallo e niente fronzoli, meraviglie di suoni e cromatismi. Il successo è tale che questa ricerca ottima però anche per l’uso quotidiano e per lavori agroforestali, tanto da disporre di molteplici attacchi ai quali applicare ganci da traino, sidecar da carico, tagliaerba e così via. È una moto unica nel suo genere, semplice e adatta all’uso quotidiano, ma che si trasforma all’occorrenza anche in moto da lavoro. Un’altra proposta particolarmente interessante è la Bastard, una linea di telai in lega leggera 7020, sia stradali, sia fuoristrada che vengono prodotti e venduti completi di ruote, sospensioni, serbatoio, manubrio ecc. ma senza motore: chiunque potrà personalizzare la propria moto con il motore che preferisce. Ne sono due esempi i modelli Café e Country. In alternativa è disponibile la versione Bastard con il nuovo motore 450cc con termiche Ducati o con motore GM e cambio separato Norton. Per il futuro l’ottica è quella di perfezionare sempre più le proposte motoristiche, rimanendo però in linea con la tradizione motoristica del nostro Paese. Si spiega così il recente accordo siglato con Ducati per la fornitura dei gruppi termici. In questo senso è già in produzione la prima moto Borile costruita con il nuovo motore con termiche Ducati, la B450Scrambler. La storia delle motociclette Borile è pronta così a rinnovarsi, mantenendo però quello stile unico che ha reso famose in Italia e nel resto del mondo le nostre moto ◆ www.borile.it MORGAN: TRE RUOTE PER UN RITORNO AL PASSATO La casa automobilistica inglese ha presentato al Salone di Ginevra la “ThreeWheeler”, versione moderna dell’auto a tre ruote che, uscita per la prima volta nel 1909, divenne famosa per la presenza in film cult come Hollywood Party L motors a Morgan Motor, un atelier inglese specializzato in auto artigianali, ha appena presentato al Salone di Ginevra un’auto dal gusto retrò. A dire il vero parecchio retrò, visto che ha tre ruote ed è stata messa in produzione per la prima volta nel 1909. È la Morgan ThreeWheeler, chiaramente ispirata all’autovettura omonima protagonista di film cult come Hollywood Party del 1968 con Peter Sellers. Fino agli anni ‘30 la Morgan concentrò la sua produzione sui modelli a tre ruote, un mix tra automobile e motocicletta dotata di telaio tubolare abbinato a motori JAP di derivazione motociclistica. Dal 1909 ai primi Anni 50 le forme a sigaro del treruote Morgan, costruite intorno al telaio in legno e all’essenzialità, hanno accompagnato i desideri e le prime esperienze dei pionieri a motore che volevano e riuscivano a divertirsi con poco. Oggi, tornare a quella formula, in un mondo diverso e dove i costruttori di supercar lottano a colpi di cavalli e materiali tanto sofisticati quanto costosi, con ruote larghe come divani, sembra quasi irriverente. La 3 Wheeler del 2011 utilizza la stessa filosofia dell’antenata e in particolare il design, che riprende gli stessi canoni stilistici utilizzati sulla Threewheeler del 1909: il corpo vettura è a forma di missile e il propulsore in alluminio a vista è posizionato nell’avantreno del veicolo insieme alle due ruote anteriori. La coda rastremata, circondata da due scarichi in stile custom, termina con la terza ruota posteriore. L’abitacolo, scoperto e dotato di due piccoli parabrezza, è molto curato e lussuoso. I sedili sono rivestiti in pelle pregiata che ricopre anche una parte della plancia insieme ad alcuni dettagli realizzati in alluminio, mentre la strumentazione sportiva ha influenze aeronautiche. Sia ben chiaro: ritornare al passato, almeno in questo caso, non vuol dire proporre un’idea di auto del futuro. Più che di una automobile da strada, siamo di fronte in questo caso a un giocattolo per appassionati. Un’auto veramente ben fatta, con tanto di parabrezza pensato per proteggere da aria e moscerini pilota e passeggero (rigorosamente con occhiali e berretto) e dotato degli immancabili cerchi a raggi con pneumatici di sezione, tipici delle auto storiche. Morgan stima che la Threewheeler 2011 potrà raggiungere i 185 km/h e avrà una accelerazione da 0 a 100 km/h in circa 4,5 secondi. Un giocattolo dunque, veloce e divertente, ma anche piuttosto costoso: la Morgan 3 Wheeler sarà disponibile a partire da circa 29.000 euro, tasse escluse. Il prezzo si riferisce ovviamente alla versione base e può aumentare considerevolmente se si attinge alla lunga lista di personalizzazioni come le 6 livree speciali per la carrozzeria e i numerosi materiali pregiati per gli interni ◆ FM 60 61 M AGA ZINE M AGA ZINE BUGATTI, AUTO DA GUINNESS DEI PRIMATI È possibile che ci sia qualcuno disposto a spendere 40 milioni per un’automobile? E che ci sia un modello in vendita capace di raggiungere i 430 chilometri orari? La risposta ad entrambe le domande è sì. Ed entrambi i modelli portano un unico vessillo, che di nome fa Bugatti di Francesco Mantica U Bugatti Type 57SC Atlantic - ph supercars.net n’auto così storica, così importante e così cara che a comprarla non é stato un privato, bensì un museo. Stiamo parlando dell’auto più costosa del mondo. Il record è targato Bugatti: una Type 57SC Atlantic del 1936 è stata battuta all’asta in California per un prezzo che la casa d’aste Gooding and Company, specializzata nel settore, non ha comunicato con precisione limitandosi a dire che è compreso fra i 30 e i 40 milioni di dollari. Se si pensa che il record precedente era quello di una Ferrari Testa Rossa del ‘57, pagata 9,5 milioni, si può facilmente capire come questo sia il prezzo più alto mai pagato per una automobile. Numero di telaio 57347, il gioiellino apparteneva a Peter Williamsons, un luminare della neurologia con una grande passione per le auto d’epoca, e soprattutto per le Bugatti. Come da tradizione nulla è stato rivelato sull’acquirente, ma secondo il Wall Street Journal si tratterebbe di un museo, il Mullin Automotive Museum di Oxnard, in California. La Atlantic del ‘36 era stata acquistata dal professor Williamsons nel ‘71 da un collezionista californiano, Bob Oliver. Era stata fatta costruire nel ‘36 da Lord Philippe de Rotschild, ma Oliver aveva apportato diverse modifiche. Williamsons ha predisposto un restauro durato diversi anni, che ha riportato la vettura al suo aspetto originale. Un’operazione tutto sommato molto conveniente, visto che lui l’aveva pagata 59 mila dollari. Se l’auto più cara del mondo non poteva che essere un modello storico, è invece nella modernità più attuale che possiamo motors Bugatti Type 57SC Atlantic - ph supercars.net Bugatti Veyron trovare l’auto più veloce. Ancora una volta il record appartiene alla Bugatti ed il modello in questione é la Veyron 16.4 Super Sport. l’ultima versione della ipersportiva del gruppo Volkswagen ha battuto il record di velocità per automobili di serie, già detenuto dalla stessa Veyron, superando i 431 km/h sulla pista del centro prove di Ehra-Lessien, in Germania, lo scorso 26 giugno tra le ore 14 e le 15 alla presenza di rappresentanti del TÜV e del Guinness Book of Records. Missilistici i dati di accelerazione: i 100 km/h da fermo sono raggiunti in 2,5 secondi, i 200 km/h in 7,3 secondi e 15 secondi bastano per vedere la lancetta del tachimetro toccare la soglia dei 300. Più che piloti, per provarci bisogna essere astronauti. La Bugatti Veyron 16.4 Super Sport ha debuttato ufficialmente ad agosto al concorso di Eleganza di Pebble Beach in California e sarà costruita in soli 30 esemplari disponibili ad un prezzo (tasse escluse) di 1.434.000 euro, i primi 5 con l’esclusiva livrea in carbonio nudo e arancio dell’edizione World Record Edition. Non è un caso che la Bugatti abbia recentemente collezionato questi due record particolari: detenere nella sua “scuderia” l’auto più veloce e quella più costosa del mondo. Fin da quando venne fondata nel 1909 in Alsazia (a quei tempi territorio tedesco, ma per convenzione la casa automobilistica viene da sempre classificata tra quelle francesi essendo l’Alsazia ritornata alla Francia dopo il trattato di Versailles) dall’italiano Ettore Bugatti, infatti, questa casa automobilistica è nota per le sue vetture sportive ed estreme ma anche per modelli d’epoca lussuosi e particolari ◆ Bugatti Veyron 62 63 M AGA ZINE M AGA ZINE MINI, la storia che non finisce mai Ha già compiuto 50 anni, ma sembra ieri quando si vedeva questa piccola vettura sfrecciare nella nostra quotidianità Questo perché la MINI è sempre stata un’auto in bilico tra tradizione e modernità, un’auto per tutti ma anche esclusiva, storica ma con dentro i semi della modernità Storia e futuro di una macchina che ha sempre colto nel segno E gitto, 26 luglio 1956. Un mese dopo il ritiro delle truppe britanniche dalla zona del canale di Suez, Gamal Abd el-Nasser, presidente del paese che fu dei faraoni, decise la nazionalizzazione della società di gestione del canale bloccando lo stesso al traffico. Nonostante l’intervento militare successivo di inglesi e francesi, che detenevano la maggioranza del capitale della società, il canale rimase chiuso alcuni mesi. La conseguenza: i prezzi del greggio e della benzina salirono alle stelle, mentre l’Inghilterra propose di razionare la benzina a dieci galloni al mese. Il mercato delle automobili, allora in piena ascesa in tutti i settori, subì un cambio radicale: sembrava che fossero destinate a sopravvivere solo macchine dai consumi estremamente contenuti. Fine del 1956. Leonard Lord, capo della British Motor Corporation (BMC), non perse tempo. A fronte delle varie esigenze del mercato, assegnò al progettista Alexander Arnold Constantine Issigonis l’incarico di realizzare il più presto possibile «un’utilitaria come si deve». L’idea fu quella di realizzare una piccola quattro posti con sfruttamento ottimale dello spazio e buon confort di marcia, tecnicamente e otticamente differente da tutte le automobili esistenti e per tutte le tasche. In altre parole, una piccola vettura dai consumi ridotti secondo la tradizione del modello d’anteguerra Austin Seven e della leggendaria Morris Minor. Poiché a quei tempi la BMC - come anche molti altri costruttori di automobili - disponeva di risorse finanziarie limitate, Lord fece attenzione a mantenere bassi sia i costi di sviluppo che i tempi di realizzazione. Una condizione che la futura automobile dovette dunque soddisfare fu quella di usare un motore già in produzione. dunque inevitabile che la scelta cadesse sul motore cosiddetto di serie A. Questo motore, da 948 cc di cilindrata e usato anche nella Morris Minor, aveva una potenza di 37 CV. Era pur sempre più che sufficiente: una prima automobile sperimentale raggiunse una velocità di ben 150 chilometri all’ora, che però la piccola vettura non era capace di reggere: né le sospensioni, né i freni erano in grado si sopportare tali sollecitazioni. La potenza venne dunque ridotta a 34 CV riducendo la cilindrata a 848 ccm, soluzione che permetteva pur sempre una velocità di ben 120 km/h. Un particolare di spicco dell’automobile che si stava costruendo erano le graffature della lamiera rivolte all’esterno, fra i parafanghi e la carrozzeria. Questa soluzione era dettata da puri motivi economici: infatti i cordoni di saldatura sono molto meno costosi se eseguiti sul lato esterno. Un secondo particolare che lasciava riconoscere una produzione più economica erano le cerniere delle portiere, anch’esse situate all’esterno. Dovettero rispettare questa filosofia minimalistica anche gli interni: per l’apertura della portiera venne usato un Circuit de la Corniche 1968 Lassus Mini Cooper et Bernardo R8 Gordini semplice tirante mentre, davanti, il guidatore e il passeggero guardavano invece che su un cruscotto su una semplice e piccola mensola. Al suo centro era stato integrato come strumento centrale il tachimetro con contamiglia e indicatore del carburante. Al di sotto, due interruttori a bilancino per i tergicristalli e per le luci. Era nata così la MINI classic, un’automobile peso piuma di 600 chili che venne presentata ufficialmente il 26 agosto 1959. L’evento avvenne contemporaneamente in tutti i paesi in cui la BMC era rappresentata. Essa fu introdotta sul mercato dapprima in due varianti, come Morris Mini-Minor e come Austin Seven, che si differenziavano però solo dalla griglia del radiatore, dai colori della carrozzeria e dai copriruota. l’Austin veniva costruita a Birmingham, mentre la Morris a Oxford. Più tardi la BMC produsse entrambe le versioni in entrambe le sedi. Nel suo paese di origine, la MINI Classic costava 496 sterline inglesi ed era dunque la seconda vettura più economica sul mercato. Gli inizi non furono dei migliori. La concorrenza era pur sempre forte e nemmeno le dimensioni ridottissime e la facilità di guida facevano presa sul mercato. A un certo punto, però, gli ambienti mondani londinesi scoprirono finalmente questa versatile vettura, in capo a tutti Lord Snowdon, coniuge della principessa Margaret. Anche sua sorella, la Regina stessa, si fece convincere a fare un giro di prova con la MINI Classic proprio con Alec Issigonis in persona, cosa che donò alla piccola vettura quell’immagine che ancora le mancava. Anche negli Stati Uniti nacque una certa curiosità per questo pulcino europeo, che venne così accettato con benevolenza. Era l’inizio di un successo che sarebbe presto divenuto strepitoso. Se nel 1959 dalle linee di montaggio erano uscite 19.749 Austin Seven e Morris Mini-Minor, l’anno seguente furono già 116.677. Ben presto si cominciarono a comprendere le potenzialità della vettura e si proposero sul mercato delle variazioni: si partì all’inizio del 1961 con la Mini Pick-up a cui, sei mesi più tardi, seguirono due modelli sull’estremità contrapposta della scala, quella più nobile, la Wolseley Hornet e la Riley Elf, dotati di signorili radiatori diritti e alette a coda di rondine sulla parte posteriore della vettura. Nel secondo semestre seguì poi una variante che diede vita come nessun’altra alla leggenda della MINI Classic: la Cooper. Cooper si rivolse a Issigonis, di cui era buon amico, poco dopo l’uscita della prima versione dell’auto con la proposta di sviluppare dalla MINI Classic una piccola GT. George Harriman, portatosi nel frattempo al timone della BMC, si lasciò convincere dall’idea di Cooper e accettò di costruire una piccola serie di 1.000 Mini Cooper, al fine di poter analizzare la reazione del pubblico. Le reazioni a questa vettura, che venne lanciata sul mercato nel settembre del 1961, furono euforiche, tanto che due anni dopo prese vita una versione ancora più potente: la MINI Cooper S. Nel 1969 la Mini diventò una marca a sé stante. La Mini classica venne ulteriormente perfezionata, mentre la versione station wagon prese la denominazione di Mini Clubman. La versione più potente era la Mini Cooper S 1.3, con una potenza di 76 cavalli. Negli anni ‘80, la Mini Clubman era ormai uscita di produzione e tutta la gamma venne riorganizzata. La Mini 1.0 Ed era alla base della gamma, seguita dalla Mini HLE. Negli anni ‘90 si susseguirono ulteriori modifiche, che coinvolsero anche la gamma della Mini Cabrio. Nel 1997, quando ormai l’entusiasmo per la piccola Mini era del tutto scemato, la Bmw rilevò il marchio e continuò a produrla con numeri ridotti. Fino al 2000, quando venne presentata la nuova MINI. La Nuova Mini in realtà era un prodotto del tutto nuovo. Pick up Innocenti Mini Cooper Mk3 Mini One Con dimensioni maggiorate, ma pur sempre inferiori rispetto a quelle della maggior parte delle berline compatte, si presentava con una linea moderna e retrò al contempo, sia esternamente che internamente. Il successo è stato travolgente e la vettura, disponibile nelle versioni berlina e coupé, one e cooper, è stata costantemente rinnovata fino ai giorni nostri. Al Los Angeles Auto Show è stata presentata poi nel 2008 un’ultimissima versione, questa volta elettrica. La MINI E ha debuttato come una “due posti”: lo spazio dei passeggeri posteriori è stato infatti riservato all’accumulatore. Trattasi di un progetto pilota, ma chissà che un giorno non possa essere commercializzato. Nell’attesa sono in progettazione nuovi modelli e nuovi restyling del classico modello a benzina. Pare proprio che la storia della Mini non sia ancora terminata ◆ motors FM 64 65 M AGA ZINE M AGA ZINE Raimondo D´Inzeo su Regata Olimpiadi di Completo Londra 1948 Piero D´Inzeo PIERO E RAIMONDO D’INZEO QUANDO eravamo piccoli e PASSAVA LA MILLE MIGLIA P di Carlotta Miceli Picardi ercorro un lungo viale con i finestrini aperti, tra l’odore del fieno e dell’erba appena tagliata. Rallento per lasciar passare alcuni cavalli, costeggiando un prato che sembra dipinto insieme alla casina bianca, affacciata su quella incredibile distesa verde smeraldo. Lascio l’automobile nel piazzale, poi attraverso un arco di gelsomini in fiore ed un grande gazebo, le cui tende candide si sollevano ritmicamente seguendo il vento fresco, come abiti leggeri di danzatrici. Al di là di un varco tra le siepi, una figura femminile in controluce rincorre il cappello in volo verso la piscina che, in mezzo alle foglie, diventa una pennellata di smalto turchese. Un giovane in livrea azzurra mi fa accomodare nel salotto accogliente, con i divani color cuoio disposti intorno al camino e sotto le finestre, poi si affretta a stendere la tovaglia sul tavolo tondo, nella stanza attigua. Per un attimo ho l’impressione di trovarmi in visita a ‘Casa Howard’, con le finestre spalancate sulle tinte della campagna inglese. Ma il Tamigi è lontano... il Tevere a un passo: mi trovo al Roma Polo Club, non distante dalla fonte dell’Acqua Acetosa. I due gentiluomini che mi accolgono con un baciamano sono storia e leggenda dell’equitazione italiana: si tratta dei fratelli Piero e Raimondo D’Inzeo, rispettivamente argento e oro alle Olimpiadi del 1960, le ultime non contaminate dallo show-business. Trionfatori assoluti al Concorso Internazionale di Salto ad Ostacoli di Piazza di Siena, percorso tra i più complessi al mondo, dove l’uno ha ottenuto 64 vittorie e l’altro 54, appartengono entrambi all’Associazione Medaglie d’Oro al Valore Atletico. Piero D’Inzeo è inoltre l’unico cavaliere ad aver conquistato per tre volte la King George V Golden Cup. Con notevole senso dell’umorismo, si prestano ad affrontare un’intervista doppia in puro stile ‘Iene’, perché “le novità aiutano a non invecchiare”. Allora,... presentatevi! - esordisco, scherzosamente perentoria e subito stanno al gioco: “Generale Piero D’Inzeo, Cavalleria. Nato nella capitale il 4 marzo 1923. Ottantasette anni, dunque. Segno zodiacale: Pesci”. “Colonnello Raimondo D’Inzeo, Carabinieri. Nato a Poggio Mirteto il 2 febbraio 1925, Acquario”. Tra voi, soltanto ventitre mesi di differenza: un po’ di gelosia nell’infanzia? Piero: “Assolutamente no!” Raimondo: “Anche se lui mi ripeteva spesso ’Tu, poverino, sei stato trovato sotto un ponte...’ ” - si scambiano uno sguardo divertito -. Dove avete studiato? Piero: “Prima al Convitto Nazionale, in seguito ho preferito cambiare”. Raimondo: “Io, sempre al Convitto”. distinguevano talenti come Formigli, Lequio, Alvisi: i miei idoli”. Raimondo: “Papà inforcava la bicicletta e noi, in calzoni corti, gli correvamo accanto, ai lati del manubrio, fino a Villa Borghese”. Fu lui ad accorgersi che possedevate delle qualità non comuni? Piero: “Sì e decise di trovare un luogo per farci allenare: scoprì la fornace sul colle della Farnesina”. Raimondo: “Pensò che, imbottendo le colonne con dei materassi, sarebbe divenuto uno spazio perfetto. Infatti..”. Poi, sceglieste l’esercito... Raimondo: “E tutto divenne semplice”. Piero: “Oggi l’equitazione si rivolge alle persone abbienti, che possono permettersi di montare animali di pregio. Noi avevamo a disposizione i cavalli dello squadrone. Un’ottima opportunità, comunque”. interview A che età avete iniziato a cavalcare? Piero: “A dieci anni”. Raimondo: “A otto”. Qualcuno vi ha trasmesso questa passione? Piero: “Nostro padre Costante. Abbiamo imparato sui pony dell’Istituto Equestre mussoliniano. Intanto a Piazza di Siena si Ci sono stati periodi bui nelle vostre splendide carriere? Raimondo: “Durante la guerra fu terribile. Dovevamo nasconderci. Vivevamo la paura, la precarietà, la necessità della fuga. I nostri cavalli venivano condotti ogni sera in una diversa scuderia, attraverso le strade della città, cambiando continuamente itinerario, perché i tedeschi non se ne impadronissero”. 67 Raimondo D´Inzeo Al Carosello dei Carabinieri - Arena Milano 1975 Dicembre 1988 Bruxelles Premiazione della Regina Fabiola di Belgio Piero: “I renitenti alla leva erano ricercati. Io mi ero rifugiato nel retrobottega del noto cappellaio Radiconcini. Annesso al giardino di Palazzo Torlonia, godeva della extraterritorialità quale residenza dell’Infanta di Spagna, paese non belligerante”. Raimondo: “Io, invece, avevo ricevuto ospitalità dalla famiglia Finzi, nell’agro romano”. Il conflitto ebbe fine e, dal ’48 in poi, la vostra divenne una coppia praticamente imbattibile. Momenti indimenticabili? Piero: “Le soddisfazioni della squadra di polo da me selezionata, che in India non ebbe rivali per ben 78 volte”. Raimondo: “La scelta di Merano, il baio dell’allevamento Morese dal temperamento davvero particolare, sfuggito per fortuna, all’attenzione di Piero. Con lui ho collezionato innumerevoli sgroppate, ma anche ventidue successi nello CSIO ed il titolo di Campione del Mondo ad Aquisgrana, nel 56, che ottenni nuovamente quattro anni dopo. In sella a Gowan Girl, però. Compagno di gara nella vittoria olimpica fu invece il sauro Posillipo”. Raccontatemi un’emozione assolutamente condivisa. Piero: “La nostra corsa notturna per assistere nei pressi di Ponte Milvio al passaggio della Mille Miglia, che tornava verso Brescia da cui era partita, dopo un tragitto di circa 1600 Km. Si trattava di un avvenimento di enorme partecipazione popolare”. Raimondo: “Eravamo lì, col cuore in gola e a bocca aperta, ad ascoltare il rombo dei motori, a riconoscere le sagome delle automobili dietro le luci dei fari. Uno scenario talmente suggestivo, una magia, per dei ragazzi...!” Quali altri sport vi entusiasmano? Piero: “Il calcio e la vela. Sono romanista e... navigatore solitario!” Raimondo: “Io, juventino e amante interview M AGA ZINE Piero D'Inzeo Concorso Ippico Internazionale di Nizza - mt. 2.20 del fuoribordo. Non avrei il coraggio di avventurarmi con lui. Sua moglie Maria Angela lo segue, poi si sfoga con la mia!” Chi è il meno trasgressivo tra voi? Piero: “Senza dubbio Raimondo... Vede, io sono casual, anticonvenzionale - mi dice con una luce provocatoria negli occhi vivissimi, - mentre lui non può fare a meno della giacca! Per me conta quello che c’è dentro ad ‘un bel vestito’. Mi piace la Roma, per esempio, perché può essere ‘borgata’, Testaccio e Garbatella, nella propria essenza, ma anche ineguagliabile classe ed eleganza nel tocco di palla di un Totti o di un De Rossi!” Raimondo, serafico: “Preferisco lo ‘stile Juventus’, la riservatezza di Del Piero... Apprezzo la sobrietà e il rigore. L’organizzazione che non lascia nulla al caso. Anche la fantasia va tenuta in ordine”. Vi accade di essere d’accordo? - li stuzzico Praticamente all’unisono: “Davanti a un buon piatto di pastasciutta!” Ho ascoltato affascinata questi due straordinari personaggi, così giovani nello spirito, con un’intatta abitudine alla competizione persino nella dialettica. Campioni tanto differenti e tanto simili nel racconto di un’ epoca e di un’avventura forse irripetibile. Ma soprattutto, tanto vicini nella risposta che concluderà il nostro incontro. Roma Polo Club - I fratelli D'Inzeo ricevono la targa AMOVA per i 50 anni dalle Olimpiadi di Roma '60 Da dx: Presidente Aldo d'Andria, Michele Maffei, Piero e Raimondo D'Inzeo, Raimondo Cappa Cosa fa dell’equitazione una disciplina speciale? Piero: “Il fatto che un cavallo non è una racchetta, né una sciabola o una moto, ma una creatura con un suo carattere che, se lo vuoi e lo meriti, può assecondarti fino in fondo..”. Raimondo: “... Respira con te, soffre con te, vince con te” ◆ 69 M AGA ZINE Il cavallo a due ruote Pierre de Lorillard IV S i ‘mormora’ - a ragione, si direbbe... - che l’abbia inventata Leonardo. Ma, si sa, il genio vinciano è quasi come i Cinesi: ha inventato quasi tutto ciò che ai suoi tempi nessun altro è in grado di concepire. Leonardo o altro genio, la bicicletta - il ‘cavallo a due ruote’ - è entrato man mano nell’uso comune di uomini e donne amanti dell’ebbrezza della ‘velocità’ e del progresso. Forse prendendo spunto dall’idea leonardesca, qualche isolato inventore francese, seguito ‘a ruota’ - è il caso di dirlo! - da colleghi tedeschi e scozzesi ha l’idea di trasmettere il moto dai denti della demoltiplica al mozzo dell’altra ruota. Idea, a dire il vero, preceduta da un curioso ‘biciclo’ dotato di uno spropositato ‘cerchione’ anteriore, seguito da una sorta di minimalista rotella posteriore. Non comuni doti di coraggio, di abnegazione e uno sviluppato masochismo sono necessari per rimanere in sella e pedalare a folle velocità! Piano piano, si può dire quasi ‘strisciando’ sull’asfalto di strade che di asfalto ne hanno visto pochissimo, la bicicletta prende il posto del cavallo, almeno per i piccoli spostamenti. Inoltre - è non è poco! - quando è ferma, non mangia il fieno, non sporca le strade e con un po’ di buona volontà, solidi polpacci e tanto, ma tanto sacrificio raggiunge l’incredibile ‘velocità’ di ben 20 chilometri orari contro i dieci - va bene, diciamo dodici! - chilometri all’ora di un qualsiasi ronzino. Insomma, quasi un... jet in cui il manubrio sostituisce le redini e ci si può anche divertire a suonare la tromba, premendo una nera pera tondeggiante di gomma, che sostituisce il suono dei lacchè che precedono le carrozze nobiliari. Sport a parte, il ‘cavallo a due ruote’ si diffonde subito in ogni ambiente, anche in quello contadino dove, assolti a dovere i compiti di trasportare al mercato o nei campi il bracciante, viene amorevolmente posto nella stalla insieme al badile, alla carriola, ai vari ‘ferri del mestiere’. Un cavallo avrebbe ben diverse esigenze e richiederebbe cure quotidiane che quel curioso ‘pezzo di ferro’ non esige! Gli abitanti della ‘perfida Albione’ - ebbene sì, gli Inglesi inventano subito degli accessori che trasformano l’antico cavaliere in un modernissimo ciclista. Nasce così il caratteristico berretto con la visiera di cartone, seguito da un’apposita maglietta di ‘Jersey’ abbellita da bretelle d’ordinanza, mentre qualcuno produce degli occhialoni protetti lateralmente da una guarnizione in gomma e delle apposite ‘mollette’ che hanno il compito di non far attorcigliare i lembi dei calzoni o delle gonne! - con i raggi delle ruote o gli ingranaggi della ‘catena’. Ma le nuove ‘amazzoni’ debbono ancora fare i conti con il moralismo imperversante... ‘Lussuriosamente’ aggrappate al manubrio, le chiome al vento, quasi ‘Menadi’ inebriate dalla folle velocità, le gentili dame dei primi del Novecento sono il quotidiano pane delle onnipresenti, maliziose opinioniste di un ‘gossip’ ante litteram. Perciò anche i cronisti dell’epoca debbono ‘dribblare’ con il lessico dell’idioma gentile e definiscono ‘soprassella’ la parte anatomica delle ‘sfrontate’ pulzelle che osano ‘cavalcare’ il neonato meccanico destriero. Ma ai maschietti non va certo meglio: nel 1909 il quasi misconosciuto Luigi Ganna, fresco vincitore del primo Giro d’Italia, al cronista che gli chiede quali siano le sue prime impressioni dopo quella eccezionale performance, risponde candidamente, senza inutili ed imperscrutabili perifrasi, “Me brusa tanto el cul!”◆ RV Narrano antiche cronache... Un elegantissimo abito da sera... nato per caso! “L a moda è una forma di bruttezza così intollerabile che siamo costretti a cambiarla ogni sei mesi.” Parola di Oscar Wilde! Ma poiché siamo in vena di autorevoli citazioni, non possiamo dimenticare come la grande Coco Chanel ebbe modo di chiosare che “...La moda passa, lo stile resta!”. Però, lo stile e la moda sono spesso dettati anche da inconsueti ‘colpi di genio’ di qualcuno che ama andare molto contro corrente come, ad esempio, avviene molto tempo fa in una cittadina a sessanta chilometri da Manhattan... Estate del 1886, a Tuxedo Park fa caldo, molto caldo e Pierre de Lorillard IV, nobil ed aitante rampollo di origine francese, erede di sterminate ricchezze derivate dalle coltivazioni del tabacco, deve recarsi all’annuale Ballo d’Autunno. Che fare? Indossare la tradizionale marsina, scomodo abito da cerimonia con le ‘ingombranti’ falde a coda di rondine? Manco a dirlo, perché anche se è autunno inoltrato il caldo è ancora opprimente. E allora, come risolvere l’inquietante ‘dilemma’? Presto detto! Le nostre ‘antiche cronache’ suggeriscono infatti che all’aitante VIP dell’epoca viene in mente ciò che ha già fatto Edoardo VII, Principe di Galles e indiscusso maître à penser nel campo della moda quando, durante un’afosissima sua permanenza in India, dà ordine di tagliare le code della marsina, trasformandola in una giacca ben più comoda e forse anche più elegante. In fin dei conti, dopo i ‘tagli’ essa sembra proprio una di quelle stupende, rosse giacche da equitazione diffusissime tra chi si dedica alla caccia alla volpe... Così il nostro Pierre de Lorillard commissiona al suo sarto di fiducia alcune giacche nere, prive di ‘code’, e le ripone ordinatamente nel suo già ben nutrito armadio guardaroba. Ma la notte della grande occasione mondana... gli manca il coraggio di indossarle! Però, si sa, le giovani generazioni superano senza remore gli inesistenti ‘tabù’ che condizionano a volte la società, così suo figlio Griswold, insieme a molti suoi amici, approfitta dell’occasione, fa subito man bassa delle giacche da sera, nere e prive di code, inventate dal suo timoroso ‘daddy’, le indossa e - ‘ciliegina’ sulla inconsueta ‘torta’! - sfoggia anche un bel panciotto rosso che gli ricorda le eleganti uniformi da equitazione tanto in voga tra la nobiltà della Perfida Albione. L’innovativo abbigliamento fa subito presa soprattutto tra i giovani ‘dandies’ e stuzzica anche la fantasia di chi si dedica anima e corpo a confermare l’apodittico aforisma di Oscar Wilde che abbiamo riportato nell’incipit di queste brevissime note. Così, per matrimoni, cerimonie e balli studenteschi all’inconsueta giacca viene abbinata una fascia di seta, annodata alla vita, derivata dal kamarband in uso tra gli indù e - gran tocco di classe! - essa viene in seguito abbellita anche da un farfallino, papillon, di seta o raso nero, annodato rigorosamente a mano. Quasi dimenticavo! Perché chiamarlo ‘smoking’? Il termine deriverebbe - ma non ci giurerei... - da ‘smoking jacket’, ovvero ‘giacca da fumo’, con riferimento ad una veste da camera indossata dagli accaniti fumatori degli olezzanti sigari, proprio per evitare che i loro abiti si impregnassero dell’odore del tabacco... ◆ RV Narrano antiche cronache... 71 M AGA ZINE Guerra 1940-43: rancio al posto di combattimento Il panificio di bordo Il rancio di bordo: da Noè alle portaerei di Capitano di Vascello Alessandro Pini Foto storiche gentilmente concesse dall’Ufficio Storico della Marina Militare Italiana M angiare in mare non è cosa semplice. Noè, il primo “marinaio” della Storia, sopravvisse a 40 L’ambiente particolarissimo, un giorni di diluvio universale seguendo le “istruzioni” che clima spesso infido, le difficoltà Dio “in persona” gli aveva dato: “Quanto a te, prenditi ogni di conservazione e la mancanza di vivande fresche hanno sorta di cibo da mangiare e raccoglilo presso di te: sarà di costituito le principali sfide dei marinai di ogni epoca e tutti nutrimento per te e per loro”. Nei “Testi dei messaggeri” dei gli autori di narrazioni di mare Sumeri (fine III millennio a.C.), hanno evidenziato la semplicità troviamo tutte le informazioni e la frugalità dei marinai, sul vettovagliamento per la Il termine “rancio” proviene dallo spagnolo caratterizzati dalla galletta navigazione fluviale, mentre dal “rancho”, “rancharse” e dal francese “se ranger”, immersa nella zuppa, dall’odore Papiro di Harris (XIII sec. a.C.) disporsi in fila e, nel tempo, ha indicato non solo il di cucina che li rivestiva, conosciamo l’uso egiziano della pasto in sé, ma anche il gruppo di marinai che lo dal rhum sempre vicino, dal focaccia (“rehes”), della carne consuma a turno e anche chi doveva apparecchiare, mangiare scomodo, rapido, secca e di ben trenta tipi diversi cuocere e scodellare il rancio stesso. senza concessioni alla gola. di pane. Anche sulle Navi dei Rancio all’aperto su Torpediniera, 1915 Fenici i pasti erano costituiti da legumi, olio di oliva, vino, miele e il grano e l’orzo venivano consumati sotto forma di focacce o di pane lievitato. Tucidide, nella “Guerra del Peloponneso”, raccomanda agli Ateniesi in partenza per la conquista della Sicilia di mantenere la propria superiorità navale, portando con sé frumento e orzo abbrustolito. Roma ebbe una flotta stabile tardi e le sue Navi non avevano cabine, ma solo due ripostigli, uno a prora (per le vivande) e uno a poppa (per l’acqua e per il “foculus”). Plinio il Vecchio, nella sua “Naturalis historia”, parla del “panis nauticus” o “buccellatum” e fornisce informazioni preziose sul vitto dei marinai, che prevedeva formaggio, vite e vino, olivo e olio, miele e sale. A bordo, l’alimentazione comprendeva la “maza” (zuppa di farina, acqua, olio o vino, sale, miele) e il “moretum” (farina, formaggio, aglio, ruta, aceto, olio e uova). Nel Medioevo (XIII-XIV secolo), si assiste ad una vera e propria “Rivoluzione nautica”, dovuta all’introduzione della bussola, alla navigazione “a stima”, alla matematica applicata alla navigazione e cambia l’organizzazione di bordo: si naviga tutto l’anno, salgono sulle navi anche viaggiatori e pellegrini diretti ai Luoghi Santi e emerge la figura del cuoco di bordo. La dieta prevede biscotto, zuppe, carne e lardo, formaggi, sardine, vino e olio, per un apporto calorico di circa 4.000/5.000 Kcal, metà del quale proveniente dai carboidrati. Tra le Repubbliche marinare, Genova e Pisa furono le prime a spingersi fino a Londra e l’alimento base a bordo era il “pane cotto due volte (bis-cotto), per impedire di ammuffire e in grado di mantenersi duro e commestibile per un anno”. Sulle navi genovesi, oltre a brodo di pesce, zuppe, cappon magro, capponata (galletta, acciughe salate, mosciame, olive, olio e sale) e “mesciua” (ceci, fagioli, granfano), ogni membro dell’equipaggio doveva ricevere almeno 800 grammi al giorno di biscotti e i panettieri erano tenuti a giurare che avrebbero consegnato un biscotto “bonus et idoneus”. I condannati sulle galee (galeotti) della Serenissima Repubblica di Venezia, ricevevano una libbra e mezza di gallette al giorno (circa mezzo chilo) e uno speciale “Provveditore del biscotto” si prendeva cura della produzione delle gallette. La Razione del 1320 per un’armata navale prevedeva gallette, maiale salato, fave, formaggio e vino, per un totale di circa 3.900 Kcal. Con i grandi navigatori iniziano i viaggi lunghi, con i problemi ad essi connessi (l’acqua in primis) e sulle caravelle 72 73 M AGA ZINE M AGA ZINE Prova rancio - Nave Zara Il “lavagamelle” Pelatura patate in navigazione di Colombo in partenza da Palos furono imbarcati farina, vino e “bizcocho” (o “pan biscocho”), oltre all’acqua e alla legna, per una dieta che prevedeva: tre mestoli di vino rosso al mattino e 3 alla sera; ogni giorno una razione consistente di gallette, doppia la Domenica; a pranzo: carne essiccata, zuppa calda di ceci, fave, lenticchie, con olio, aceto, cipolle e moltissimo aglio (in funzione antiscorbuto); a cena: formaggio, lardo, pesce salato, con rucola, senape e aglio. Magellano, nel 1521, per la sua ciurma di 265 uomini di varie nazionalità (tra cui 24 italiani), aveva fatto caricare i cinque velieri di 21.000 libbre di gallette (circa 8.400 Kg), 6.000 libbre di carne fresca (2.400 Kg), 984 forme di cacio, 200 botti di sardine e poi vino, farina, riso, legumi, e perfino 7 vacche (che non dovettero campare a lungo…). James Cook, con un’équipe di scienziati al seguito, fece fare grandi progressi all’alimentazione di bordo e all’equipaggio della “Resolution” distribuì estratto di malto, cavoli salati e crauti, perché antiscorbutici, mostarda, marmellata di carote, sciroppo di limone e arance, mosto di birra e le “tavolette di brodo trasportabili” (“portable broth”), che precorrevano l’estratto di carne del barone tedesco Justus von Liebig. Ma è con Napoleone che avviene la svolta nel sistema delle provviste di bordo e nasce la Logistica moderna, grazie anche alla scoperta del pasticciere Nicolas Appert e al suo metodo per la conservazione ermetica dei cibi, cento anni prima che Louis Pasteur dimostrasse che il calore era in grado di uccidere i batteri. Nel contratto di fornitura dei viveri del 1810, si nominano le razioni di giornaliere, di campagna, di mozzo, di truppa, di prigioniero di guerra, di Guarda ciurme, di forzato al lavoro, di forzato senza lavoro, di forzato invalido e Ritiro del vino con piccole damigiane si raccomanda che nessuna derrata venga imbarcata prima di essere stata riconosciuta conforme da apposita Commissione, di cui faceva parte il Comandante, l’Amministratore, l’Officiale di Sanità, un Sottufficiale e un marinaio. Con la Regia Marina, il 1/1/1866 vengono adottate tavole e panche per i ranci sulle Navi, si introducono i primi lavagamelle e nella tabella di composizione viveri del marinaio a terra e a bordo compare il primo menu a rotazione settimanale. Nel 1913 viene istituita la “prova” del rancio, fatta dal Comandante o dal Comandante in II e nel 1951, nell’ormai nata Marina Militare Italiana, vengono introdotti i vassoi sagomati per il rancio della truppa, passaggio obbligato per l’abolizione, nel 1962, delle stoviglie in alluminio, a favore di scodelle e piatti in vetro china, bicchieri in vetro pressato e bottiglie di mezzo cristallo. Guerra 1940-43: rancio al posto di combattimento Cucina Nave Cavour Distributorio Nave Cavour Il nero ‘elisir di lunga vita’... Portaerei Cavour di Roberto Volterri Esperto di alimentazione militare, ha collaborato/ collabora con: Nato Research & Technology Organization; NATO/COMEDS Food and Water Safety and Veterinary Support Expert Panel; ■ Natick Soldier System Center (U.S.A.); ■ Bundesamt für Wehrtechnick und Beschaffung (Germania); ■ Heereslogistikschule (Austria); ■ Università di Wageningen (Olanda); ■ Defence Food Services (U.K.); ■ Istituto Nazionale per la Ricerca sugli Alimenti e la Nutrizione (I.N.R.A.N.); ■ Dipartimento di Fisiopatologia Medica (Sezione Scienza dell’Alimentazione), Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università La Sapienza, Roma; ■ Facoltà di Medicina dell’Università di Palermo; ■ RAI; ■ Mediaset; ■ Sole 24 ore. ■ ■ Attualmente, pur se le moderne tecnologie assicurano certamente un livello di igiene alimentare molto elevato, nella sua sostanza il mangiare a bordo ha mantenuto alcuni caratteri che lo contraddistinguono e lo rendono unico: la necessità di essere preparato in spazi ristretti; il condizionamento dei fattori atmosferici; l’essere consumato nell’intervallo tra un turno di guardia e l’altro; il suo carattere di convivialità, in un ambiente ristretto qual è la Nave, dove le attività sociali vengono drasticamente ridotte e, forse più importante di tutti, il fatto che il mangiare rimane una delle poche attività piacevoli possibili a bordo e assume un ruolo compensativo di un complesso di “vuoti”, determinati dal distacco dal proprio consueto ambiente di vita ◆ Portaerei Garibaldi È autore di numerosi articoli e scritti, tra i quali: “Guida esplicativa sulla razione viveri speciali da combattimento italiana” - 2008; ■ “Protocollo d’Intesa tra il Ministero della Difesa e l’I.N.R.A.N.”, per lo sviluppo e l’identificazione delle strategie poste alla base dell’identificazione delle migliori scelte nutrizionali in materia di alimentazione militare e per lo studio e l’identificazione di standard nutrizionali specifici per le FF.AA. italiane” - 2008; ■ “Vademecum per una corretta nutrizione del personale a bordo delle Unità della M.M. Linee Guida per i Comandanti e il personale addetto” - 2009. ■ Foto stato Maggiore della Marina Nave Scuola Amerigo Vespucci Narrano antiche cronache... Il Capitano di Vascello Dottor Alessandro Pini, è stato Rappresentante Nazionale Italiano presso l’ONU, nel Gruppo di Lavoro Internazionale per la revisione della razione alimentare delle truppe ONU e presso la NATO, nel Gruppo di Lavoro Internazionale per la standardizzazione dei requisiti alimentari ai fini della realizzazione di una nuova razione da combattimento per la “Nato Response Force”. O gni tanto, si sa, qualcuno sostiene di aver trovato la vera Panacea in grado di sconfiggere qualsiasi male. Il ‘Fungo cinese’, tanto di moda negli anni Cinquanta, il ‘Kefir’, l’Aloe (ma mi raccomando che sia quella ‘vera’!), la “Kombucha” e vari altri ritrovati di matrice quasi sempre orientale compaiono e scompaiono dalle tavole dei consumatori più propensi a credere che tale Panacea esista davvero. Il caffè - almeno per un certo periodo di tempo - ha subito la stessa sorte... In tempi ormai andati un medico olandese, il dottor Cornelius Dekker approfitta della diffusione che in tutto il mondo ha avuto la ‘magica’ bevanda ed esalta oltre ogni limite in conferenze, pubblici dibattiti, articoli e libri le medicamentose virtù di quei piccoli semi tostati, macinati e fatti bollire. Firma tutti i suoi scritti con lo strano nome di “Bontekoe” che pare significhi “mucca screziata” dal nome di una locanda di proprietà di suo padre. Un’innocente stranezza, ma nulla in confronto a ciò che farà più tardi. La sua terapia inizia con ben dieci tazze di caffè al giorno per arrivare a farne sorbire anche cinquanta. Non è dato sapere quali e quante siano state le catastrofiche conseguenze di tali ‘dosi da cavallo’ di caffeina sulla salute dei suoi creduli pazienti ma, evidentemente, il nostro Cornelius è fortunato poiché entra nelle grazie del Principe Elettore di Berlino, il quale lo vuole al proprio servizio come medico personale dopo essere stato guarito dalla podagra grazie alla curiosa terapia... ‘al vetro’, come spesso si sente dire nei nostri bar. É il momento in cui la Compagnia Olandese delle Indie Orientali sta distribuendo in tutto il mondo, in particolare in Germania, il caffè. Così il nostro “Bontekoe” si monta la testa e pubblica un ponderoso tomo dal rassicurante titolo “Come allungare la vita umana”. Il nostro strano dottor Dekker, però, non ha il tempo di riscuotere neppure un centesimo dei suoi diritti d’autore perché con o senza caffè si ammala e, a soli 38 anni, passa a miglior vita... Per tutti i tedeschi, convinti di diventare presto dei novelli Matusalemme solo bevendo qualche caffè in più, la morte del dottor Dekker è un colpo tremendo, ma subito si riprendono cambiando… bevanda e tornando alla cara, vecchia, ‘bionda’ birra! Le piantagioni di caffè, dai possedimenti olandesi, cominciano poi a diffondersi, quasi furtivamente, qua e là per il mondo. A volte solo per caso, in seguito ad un innocente regalo... Il Borgomastro di Amsterdam una mattina dell’anno 1714 decide di inviare due innocenti piantine di caffè a Sua maestà Luigi XIV, il Re Sole. Fin qui nulla di strano: usuali gesti di cortesia tra due Paesi in pace tra loro. Ma non è così... Il Re Sole è ormai vecchio e malandato, consegna le due piantine ai suoi giardinieri e poi… diparte da questa terra. Gli succede il nipote, Luigi XV che, divenuto adulto scopre nelle reali serre quelle due strane piante ormai cresciute con lui. Ci si diverte un po’ raccogliendo le bacche, tostandone i semi e preparando un pessimo caffè che offre agli amici della corte di Versailles. Le piante rimangono lì, quasi dimenticate da tutti, ma non dal capitano Gabriel Mathieu de Clieu, il quale sogna da anni di rubare una ‘margotta’ della pianta e di portarla all’estero. Costi quel che costi! Ci riesce e dopo mille e una inenarrabili peripezie le porta in Martinica. Solo dopo qualche decennio in quelle isole si possono contare circa venti milioni di esemplari della ‘magica’ pianta! E ancor oggi il caffè della Martinica è uno dei più richiesti al mondo... ◆ 77 M AGA ZINE Si fa presto a dire CACIO di Antonella De Santis Latte crudo “A latte crudo” è una denominazione che indica che il latte usato non viene prima pastorizzato, ovvero riscaldato (a 72 gradi) per eliminare ogni batterio, processo che riduce anche vitamine e flora batterica “buona”, quella che dona personalità e caratteristiche nobili al formaggio. Pastorizzare significa appiattire sapori e varietà. Il latte crudo richiede attenzione allo stato di salute del bestiame e alle fasi di produzione che preferibilmente devono avvenire nel luogo dei pascoli. Non solo cantina Famoso per la sua bontà e la fortuna di cui gode nonostante le periodiche polemiche legate alla tecnica difficilmente contenibile da regolamenti comunitari, il formaggio di fossa ha una sua antichissima tradizione nelle Marche e in Romagna (nello specifico a Sogliano al Rubiconde, a Talamello e a Sant’Agata Feltria). Stagionato in autunno all’interno di fosse scavate nella roccia, in origine per difenderlo da razzie, acquista i caratteristici sentori di muschio, zolfo, tartufo che lo rendono un prodotto da meditazione di grandissimo interesse. S i fa presto a dire cacio: latte e caglio e poco più. Ma è quel poco più che fa la differenza: le razze degli animali, la diversità dei pascoli e la qualità dell’erba, la sapienza dell’uomo che trasforma, affina, stagiona e che testimonia la grande capacità di adattamento e valorizzazione del proprio ambiente. Quello dei formaggi è un mondo vasto e raffinato, che percorre l’Italia intera raccontando storie di uomini e di animali, di tradizioni e cultura gastronomica, geografica, sociale. Alla fine degli anni ‘80 l’istituto nazionale di sociologia rurale censì circa 400 tipi di formaggio, una stima di certo per difetto ma che non rappresenta i formaggi reperibili, molti legati a piccolissime realtà non commercializzate o a piccole varianti locali. Negli ultimi anni un consumo più consapevole ha portato alla conoscenza e al salvataggio di specialità che la grande distribuzione stava schiacciando (non facciamoci illusioni, in gran parte ancora accade) in favore di prodotti più incolori e standardizzati. Oggi il formaggio è apprezzato, conosciuto e riconosciuto, non più considerato rozzo alimento di pastori come nei tempi passati. Ma quale è il fenomeno per cui il latte, da liquido e deperibile si solidifica e diventa conservabile? Tutto nasce da un processo batterico che separa la componente proteica e lipidica del latte da quella acquosa, la coagulazione avviene per l’acidità o grazie a un attivatore, detto caglio, che viene aggiunto al latte. Di origine vegetale (latte dei fichi, estratto di carciofi), ma più di frequente di origine animale: dallo stomaco di bovini o ovini. Tra tutti il più efficace, ma che cede un sapore molto forte al formaggio, è quello di capretto. Vi sembra un alimento da vegetariani ortodossi? La caseina, tra i 28 e i 38 gradi, si coagula e trattiene una parte dei grassi, formando la cagliata, generalmente rotta per facilitare la separazione dal siero. A questo punto la cagliata può essere di nuovo cotta a diverse temperature, fusa oltre i 100 gradi, pressata, filata (cioè fatta maturare nel siero caldo acido, poi tirata a mano, come nella mozzarella, nel provolone o nel caciocavallo) oppure lasciata cruda. Sono crudi tutti i formaggi freschi e a pasta molle, come stracchino, crescenza, tome, quartirolo, formaggi che subiscono una piccola stagionatura, il cui sapore è delicato, con sentori erbacei e lievi note acidule, ma sono a pasta cruda anche foraggi duri e semiduri come castelmagno o bra, dal gusto più spiccato. Dopo la messa in forma c’è la salatura e la stagionatura, che varia da poche settimane e diversi anni, come nel bitto, in locali con temperatura intorno ai 10-15 gradi e umidità alta e costante, con una continua cura delle forme, lavate e unte per evitare attacchi di parassiti e spaccature, Il formaggio “nasce” durante la stagionatura: perde acqua, si compatta, grassi e proteine si trasformano e gli zuccheri residui fermentano, il colore diventa più giallognolo e i gas che si formano a volte creano l’occhiatura, i famosi “buchi”. Il latte è diventato formaggio. gourmet Mai provato con il miele? I matrimoni di gusto, tradizionali o azzardati, volti a esaltare sapori e caratteri unici di ogni prodotto e la straordinaria varietà del patrimonio italiano, sono sempre più diffusi. L’uso di accompagnare il formaggio con mieli e marmellate è molto antico, il connubio perfetto l’asseconda senza mai sovrastarlo, per assonanza o contrasto: ad esempio un formaggio dolce con una confettura o una marmellata e uno piccante con una mostarda, o al contrario, un erborinato, molto saporito, con del miele. I mieli hanno consistenza diversa, e diversi profili: delicato (acacia), aromatico (millefiori), intenso (castagno), balsamico (tiglio), amarognolo (corbezzolo), fino alla melata che avvicina molto le confetture, ogni formaggio trova quindi il compagno ideale. 78 79 M AGA ZINE gourmet M AGA ZINE Le stagioni e i luoghi del latte Un buon formaggio racconta del pascolo e delle stagioni, perché il latte cambia secondo l’alimentazione del bestiame e un buon prodotto non ammette livellamenti, ma cambiamenti e differenze rappresentano un pregio. In inverno il fieno sostituisce l’erba fresca delle stagioni calde, quando il latte è più ricco e profumato e il formaggio più saporito. Allo stesso modo i pascoli di montagna usati nei mesi estivi, tra i 1300 e i 2300 metri, detti alpeggi o malghe, sono migliori: qui l’erba è più aromatica e l’ambiente incontaminato. Il latte prodotto si trasforma in loco, dove inizia anche la stagionatura fino ai primi freddi. Degenerazioni golose: blu e a crosta fiorita Per qualcuno è una prelibatezza irrinunciabile, per altri, la presenza di muffe fuori o dentro la forma, rappresenta un elemento di forzato rigetto. Tant’è che chi si avvicina al vasto universo caseario non può ignorare la variegata famiglia delle muffe che si presenta con diversi aspetti: l’innocente e morbido bianco che riveste brie, toma o camembert altro non è che la manifestazione della presenza della microflora fungina, che altrove si rivela attraverso pigmentazioni e macchioline. Dall’aspetto più o meno compatto e uniforme, con o senza efflorescenze di colore rossastro o tendente al blu, sono formaggi a crosta fiorita, con patina e a crosta lavata, cioè spugnati periodicamente con diverse soluzioni per favorire una specifica crescita batterica. Batteri, funghi, spore e muffe sono dunque una presenza consueta per i formaggi, anche sotto mentite spoglie. Altro discorso per gli erborinati: striature verdognole o blu segnalano immediatamente la presenza di muffe sviluppatesi naturalmente o provocate mediante la foratura delle forme: è il caso del gorgonzola, del blu del Monviso o dell’inglese stilton ◆ Narrano antiche cronache... Il miele è come il sole del mattino... di Roberto Volterri R imaniamo in ambito gastronomico, ‘svolazzando di fiore in fiore’... “Ape, svegliati, lavora per Dio e per me!” ancor oggi in Francia, nella Nièvre, cantano gli apicoltori il giorno prima della Candelora - non a caso il ‘giorno dei ceri’, delle candele - mentre ornano gli alveari con colorati nastri, le bouillauds. Nella Vandea e nell’Aisne ogni apicoltore degno di questo nome fabbrica delle candele particolari, le fa benedire il giorno della Candelora e se le conserva con cura affinché lo possano accompagnare, accese, durante il suo… ultimo viaggio. Nel nord-est della Francia, il giorno del Venerdì Santo, sugli alveari viene posta una piccola croce di cera benedetta per assicurarsi un buon raccolto di miele. Inoltre, a Saint-Martin-le Chatel, nella regione della Bresne (Francia), c’è una chiesetta dedicata ai Santi Filippo e Giacomo, da quelle parti ritenuti protettori delle api. Fino a non molto tempo fa c’era anche una bella vetrata su cui era raffigurato un alveare dorato, ornato ai lati da api d’oro e fiori campestri. Gli apicoltori, il primo Maggio, vi si recavano a… ‘brezonner’, ovvero ad imitare il volo e il ronzio delle api, facendo tre giri ‘magici’ intorno all’altare per propiziarsi un abbondante raccolta di miele alla fine dell’estate. Nel villaggio di Beaumont, nella regione della Dombes, c’è una cappella con una statua della Nostra Signora delle Mosche - detto così sembra però qualcosa di più ‘demoniaco’ poiché ci ricorda Baal-zabub, ovvero il ‘Signore delle Mosche’... - alle cui braccia gli apicoltori appendono delle piccole sfere di cera prodotta nelle loro arnie, prendendo in cambio un frammento delle candele accese attorno alla statua per propiziarsi un efficiente lavoro da parte dei volenterosi insetti. Ma le api producono anche un potente ‘veleno’ scientificamente definito ‘apitoxina’ - che sembra produrre eccezionali risultati nella cura di malattie reumatiche, sciatalgie, asma bronchiale, ipertensione arteriosa, psoriasi, eczema e molto altro ancora. Narrano le ‘antiche cronache’ come anche le antiche popolazioni che abitavano le rive del Nilo raccogliessero tale ‘veleno’ a scopo terapeutico, ma è solo da circa un secolo che è stato messo a punto un metodo per indurle a depositare su un particolare telo di nylon la sostanza medicamentosa prodotta da alcune ghiandole poste nell’addome dell’operoso insetto. In realtà iniziò, nel 1870, tale dottor Antony Tere per la cura delle malattie reumatiche, ma un grande sviluppo all’uso del ‘veleno’ delle api lo dette negli anni Trenta del Novecento il professor Bodog Bach, di New York, seguito dal collega dottor Joseph Broadman, il quale ottenne strepitosi risultati nella cura delle artriti e di vari processi infiammatori. ‘Dat Rosa mel apibus’, sentenzia un motto diffuso in ambito esoterico, ove il miele simboleggia l’ambrosia, il nettare degli Dei, la bevanda dell’immortalità: forse non è proprio così, ma quel che appare certa è la... ‘pungente’ ’utilità a tutto tondo di questi piccoli, simpatici insetti! ◆ ...da 90 anni la tradizione della cucina romana nel cuore dei Parioli... Celestina ai Parioli, il più antico ristorante nel cuore dei Parioli, propone ogni settimana grandi serate di degustazione per i propri ospiti. Sono momenti particolari a tema, per proporre ai clienti percorsi eno-gastronomici che valorizzano le eccellenze regionali, accompagnati da una selezione di vini delle migliori cantine e birre artigianali. Queste serate offrono anche momenti di incontro tra i nuovi proprietari e gli ospiti, che hanno così l’opportunità di conoscerli meglio. Viale Parioli, 184 • tel. 068078242 - 068079505 www.ristorantecelestina.it 83 Carciofi croce e delizia delle nostre cucine di Antonella De Santis C C roce per la difficoltà con cui si puliscono, annerendo tutte le dita se non si ha l’abitudine di usare i guantini leggeri o di bagnare con acqua e limone le mani mentre si eliminano le parti da togliere prima della cottura, che, occorre dirlo, sono in quantità considerevole. Ma non bisogna lesinare e andare giù decisi con lo scarto: non c’è nulla di peggio di un carciofo pulito male, le parti dure e pungenti rovinano il piacere di gustare un buon carciofo, cotto o crudo che sia. Delizia perché... beh perché sono semplicemente deliziosi! Ciò che si mangia del carciofo è il fiore di una pianta erbacea perenne tipica dell’area mediterranea dove gli inverni sono miti e senza lunghe gelate. Simile al cardo, può raggiungere un’altezza di oltre un metro e fiorisce dall’autunno alla primavera inoltrata: le stagione dei carciofi è quella che dai primi freddi ci accompagna fino al ritorno delle temperature più alte. In questo lungo periodo si trovano diverse varietà caratterizzate da differenti colori, forme, grandezze e dalla presenza o meno delle spine. Le autunnali che, dopo una stasi invernale, fioriscono fino a maggio, sono tipiche dell’Italia meridionale, mentre quelle primaverili si coltivano più a nord, nell’Italia centro settentrionale. Hanno un sapore deciso, ben riconoscibile, amato/odiato dai sommelier per la difficoltà di abbinamento data dalla forte ferrosità che sembra voler sfidare ogni vino e che si addomestica appena durante le preparazioni. Crudi, fritti, bolliti, stufati, ripieni, arrosto, dorati: i carciofi si prestano a essere consumati in moltissimi modi, facendone un ingrediente versatile, adatto a contorni e insalate come a condimenti per primi piatti di pasta o riso, zuppe o torte rustiche, in secondi di carne o pesce, frittate o in irresistibili patè o conserve sott’olio e sott’aceto. Una golosità che incontra anche le esigenze della dieta, perché questo alimento così gustoso e consistente, ricco di proprietà benefiche e saziante è, al naturale, povero di calorie. Tutt’altra questione se si prepara senza badare troppo alla linea; i carciofi amano i condimenti ricchi, olio e sale in abbondanza, soprattutto nelle due preparazioni tipiche laziali: alla romana e alla giuda. Difficili da preparare? Non così tanto... Varietà Spine o non spine? Gli spinosi sono solitamente più affusolati e di un verde intenso, ottimi da gustare anche crudi, sono il pregiato di Albenga, il Masedu Sardo, il Siciliano, tenero e polposo, il Veneto di Chioggia e il Violetto di Toscana. Tra quelli non spinosi, tondeggianti e ideali per essere farciti ci sono il Violetto di Catania, quello di Paestum (ora Igp) e il nostro Romanesco, anch’esso Igp, detto anche mammola o cimarolo: sferico, grosso, particolarmente morbido e privo di spine con foglie verde-viola, perfetto da cucinare intero o ripieno. Tutti contengono cinarina, che abbassa il livello di colesterolo nel sangue e migliora la funzionalità del fegato. Acquisto e preparazione Al momento dell’acquisto bisogna assicurarsi che abbiano la punta ben chiusa, il gambo dritto e sodo e le foglie di colore verde scuro, quasi viola. Possono essere conservati nell’acqua, proprio come un mazzo di fiori, inconsueto e regale. Oppure puliti, lavati con acqua e succo di limone e asciugati e si mantengono alcuni giorni in frigo dentro a un sacchetto di plastica o un contenitore ermetico. Le foglie devono essere eliminate, il gambo si deve recidere fino a circa 4 cm dalla base e poi raschiare con un coltellino, e si devono togliere anche le foglie esterne più fibrose, almeno due file, e tagliare di netto la punta. Anche il fieno interno deve essere eliminato. Per arrivare al cuore dei carciofi è necessario gourmet M AGA ZINE tagliare ulteriormente le foglie esterne, recidere tutto il gambo e asportare il fieno interno, facendo attenzione a non eliminare anche la polpa chiara. Con un coltellino bisogna tornire la base dei fondi come se si sbucciasse una mela. Per evitare che anneriscano a contatto con l’aria bisogna passarli in acqua acidulata o cospargerli di farina. Alla Giudìa Fritti interi, arrivano in tavola aperti come un fiore dorato e croccante all’esterno, tenero internamente. Per ottenere questo risultato bisogna friggere i carciofi immersi completamente in olio due volte, dopo averli puliti e scolati dall’acqua acidulata, conditi internamente con sale e pepe e battuti uno contro l’altro per farli aprire. La prima frittura a temperatura più bassa serve a cuocerli, la seconda a testa in giù, dopo averli fatti raffreddare e aperti verso l’esterno, li rende croccanti. Quasi a fine cottura si spruzzano con un po’ d’acqua per dorare le foglie più esterne. Così venivano preparati per il kippur, la festa ebraica dell’espiazione, e si mangiavano dopo un giorno di digiuno totale e astinenza. Alla Romana Sono stufati in olio e acqua, insaporiti da aglio e aromi. Un trito di mentuccia, aglio, prezzemolo, olio serve a farcire l’interno dei carciofi insieme a un po’ di sale. Salati anche all’esterno i carciofi sono pronti per essere cotti per circa mezz’ora in un tegame alto, con un dito abbondante di olio e acqua, l’ideale è ungere anche il gambo con olio salato e pepato. Anche questa preparazione era in origine tipica della comunità ebraica romana, poi passata alla tradizione romana tout court ◆ 84 85 M AGA ZINE M AGA ZINE Ben-essere Risotto rose e fragole Fare attenzione che le rose siano commestibili, non trattate chimicamente. Ingredienti per due persone: 200 gr. di riso carnaroli, 1 l. di brodo vegetale, 1/2 bicchiere di vino bianco secco, 1 cipolla piccola (o 1 scalogno), 100 gr. di fragole, 2 rose rosa, parmigiano grattugiato per mantecare. Far imbiondire nell’olio la cipolla o lo scalogno tritati, aggiungere il riso e farlo tostare un po’. Versare il vino, alzare il fuoco, far evaporare e cominciare la cottura aggiungendo un po’ alla volta un mestolo di brodo. Lavare le fragole e frullarle. Sciacquare bene i petali di rosa e asciugarli con delicatezza. Dopo 15 minuti di cottura del riso aggiungere le fragole frullate, amalgamarle e far riprendere il bollore per altri 5 minuti circa. Spegnere il fuoco e aggiungere 3/4 dei petali di rosa, spezzettati con le mani. Mantecare con il parmigiano grattugiato. Portare in tavola decorando i piatti con i restanti petali. Ben-essere di Marilisa Verti Riso e Rose La Regina dei fiori È lei, la rosa, la regina dei fiori, diffusa e conosciuta nel mondo intero, con oltre 150 specie differenti. Da sempre rispecchia l’amore, in tutte le sue declinazioni, dal passionale al platonico. Ma non solo: è simbolo del segreto, delle cose da non rivelare o da trattare con la massima discrezione, ma anche della realtà in divenire, della manifestazione in fieri. Sacra a Iside in Egitto, a Ishtar in Mesopotamia, ad Afrodite in Grecia, a Venere in Roma, nel mondo cristiano la rosa bianca simboleggiò la purezza di Maria, mentre quella rossa, il sangue dei primi martiri. Note sono le sue proprietà terapeutiche: l'essenza è utilissima alla pelle, l’acqua di rose è disinfettante e tonica, specialmente per pelli secche, infiammate, invecchiate e sensibili e, in cucina, oltre all’acqua di rose eccellente per i dolci, i petali sono apprezzati per marmellate, aceti odorosi e persino per i risotti. La bella Rosina Al Bella Rosina Relais, nel parco regionale della Mandria - un polmone verde di seimila ettari nei pressi di Venaria dove un tempo vivevano re Vittorio Emanuele II e la sua sposa morganatica Rosina Vercellana, affettuosamente soprannominata dai torinesi “La Bela Rosin”, c’è anche la beauty farm PrimaRosa, con programmi e trattamenti che usano creme e prodotti creati appositamente con soli principi naturali e biodinamici certificati, non testati sugli animali. In particolare, sono da provare i trattamenti viso per differenti problemi. Alla Rosa Rubiginosa, per pelli mature, rigenerante cellulare, anti rughe, ottimo per schiarire le macchie, anti radicali, anti ossidante; alla Rosa Gallica Canina, per pelli rilassate atoniche, astringente, tonificante, levigante e alla Centifolia o Rosa Mosqueta, lenitivo, emolliente e idratante, indicato per pelli sensibili, sottili. È la Monferrina, disegnata appositamente da Emanuele Luzzati in collaborazione con Elio Carmi, il personaggio simbolo della decima edizione di Riso & Rose, la manifestazione che per tre weekend consecutivi, dal 7 al 23 maggio, animerà tutto il Monferrato. La grande kermesse, che coinvolge anche Alessandria e alcuni centri della Lomellina, è un contenitore di eventi all’insegna del riso e delle rose, sui temi della storia e delle tradizioni locali, rinnovati per l’attualità e gli stimoli culturali. Più di 30 eventi, oltre 200 appuntamenti con enogastronomia, florovivaismo, hobbistica e arte, dalla pittura di Chagall sino ai mosaici in chicchi di riso. Tante e variegate occasioni per scoprire la bellezza del Monferrato con le colline in fiore, i castelli, le ville, i parchi e i giardini. E, nelle soste, prelibatezze con il riso e le rose, degustando vini di qualità della terra monferrina. Latte alla rosa Non è il latte di asina che usava Poppea, ma per la pelle è un vero e proprio toccasana: il latte alla rosa canina della Nuova BioLeaves è una emulsione per la pulizia del viso. Si può usare sia come detergente, per donare alla pelle un substrato adatto a ricevere il trucco, sia come struccante, data la sua completa dermocompatibilità. Contiene saponaria e idrolizzato di riso, quali basi detergenti naturali, il miele come idratante, l’olio di girasole emolliente protettivo, l’estratto e gli oli essenziali dalla funzione astringente ◆ pubblicato su Insider Magazine nel maggio 2010 87 M AGA ZINE Profumo di fresco in casa G Fra aroma e proprietà terapeutiche: le molte qualità di lavanda e lavandino di Donatella Codonesu garden li antichi romani ne ponevano mazzetti fioriti nei bagni termali, la usavano come base per raffinati profumi o in decotti per trattare pelle e capelli. In un passato più recente i sacchetti di lavanda profumavano la biancheria e tenevano lontane le tarme: una delicata consuetudine conservata in Provenza, terra di lavande e lavandin, e che ora sta tornando di moda anche in Italia, dove vengono coltivate alcune varietà di questo arbusto perenne appartenente alla famiglia delle lamiaceae (labiate). La Lavanda officinale (o vera, o fine, o angustifolia) cresce spontanea sulle Alpi e sugli Appennini dai 300 ai 1000 metri di altitudine in luoghi aridi e sassosi, preferibilmente calcarei, esposti al sole e ben drenati. È di piccole dimensioni (dai 30 ai 60 cm) con un solo fiore per ogni stelo, si riproduce per seme e la sua resa in olio essenziale estratto in corrente di vapore è intorno allo 0, 8%. Fiorisce in estate tingendo il paesaggio di azzurro/viola e oggi viene largamente coltivata, come il lavandino, anche su ampia scala e quasi sempre con metodo biologico, soprattutto in Toscana, Piemonte, Lazio ed Emilia Romagna. La raccolta avviene a luglio-agosto, in momenti diversi a seconda dell’utilizzo dei fiori (erboristeria o distillazione), della zona, dell’andamento climatico e della varietà. Viene largamente utilizzata in farmacia ed erboristeria per le innumerevoli proprietà terapeutiche dovute al Linaiolo (antisettiche, analgesiche, cicatrizzanti, diuretiche, sedative e molto altro): diffusa in un ambiente di lavoro stimola la produttività, le nebulizzazioni curano stati ansiosi e depressivi esercitando un’azione equilibratrice, mentre impiegata negli asili aiuta la concentrazione, purifica l’aria e sviluppa la capacità di resistere agli attacchi dei microbi. Grazie al suo fresco e delicato aroma è tuttavia la profumeria il settore che ne vede il maggior uso, dalla classica “eau de toilette” fino a saponeria e cosmesi. Diffuso a latitudini leggermente inferiori, il Lavandino è più grande (fino a un metro di altezza), con tre infiorescenze per stelo e un aroma decisamente più intenso, ottimo per profumare ambiente e biancheria e per preparare prodotti per l’igiene. È un ibrido fra Lavanda vera e Lavanda spica (o spigo, o latifolia) e si può quindi riprodurre solo per talea. Fu creato negli anni ’50 quando l’industria di prodotti detergenti faceva grande richiesta di olio essenziale (la sua resa si aggira intorno al 4%). I fiori di entrambe le piante attirano molto le api, che producono un ottimo miele aromatico, raro, pregiato e molto richiesto. Il fiore essiccato della lavanda officinale viene inoltre utilizzato in cucina per aromatizzare i cibi o preparare infusi rilassanti, bevande alcoliche e bibite. In Italia si coltivano anche Lavanda spica, dentata e stoechas, tutte sensibili al freddo, ma le varietà nel mondo sono centinaia, e gli appassionati possono collezionarle giocando con le varianti di forme e colori ◆ 89 M AGA ZINE I IL PEPERONCINO (capsicum) suoi frutticini coloratissimi sono belli da vedere, ottimi per la salute, preziosi in cucina. Il peperoncino è una pianta che non dovrebbe mai mancare nei nostri terrazzi. Si accontenta infatti di crescere anche in piccoli vasi, dove si sviluppa con generosità, senza richiedere quasi nulla. Originario dell’America centro-meridionale, fu trasferito con successo in Europa da Cristoforo Colombo con il nome di “pepe delle indie”. Pianta perenne coltivata come una annuale, adatta ai paesi caldi - temperati, il peperoncino (Capsicum) appartiene alla famiglia delle solanacee, che si compone di piante medicinali, come lo stramonio e la belladonna e piante alimentari, come i pomodori, le melanzane e le patate. Il peperoncino si distingue per possedere tutte e due le caratteristiche. La pianta sviluppa rapidamente, riempiendosi di fiori bianchi con l’interno giallo. Il fogliame è di un bel verde scuro; i frutti, di varie forme e colori, possono essere eretti o pendenti, conici o sferici, lisci o grinzosi, di colore arancio, rosso, nero, verde, giallo o viola. Nel periodo primaverile ed estivo quindi avremmo un terrazzo coloratissimo. di Angelo Troiani Sull’origine del nome Capsicum esistono due versioni: dal latino capsa, che significa scatola dalla forma del frutto e dal greco kapto, che significa mordere. La specie più diffusa è il Capsicum annuum, cui appartiene la maggior parte delle varietà dolci-medio piccanti; le altre specie coltivate sono il Capsicum frutescens (il tabasco), il Capsicum chinensis, il terribile habanero e il Capsicum pubescens, il rocoto peruviano. Il sapore più o meno piccante dipende dal contenuto della capsaicina, un alcaloide dall’azione rubefacente, in grado di aumentare l’afflusso sanguigno. In genere la capsaicina è indirettamente proporzionale alla grandezza dei frutti. Per concludere, ecco delle curiosità. Nella tradizione asiatica il peperoncino viene utilizzato come antidepressivo e in Cina costituisce un ansiolitico naturale e stimolante dell’appetito. Se inoltre avete esagerato con gli alcolici, un sollievo immediato lo otterrete con la tisana amara di assenzio con l’aggiunta di tre gocce di peperoncino in tintura madre. E se volete attenuare il bruciore dopo averlo mangiato, tenete a portata di mano dello yogurt o un bicchiere di latte fresco ◆ 90 91 M AGA ZINE M AGA ZINE NON SOLO FIORI: IL GIARDINO DELLE BACCHE SONO MOLTI GLI ARBUSTI DECORATIVI, SPONTANEI O FACILMENTE COLTIVABILI, CHE FORNISCONO PICCOLI FRUTTI EDULI VARIOPINTI E GUSTOSI L e foglie caduche tingono l’autunno di caldi toni giallo, arancio, fiammate di rosso, porpora, bruno… ma sulla tavolozza di questa stagione ci sono anche numerose bacche, i cui cromatismi nulla hanno da invidiare a quelli dei fiori. Con l’ulteriore vantaggio (in molti casi) di un ghiotto sapore. Si tratta di alberelli ornamentali, che fioriscono in primaveraestate, sviluppando poi fra ottobre e dicembre variopinti grappoli di piccoli frutti, spesso ottimi in marmellate, infusi e salse o semplicemente per aggiungere un tocco di colore a ricette tradizionali. Attenzione però: non tutte le specie sono commestibili! Fra i più comuni il Corbezzolo, coltivato per l’aspetto decorativo e per i gustosi frutti, che convivono con i fiori color crema a forma di campanella. Piccole sfere ricoperte da una spessa scorza granulosa, morbidi e carnosi all’interno, che solo un anno dopo la fioritura maturano colorandosi di arancio e spinosi la pianta era utilizzata come siepe interpoderale. Proprio per le sue punte acuminate, è considerata protettrice delle case ed in grado di allontanare gli spiriti del male. In medicina l’infuso di Biancospino si usa come riscostituente, cardiotonico o per conciliare il sonno e il bagno rilassante con i suoi fiori ha effetto sedativo. L’intenso profumo del Mirto caratterizza la costa mediterranea, soprattutto in Sardegna, dove l’omonimo liquore è fulcro dell’economia regionale, in versione bianca (dai germogli) e rossa (dalle bacche). I frutti, bluastri, rosso-scuro o più raramente bianchi, maturano da novembre a gennaio persistendo a lungo sulla pianta. Impiegato in erboristeria fin dal medioevo, quando dai suoi fiori si distillava l’Acqua degli Angeli, è oggi utilizzato per la cura dell’apparato digerente e del sistema respiratorio grazie alle proprietà balsamiche, antinfiammatorie e astringenti e presto se ne estrarrà l’olio essenziale. Del leggerissimo legno di Sambuco sono fatte secondo la letteratura fantasy le più potenti bacchette magiche, oltre ad alcuni giochi popolari di origine contadina. I fiori estivi sono piccoli, bianchi e profumati, mentre le numerose bacche quindi rosso scuro. Dolci e aciduli al tempo stesso, sono ottimi al naturale, con zucchero e limone, canditi o sotto spirito, oltre che in confetture e infusi; hanno proprietà antisettiche, antinfiammatorie, astringenti, diuretiche e depurative. I Romani attribuivano alla pianta poteri magici, durante il Risorgimento era simbolo dell’unità nazionale per i suoi colori (il verde delle foglie, il bianco dei fiori e il rosso dei frutti) e Giovanni Pascoli gli dedicò addirittura un’ode. Simbolicamente la pianta rappresenta la stima, i suoi fiori l’ospitalità e un ramoscello con tre frutti appeso in casa porta fortuna. In Grecia era invece considerato di buon auspicio il Biancospino, posto sugli altari durante le cerimonie nuziali; pianta perenne e longeva il cui nome deriva da kratos-forza, oxus-aguzzo e anthos-fiore. I suoi frutti ovali di un bel rosso vivo maturano fra novembre e dicembre; non si mangiano freschi, ma se ne fanno marmellate, gelatine o sciroppi. Il legno è un buon combustibile e per il fitto intreccio di rami Mirto Corniolo Corbezzolo garden Sambuco nero-violacee o rosse contengono un succo porpora scuro impiegato per colorare vini. La pianta è tossica, ma non i suoi fiori, usati per sciroppi dissetanti, né i frutti di alcune varietà, con cui si fa una marmellata dalle proprietà lassative. Ottime marmellate o, previa fermentazione, bevande alcoliche derivano anche dal Sorbo, Rosacea il cui falso frutto, la sorba, per divenire commestibile deve essere essiccata sotto su uno strato di paglia per alcune settimane. Di gusto asprigno, queste bacche sono ricche di vitamina C e hanno proprietà diuretiche, astringenti, antiinfiammatorie, lenitive. Con la polpa dei frutti maturi si fanno anche maschere detergenti, tonificanti o lenitive per pelli delicate, mentre il tannino di foglie e corteccia è impiegato nella concia delle pelli. Meno conosciuto ma altrettanto comune il Corniolo, piccoli fiori gialli e drupe rosso vivo, poi scure a maturazione e ricercate dalla fauna selvatica più golosa. Adatte ad essere consumate fresche o ad essere conservate sotto spirito o in salamoia, se ne fanno bevande, liquori e dolci. Radici, corteccia e germogli erano impiegati per curare la febbre, in cosmesi la polpa dei frutti viene usata come astringente per pelli grasse e il legno è adatto alla tornitura ◆ D.C. Corniolo Biancospino “S IL RITO DELLA MEDITAZIONE Niente verde, ma placido equilibrio di forme e spazi per raggiungere serenità e calma interiore contemplando il giardino Zen N è foglie, né fiori, né colori. Neppure un pugno di terra: il giardino zen è astratto, filosofico e meditativo. Ma non certo privo di fascino, che sta tutto nel delicato equilibrio degli elementi, pietre e ghiaia, posti a simboleggiare l’acqua e le piante del suo alter ego tradizionale. Nell’interpretazione più diffusa la ghiaia costituisce infatti l’acqua, il cui movimento viene tracciato dalle linee parellele di appositi rastrelli, mentre grosse pietre disordinate illustrano il dinamismo delle forme in natura; ‘isole’ che rappresentano l’immortalità, la longevità e la salute. Quello zen è un giardino destinato decisamente alla riflessione e si suppone abbia un effetto rasserenante, tanto che esiste anche in miniatura, contenuto in una piccola struttura di lengo da collocare a portata di mano (Bonseki). Il più celebre a grandezza naturale è quello di Ryoa-ji, a Kyoto, uno dei migliori esempi di questa progettazione che viene denominata arte suseki. È un ‘mare’ rettangolare di sabbia bianca racchiuso fra la passerella del tempio ed il muro di cinta; fra le morbide onde sono disposte quindici grandi pietre in gruppi di cinque… ma da nessuna angolazione è possibile vederne più di quattordici! L’apparente casualità è insomma frutto di precisi criteri di proporzione, e il giardino è un esempio di grande armonia. Un’opera misteriosa e complessa, il cui volto di assoluta semplicità è concepito per rasserenare e condurre all’illuminazione. Era questo il percorso dei monaci zen verso la comprensione dell’essenza delle cose: dalla contemplazione della roccia a quella della montagna, ovvero dalla meditazione sull’io alla comprensione dell’infinito. Il termine si riferisce al fatto che questo stile di giardino si è sviluppato grazie ai più importanti progettisti giapponesi monaci o praticanti lo Zen, ma in effetti piccoli e grandi spazi ‘da meditazione’ sono molti diffusi in Giappone, e non sempre sono legati alla pratica buddista. Se tutto ciò vi affascina, senza arrivare tanto lontano, potete organizzare un piccolo ‘giardino da tavolo’ anche in casa, su un semplice vassoio di legno. Aggiungere nuovi elementi o modificare l’orientamento delle onde sarà un’occasione per rilassarvi. Attenzione però: la sabbia utilizzata non è quella delle spiagge, ma granito o marmo schiacciato (circa 2mm di diametro) e di tonalità uniformi, dal bianco al beige. Le rocce vanno poi scelte con cura e posizionate secondo la vostra sensibilità e poi… Buona contemplazione! ◆ D.C. piante del sogno La camelia ogno di trovarmi, dopo una lunga corsa, in una radura. Sono stremata e mi accascio al suolo. Sotto di me c’è qualcosa di morbido, come un tappeto, di rose. Delicatamente ne prendo una fra le dita: non è una rosa, è un fiore bellissimo ma senza profumo, pallido e freddo. Rabbrividisco al contatto, mi alzo e riprendo la corsa…” Forse il misterioso fiore della nostra sognatrice è la camelia. Originaria dell’Estremo Oriente arriva in Europa nella seconda metà del Settecento. Secondo i giapponesi simboleggia la vita stroncata perché, a differenza di tutti gli altri fiori, la sua corolla si distacca intera dallo stelo e non petalo dopo petalo. Per questa caratteristica ben si addice a Marguerite Gautier, l’eroina di Dumas precocemente stroncata dal “mal sottile”. Marguerite portava una camelia bianca per venticinque giorni al mese e una rossa per gli altri cinque. Da qui l’appellativo di “ Signora delle camelie”. La stessa signora è anche la “traviata” immortalata da Verdi, perciò nel vocabolario dell’amore la camelia ha assunto una connotazione peccaminosa. Amore e peccato, amore e morte: temi cari al Romanticismo. Oggi le camelie ornano i nostri giardini, sono belle, raffinate, fioriscono copiosamente e a lungo e non richiedono particolari cure. Altro che simbolo di morte! Sembrano piuttosto l’emblema della generosa bellezza della natura. A ogni epoca la sua simbologia. Oggi di “mal sottile” non si muore più e neanche d’amore. Il sogno di cui sopra appartiene a un’altra epoca ◆ Renata Biserni Psicoterapeuta-Psicodrammatista rbiserni@tiscali.it ART: www.stefanopizzato.c LE CLEMATIDI 95 M AGA ZINE di Angelo Troiani I l genere Clematis appartiene alla famiglia delle Ranuncolacee e comprende circa 250 specie, diffuse in tutte le zone temperate della Terra, che hanno dato vita, in varie combinazioni, agli splendidi incroci dai grandi fiori colorati oggi tanto ambiti nei giardini e terrazzi. Le Clematis vanno dal grande arbusto rampicante, fino a piccole specie erbacee, che disseccano completamente durante l’inverno. Le Clematidi che più facilmente troviamo nei vivai sono ibridi delle specie europee e asiatiche, coltivati e selezionati per le peculiari caratteristiche dei loro fiori. Tutte presentano infatti fiori molto grandi, la cui parte più vistosa è rappresentata dai sepali, colorati come grandi petali. Quando il fiore appassisce la pianta produce una particolare infruttescenza, costituita da una sfera di piccoli semi ricoperti da una peluria. Questi ultimi le donano un aspetto aggraziato. Il nome clematide deriva dal greco “klema”, viticcio. In antichità infatti veniva considerata una vite. I romani facevano crescere le Clematis sui muri delle abitazioni per la loro fragranza e per la loro presunta capacità di proteggere dai temporali. I tralci flessibili, ma resistenti, venivano inoltre impiegati dai contadini fino a poco tempo fa per fabbricare i cesti e legare le viti. Nei paesi nordici esisteva l’abitudine di prelevare sezioni di fusto legnoso e fumarlo. Il succo urticante delle sue foglie provoca lacerazioni delle pelle ed era per i mendicanti un pratico espediente per impietosire i passanti. Il loro carattere vigoroso le rende invadenti nelle maggior parte delle situazioni, ma costituisce una buona risorsa per coprire grandi recinzioni antiestetiche. Le Clematidi, soprattutto gli ibridi, sono di facile coltivazione, a patto di rispettare alcune regole. Esigono infatti terreni fertili, un buon drenaggio e se si intende addossarle a un muro è buona regola distanziarle di circa 30 cm e direzionarle verso quest’ultimo con dei supporti. Tutte le Clematidi esigono di avere le radici all’ombra e la chioma al sole. Occorre dunque proteggere le radici con dei sassi o del pacciamante. Molto importante è la potatura. Gli esemplari che fioriscono su legno giovane sono da potare a fine inverno; le specie che fioriscono su rami più vecchi vanno potate dopo la fioritura, limitandosi all’ eliminazione dei rami secchi e a un leggero diradamento. Le specie più diffuse sono la Clematis montana, l’alpina, l’armandii florida, la jackmani, l’orientalis e altre innumerevoli, tutte con degli splendidi colori dal bianco, al viola, rosa, rosso e giallo ◆ w w w. l a d e g u s t a z i o n e . c o m i n f o @ l a d e g u s t a z i o n e. c o m 96 97 M AGA ZINE M AGA ZINE FEUDI DI SAN GREGORIO, DIAMANTE DELL’IRPINIA L’azienda campana, oltre 4 milioni di bottiglie l’anno, è un gioiello di innovazione e tradizione che da oltre 20 anni lavora per rivalutare la propria terra S di Monia Innocenti - ph Luca Vignelli ono arrivata a Sorbo Serpico dopo quasi tre ore di pioggia a dirotto. Ho attraversato paesi che sembravano nati ieri: perfetti, curati, quasi finti. E sono davvero nati ieri: dopo più di 20 anni dal terremoto, l’Irpinia è stata ricostruita. E in cima a tutto questo, oltre al sole che finalmente si faceva vivo, c’era Feudi di San Gregorio. Un posto impensabile che si nasconde oltre le colline e, come per magia, produce vini fra i più buoni d’Italia. Non è magia però: è passione. È volontà, convinzione, coraggio, innovazione, genialità, pazienza, sfida. Feudi nasce nel 1986 proprio per una grande sfida: riscrivere la storia vitivinicola del Sud Italia, salvaguardare la tradizione cercandone tutte le potenzialità inespresse. C’è soprattutto un profondo orgoglio e una forte volontà di riscatto per tutto il territorio irpino, luogo dove le pietre preziose sono rare ma eccellenti. La cantina di Feudi è stupore dall’entrata: l’architetto giapponese Hikaru Mori vi ha creato una sorta di giardino zen e in Irpinia davvero non te lo aspetti; gli interni sono di Massimo e Lella Vignelli, simboli del design italiano. Tradizione ed innovazione, conoscenza e continua ricerca: la cantina esprime il contributo tecnologico ed innovativo al processo produttivo ed è capace di dare più consapevole coscienza del vino, superando la contraddizione, anche visiva, della cantina tradizionale. Esempio ne è la sbalorditiva sala degustazione trasparente, con vista sulle botti. Innovativi anche i prodotti. Feudi crea nel 2004, con coraggio, il progetto Dubl, sviluppato con il noto champagnista wine francese Anselmo Selosse, che permette la realizzazione, dai vitigni autoctoni di Falanghina, Greco e Aglianico, di 3 spumanti metodo classico. È l’unico caso nel Sud Italia. Il Dubl Aglianico è la novità che cercavamo per le feste natalizie, un sapore in grado di lasciare davvero il segno. Non poteva essere altrimenti vista la grande tradizione di questa uva e l’importanza che ha fra i vitigni del sud. Una nota per le persone di Feudi, in grado di trasmettere tutto il bello della loro terra, la forza e la gioia che si ha quando ci si prodiga per qualcosa che si ama davvero. Dal giovane AD Antonio Capaldo al maitre del ristorante Marennà Angelo Nudo; dallo chef Paolo Barrale al fattore che mi ha accompagnato a scoprire i vigneti, arrampicandosi per strade davvero improponibili pur di farmi vedere la vite più vecchia della proprietà. Se non è amore questo… Buone feste! ◆ Ristorante Marennà, luogo di incontro, confronto e provocazione. Qui l’ospite incontra la tradizione gastronomica irpina in un ambiente dove si percepisce subito l’attenzione di Feudi per ogni dettaglio. Cucina a vista, lini pregiati, texture della pelle, colori intensi si alternano ai profumi e sapori di una cucina tradizionale e creativa allo stesso tempo. Wine Bar, situato all’interno del “Vulcano Buono” di Renzo Piano a Nola. Il wine bar non è un semplice punto di degustazione ma l’interpretazione di una raffinata civiltà del bere all’interno di un’architettura firmata sempre dai Vignelli. Artigianato ed innovazione sono di nuovo i punti focali: acciaio ma anche pareti e tavoli dello stesso legno delle barriques, vetro, luci e colori. www.feudi.it 98 99 M AGA ZINE M AGA ZINE STILE FRESCOBALDI Da 7 secoli, la famiglia Frescobaldi produce i grandi vini toscani ora famosi in tutto il mondo. Qual è il loro segreto? di Monia Innocenti M archesi de’ Frescobaldi è senz’altro una delle famiglie del vino più note al mondo. Sono 700 anni che il nome Frescobaldi si affianca a quello della produzione dei grandi vini toscani: 30 generazioni, 5000 ettari di proprietà, oltre 1000 di vigneti, 9 tenute in Toscana e una distribuzione in oltre 65 paesi del mondo. Frescobaldi è uno “stile”. Il segreto? Senza dubbio la capacità di essere riusciti a coniugare tradizione e innovazione, rafforzando una caratteristica con l’altra e traendone così il massimo vantaggio. L’ambizione ha poi svolto un ruolo determinate nell’affermazione di questo brand e l’obiettivo, essere il più prestigioso produttore toscano di vino, sembra davvero raggiunto. Frescobaldi crede nel rispetto del territorio, punta sull’eccellenza delle proprie uve e, contrariamente ad altre aziende, ha compreso l’importanza della comunicazione e della professionalità delle risorse umane. L’altissima qualità dei vini Frescobaldi è il risultato dell’esaltazione dell’unicità territoriale: ogni tenuta è espressione originale ed esclusiva di quel territorio e i vini prodotti ne sono il risultato. Ogni tenuta (e quindi ogni bottiglia prodotta) ha una propria identità, storia, personalità che però vengono coltivate con uno spirito comune. Un prodotto esempio dei valori Frescobaldi è il Pomino Pinot Nero 2008: qui troviamo eleganza e ricerca, un colore rosso brillante, profumi e sapori di ciliegie e fragole di bosco. Nonostante l’annata non buona per la grande quantità di pioggia soprattutto durante la fioritura di giugno, il sole dei mesi estivi (settembre compreso) ha permesso il recupero del ritardo delle viti, favorendo un ottimo livello di qualità di tutte le varietà. La tenuta nella quale si ottiene questo vino è quella del Castello di Pomino, opera del ‘500, che ospita le cantine dell’azienda. Pomino è una realtà ambientale unica in Toscana, che si estende per quasi 1500 ettari sulle pendici degli Appennini Tosco Emiliani, con 108 ettari coltivati a vigneto. Dal 1855, primi in Toscana, i Frescobaldi coltivano a Pomino vitigni internazionali come Pinot Nero, Merlot, Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Pinot Bianco e Pinot Grigio. A questi si aggiunge il Sangiovese. Il mondo Frescobaldi è però molto di più. Nel centro di Firenze si trova il Dei Frescobaldi Ristorante & Wine Bar dove la selezione completa di vini della famiglia accompagna i piatti della tradizione toscana e stuzzicanti proposte per non perdere mai il vizio della novità. All’aeroporto internazionale di Fiumicino, Frescobaldi regala un assaggio di Toscana ai viaggiatori grazie a 3 wine bar all’interno dei Terminal. Anche Londra non è rimasta immune al suo fascino: un wine bar si trova infatti nel notissimo Harrods a Knightsbridge, fornendo l’opportunità di degustare un sorso di Toscana ◆ 101 M AGA ZINE Museo dei Cavatappi ph Nevio Doz di Aura Gnerucci ph Nevio Doz S tappare una bottiglia di vino è un rituale che ha sempre qualcosa di magico: gli occhi dei presenti sono concentrati su chi svolge l’operazione. Viene rimosso il sigillo di stagnola e posizionata la punta del cavatappi al centro del turacciolo. La vite affonda nel sughero fino a perforarlo ed infine con lo sforzo di trazione necessario il tappo fuoriesce dal collo della bottiglia con un leggero schiocco. Il turacciolo viene estratto e annusato per verificare se presenta odore. Il nettare degli Dei ora è pronto da servire e degustare. Il Museo dei Cavatappi nasce dalla passione di collezionare cavatappi antichi da parte di Paolo Annoni, un farmacista nato a Torino e trasferitosi nelle Langhe vent'anni fa. Paolo Annoni, da sempre appassionato di vino e gastronomia, sviluppa la passione per i cavatappi grazie al regalo ricevuto da un amico: un cavatappi antico, un esemplare francese affascinante e molto bello, l’Excelsior brevettato da Jacques Pérille nel 1880. Questo dono stimola la sua curiosità e il suo interesse e lo porta sia a cercare altri cavatappi d'epoca, sia a documentarsi sulla loro storia e sulla loro evoluzione, sia dal punto di vista tecnologico che artistico. In seguito a un soggiorno a Barolo, a Paolo Annoni viene l'idea di condividere il frutto di un meticoloso lavoro di anni, Paolo Annoni rendendo le collezioni un bene di tutti, decide così di dar vita a un Museo dei Cavatappi a Barolo, località che per ovvi motivi risulta ottimale; il museo, aperto il 13 Maggio del 2006, trova felice collocazione nei luoghi di una ex cantina dai soffitti con volte a botte in mattone, recuperata e adibita a museo grazie alla collaborazione ispirata degli architetti albesi Danilo Manassero e Luigi Ferrando e dell'ebanista restauratore di Benevagienna Massimo Ravera. Il Museo dei Cavatappi presenta 500 esemplari dal '700 ai giorni nostri, di varie epoche, nazioni e tipologie. L'allestimento proposto permette di comprendere quella che è stata la nascita e l'evoluzione nei secoli di questo utensile di uso quotidiano. Partendo dai 'cavatappi sospesi' e dalla nomenclatura, il percorso ci porta ad ammirare esemplari semplici a 'T' in legno, ferro, alluminio, ottone, osso, corno, ebano, madreperla, bronzo, avorio, argento, tartaruga...e ci fa conoscere l'era delle invenzioni con leve, viti e meccanismi complessi come quello delle due viti, una destrogira ed una levogira, inserite una nell'altra. Nelle 19 sezioni in cui si articola il museo, nulla è stato lasciato al caso, l'intento didattico e la divulgazione colta che si coglie nei pannelli trilingue (italiano, inglese e tedesco), sono abbinati alla spettacolarità dell'allestimento in teche che evidenzia la bellezza dei cavatappi esposti. Una sezione a parte è dedicata alle cartoline d'epoca con il cavatappi come soggetto. L'offerta globale del Museo è completata da una prima parte a libero accesso nella quale possiamo trovare un'ampia vetrina di bottiglie di tutti i produttori di Barolo, bottiglie di Barolo storiche e un bookshop con vendita di libri, pubblicazioni, cavatappi antichi e moderni, prodotti di enologia, souvenir, cartoline, poster, gadget e prodotti alimentari tipici di Langa. Il museo è aperto da marzo a dicembre ed è visitabile tutti i giorni della settimana, a eccezione del giovedì, dalle 10 alle 13, e dalle 14 alle 18,30. Visitare questo museo è divenuto un must per chiunque abbia a transitare a Barolo o in terra di Langa ◆ 103 M AGA ZINE I SEGRETI DELLA CARTA Il processo di produzione artigianale secondo le tecniche di 700 anni fa: un percorso affascinante da seguire nel dettaglio nel museo di Fabriano A raccontare per primo il metodo cinese di fabbricazione della carta fu Marco Polo, che descrisse le fibre vegetali impiegate allora: paglia di tè o di riso, canna di bambù e stracci di canapa. Le tecniche di lavorazione furono gelosamente custodite per secoli e si diffusero solo nel VII secolo, prima in estremo Oriente, poi in Asia centrale, quindi finalmente nel Mediterraneo. In Italia il polo storico di questa manifattura fu da sempre Fabriano, nelle Marche, dove fu introdotta dagli arabi e dove tutt’oggi la carta viene prodotta a partire da lino e canapa, fibre resistenti al tempo e meno costose, ad esempio, della pergamena. Un’attività tanto importante economicamente, che nel 1400 fu vietato di insegnarne i segreti a chi non risiedesse nel territorio del comune. Nella seconda metà del XV secolo le tecnica di stampa con caratteri mobili contribuì a consolidare la tradizione dei testi scritti per comunicare e tramandare pensiero e opere di ingegno e l’industria della carta nelle Marche continuò a fiorire. La sintesi di questa storia secolare che dalla Cina conduce ad un paesino in provincia di Ancona è narrata nell’affascinante Museo della carta di Fabriano, dove sono presentati testi antichi e viene illustrato nel dettaglio il processo manuale di fabbricazione del pregiato strumento, anche attraverso workshop per le scuole. Nel corso della visita viene illustrato l’impiego delle fibre da cui si parte per poi aggiungere collanti e coloranti arrivando alla produzione di raffinati e ormai rarissimi manufatti. Fabriano è infatti una delle pochissime città al mondo dove ancora oggi si fabbrichi carta a mano, i macchinari sono quelli originali e il grosso della lavorazione avviene ancora secondo le tecniche di 700 anni fa: la selezione delle fibre, l’immersione nel tino, l’estrazione manuale di una stessa quantità di pasta e quindi la distribuzione uniforme su tutta la superficie del telaio metallico. Il composto viene scolato, impilato e infine steso. Dopo la collatura e l’essiccamento le ultime operazioni di finitura producono i preziosi fogli utilizzati per edizioni di pregio, disegno artistico e stampe d’arte, corrispondenza e partecipazioni, diplomi di laurea, buoni del tesoro... Un percorso affascinante che merita assolutamente una visita ◆ www.museodellacarta.com DC 104 M AGA ZINE L Le terme di Vals Peter Zumthor e la ricerca dell’atmosfera nell’architettura «Montagna, pietra, acqua. Costruire nella pietra, costruire con la pietra, costruire dentro la montagna, ricavare dalla montagna, essere dentro la montagna: come possono essere interpretati architettonicamente, trasformati in architettura i significati e la sensibilità presenti nell’unione di queste parole? Ponendoci questa domanda abbiamo progettato la costruzione che, passo a passo, ha preso forma» Peter Zumthor e terme di Vals, nel Cantone dei Grigioni, sono un’opera emblematica della poetica di Peter Zumthor, architetto svizzero, insignito del premio Pritzker nel 2009. Il modus operandi di Zumthor, non confluisce in un linguaggio caratterizzato da una sintassi che si ripropone in modo incondizionato nel tempo e nello spazio, ma al contrario rifiuta l’uso di immagini concettuali prestabilite, basandosi su una continua ricerca formale, in stretto rapporto con il contesto e con il Genius loci. Parlando delle terme e del processo creativo che ha portato alla loro forma, l’architetto svizzero racconta di non essere partito da immagini mentali da adattare al compito assegnato, ma di essersi posto fondamentali interrogativi relativi al luogo, ai materiali, alla montagna, alla pietra e all’acqua: cercando le risposte a questi quesiti, è riuscito a creare particolari atmosfere. Per Zumthor l’atmosfera, ovvero la capacità di un’architettura di trasmettere emozioni e suscitare stati d’animo, è una vera e propria categoria della bellezza, che si raggiunge solo indagando a fondo le caratteristiche dei materiali e il loro rapporto con la luce; uno stesso materiale, a seconda delle sue lavorazioni e del tipo di luce da cui è investito, può apparire in migliaia di modi diversi; scrupolosa attenzione dedica inoltre all’accostamento dei vari materiali, “se sono troppo distanti, non vibrano all’unisono, se sono troppo vicini, sono morti”. Durante una lezione tenuta nel 2003 in occasione del Festival di musica e letteratura di Wendlinghausen, l’architetto paragona il suo modo di progettare alla ricerca materica dell’Arte Povera, in cui si ha un impiego dei materiali preciso e sensuale, che allo stesso tempo è affrancato da forti significati. Peter Zumthor utilizza i materiali in modo simile, facendogli assumere qualità poetiche ricche di accezioni e ricercando un legame adeguato tra forma e significato in stretto contatto con il contesto. L’attenzione verso i materiali può essere ricondotta alle origini dell’architetto che, figlio di un ebanista, fin da piccolo imparò l’arte della falegnameria. Osservata dall’esterno, la struttura delle terme si presenta come uno stereometrico volume monolitico sapientemente traforato. L’intero edificio è costituito da un continuum di strati di lastre di gneiss, sovrapposte l’una sull’altra, che sono state estratte da una cava di pietra poco distante, caratterizzate da strati verdi, leggermente bluastri. Le lastre di pietra vengono unite al calcestruzzo andando a costituire una struttura portante, una muratura composita che trova ispirazione nei vecchi muri di sostegno delle strade di campagna. L’interno, ottenuto concettualmente attraverso un processo di scavo, si articola attraverso passaggi intimi e oscurati sul lato della montagna, da cui si accede alle terme, fino a giungere ad ambienti sempre più grandi che portano alla parte anteriore, dove grandi aperture, come quadri sul paesaggio, permettono la vista panoramica sul pendio della valle di fronte, creando un forte legame con la tranquillità dei monti incantati ◆ AG 106 107 M AGA ZINE M AGA ZINE Portico nord Il Kimbell Art Museum: Louis I. Kahn, e il progetto di ampliamento di Renzo Piano ph Robert La Prelle © Kimbell Art Museum, Fort Worth Galleria sud - Antonio Canova I l Kimbell Art Museum, Fort Worth, Texas, progettato da Louis I. Kahn a partire dal 1966 ed aperto al pubblico nel 1972, è considerato una pietra miliare dell’architettura del XX secolo, rappresentando una risposta all’International Style. Nel Kimbell Art Museum, opera della maturità di Kahn, vengono cristallizzati alcuni dei temi principali della sua ricerca formale, come l’importanza della luce e la sua capacità di significare lo spazio, come la volontà di esprimere il procedimento costruttivo dell’edificio. Elementi che rivelano l’influenza che ebbero per Kahn sia la filosofia platonica che il pensiero di Heidegger. Fondamentale nel contribuire allo sviluppo del suo personale linguaggio architettonico, caratterizzato dalla volontà di trascendenza, monumentalità e di durata nel tempo fu il periodo trascorso a Roma, che gli permise di studiare l’architettura romana ed in particolare le costruzioni in mattoni dei grandi edifici, come le basiliche, le terme, le tombe ed i principali monumenti. Secondo Kahn, il processo che porta al progetto architettonico si articola secondo tre stadi basilari: quello iniziale che definisce l’idea, momento in cui la forma esprime la sua prima volontà “Nessuno spazio, architettonicamente, è spazio se non riceve luce naturale”. Louis I. Kahn concreta di esistere; il secondo, che attraverso i criteri della composizione tradizionale e le leggi della geometria, porta all’introduzione dell’ordine; infine l’ultimo, il disegno che risolve e definisce le qualità di ciascuno spazio, la sua illuminazione, i suoi elementi costruttivi ed i suoi materiali. Il momento basilare della sua concezione architettonica, come esemplifica in uno dei suoi scritti più noti I Love Beginnings, è quello iniziale dell’idea, nel quale ponendosi l’interrogativo di influenza heideggeriana ”che cosa vuole essere un edificio” si ricerca l’esistenza delle cose con l’intenzione di arrivare all’essenza dei tipi architettonici, di ogni sostanza e di ogni elemento. Attraverso l’impiego di assi principali e secondari di composizione, ed utilizzando un procedimento di derivazione Beaux-Arts, consistente nella ripetizione di forme semplici, Kahn arriva a definire per il Kimbell Art Museum un impianto planimetrico a ”C”, organizzato attorno ad una corte anteriore, e formato dall’aggregazione di unità architettoniche autonome, “stanze” rettangolari allungate, 30 per 7 metri, voltate a botte. Le forme semplici di Kahn, sono sempre cariche di valori trascendentali, simbolici e gerarchici, e contribuiscono a raggiungere l’ideale di una architettura eterna. Rispettando l’assunto secondo cui Gallerie sud “lo spazio non è tale se non è possibile percepire con chiarezza com’è fatto”, la struttura viene dichiarata all’esterno attraverso le tre campate aperte anteriori, ogni campata è costituita da quattro pilastri in cemento armato che sostengono una volta allungata in calcestruzzo con sezione a cicloide. Il tema della luce viene risolto magistralmente attraverso l’integrazione tra struttura ed illuminazione, anche se il lucernario, che corre longitudinalmente per l’intera lunghezza di ogni ambiente in corrispondenza della chiave di volta, dimostra che le strutture non sono propriamente volte, ma travi curvate in calcestruzzo gettato in opera e post-tese. L’intensità del Sole texano viene attenuata da dei diffusori, definiti da Kahn “apparecchiature della luce naturale” che trasformano la luce del giorno in una diffusa luminosità argentea che lambisce l’intradosso delle volte. La corte esterna è caratterizzata da un boschetto di agrifogli nani, delimitato ai due lati da due vasche in cui l’acqua tracima. Questo visione naturale doveva presentarsi al visitatore ancor prima che l’edificio, nascosto tra gli alberi, comparisse allo sguardo. Kahn, non accettò mai il comportamento di coloro che arrivando in automobile, attraversavano il parcheggio entrando dalla parte posteriore. Vista sud-ovest con Henry Moore Nel corso degli anni, le mostre e le attività organizzate sono cresciute oltre ogni previsione, tant’è che si è deciso di ampliare la struttura del museo. Per realizzare l’intervento è stato scelto Renzo Piano, sia per la sua esperienza museografica sia per il fatto che è stato allievo di Kahn. Il confronto con l’edificio di Kahn non si presentava come un compito facile, Piano sceglie di intervenire distaccandosi dalla struttura preesistente, dialogando attraverso una scala rispettosa delle volumetrie originarie. Inoltre crea un forte asse visivo tra l’ingresso principale di Kahn, e l’atrio del nuovo edificio, operazione che non solo rafforza il legame a distanza tra i due edifici, ma che soprattutto andrà a correggere la tendenza della maggior parte dei visitatori di entrare da quello che è il dietro dell’edificio di Khan, restituendo dunque all’edificio il suo ingresso, così come era stato pensato dall’architetto. Con l’addizione al sito dell’edificio progettato da Renzo Piano, la cui apertura è prevista per il 2013, la Kimbell Art Foundation mantiene il suo impegno nei confronti di una architettura di eccellenza ◆ AG Ingresso Ovest DESIGN RURALE: IL FASCINO DEL CONTRASTO Dall’amore per la natura e per i materiali poveri nasce il recupero di una struttura agricola in Salento, magicamente collocata nel cuore di una campagna con vista mare, ora sospesa fra antico e contemporaneo di Donatella Codonesu - ph ©Luca Zanaroli I nnamoratisi del Salento e delle atmosfere primordiali che ancora riesce a trasmettere, l’architetto bolognese Luca Zanaroli e la moglie Silvia Bernabei, appassionata di interior design, si sono impegnati a conservare queste sensazioni autentiche nel recupero di un piccolo complesso rurale abbandonato nei pressi di Santa Maria di Leuca, oggi risorto a nuova vita grazie ad un restauro modernissimo nella concezione, ma fortemente ancorato al territorio. Due i corpi originali, attigui ma non comunicanti fra loro, il più antico dei quali, risalente al ‘700, era una tipica pagliara (deposito di attrezzi e legna) con struttura a forma di trullo. Il secondo spazio, una cosiddetta liama, a pianta quadrata con volta a botte, era destinato ad accogliere i contadini che pernottavano nei campi. Nella stessa proprietà, una terza costruzione adibita al forno era invece praticamente distrutta. Il fascino del luogo stava nell’autenticità: lo spazio, disabitato da anni, aveva conservato intatta la sua originale essenza e la forza di suggestioni ancestrali. 112 113 M AGA ZINE M AGA ZINE Per mantenere lo stretto legame con la terra, l’architetto ha scelto una soluzione altrettanto forte: quella di rinunciare a letti e mobili, costruendo al loro posto superfici concrete in materiali uniformi, come la malta cementizia utilizzata per pavimenti e pareti interne, un intonaco a base di calce e sabbia di tufo per rivestire i muri esistenti, pannelli di legno ricoperti con tela di lino grezza, pietra viva all’esterno. In questo contesto crudo ed essenziale, molto vicino all’esperienza culturale contadina, pochi pezzi di design contemporaneo e l’utilizzo di materiali moderni come l’acciaio per le zone tecniche offrono un forte contrasto dal retrogusto metropolitano. Bagno e guardaroba sono stati ricavati all’interno delle spesse mura e una piccola galleria scavata nella parete collega oggi i due spazi originali, adibiti a zona giorno e notte, mentre la cucina è stata sistemata al posto del vecchio forno. A dare un tocco incredibilmente evocativo alcuni particolari elementi, sempre frutto del recupero di vecchi materiali, come la sagoma di una stella, luminaria residuo di feste paesane, o come le esili sfere in fil di ferro sospese nella cupola, costruite dallo stesso architetto, amante della manualità e dell’artigianale: quasi un ricamo nell’aria, riempiono lo spazio senza occludere la vista. Il risultato è un ambiente assolutamente intimo ed accogliente, specchio della semplicità dei luoghi, che evoca una fusione perfetta fra la natura e la mano dell’uomo ◆ www.lucazanaroli.com CAPE TOWN WORLD DESIGN CAPITAL 2014 Cape Town, capitale mondiale del design 2014 conferisce al design, con il tema ‘Live Design. Transform Life’ un nuovo forte messaggio: non solo qualcosa di bello da vedere ma uno strumento utile che possa innovare e migliorare la vita delle persone di Vittoria di Venosa 116 117 M AGA ZINE mostre ed eventi, la città sta dando il meglio di sé per lasciare un’impronta importante nella storia del design. Tra le molte proposte in corso a Cape Town e sparse per tutta questa eclettica capitale, si segnala la realizzazione di nuovi e confortevoli bus; la riqualificazione urbanistica delle township in un’ottica green e il riutilizzo delle strutture nate in occasione dei Mondiali del 2010. The Fringe, insieme a Wookstock sono il cuore pulsante dell’evento votato al design: in pratica sono il quartier generale delle idee, della sperimentazione e della contaminazione. Emblematica la manifestazione “Infecting the city” grazie alla quale l’arte esce dai luoghi istituzionali e penetra nel tessuto urbano rendendo tutti più consapevoli del patrimonio del proprio paese. E ancora la Southern Guild Gallery, prima galleria sudafricana a essere stata invitata alla Design Week di Miami. Showroom a Woodstock I l 2014 per Cape Town, la città più creativa dell’Africa australe, selezionata dopo Helsinki, Seoul e Torino, capitale mondiale del design, è la prima città africana ad aver ricevuto l’onore di rappresentare tutto il Sudafrica. Quattro i temi-cardine di questa edizione: ‘African Innovation. Global Conversation’; ‘Brindging the Divide’; ‘Today for Tomorrow’ e ‘Beautiful Spaces. Beautiful Things’. Il design in tutte le sue declinazioni presente in questa edizione è il mezzo per migliorare la vita quotidiana degli oltre 3,6 milioni di abitanti che popolano la più dinamica delle capitali africane, incastonata fra le pendici dell’altipiano Table Mountain e la baia che si apre verso l’incredibile costa frastagliata di Cape West. Visitare Cape Town nel 2014 diventa quindi un’esperienza unica. Grazie a un ricco calendario di festival, premiazioni, esign M AGA ZINE 118 119 M AGA ZINE M AGA ZINE Lampada da tavolo by Cara Judd e Heath Nash Non manca la presenza di Design Indaba (maggio 2014), attualmente impegnato nella creazione di una piattaforma multidisciplinare per celebrare e promuovere le industrie creative del paese. In quest’ambito si inserisce il design esclusivo di Cape Best, società creata nel 2009 da Ornella Colli e Andrea Garello Cantoni, grandi estimatori e conoscitori del Sudafrica, che da anni ricerca complementi d’arredo originali che racchiudono un pezzo di storia e l’essenza stessa di Cape Town. Pezzi capaci al contempo di adattarsi alla perfezione allo stile metropolitano, per impreziosire con oggetti unici la propria casa, come la lampada da tavolo di Cara Judd e Heath Nash caratterizzata per il suo design pulito e formale in contrasto al gioioso copri lampada a forma di fiore in plastica riciclata. Cape Town è la prima tappa per conoscere questa parte del continente africano che a vent’anni esatti dalla fine dell’apartheid, nata sotto il segno di Nelson Mandela, si mostra al mondo come nuova affascinante metropoli in pieno fermento creativo. Un appuntamento imperdibile per lasciarsi ispirare da tutti gli eventi legati al design, alla moda e all’arte, che proseguiranno per tutto il 2014. Benvenuti a Cape Town, arrivederci in Sudafrica! ◆ www.wdccapetown2014.com; www.southafrica.net; www.sudafricaperte.it design 120 M AGA ZINE IL SALONE DEL MOBILE, MILANO Star di questa prestigiosa vetrina le linee minimali dell’arredo bagno e dello spazio cucina di Vittoria di Venosa Graff vasca da bagno Milldue design È tutto pronto per la 53a edizione del Salone Internazionale del Mobile, che con le biennali EuroCucina e il Salone Internazionale del Bagno, oltre al SaloneSatellite, concentra su Milano, capitale internazionale dell’arredo, tutte le novità del furniture design. Ad animare i padiglioni di Fiera Milano di Rho-Pero, dall’8 al 13 aprile, quest’anno contribuisce anche un’importante proposta culturale che vede coinvolti otto autorevoli nomi dell’architettura internazionale. Si tratta dell’evento ‘Dove vivono gli architetti’ che nel padiglione 9 della fiera le archistar Shigeru Ban, (Giappone); Mario Bellini, (Italia); David Chipperfield, (Regno Unito); Massimiliano e Doriana Fuksas, (Italia); Zaha Hadid (Iraq/Great Britain); Marcio Kogan, (Brasile); Daniel Libeskind, (Polonia/Usa) e Bijoy Jain/Studio Mumbai (India), apriranno le porte delle loro ‘abitazioni private’ materializzando la loro poetica progettuale tra architettura domestica e design. Il Salone Internazionale del Mobile vanta, come ogni anno, 121 M AGA ZINE Aran Cucine - collezione Bella la presenza di consolidate aziende dell’arredo internazionale quali Hästens, Kvadrat, Iittala, Tom Dixon e del settore moda, come Ferré, Pierre Cardin, Ungaro, di fama mondiale, rendendo ancora più ricca la già ampia offerta merceologica. Anche a Eurocucina si vede il ritorno di grandi player del settore che rispondono al nome di Alno, Dada, Doimo, Schiffini e Valcucine, con proposte urban minimalist per giovani coppie metropolitane. Nella biennale dedicata al bagno, sempre più ampia e completa, ospite nel padiglione ventidue, si possono ammirare tutte le novità dell’arredo bagno: dagli accessori alle cabine doccia, dagli impianti sauna alle vasche da bagno e idromassaggio, dalla porcellana sanitaria alla rubinetteria il visitatore è coinvolto da proposte sofisticate e trasparenze luminose. Nel corso della settimana internazionale del Mobile il design non è solo nei padiglioni di Fiera Rho-Pero ma in diverse prestigiose location che animano la capitale rinomata del design. 123 M AGA ZINE Coro Sofa SABAL design Matteo Nunziati design Doimo Salotti divano Poesia Da Doimo Salotti il divano Poesia è invece ideale per far vivere in relax il corpo e la mente grazie alla sua linea minimale e ai colori neutri, che lo rendono particolarmente dedicato a chi ama le atmosfere sofisticate. Dielle, altra azienda del Grupo Doimo, specializzata nella Barovier&Toso Light E-motion MDF Flow Collection by J.M. Massaud produzione di camere per ragazzi propone ora Modus, un sistema abitativo ad alto contenuto estetico che consente di reinventare la zona notte. Modus by Dielle è un concept volto a creare progetti fuori da schemi precostituiti che permette di arredare con creatività e ingegno la camera da letto degli adulti. Dielle div. Doimo - letto container Calligaris - Gamera Chair rossa Ecco ad esempio la collezione di Paola Lenti presente nei Chiostri della Società Umanitaria in via Daverio, dove il divano di Francesco Rota riflette, nei cromatismi e nell’accurata scelta di materiale, l’essenza del ‘bello’. I Chiostri sono quest’anno i protagonisti del percorso del fuorisalone per i fashion & design-addict. Un altro affascinante esempio è la suggestiva installazione luminosa di Light E-Motion che Marcel Wenders, utilizzando i suoi codici espressivi di gioco/poesia/fantasia, firma per Barovier & Toso. Ospitata nella cornice dei Chiostri della Basilica di San Sempliciano la rappresentazione scenografica di lampadari atomizzati è assolutamente da vedere. Al Salone nella divisione living ecco gli arredi più essenziali: da MDF la seduta Flow declinata nella variante sedia e poltroncina firmata da Jean-Marie Massaud, che non impone dettami stilistici ma rimane sempre sé stessa come un oggetto elegante e senza tempo. Anche la sedia Gamera ideata da Pocci e Dondoli per Calligaris si materializza con uno stile ricco di passione che la rende un classico della modernità o moderna nella classicità. Per il living ecco l’incredibile chaise-longue L3 della collezione Coro che Sergio Brioschi ha disegnato puntando su un tratto sempre pulito in un calibrato elemento geometrico che coniuga moda e design. 124 125 M AGA ZINE M AGA ZINE Gallotti Radice AKIM by Gabriele Interiors by Aston Martin per Formitalia Luxury Group Da Gallotti & Radice continua la raffinata ricerca di Gabriele e Oscar Buratti sul tema design con l’impiego del vetro e dello specchio come lo scultoreo tavolo Akim, caratterizzato dalla base centrale a forma di ottagono in cui viene enfatizzato il gioco di riflesso e di inaspettate profondità. Più classico invece il divano avvolgente di Aston Martin Interiors, prodotto e distribuito in esclusiva mondiale da Formitalia Luxury Group, destinato a un pubblico designaddicted attraverso gli stessi codici che hanno costruito il successo del prestigioso marchio automobilistico inglese. Che dire invece della sorprendente libreria Oxymore che Xavier Lust firma per DeCastelli che come un teorema di geometria e grazie al suo gioco di cunei e incastri, crea in modo fluido e intuitivo un vero poema poetico. Arper design by Lievore Altherr Molina DeCastelli Oximore by Xavier Lust 126 M AGA ZINE Glass Idromassaggio linea Step Nell’arredo bagno eleganza, leggerezza e soluzioni funzionali sono le proposte delle varie aziende che rendono l’area bagno un unico oggetto di desiderio. Ecco ad esempio la linea minimalista di Glass Idromassaggio che può essere installata anche in un living, così come la doccia sensoriale tailor-made di Samo. E ancora le creazioni su misura di Planit, con la linea purissima in corian del lavabo Wing e la raffinata collezione della stanza da bagno di Milldue che si veste di materiali preziosi e innovativi sottolineano il lusso contemporaneo. E come sempre il salone si apre alla capitale del design con eventi e performance che coinvolgono tutta la città come la divertente installazione di Cracking Art che vede l’invasione nei cortili e fossati del Castello Sforzesco di Milano delle gioiose, pacifiche e benefiche rondini e uova di rondine gigante multicolor che rallegreranno dal 10 aprile al 30 giugno 2014 la primavera milanese ◆ Planit lavabo Wing Life in Touch di Vittoria di Venosa W hirlpool, azienda leader nella produzione e commercializzazione di grandi elettrodomestici, ha scelto Venezia per presentare una showcooking svoltasi lo scorso febbraio nell’ex Molino Stucky, storico e antico molino situato alla Giudecca, ora Hilton Molino Stucky Hotel, le novità dell’incasso 2014. ‘Life in Touch’ è l’emblema del tema della showcooking che esprime alla perfezione l’ideale di vita moderno, vivace e sempre ‘in con-tatto’. Imponente e centrale, il tavolo rettangolare esprime socialità e convivialità, contiene gli elementi vitali tipici della città lagunare: una vasca d’acqua posta al centro favorisce l’interazione tra i commensali ispirandosi all’acqua che scorre nei canali veneziani mettendo in contatto persone e luoghi diversi. Sul tavolo sono, inoltre, presenti otto segnaposti realizzati in vetro di Murano, omaggio al tocco creativo dei veneziani. Sempre in onore della città, sullo sfondo della Showcooking è rappresentato un originale canneto, realizzato attraverso coreografiche illuminazioni a led. L’installazione è resa ancora più spettacolare attraverso un gioco di luci e tonalità cromatiche gestite attraverso un sistema tecnologico dedicato che rende ancora più piacevole l’esperienza culinaria all’insegna della socializzazione. La Showcooking di Whirlpool non è destinata a rimanere una pura installazione: da maggio 2014 troverà una collocazione permanente all’interno dell’Hilton Molino Stucky Venice trasformandosi in un inedito palcoscenico culinario aperto al pubblico in onore della storica Super Pasta Stucky, piatto alla base della dieta mediterranea, la cui farina veniva prodotta all’interno dell’antico mulino. Paradiso per tutti i ‘foodies’, la Showcooking diventerà così simbolo del ‘social food’ all’insegna della condivisione e della passione per la cucina della tradizione italiana ◆ design www.whirlpool.it O #1 Marzo/Aprile 2014 N • TI Copia omaggio EC • LL Numero 43 - Collection #1 O • C Anno 6
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