INFETTIVOLOGIA PEDIATRICA (a cura di G.V. Zuccotti)

Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • pp. 1-68
Vol. 44 • N. 173
Gennaio-Marzo 2014
Le malattie della tiroide nei bambini (a cura di F. Chiarelli, M.L. Marcovecchio)
Ipotiroidismo congenito
Le Tiroiditi
I noduli tiroidei in età pediatrica: classificazione, inquadramento diagnostico e principi terapeutici
L’ipertiroidismo in età pediatrica: una realtà rara
Infettivologia Pediatrica (a cura di G.V. Zuccotti)
HIV in età pediatrica: cosa è cambiato 30 anni dopo
Aggiornamenti e nuove frontiere nella tubercolosi in età pediatrica
La gestione della meningite batterica
FRONTIERE (a cura di A. Biondi, A. Iolascon, L.D. Notarangelo, M. Zeviani)
Alimenti e malattie infiammatorie croniche
Tavola rotonda (a cura di F. Sereni)
Pediatria, Neuropsichiatria Infantile e Neurologia Pediatrica. Problemi attuali di assistenza e ricerca
Pacini
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Vol. 44 • N. 173
Gennaio-Marzo 2014
INDICE numero 173 Gennaio-Marzo 2014
Le malattie della tiroide nei bambini (a cura di Francesco Chiarelli, M. Loredana Marcovecchio)
Presentazione
Ipotiroidismo congenito
Alessandra Cassio, Antonella Cantasano, Milva Orquidea Bal.................................................................................................................. 2
Le Tiroiditi
M. Loredana Marcovecchio, Francesco Chiarelli...................................................................................................................................... 8
I noduli tiroidei in età pediatrica: classificazione, inquadramento diagnostico e principi terapeutici
Graziano Cesaretti.................................................................................................................................................................................. 13
L’ipertiroidismo in età pediatrica: una realtà rara
Giovanna Weber, Elena Peroni, Maria Cristina Vigone............................................................................................................................. 20
Infettivologia Pediatrica (a cura di Gian Vincenzo Zuccotti)
Presentazione
HIV in età pediatrica: cosa è cambiato 30 anni dopo
Vania Giacomet, Valentina Fabiano, Gian Vincenzo Zuccotti................................................................................................................... 26
Aggiornamenti e nuove frontiere nella tubercolosi in età pediatrica
Francesca Tucci, Andrea Lo Vecchio, Alfredo Guarino............................................................................................................................. 36
La gestione della meningite batterica
Giulia Remaschi, Alessia Nucci, Chiara Tersigni, Melodie Aricò, Clementina Canessa, Francesca Lippi,
Chiara Azzari, Luisa Galli........................................................................................................................................................................ 45
Frontiere (a cura di Andrea Biondi, Achille Iolascon, Luigi D. Notarangelo, Massimo Zeviani)
Alimenti e malattie infiammatorie croniche
S. Auricchio, M.V. Barone........................................................................................................................................................................ 53
Tavola rotonda
Pediatria, Neuropsichiatria Infantile e Neurologia Pediatrica. Problemi attuali di assistenza e ricerca
A cura di Fabio Sereni............................................................................................................................................................................ 61
Le malattie della tiroide nei bambini
La ghiandola tiroidea ha un ruolo essenziale nella regolazione dell’accrescimento, della maturazione e mielinizzazione del sistema nervoso, del metabolismo e su una serie di organi ed apparati. I disordini che colpiscono la ghiandola tiroidea rappresentano le più comuni
endocrinopatie in età pediatrica. La eziologia e la presentazione clinica delle malattie tiroidee nei bambini differiscono in modo sostanziale
da quelle degli adulti. Pertanto, è di grande importanza conoscere le diverse caratteristiche della funzione e della disfunzione tiroidea nei
bambini e negli adolescenti. La diagnosi precoce ed il trattamento tempestivo ed ottimale sono essenziali per prevenire il danno irreversibile
e permanente a carico del sistema nervoso centrale e periferico, soprattutto nei bambini della prima infanzia che sono particolarmente
vulnerabili alla disfunzione della tiroide.
In questo numero di Prospettive in Pediatria vengono trattate le patologie della tiroide più rilevanti in età evolutiva, per la loro frequenza,
l’importanza clinica e le recenti acquisizioni scientifiche, al fine di fornire un aggiornamento su questo importante capitolo di Endocrinologia
Pediatrica.
L’ipotiroidismo congenito è la più frequente patologia tiroidea nei bambini, ha una incidenza variabile ed appare in aumento in vari studi
epidemiologici. I recenti progressi nella ricerca scientifica hanno consentito di comprendere meglio le varie fasi della formazione e migrazione della ghiandola tiroidea; i programmi di screening neonatale sono stati implementati negli ultimi lustri ed hanno consentito il trattamento
tempestivo dell’ipotiroidismo congenito. Molto recentemente sono state pubblicate ‘Consensus guidelines’ sullo screening, diagnosi e
gestione dell’ipotiroidismo congenito, che hanno definito molto puntualmente i criteri per la diagnosi ed il follow-up dei bambini con questa
frequente patologia tiroidea (Leger et al., 2014).
Le tiroiditi sono frequenti nei bambini. La forma in assoluto più frequente è la tiroidite di Hashimoto, che si manifesta soprattutto durante
l’adolescenza con una predominanza nel sesso femminile. Questa malattia si associa di frequente alla malattia celiaca, alla sindrome di
Turner e al diabete mellito di tipo 1. La diagnosi si basa sul dosaggio degli anticorpi anti-tireoperossidasi e anti-tireoglobulina e sulla valutazione ecografica. Il dosaggio degli ormoni tiroidei può risultare nella norma, spesso però si osserva un TSH elevato con FT4 normale e vi
è discussione in letteratura su quando trattare un ipotiroidismo subclinico.
I noduli tiroidei non sono frequenti nei bambini, ma spesso pongono rilevanti problemi di inquadramento diagnostico. Nei bambini si possono osservare noduli benigni o maligni, con maggior prevalenza di questi ultimi. Il capitolo sui noduli tiroidei offre una revisione accurata
dei criteri che permettono di distinguere i noduli benigni dai maligni, insieme agli aspetti salienti relativi alla diagnostica e alla terapia.
Il quarto articolo è dedicato all’ipertiroidismo nei bambini. L’ipertiroidismo, seppur raro in età pediatrica, rappresenta una condizione la cui
diagnosi può essere insidiosa. L’articolo delinea le caratteristiche cliniche e laboratoristiche tipiche di questa condizione e offre una revisione dello stato dell’arte in merito agli attuali approcci terapeutici, relativamente ai quali c’è ancora ampio dibattito.
È nostra speranza che questa sessione di Tireologia Pediatrica possa fornire al lettore di Prospettive in Pediatria un completo aggiornamento
delle malattie tiroidee in età pediatrica, con l’obiettivo di migliorare la diagnosi ed il trattamento di queste importanti malattie nei bambini.
Francesco Chiarelli, M. Loredana Marcovecchio
Clinica Pediatrica, Università di Chieti
Bibliografia Essenziale
Léger J, Olivieri A, Donaldson M, et al. on behalf of ESPE-PES-SLEP-JSPE-APEG-ISPAE, and the Congenital Hypothyroidism Consensus Conference Group. European Society for Paediatric Endocrinology Consensus Guidelines on Screening, Diagnosis and Management of Congenital Hypothyroidism. J Clin Endocrinol Metab 2014;99:363-84.
Brown RS. Autoimmune thyroiditis in childhood. J Clin Res Pediatr Endocrinol 2013;5 Suppl 1:45-9.
Léger J, Carel JC. Hyperthyroidism in childhood: causes, when and how to treat. J Clin Res Pediatr Endocrinol 2013;5 Suppl 1:50-6.
Osipoff JN, Wilson TA. Consultation with the specialist: thyroid nodules. Pediatr Rev 2012;33:75-81.
Hiromatsu Y, Satoh H, Amino N. Hashimoto’s thyroiditis: history and future outlook. Hormones 2013;12:12-8.
1
Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 2-7
endocrinologia pediatrica
Ipotiroidismo congenito
Alessandra Cassio, Antonella Cantasano, Milva Orquidea Bal
Dipartimento di Scienze Mediche-Chirurgiche, UO di Pediatria, Programma di Endocrinologia, Università degli Studi
di Bologna
Riassunto
L’Ipotiroidismo Congenito rappresenta il più comune disturbo endocrinologico del neonato la cui incidenza appare in aumento nel corso degli ultimi anni. È
causato in circa il 70% dei casi da disgenesia tiroidea, la cui etiopatogenesi appare complessa ed ha verosimilmente basi poligeniche e multifattoriali. Nel
30% dei casi è dovuto ad un difetto autosomico recessivo nella biosintesi ormonale associato a ghiandola tiroidea in situ.
Lo screening neonatale permette l’individuazione precoce della malattia e quindi la prevenzione dell’handicap mentale conseguente. Un test di screening
patologico deve ritenersi solo il primo passo di un processo che, attraverso conferma diagnostica e follow-up, conduce ad una gestione terapeutica e ad
un monitoraggio differenziati in base alla severità della patologia. La L-Tiroxina è il trattamento d’elezione con un dosaggio iniziale variabile da 10 a 15 µg/
kg/die in rapporto alla gravità e all’etiologia del quadro patologico.
Summary
Congenital hypothyroidism is the most common endocrine disorder in neonatal age and its incidence seems to have increased over the past twenty years.
In about 70% of cases congenital hypothyroidism is caused by thyroid dysgenesis, whose etiology is complex and has likely multifactorial and polygenic
basis. Thirty per cent of cases are due to an autosomal recessive disorder in hormone biosynthesis associated with thyroid gland in situ.
Newborn screening allows early congenital hypothryoidism detection, thus preventing subsequent mental handicap. Through confirmation of diagnosis and
follow-up, pathological screening test is only the first step in a process leading to different management depending on the severity of the disease. L- Thyroxine is the first choice treatment. Its initial dosage ranges from 10 to 15 µg/kg/die, based on severity and etiology of the pathological picture.
Parole chiave: Ipotiroidismo Congenito, Screening neonatale, L-Tiroxina, Conferma diagnostica
Key words: Confirmation of diagnosis, Congenital Hypothyroidism, L-Thyroxine, Newborn Screening
Obiettivi del lavoro e metodologia della ricerca
bibliografica
Scopo dell’articolo è quello di analizzare gli aspetti epidemiologici,
etiopatogenetici e l’approccio diagnostico-terapeutico dell’Ipotiroidismo Congenito (IC). Le conoscenze riguardanti tale endocrinopatia, che è quella di più comune riscontro per il pediatra, si sono
profondamente modificate nel corso degli ultimi decenni grazie in
particolare all’avvento dei programmi di screening neonatale.
Per realizzare questi obiettivi è stata condotta una ricerca bibliografica su Medline, avvalendosi di PubMed come motore di ricerca.
Sono state utilizzate le seguenti stringhe di ricerca: ipotiroidismo
congenito,epidemiologia, screening neonatale, L-tiroxina, conferma
diagnostica ed è stata impostata una limitazione temporale agli ultimi 4 anni. Alcune pubblicazioni rilevanti degli anni precedenti, riportate nel lavoro, sono derivate sia dalla conoscenza personale degli
autori che dalla bibliografia delle pubblicazioni identificate mediante
PubMed.
Epidemiologia
L’incidenza dell’IC appare in aumento nel corso degli ultimi anni secondo i dati della letteratura internazionale (Rastogi e La Franchi,
2010; Olivieri et al., 2013; Donaldson e Jones, 2013) (Fig. 1). I motivi di tale incremento possono essere molteplici e, almeno in parte, riflettono differenze etniche, nell’apporto iodico o nelle modalità
dell’accertamento diagnostico nei diversi paesi (Donaldson e Jones,
2013). La riduzione dei livelli di cut-off per il TSH attuata in molti
2
programmi di screening ha permesso l’individuazione di un maggior
numero di forme “mild” di IC, prevalentemente con tiroide in sede.
Studi a lungo termine saranno necessari per valutare l’outcome di
tali forme per ciò che riguarda il rischio di deficit psicointellettivi e la
necessità o meno di terapia sostitutiva (Rabbiosi et al., 2013). Infine
Figura 1.
Aumento dell’incidenza dell’IC nel corso degli ultimi 30 anni segnalata
dai vari programmi di screening in campo internazionale. In particolare
negli Stati Uniti si è passati da un’incidenza di 1:4098 nel 1978 a 1:
2370 nel 2005 con una probabilità di diagnosi di IC aumentata del 30%
nel corso di un decennio. In Italia secondo i dati del Registro Nazionale
degli Ipotiroidei Congeniti l’incidenza delle forme permanenti di IC è
passata da 1:3800 negli anni 1987-1999 a 1:1800 nati vivi nel periodo
2000-2006.
Ipotiroidismo congenito
sempre con più frequenza tra i fattori di rischio di insorgenza di IC
compaiono la prematurità, il basso peso neonatale e la gemellarità,
fattori che nel corso degli ultimi anni vengono favoriti dal crescente
impiego delle tecniche di procreazione assistita (Rastogi e La Franchi, 2010).
Etiologia
Grazie in particolare alle conoscenze derivanti dallo screening neonatale, l’IC si è rivelata una malattia con un ampio spettro di manifestazioni le cui cause sono riportate nella tabella I (Cassio et al., 2013).
La disgenesia tirodea è la causa più comune di IC primitivo (70%
dei casi) ed è dovuta in prevalenza ad ectopia sublinguale. In circa
il 30% dei casi l’IC primitivo è dovuto ad un difetto, trasmesso con
ereditarietà autosomica recessiva, di uno degli enzimi coinvolti nella
sintesi degli ormoni tiroidei e si associa ad una ghiandola tiroidea in
situ di volume normale o aumentato.
Genetica
La disgenesia tiroidea isolata è in genere una forma sporadica la
cui patogenesi è tuttora in buona parte sconosciuta, ma alcune recenti osservazioni suggeriscono una possibile base genetica anche
in tali difetti (Montanelli e Tonacchera, 2010). Vi è infatti l’evidenza
sperimentale che mutazioni nei fattori di trascrizione coinvolti nello
sviluppo della tiroide (PAX 8, FOXE1, NKX2-1, NKX2-5) causano disgenesie tiroidee nei modelli murini e, sia pure in una minoranza di
casi, mutazioni analoghe sono state associate a difetti dell’organogenesi tiroidea nell’uomo (De Felice e Di Lauro 2011) (Tab. II).
Inoltre, studi in vivo in famiglie di soggetti ipotiroidei congeniti ha
evidenziato una frequenza di forme familiari di disgenesia tiroidea
(2%) e di minori anomalie morfologiche tiroidee in soggetti eutiroidei
(7%) nettamente superiore a quella riscontrata nella popolazione di
controllo (0,9%) e difficilmente spiegabile sulla base della sola casualità (Castanet et al., 2001; Leger et al., 2002). Infine un’incidenza
elevata di malformazioni congenite extratiroidee è stata riscontrata
nei pazienti con IC e mutazioni di alcuni fattori di trascrizione sono
state descritte in casi “sindromici” di IC (Olivieri et al., 2007; Montanelli e Tonacchera, 2010; Leger et al., 2013). Tutte queste osservazioni supportano l’ipotesi di un’origine comune di difetti durante le
fasi dell’embriogenesi tiroidea, in cui l’interazione fra i diversi fattori
di trascrizione ha un ruolo chiave ed è necessaria per l’ulteriore fase
di crescita e differenziazione dell’abbozzo tiroideo (Tab. II).
D’altra parte mutazioni in questi geni sono state evidenziate finora
in meno del 10% dei pazienti con IC e dai dati del registro nazionale
risulta un’elevata discordanza di IC nei gemelli monozigotici (Olivieri
et al., 2002). Queste osservazioni sembrano suggerire un possibile
ruolo anche di fattori ambientali ed epigenetici nella determinazione
dello sviluppo tiroideo. In conclusione, appare evidente dai dati più
recenti della letteratura, che la genetica delle disgenesie tiroidee è
complessa ed ha verosimilmente basi poligeniche e multifattoriali
che non seguono, nella maggior parte dei casi, il pattern di ereditarietà di tipo mendeliano (De Felice e Di Lauro, 2011).
Vista la bassa frequenza di mutazioni note nei pazienti con disgenesia tiroidea, un’analisi di biologia molecolare ed una consulenza
genetica potrebbero essere proposte ai pazienti con ricorrenza familiare di disgenesia tiroidea o con malformazioni extratiroidee associate e/o forme sindromiche.
L’ipotiroidismo congenito con tiroide in sede o gozzo è causato da
mutazioni di uno dei geni che codificano per le proteine responsa-
bili della sintesi degli ormoni tiroidei o del trasporto e captazione
dello Iodio (Tab. I e II). Questi difetti mostrano una ereditarietà di
tipo autosomico recessivo mendeliano in cui la diagnosi molecolare
permette il counselling genetico e l’identificazione dei portatori asintomatici. Il riscontro di un IC con tiroide in sede normale o ipoplasica
può suggerire una mutazione inattivante in eterozigosi del gene del
recettore del TSH; tale mutazione in omozigosi può causare forme
più severe di IC con ipoplasie gravi o “apparenti” atireosi (Persani
et al., 2010).
Tabella I.
Classificazione delle varie forme di Ipotiroidismo Congenito.
IPOTIROIDISMO CENTRALE
• Deficit isolato di TSH (mutazione subunità β del gene del TSH)
• Deficit TRH (isolato, pituitary stalk interruption syndrome-PSIS-,
lesioni ipotalamiche)
• Resistenza al TRH (mutazione recettore del TRH)
• Mutazione di fattori di trascrizione coinvolti nello sviluppo ipofisario
(HESX1, LHX3, LHX4, PROP1, PIT1)
IPOTIROIDISMO PRIMITIVO
Forme Permanenti
Disgenesia tiroidea:
• Ectopia
• Atireosi,
• Ipoplasia
• Emiagenesia
Tiroide in situ (di volume normale o aumentato)
• Difetto del trasporto dello Iodio (mutazioni NIS)
• Difetti di organificazione dello Iodio (mutazioni TPO, DUOX2, DUOXA2,
Tg, Pendrina)
• Difetto iodotirosina deiodinasi (mutazioni DEHAL1)
• Resistenza al TSH (mutazioni inattivanti recettore TSH, difetti Proteina G)
Forme Transitorie
• Fattori materni (passaggio transpalcentare di farmaci o anticorpi)
• Fattori neonatali (prematurità, IUGR, TIN)
• Difetto o eccesso di iodio
• Mutazioni in eterozigosi di DUOX2 o DUOAX2
• Emangioma epatico congenito
IPOTIROIDISMO SINDROMICO
Mutazioni di:
• Pendrina (Sindrome di Pendred, gozzo e sordomutismo)
• NKX2-1 (Sindrome cervello-polmone-tiroide, variabili disturbi
neurologici tipo coreoatetosi e respiratori)
• FOXE-1 (Sindrome di Bamforth-Lazarus, palatoschisi)
• PAX8 (agenesia renale monolaterale, malformazioni genito-urinarie)
• NKX2-5(cardiopatia congenita)
• GNAS (psudoipoparatiroidismo tipo 1A)
IPOTIROIDISMO PERIFERICO
• Resistenza agli ormoni tiroidei
• Anormalità del trasporto degli ormoni tiroidei (Sindrome di AllanHerndon-Dudly: mutazione di MCT8)
Abbreviazioni: NKX2-1 NK2 Homeobox 1 (thyroid trascription factor); FOXE1
Forkhead Box E1 Thyroid Transcription Factor; PAX8 paired box gene 8; GNAS
Guanine Nucleotide Binding Protein (G Protein), Alpha Stimulating Activity; TSHR
thyroid stimulating hormone receptor; TPO thyroperoxidase; DUOX2 Dual Oxidase
2; DUOXA2 Dual Oxidase Maturation Factor 2; TG thyroglobulin; NIS Sodium/Iodide
Symporter; PDS pendrin; DHEAL iodotyrosine deiodinase; MCT8 monocarboxylate
transporter-8.
3
A. Cassio et al.
Tabella II.
Principali geni implicati nella organogenesi e nello sviluppo funzionale della tiroide.
Stadi dello sviluppo
embriogenetico tiroideo
Fenotipo atteso/
fase biosintesi
Geni mutati
nell’uomo
Specificazione dell’abbozzo
tiroideo
Agenesia
Non noti
Non noti
Geni sconosciuti responsabili della
specificazione (potrebbero includere anche
geni che regolano l’espressione di NKX2-1,
FOXE1, PAX8 e HHEX)
Migrazione
Ectopia tiroidea
Non noti
FOXE 1
Geni bersaglio specifici di FOXE1 espressi
esclusivamente nelle cellule progenitrici
Sopravvivenza delle cellule
progenitrici
Atireosi
FOXE1
FOXE 1, NKX2-1, PAX8,
FGF10, FGFR2, HHEX
Geni bersaglio specifici di NKX2-1,
FOXE1, PAX8 e HHEX e cofattori espressi
esclusivamente nelle cellule progenitrici
Espansione della popolazione
cellulare
Ipoplasia
PAX8, NKX2-1
TSHR
TSHR
Geni TSH-indotti
Interazione con le cellule della
cresta neurale
Ipoplasia
ET-1, HOXA3 EYA 1 PAX3
Altri HOX geni
Follicologenesi e sintesi
ormonale:
Tiroide in sede/
gozzo
- Ossidazione dello Iodio e
Iodinazione di residui tirosinici
TPO, DUOX2,
DUOXA2
- Matrice della sintesi degli
ormoni tiroidei
TG
- Trasporto Sodio/Iodio
attraverso la membrana basale
dei tireociti
- Trasporto dello iodio
attraverso la membrana
apicale dei tireociti nel lume
follicolare
- Deiodazione di iodotirosine
Geni mutati nei modelli
murini
Altri geni candidati
NIS
PDS
DHEAL
Abbreviazioni: HHEX Hematopoietically Expressed Homeobox; http://www.genenames.org/data/hgnc_data.php?hgnc_id=4901; FGF10 Fibroblast Growth Factor 10; FGFR2
Fibroblast Growth Factor Receptor 2; ET-1 endothelin 1; HOXA3 Homeobox Protein Hox-1E; EYA 1 Eyes Absent Homolog 1;PAX3 paired box gene 3.
Diagnosi
La rapida estensione dei programmi di screening neonatale dalla fine
degli anni ’70 a molti paesi europei ed extraeuropei ha trasformato
radicalmente l’approccio diagnostico all’IC. Secondo i criteri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità il target prioritario dello screening
è la prevenzione dell’handicap mentale attraverso l’individuazione ed
il trattamento precoci delle forme severe di IC primitivo. D’altra parte
indicazioni più recenti delle società scientifiche nord-americane ed
europee (Leger et al., 2013) raccomandano come target secondari
anche l’individuazione di forme più lievi di IC, nelle quali il rischio di
deficit neurointellettivi a lungo termine è tuttora in fase di valutazione ma che potrebbero trarre beneficio da una diagnosi tempestiva.
Il dosaggio di TSH su campioni di sangue capillare raccolto su carta
bibula dopo le prime 48 ore di vita del neonato rappresenta il marker
più sensibile per questo scopo ed è quello attualmente applicato nella maggior parte dei programmi di screening. Ogni laboratorio deve
determinare la propria soglia di richiamo in base agli intervalli di riferimento del TSH che variano in base al metodo e alla popolazione
neonatale valutata, anche se un valore di 10 mU/L su sangue intero
viene considerato appropriato dalla maggior parte dei laboratori per i
neonati a termine. Strategie diverse, come il dosaggio contemporaneo
di TSH e T4 o quello sequenziale di TSH e TBG in campioni con livelli
di T4 inferiori ad una soglia predeterminata, sono attuate in una mi-
4
noranza di programmi di screening per l’individuazione precoce delle
forme di Ipotiroidismo Centrale (Persani, 2012).
Un test di screening positivo rappresenta solo il primo passo di un
percorso multidisciplinare che conduce alla presa in carico assistenziale di questi pazienti.
Al momento dell’iniziale conferma del sospetto diagnostico è opportuno acquisire i criteri clinici, biologici ed etiologici che determinano
la severità prenatale dell’IC. Vi sono infatti molti dati in letteratura
che indicano in alcuni pazienti, nonostante il trattamento precoce
permesso dallo screening, la persistenza di deficit neurocognitivi
e disturbi comportamentali che persistono fino all’adolescenza e
all’età adulta e che sono correlati alla severità della malattia (Rovet,
2005; Kempers et al., 2006; Leger et al., 2011). La figura 2 mostra
l’algoritmo consigliabile per eseguire la conferma diagnostica. Alcune procedure devono ritenersi “obbligatorie” e sono rappresentate
da anamnesi, esame obiettivo e controlli ormonali tiroidei. Indagini
bioumorali opzionali sono rappresentate dal dosaggio degli anticorpi
antitiroide e della Tireoglobulina (Tg) e dalla valutazione della ioduria. Un altro marker della severità dell’IC è rappresentato dal ritardo
della maturazione ossea neonatale, valutata mediante radiografia o
ecografia dei nuclei delle ginocchia (Cassio et al., Feb 2013).
Infine la diagnostica per immagini può fornire informazioni sull’etiologia dell’IC.
Ipotiroidismo congenito
Figura 2.
Procedure per la conferma diagnostica dopo l’esito positivo del test di screening. Fra le indagini “obbligatorie” l’anamnesi riguarda la patologia
tiroidea e/o l’uso di farmaci in gravidanza, l’apporto iodico e le caratteristiche del parto e del periodo perinatale, mentre l’esame obiettivo deve
tendere a individuare segni clinici suggestivi ed eventuali malformazioni congenite extratiroidee. Il controllo dei livelli serici di TSH ed fT4 deve
essere eseguito in tutti i neonati con valori di TSH > 20 mU/L al test di screening; per valori fra 10 e 20 mU/L può essere sufficiente la ripetizione
di uno “spot” entro 1-2 settimane di vita per confermare o meno la condizione di ipotiroidismo.
La positività anticorpale, in presenza di una anamnesi positiva per patologia tiroidea autoimmune materna può suggerire una forma transitoria
di IC per passaggio transplacentare di anticorpi bloccanti il recettore del TSH (TRAB). La presenza di livelli dosabili di Tg conferma la presenza di
tessuto tiroideo. La valutazione della ioduria può essere utile quando si sospetta un eccesso di iodio di natura iatrogena. Come indagine di prima
scelta l’ecografia seleziona i pazienti in cui non viene visualizzata una ghiandola in sede da sottoporre a scintigrafia tiroidea per l’individuazione di
una eventuale disgenesia tiroidea.
5
A. Cassio et al.
L’ecografia è oggi accettata come metodica di prima scelta per verificare la presenza o meno di una ghiandola nella normale posizione cervicale. L’impiego di mezzi più sofisticati migliora la qualità
dell’informazione ma al tempo stesso richiede una sempre maggiore esperienza da parte dell’operatore nel riconoscimento di situazioni dubbie che richiedono ulteriori approfondimenti diagnostici
(Jones et al., 2013).
La scintigrafia è la tecnica più accurata per determinare le forme disgenetiche (ectopia, atireosi, ipoplasia) fornendo altresì informazioni
sulla funzionalità della ghiandola. Sono preferite la scintigrafia con
I123 o 99Tc per minimizzare l’esposizione del neonato a sostanze
radioattive. L’assenza di captazione è espressione di atireosi solo
se confermata dal riscontro ecografico di assenza della ghiandola;
infatti, una atireosi “apparente” può essere mimata da mutazioni
inattivanti del gene del TSH-recettore o dalla presenza di TRAB.
Trattamento e monitoraggio
La tempestività diagnostica resta l’obiettivo primario dello screening
neonatale dell’IC, in quanto permette un altrettanto tempestivo inizio
dell’intervento terapeutico, che garantisce, in particolare per le forme più severe di IC, un normale outcome intellettivo. La L-Tiroxina
è il trattamento di scelta per l’IC. La dose giornaliera iniziale raccomandata (AAP, 2006) è di 10-15 mg/kg, utilizzando le dosi più elevate
nelle forme più severe in cui la rapida normalizzazione ormonale
riesce ad evitare deficit neurologici residui nella maggior parte dei
casi (Salerno et al., 2002). L’intera dose deve essere assunta la mattina a digiuno per via orale sciolta in pochi millilitri di acqua, avendo
cura di evitare la concomitante somministrazione di sostanze che
interferiscono con il suo assorbimento (soia, ferro, calcio, fibre).
Sono oggi disponibili, oltre alle formulazioni in compresse, formulazioni liquide più facili da somministrare nei pazienti pediatrici ma
la cui bioequivalenza rispetto alle compresse ed i possibili effetti
avversi legati all’uso dell’etanolo come eccipiente sono tuttora in
fase di valutazione (Cassio et al., Jun 2013). La necessità di un trattamento sostitutivo è tuttora controversa per i soggetti con ipertireotropinemia (valori normali di fT4 e valori di TSH superiori al cut-off al
momento del richiamo). Nei casi con valori di TSH persistentemente
oltre 10 mU/L dopo le prime 2 settimane di vita si raccomanda in
genere il trattamento utilizzando dosi ridotte di L-Tiroxina.
La tabella III mostra le modalità ed i tempi per il follow-up dei pazienti in trattamento. Il dosaggio della L-Tiroxina deve essere adeguato in modo da mantenere i livelli di TSH nel range normale ed i
6
Tabella III.
Modalità e tempi di monitoraggio nei pazienti ipotiroidei congeniti in
trattamento.
FOLLOW-UP
• Valutazione dell’assetto ormonale tiroideo (TSH e FT4)
-- 2 settimane dopo l’inizio della terapia
-- Ogni 1-2 mesi nei primi 6 mesi di vita
-- Ogni 3-6 mesi fino al compimento dei 3 anni
-- Ogni 6-12 mesi fino alla fine dell’accrescimento staturale
-- 4-6 settimane dopo ogni cambio di terapia
• Valutazioni auxologiche ad ogni controllo ormonale nei primi 3 anni
di vita, quindi ogni 6-12 mesi
• Valutazione dello sviluppo neuropsichico
-- QS a 12, 18 e 24 mesi di vita
-- QS e valutazione del linguaggio e della coordinazione motoria fino
a 36 mesi
-- QI e valutazione dei prerequisiti per lettura/scrittura a 5 anni
-- QI, e valutazione delle capacità di apprendimento e dei deficit di
attenzione a 7 anni
RIVALUTAZIONE DELLA DIAGNOSI
• Dopo il compimento dei 3 anni di vita o prima nei casi in cui
l’anamnesi e l’andamento clinico sono suggestivi per una forma
transitoria.
Abbreviazioni: QS Quoziente di sviluppo psicomotorio; QI Quoziente intellettivo.
livelli di fT4 nei limiti superiori del range normale per l’età. I controlli ormonali devono essere più ravvicinati nel tempo fino ai 3 anni,
considerando il rapido accrescimento corporeo che caratterizza
questo periodo della vita. L’accrescimento e la pubertà si realizzano normalmente nei soggetti con IC trattati precocemente quindi i
controlli auxologici devono essere effettuati in linea con i normali
bilanci di salute pediatrici (Salerno et al., 2001). Le valutazioni neuro
cognitive, in particolare nei soggetti con le forme più severe, devono
valutare, in epoca prescolare, i piccoli deficit psicomotori, uditivi e
del linguaggio per prevenire nell’età scolare possibili disturbi dell’attenzione e dell’apprendimento (Leger et al., 2013). Una rivalutazione
della diagnosi dopo sospensione della terapia deve essere eseguita
a 2-3 anni di età, per stabilire il carattere transitorio o permanente
dell’ipotiroidismo in tutti pazienti con tiroide in situ in cui non è stata
stabilita la causa dell’IC all’atto della conferma diagnostica e in tutti
i bambini in cui non è stata formulata una diagnosi definitiva prima
di iniziare la terapia.
Ipotiroidismo congenito
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
L’approccio al neonato ed al bambino con ipotiroidismo congenito è stato radicalmente modificato dall’introduzione dei programmi di screening neonatale. Prima dell’avvento dello screening, la diagnosi clinica e quindi l’inizio della terapia sostitutiva, in mancanza di segni significativi in epoca neonatale,
potevano realizzarsi solo tardivamente quando il ritardo mentale causato dall’ipotiroidismo era ormai irreversibile e non più modificabile dalla terapia.
Pur esistendo già una valida e semplice terapia di tipo sostitutivo, l’IC si palesava clinicamente con segni e sintomi importanti che compromettevano
lo sviluppo neuro cognitivo del bambino.
Che cosa sappiamo adesso
L’attenzione dei pediatri, nell’era dello screening, deve essere rivolta, nei pazienti ipotiroidei congeniti, alla valutazione di tutti i parametri clinici, di
laboratorio e strumentali che costituiscono i criteri di maggiore o minore severità della forma diagnosticata. In particolare nelle forme più severe che
richiedono un monitoraggio più attento il pediatra può segnalare tempestivamente allo specialista del centro di screening eventuali problemi di compliance familiare o verosimili piccoli deficit nelle acquisizioni psicomotorie e/o scolastiche.
Quali ricadute sulla pratica clinica
La conoscenza del nuovo più ampio spettro di forme patologiche di ipotiroidismo congenito e delle possibili implicazioni genetiche in alcuni casi permette al pediatra di gestire meglio gli interrogativi che il bambino e la sua famiglia possono porgli, in un settore la cui nosografia sta rapidamente cambiando in questi anni.
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Corrispondenza
Alessandra Cassio, Dipartimento di Scienze Mediche-Chirurgiche, UO di Pediatria, Programma di Endocrinologia, Università degli Studi di Bologna, via
Massarenti 11, 40138 Bologna. Tel.: +39 051 636 3 648. E-mail: alessandra.cassio@unibo.it
7
Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 8-12
endocrinologia pediatrica
Le Tiroiditi
M. Loredana Marcovecchio, Francesco Chiarelli
Clinica Pediatrica, Università di Chieti, Chieti
Riassunto
Le tiroiditi sono processi infiammatori a carico della ghiandola tiroidea a carattere acuto, subacuto o cronico. La tiroidite cronica linfocitaria o tiroidite
di Hashimoto è la forma più frequente in età pediatrica, mentre rare sono altre forme. Le tiroiditi possono manifestarsi come una massa del collo in un
bambino asintomatico o come un aumento di volume ghiandolare doloroso ed eritematoso. Le tiroiditi si associano spesso a normale funzionalità tiroidea
anche se spesso possono aversi alterazioni funzionali transitorie o permanenti (ipotiroidismo o ipertiroidismo). La diagnosi di tiroidite di Hashimoto si basa
sul riscontro di autoanticorpi e alterazioni ecografiche. In caso di ipotiroidismo conclamato deve essere instaurata terapia con L-tiroxina. Il follow-up è
fondamentale per valutare la progressione temporale della funzionalità tiroidea, che può essere variabile da paziente a paziente.
Summary
Thyroiditis are characterised by inflammation of the thyroid gland and they can present as acute, subacute or chronic diseases. Thyroiditis may present as a
mass in the neck of an asymptomatic child or as a painful, erythematous goiter in a sick child. Thyroiditis are often associated with normal thyroid function,
although they can also result in transient or permanent thyroid dysfunction (hypothyroidism or hyperthyroidism). Chronic lymphocytic thyroiditis or Hashimoto’s thyroiditis is the most frequent form of thyroiditis during childhood and adolescence, whereas other forms are rare. The diagnosis of Hashimoto’s
thyroiditis is based on the presence of autoantibodies and thyroid ultrasound alterations. When hypothyroidism is present, treatment with L-thyroxin needs
to be started. Follow-up is of paramount importance to assess the evolution of thyroid function over time, which can be variable from patient to patient.
Parole chiave: tiroidite, Hashimoto, bambini, adolescenti, autoanticorpi, ipotiroidismo
Key words: thyroiditis, Hashimoto, children, adolescents, autoantibodies, hypothyroidism
Introduzione
Le tiroiditi sono processi infiammatori a carico della ghiandola tiroidea a carattere acuto, subacuto o cronico (Bachrach e Foley, 1989;
Pearce et al., 2003). Tra le varie forme di tiroiditi (Tab. I), la più comune in età pediatrica è la tiroidite di Hashimoto o tiroidite cronica
linfocitaria (98% dei casi), che rappresenta anche la variante più
frequente di tiroidite cronica autoimmune (Bachrach e Foley, 1989).
Rare sono altre forme, quali la tiroidite acuta suppurativa (circa 2%
dei casi) e la tiroidite subacuta granulomatosa (0,2%) (Bachrach e
Foley, 1989; Pearce et al., 2003).
Obiettivo
L’obiettivo di questo articolo è offrire una revisione della letteratura
recente sulle tiroiditi in età pediatrica, con speciale attenzione alla
forma più frequente, quale la tiroidite di Hashimoto (TA).
Metodologia della ricerca bibliografica
La ricerca degli articoli rilevanti è stata effettuata sulla banca bibliografica
Medline utilizzando il motore di ricerca PubMed. Sono state utilizzate le
seguenti parole chiave: “thyroiditis”, “autoimmune thyroiditis”, “thyroid
disorders” AND “children”, “adolescents”, “childhood”, “adolescence”.
nel 1912 (Hiromatsu et al., 2013) e venne poi riconosciuta quale
malattia dell’ età pediatrica nel 1954, quando venne osservata per
la prima volta in sei bambine (Hiromatsu et al., 2013).
La TA è attualmente la forma più frequente di tiroidite in età pediatrica e rappresenta la causa più frequente di gozzo e ipotiroidismo
acquisito in bambini e adolescenti che vivono in zone con adeguato
apporto di iodio (Brown, 2013; Cappa et al., 2010). La prevalenza
della TA è di circa 0,3-3,3% nei bambini e adolescenti. Si tratta di
una patologia frequente soprattutto durante l’adolescenza, mentre
rare sono le presentazioni in bambini al di sotto di 3 anni. Maggiore
è la frequenza nel sesso femminile rispetto a quello maschile (2-4:1)
(Brown, 2013; Cappa et al., 2010).
La TA si associa spesso con altre patologie autoimmuni, quali il diabete mellito di tipo 1 (T1D) e la malattia celiaca. Inoltre, può essere
una delle malattie caratterizzanti le sindromi poliendocrine (APS),
come la APS-1, caratterizzata da candidiasi mucocutanea cronica,
ipoparatiroidismo autoimmune e insufficienza surrenalica, oltre ad
Tabella I.
Classificazione delle tiroiditi.
Tiroidite di Hashimoto
Tiroidite suppurativa
Tiroidite subacuta dolorosa
Tiroidite di Hashimoto
Tiroidite sporadica non dolorosa
Epidemiologia
Tiroidite indotta da farmaci (amiodarone, litio, interferon-α, interleuchina 2)
La TA, anche nota come tiroidite autoimmune o tiroidite cronica linfocitaria, fu descritta per la prima volta negli adulti da Hashimoto
8
Tiroidite pospartum non dolorosa
Tiroidite di Riedel
Ref. (Pearce et al., 2003)
Le Tiroiditi
altre malattie autoimmuni. La TA è anche una componente della
APS-2 (sindrome di Schmidt), caratterizzata da malattia di Addison
associata a tiroidite autoimmune o a T1D. è stata inoltre descritta in
bambini affetti da sindrome IPEX (sindrome da Immunodisregolazione, Poliendocrinopatia, Enteropatia, legata al cromosoma X), una
rara malattia genetica autoimmune causata da mutazioni del gene
FOXP3, e caratterizzata da una severa enteropatia solitamente associata a T1D.
Frequente è il riscontro della TA in pazienti affetti da cromosomopatie, soprattutto da sindrome di Turner e di Down, e in misura minore
in pazienti affetti da sindrome di Noonan e di Klinefelter (Brown,
2013). Casi di TA sono stati riportati in pazienti affetti da orticaria
cronica o, raramente, in quelli affetti da glomerulonefrite da immunocomplessi (Bagnasco et al., 2011; Gurkan et al., 2009).
Comune è anche il riscontro di altri casi di TA o di soli autoanticorpi
tiroidei in altri membri delle famiglie dei bambini affetti (Brown, 2013).
Eziopatogenesi
La TA è una malattia multifattoriale dovuta ad una interazione tra
fattori genetici ed ambientali. La componente genetica spiegherebbe circa il 70% del rischio di sviluppare tale patologia, mentre i fattori ambientali agirebbero come ‘triggers’ in soggetti geneticamente
predisposti (Dittmar et al., 2011; Duntas, 2008; Tomer, 2010).
Diversi geni sono stati chiamati in causa, ed essi possono essere
distinti in due grandi gruppi: geni immuno-modulatori e geni tiroidospecifici (Tomer, 2010). Per quanto riguarda il primo gruppo, un ruolo importante sarebbe svolto dai geni del complesso maggiore di
istocompatibilità ed in particolare dagli aplotipi HLA-DQA1, DQ2 e
DRB1-1401 (Tomer, 2010). Inoltre vi è evidenza di un ruolo di polimorfismi del gene regolatore delle cellule T (CTLA-4), una proteina
transmembrana appartenente alla superfamiglia delle immunoglobuline, che agisce come molecola co-stimolatoria riducendo l’attivazione dei linfociti T (Tomer, 2010). Un altro gene implicato nella
TA è quello codificante la proteina tirosin fosfatasi 22 (PTPN22), che
rappresenta un inibitore del pathway di segnale del recettore delle
cellule T. Il secondo gruppo di geni, ovvero quelli tiroido-specifici,
include i geni codificanti la tireoglobulina e il recettore del TSH (Tomer, 2010).
Per quanto riguarda i fattori ambientali un eccesso di iodio, un deficit di selenio, il fumo, i farmaci (interferone-α, interleuchina 2, litio, amiodarone) sono considerati come potenziali fattori di rischio.
Nello specifico, per quanto riguarda il selenio, esso svolge un ruolo
fondamentale a livello tiroideo, in quanto vari enzimi ampiamente
rappresentati nella ghiandola tiroidea sono selenoproteine: le deiodinasi, la glutatione perossidasi, la tireodossina reduttasi (Drutel et
al., 2013). Pertanto un suo deficit può contribuire alla patogenesi di
alterazioni tiroidee. Anche alcuni farmaci possono giocare un ruolo
nello sviluppo della TA, tra cui i più frequenti sono: l’amiodarone,
l’interferone-α, interleuchina2, il litio, i farmaci antiretrovirali (Tanda
et al., 2009).
È stato anche supposto un ruolo di infezioni virali, dato il riscontro
di componenti di virus, quali virus dell’epatite C, Parvovirus B19,
Coxsackievirus e Herpesvirus, a livello tiroideo in casi di TA (Duntas,
2008; Mori e Yoshida, 2010). L’associazione tra infezioni virali e TA
risulta tuttavia difficile da stabilire, dato che l’intervallo di tempo tra
l’infezione virale e lo sviluppo di tiroidite potrebbe avere una durata variabile, e i dati disponibili sono piuttosto contrastanti (Duntas,
2008; Mori e Yoshida, 2010).
Dal punto di vista patogenetico la malattia si caratterizza per un
infiltrato tiroideo di tipo linfocitario con formazione di centri germinativi e progressiva atrofia follicolare (Pearce et al., 2003). Il danno
è dovuto a distruzione di tipo cellulo-mediata. I linfociti T CD4 sono
considerati le prime cellule del sistema immune implicate nella patogenesi. Una volta attivate, le cellule T CD4 autoreattive reclutano
linfociti T CD8 e linfociti B all’interno della tiroide. I linfociti T svolgono un ruolo chiave attraverso la reazione contro antigeni tiroidei e
la secrezione di citochine infiammatorie. Importante è anche il ruolo
dell’immunità umorale, attraverso la fissazione del complemento e
la tossicità cellulo-mediata anticorpo-dipendente. Autoanticorpi che
si riscontrano in corso di tiroidite sono quelli anti-tireoperossidasi
(TPOAb), anti-tireoglobulina (TgAb). Inoltre si possono riscontrare
anche anticorpi diretti contro il recettore del TSH (TRAb), il simporto
iodio-sodio e la pendrina (Brown, 2009b).
Diagnosi
Dal punto di vista diagnostico importanti sono il dosaggio degli autoanticorpi tiroidei (TPOAb, TgAb e TRAb), e l’ecografia tiroidea.
La malattia viene spesso diagnosticata in bambini apparentemente
sani o con gozzo asintomatico, grazie al riscontro nel sangue di TPOAb
e TgAb, e all’evidenza ecografica di tiroide disomogenea e/o ipoecogena. Gli anticorpi anti-TPO sono emersi essere i marcatori principali
della TA e il loro dosaggio risulta pertanto il test fondamentale per la
diagnosi di laboratorio della TA. Alterazioni ecografiche sono presenti
nel 20-95% dei pazienti e, anche se talora sono assenti al momento
della diagnosi, possono rendersi manifeste durante il follow-up. La
ghiandola è spesso aumentata di dimensioni, e il parenchima risulta
ipoecogeno, e tale ipoecogeneicità si correla alla presenza di ipotiroidismo. Un aspetto micronodulare è altamente diagnostico di TA, con
un valore predittivo positivo del 95%. Talora possono riscontrarsi anche noduli singoli nell’ambito di un parenchima diffusamente disomogeneo o anche nell’ambito di un parenchima ecograficamente nella
norma. L’esame ecocolor-Doppler evidenzia in genere un parenchima
con lieve o marcata ipervascolarizzazione. L’aumentata vascolarizzazione sembra essere associata con lo sviluppo di ipotiroidismo (Anderson et al., 2010; Pedersen et al., 2000).
Per quanto riguarda la funzionalità tiroidea dei pazienti con TA, questa può essere molto variabile, da quadri inziali di eutiroidismo a
ipotiroidismo o talora anche ipertiroidismo (De Luca et al., 2013).
L’ipotiroidismo conclamato si associa a un corteo di segni e sintomi
tipici (Tab. II) in presenza di elevati livelli di TSH e ridotti livelli di
Tabella II.
Segni e sintomi di ipotiroidismo.
Gozzo
Diminuzione della velocità di crescita, ritardo della maturazione ossea e
dentale
Aumento ponderale
Ritardo dello sviluppo puberale o pseudopubertà precoce
Irregolarità mestruali, amenorrea
Pelle secca, pallida, perdita di capelli, irsutismo
Ridotto rendimento scolastico
Astenia, letargia, ipotonia, riflessi torpidi, umore depresso
Stipsi
Intolleranza al freddo, ipotermia
Ritenzione idrica, mixedema
Bradicardia, riduzione dell’output cardiaco
Ref.: Counts and Varma, 2009
9
M.L. Marcovecchio et al.
ormoni tiroidei (Counts e Varma, 2009). Tuttavia, l’ipotiroidismo può
essere anche subclinico, ovvero si possono avere quadri caratterizzati da aumentati livelli di TSH associati a normali livelli di ormoni
tiroidei (FT3, FT4).
La funzionalità tiroidea alla diagnosi sembrerebbe essere influenzata dall’età del paziente (Wasniewska et al., 2012b). Frequente è il
deterioramento nel tempo della funzionalità tiroidea sia nei soggetti
che si presentano in eutiroidismo, sia nei soggetti con forme di ipotiroidismo subclinico. Pertanto un costante follow-up è necessario (De
Luca et al., 2013), per la possibile evoluzione verso un ipotiroidismo
conclamato.
Nei soggetti eutiroidei, circa il 50% evolve verso un deterioramento
della funzionalità tiroidea, mentre un 50% restano eutiroidei a distanza di 5 anni di follow-up (Radetti et al., 2006). Fattori predittivi
per lo sviluppo di ipotiroidismo sono la presenza di gozzo e la presenza di TgAb alla diagnosi insieme ad un progressivo aumento nel
tempo di TPOAb e TSH (Radetti et al., 2006).
Nelle forme che si presentano con un ipotiroidismo subclinico, i livelli di TSH alla diagnosi sono considerati come il miglior fattore
predittivo per il rischio futuro di evoluzione verso un ipotiroidismo
(De Luca et al., 2013).
A volte una TA può esordire come ipertiroidismo e questa è nota
come Hashitossicosi e rappresenta la seconda causa più frequente
di ipertiroidismo dopo la malattia di Graves. Questa fase transitoria
di ipertiroidismo, della durata media di 8 mesi, sarebbe dovuta al
rilascio sregolato di ormoni tiroidei durante il processo infiammatorio immuno-mediato della ghiandola. Questa fase di ipertiroidismo
è sempre transitoria, senza recidive ed è seguita da eutiroidismo
o ipotiroidismo (Wasniewska et al., 2012a). L’Hashitossicosi si differenzia dalla malattia di Graves per l’assenza di TRAbs, da ridotta
vascolarizzazione della ghiandola tiroidea all’ecografia e da ipocaptazione alla scintigrafia tiroidea.
La TA può manifestarsi anche come ipertiroidismo subclinico, ovvero
si possono avere livelli di TSH soppressi associati a livelli di ormoni
tiroidei nella norma. Dati recenti indicano che in tali casi, si assiste
ad una normalizzazione del TSH nell’arco di 24 mesi, sebbene un
deterioramento della funzionalità tiroidea possa venificarsi successivamente nel corso del follow-up (Aversa et al., 2014).
Raramente la TA può evolvere verso una malattia di Graves. Tale
evoluzione, che è stata riscontrata in un 3,7% dei bambini e adolescenti con malattia di Graves, potrebbe derivare da una alterazione
degli anticorpi verso il recettore del TSH, da un tipo inzialmente bloccante verso un tipo stimolante (Wasniewska et al., 2010).
Circa il 30% dei bambini con TA sviluppa noduli tiroidei che, tuttavia,
appaiono di natura carcinomatosa solo nel 9,6% dei casi (Corrias et
al., 2008). Estremamente rara è l’encefalopatia di Hashimoto, sindrome caratterizzata da persistenti o fluttuanti deficit neurocognitivi
con buona risposta alla terapia steroidea (Watemberg et al., 2006).
Trattamento
In presenza di ipotiroidismo manifesto è assolutamente necessaria la terapia sostitutiva con L-tiroxina (L-T4), al fine di prevenire lo
scarso accrescimento e gli effetti metabolici avversi legati al deficit
di ormoni tiroidei. I dosaggi giornalieri adattati per fascia di età sono:
4-6 μg/kg tra 1-5 anni; 3-4 μg/kg tra 6-10 anni; e 2-3 μg/kg sopra i
10 anni (Brown, 2009a).
L’obiettivo della terapia è quello di normalizzare i livelli di TSH. Il
controllo della funzionalità tiroidea potrà essere eseguito a distanza
di 6-8 settimane dall’avvio della terapia e, una volta ottenuto l’eutiroidismo clinico e bioumorale, potrà essere effettuato ogni 4-6 mesi
(Brown, 2009a).
10
Molto controversa è l’indicazione al trattamento nei bambini con
ipotiroidismo subclinico, per scarsi dati disponibili in età pediatrica e
l’assenza di specifiche linee guida. Una recente revisione sistematica della letteratura sul trattamento dell’ipotiroidismo subclinico conclude che nei bambini e adolescenti, essendo questa una condizione
auto-remittente, il suo trattamento deve essere considerato solo
quando i valori di TSH sono superiori a 10 mUI/L, quando vengono
rilevati segni clinici o sintomi di alterata funzione tiroidea o gozzo,
o quando vi siano altre malattie croniche associate (Monzani et al.,
2013). Nel bambino gli studi sul trattamento dell’ipotiroidismo subclinico sono pochi e non vi sono dati chiari su un potenziale beneficio
in termini di crescita staturale o di riduzione del volume ghiandolare,
mentre è emerso che il trattamento non abbia alcun effetto sulle
funzioni cognitive (Aijaz et al., 2006; Kaplowitz, 2010). Nell’ adulto,
invece, vi sono alcuni dati indicanti effetti benefici sul profilo lipidico,
sul rischio di malattie cardiovascolari e alterazioni neurocomportamentali, mentre tra gli argomenti contro il trattamento viene considerato il rischio di ipertritoidismo iatrogeno (Cooper e Biondi, 2012).
Nell’ambito del trattamento della TA è stata proposta anche la supplementazione con selenio, dato il ruolo chiave di questo minerale
nel regolare l’attività di varie selenoproteine a livello tiroideo. Vari
studi hanno valutato l’uso del selenio in soggetti affetti da patologia
autoimmune tiroidea, anche se ad oggi i dati sui potenziali benefici del selenio sono ancora limitati sia nell’adulto che nel bambino
(Atabek, 2013; van Zuuren et al., 2013). Nell’adulto, una recente
Cochrane ha concluso che non vi è ancora sufficiente evidenza né
per proporre tale supplementazione né per proibirne l’uso (van Zuuren et al., 2013).
Atre tiroiditi in età pediatrica
Tiroidite suppurativa acuta
è una forma rara di infezione della ghiandola tiroidea, ma che talora
può essere anche particolarmente grave (Chi et al., 2002). È spesso
preceduta da una infezione delle vie respiratorie. Gli agenti maggiormente implicati sono batterici aerobi e bacilli Gram negativi (Brook,
2003). Episodi ricorrenti di tiroidite suppurativa o il rilevamento di
una flora batterica mista suggerisce che l’infezione deriva da un
residuo del dotto tireoglosso o, più spesso, da una fistola del seno
piriforme. Dal punto di vista clinico si ha esordio acuto di dolore e
ingrossamento ghiandolare, con arrossamento, eritema e ghiandola tesa. Può aversi febbre, disfagia e limitazione dei movimenti del
collo. La funzionalità tiroidea può essere normale o si può avere un
aumentato rilascio transitorio di ormoni tiroidei (Chi et al., 2002).
Tiroidite non suppurativa subacuta (malattia di de Quervain)
è una forma di tiroidite rara nei bambini. Si ritiene sia dovuta ad
una infezione virale in soggetti geneticamente predisposti. Reperti
patologici tipici sono presenza di aspetti granulomatosi con cellule
giganti nel tessuto tiroideo (Engkakul et al., 2011). È caratterizzata
clinicamente da dolore a livello della ghiandola che si irradia verso
il capo, accompagnata da disfagia e febbricola. Dal punto di vista
della funzionalità tiroidea, ad un iniziale ipertiroidismo fa seguito un
ipotiroidismo transitorio. Si può osservare un aumento degli indici di
flogosi più un modesto e incostante aumento degli TPOAb e TGAb. Il
trattamento è sintomatico, richiedendo analgesici per alleviare il dolore e solo raramente glucocorticoidi. La tiroidite di de Quervain regredisce spontaneamente senza complicanze in 6-12 mesi. Tuttavia,
ipotiroidismo permanente e recidiva di malattia sono stati segnalati
in alcuni pazienti (Engkakul et al., 2011).
Le Tiroiditi
Tiroidite IgG4 associata
Recentemente è anche emersa una nuova entità, definita ‘Tiroidite
IgG4-associata (IgG4-related thyroiditis)’, ovvero lo sviluppo di lesioni tiroidee associate a ipotiroidismo, in presenza di aumentati livelli
di plasmacellule IgG4 positive, che possono manifestarsi nell’ambito
di un disordine sistemico, che include pancreatite autoimmune, malattia di Mikulicz, colangite e patologie di altri organi (Kakudo et al.,
2012; Watanabe et al., 2013). Dal punto di vista istopatologico, tale
entità è caratterizzata da un più alto grado di fibrosi parenchimale,
infiltrazione linfoplasmacitaria e degenerazione delle cellule folicolari rispetto a tiroiditi non IgG4-associate. Riconoscere tale forma
risulta di fondamentale importanza dato che la terapia con il prednisone è in grado di evitarne l’evoluzione verso la fibrosi.
Conclusioni
La TA rappresenta la patologia tiroidea più frequente in età pediatrica; è più comune durante l’adolescenza e nei soggetti di sesso
femminile. Frequente è l’associazione con altre patologie autoimmuni e con cromosomopatie. La presentazione clinica e l’evoluzione temporale possono essere variabili e diverse da un paziente
all’altro. Pertanto un accurato processo diagnostico e di follow-up
sono fondamentali, soprattutto per via della possibilità di sviluppo
di ipotiroidismo conclamato, che richiede trattamento immediato
per evitare effetti negativi su crescita, sviluppo puberale e funzionalità d’organo.
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
Le tiroidi sono processi infiammatori a carico della ghiandola tiroidea. La TA è la forma più frequente in età pediatrica, mentre molto rare sono altre
forme, quali la tiroidite acuta suppurativa e la tiroidite subacuta.
Che cosa sappiamo adesso
La TA rappresenta non solo la tiroidite più frequente in età pediatrica, ma anche la causa principale di ipotiroidismo acquisito. La sua patogenesi è
multifattoriale e progressi di biologia molecolare stanno elucidando i complessi meccanismi molecolari alla base di tale patologia.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Una migliore caratterizzazione di fattori implicati nella patogenesi e progressione della TA sono fondamentali per una impostazione diagnostica e terapeutica sempre più accurata. L’identificazione di fattori prognostici relativi all’evoluzione della tiroidite rappresenterebbe un importante traguardo in
campo medico, per una individualizzazione della terapia e del follow-up.
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Corrispondenza
Francesco Chiarelli, Clinica Pediatrica, Università degli Studi di Chieti, via dei Vestini 5, 66100 Chieti. Tel.: +39 0871358015. E-mail: chiarelli@unich.it
12
Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 13-19
endocrinologia pediatrica
I noduli tiroidei in età pediatrica:
Classificazione, inquadramento diagnostico e
principi terapeutici
Graziano Cesaretti
Endocrinologia Pediatrica, UO Pediatria Universitaria, Dipartimento Materno-Infantile, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, Pisa
Riassunto
I noduli tiroidei rappresentano una delle patologie endocrine più comuni.
In età pediatrica hanno una prevalenza inferiore rispetto a quella nell’età adulta, ma con un grado di malignità maggiore. L’importanza di un corretto inquadramento diagnostico deriva principalmente dalla necessità di ottenere informazioni miranti a selezionare accuratamente i soggetti a rischio di carcinoma tiroideo.
In aggiunta ad una attenta valutazione clinico-anamnestica, mirata alla ricerca di eventuali fattori di rischio neoplastico, l’impiego sempre più diffuso della
diagnostica strumentale ha permesso non solo di evidenziare reperti nodulari clinicamente non rilevabili, ma soprattutto di mettere a punto dei criteri che,
valutati nel loro complesso, consentano di precisare il grado del rischio neoplastico del nodulo.
In particolare, con l’ecografia tiroidea, eseguita da personale esperto, si possono individuare numerose variabili dei noduli (dimensioni, margini, ecostruttura, calcificazioni, “elasticità”, vascolarizzazione) e dei linfonodi cervicali a loro collegati, che consentono di guidare il comportamento diagnostico successivo, rappresentato principalmente dalla esecuzione dell’ago-aspirato del nodulo sotto guida ecografica, assieme alla valutazione mirata delle funzione
tiroidea e ad una eventuale scintigrafia ghiandolare.
L’insieme dei dati così ottenuti consente una “stratificazione” del rischio neoplastico del nodulo e può pertanto indirizzare correttamente verso una appropriata strategia terapeutica, con particolare riferimento alla eventuale necessità dell’intervento chirurgico.
Summary
Thyroid nodules are one of the most common endocrine disorders.
In the pediatric age they have a prevalence lower than that in adulthood, but the degree of malignancy is higher. The role of a correct diagnosis derives
mainly from the need to attain data designed to carefully select the nodules at risk for thyroid cancer.
A careful clinical-anamnestic evaluation is necessary to assess the presence of risk factors for cancer. Furthermore, the increasing employment of diagnostic imaging allowed not only the identification of clinically undetectable nodules, but above all the development of criteria that, considered as a whole,
allow to know the degree of risk for cancer of the nodule.
In particular, the thyroid sonographic evaluation, performed by experts in pediatric age, can discover numerous variables of nodules (size, margins, echogenicity, calcifications, elastography, vascularization) and cervical lymph nodes linked to them, which must guide the consequent diagnostic behavior,
represented mainly by the execution of the fine-needle aspiration biopsy of the nodule under ultrasound guidance, together with a targeted evaluation of
thyroid function and a possible glandular scintiscan.
The set of data thus obtained allows a “stratification” of the risk for cancer of the nodule and can therefore properly direct towards an appropriate therapeutic strategy, with particular reference to the possible need of surgery.
Parole chiave: noduli tiroidei, classificazione, ecografia tiroidea, carcinoma tiroideo, terapia medica e chirurgica.
Key words: thyroid nodules, classification, thyroid ultrasonography, thyroid carcinoma, medical and surgical treatment
Introduzione
Epidemiologia
L’importanza di un corretto inquadramento diagnostico dei noduli
tiroidei deriva principalmente dalla necessità di individuare le condizioni a rischio di carcinoma tiroideo, al fine di poter riconoscere
precocemente i soggetti da sottoporre ad un appropriato percorso
diagnostico-terapeutico.
I noduli tiroidei rappresentano una delle più comuni patologie endocrine. La loro prevalenza nella popolazione adulta oscilla dal 2
al 6% con il metodo palpatorio, dal 19% al 35% con l’ecografia e
dall’8 al 65% nei reperti autoptici (Dean e Gharib, 2008), prevalendo nettamente nelle aree iodo-carenti (Welker e Orlov, 2003). In età
pediatrica e dell’adolescenza i dati disponibili sono piuttosto scarsi,
variando la loro prevalenza dall’1% al 5% dei soggetti (Niedziela,
2006), di cui l’1% con un diametro ecograficamente rilevabile superiore a 5 mm (Hayashida et al, 2013) e con una prevalenza nel
sesso femminile che risulta comunque meno marcata di quella in
età adulta (Halac e Zimmerman, 2005).
In ogni caso, i tumori della tiroide rappresentano la neoplasia en-
Definizione
Si definisce nodulo tiroideo una formazione di aspetto e dimensioni variabili situata nel contesto della ghiandola tiroidea con peculiarità strutturali
diverse nei confronti del restante parenchima, oppure con caratteristiche
simili, ma parzialmente o totalmente distinte dal tessuto circostante.
13
G. Cesaretti
docrina più frequente in età pediatrica (Halac e Zimmerman, 2005)
e il loro grado di malignità è decisamente maggiore (10-40% dei
casi) rispetto ai soggetti adulti (Corrias et al, 2010; Dinauer, 2008;
Gupta et al, 2013).Da rilevare che la percentuale di malignità, indipendentemente da tutte le altre condizioni, è più elevata nel sesso
maschile, aumenta nei noduli isolati (20-40%) e si riduce (1%) nel
gozzo multinodulare.
Tabella I.
Criteri di classificazione dei noduli tiroidei.
1. “Status” tiroideo:
In soggetti senza tireopatia
In soggetti con tireopatia di varia natura
2. Sede:
Intratiroidea: nel contesto del parenchima ghiandolare
Classificazione
Peritiroidea: in contiguità alla ghiandola
I noduli possono essere distinti in base a numerosi criteri (Tab. I).
Extratiroidea: nella regione cervicale, non in diretto contatto con il
tessuto tiroideo
Rilievi clinici
3. Origine:
Fattori di rischio
Da tessuto tiroideo
Di natura embriologicamente non tiroidea
A livello familiare, devono essere attentamente valutati i soggetti
con familiarità per neoplasie tiroidee o per tireopatie in genere. Da
notare che le forme ereditarie di carcinoma midollare della tiroide
[il 25-40% dei casi sono familiari o facenti parte delle malattie endocrine multiple (MEN) di tipo 2], caratterizzate dalla mutazione del
proto-oncogene RET/PTC, sono trasmesse come carattere autosomico dominante e che esistono anche altri rari istotipi (3%) a carattere ereditario, come il carcinoma familiare papillare tiroideo (Halac
e Zimmermann, 2005).
Da rilevare anche la presenza di altre numerose condizioni geneticamente determinate, anche se rare, che si associano ad una
maggiore frequenza di noduli e di tumori tiroidei, come la sindrome
amartoma-tumore PTEN, la poliposi familiare intestinale, la sindrome di Peutz-Jeghers, il complesso Carney e la sindrome di McCuneAlbright (Corrias e Mussa, 2013).
Le indagini molecolari hanno recentemente consentito di individuare
altre alterazioni geniche implicate nell’insorgenza dei tumori tiroidei,
come mutazioni dei geni BRAF/AKAP-9, RAS, PAX-8, CTNNB-1, p53
(Yamashita e Saenko, 2007; Ferraz et al, 2011).
A livello personale, deve essere indagata la residenza, attuale o
precedente, in zone a carenza iodica, la pregressa effettuazione di radioterapia o di chemioterapia (Brignardello et al, 2008),
la esposizione a radiazioni ionizzanti, soprattutto nella regione
tiroidea (per patologie benigne del collo, della testa o del torace) o l’impiego di mezzi diagnostici interferenti sulla funzione
tiroidea.
4. Numero:
Esame clinico locale
9. Rapporto con i tessuti circostanti
Costituisce la base essenziale per un corretto inquadramento diagnostico (Tab. II).
Da rilevare che il riscontro di tumefazioni linfonodali costituisce
spesso il primo segno di carcinoma tiroideo nell’infanzia (Corrias et
al, 2001; Dinauer et al, 2008).
L’esame clinico locale dovrà essere integrato dalla ricerca di:
• segni locali di compressione del nervo ricorrente, quali disfonia,
dispnea, disfagia, tosse e stridore;
• segni generali di alterata funzione tiroidea (ipotiroidismo e, soprattutto, ipertiroidismo);
• note dismorfiche evocative di quadri clinici specifici, predisponenti all’insorgenza di noduli tiroidei (ad esempio: sindromi di
McCune-Albright, di Gartner e di Peutz-Jeghers, complesso
Carney, malattie poliendocrine).
Aderente alla cute sovrastante o ai tessuti molli sottostanti o alle
strutture muscolari limitrofe
14
Solitario
Multipli
[Da rilevare che, nell’ambito di una plurinodularità, si definisce
dominante il nodulo che ha caratteristiche particolari che lo
differenziano dagli altri, sia cliniche (maggiori dimensioni e/o
consistenza, rapido accrescimento), sia ecografiche (dimensioni,
ecogenicità, ecostruttura)]
5. Dimensioni o volume
Modificanti significativamente le dimensioni tiroidee (nodulo gozzigeno,
ossia gozzo nodulare)
Non modificanti significativamente le dimensioni tiroidee (noduli non
gozzigeni)
6. Forma:
Regolare: rotondeggianti o ovoidali
Irregolari
7. Consistenza (alla palpazione)
Dura
Elastica
Molle
8. Contenuto (all’indagine ecografica)
Anecogeno (liquido)
Ipoecogeno o normoecogeno o iperecogeno (solido)
Misto
Non aderente
10. Funzione:
Eumetabolici (normofunzionanti)
Tossici (iperfunzionanti)
11. Rilievo scintigrafico
Freddi (“cold”)
Tiepidi (“warm”)
Caldi (“hot”)
12. Caratteristiche biologiche
Citologiche: benigno, maligno, dubbio o non diagnostico
Istologiche: iperplastico, neoplastico, colloide, cistico o tiroiditico
I noduli tiroidei in età pediatrica
Tabella II.
Esame clinico locale.
Ispezione
Caratteristiche della tumefazione cervicale
• Caratteristiche della cute sovrastante (arrossamento, retrazione
cicatriziale)
• Dimensioni, simmetria, eventuale deviazione della trachea
• Mobilità con la deglutizione [La appartenenza di una formazione
nodulare alla tiroide è determinata dalla consensualità del suo
spostamento con l’atto della deglutizione, a meno che non si siano
già instaurate aderenze alle regioni circostanti (carcinoma o tiroidite
cronica invasiva)]
• Presenza del circolo iperdinamico (“danza” delle carotidi)
• Turgore delle vene del collo.
• Caratteristiche dei linfonodi cervicale
• Sede, dimensioni
• Caratteristica della cute sovrastante (arrossamento, retrazione
cicatriziale)
Palpazione
Caratteristiche dei noduli
• Numero
• Eventuale dolorabilità
• Dimensioni (espresse attraverso una comparazione o con una
valutazione centimetrica approssimativa)
• Consistenza, ossia le caratteristiche della superficie (liscia e regolare,
irregolare o bozzoluta)
• Eventuali aderenze con i tessuti limitrofi sovrastanti o sottostanti
Caratteristiche dei linfonodi
• Sede
• Numero
• Dimensioni, consistenza
• Aderenze ai tessuti circostanti
• Mobilità
Auscultazione
• Eventuale soffio sistolico (indice di eventuale nodulo iperfunzionante
o di una tireotossicosi)
Rilievi di laboratorio e strumentali
Esami di funzione tiroidea
In oltre il 90% dei casi la presenza di un nodulo si accompagna ad
una normale funzione tiroidea; talora, comunque si possono evidenziare un ipotiroidismo (TSH aumentato con FT4 normale o ridotta), o
soprattutto un ipertiroidismo da autonomia funzionale di un nodulo:
TSH ridotto o soppresso in presenza di FT4 e FT3 aumentate (ipertiroidismo franco, da adenoma “tossico”), oppure con FT4 e di FT3 non
aumentate (ipertiroidismo subclinico, da adenoma “pretossico”).
Da rilevare che recentemente, analogamente a quanto riportato in
soggetti adulti (Fiore e Vitti, 2012), anche in età pediatrica è stato
descritto il rilievo che valori di TSH compresi nella parte superiore
del range di normalità potrebbero costituire un fattore di rischio per
lo svilupparsi di un carcinoma tiroideo (Mussa et al, 2013).
Può essere utile, in taluni casi, il dosaggio sierico di anticorpi antitireoperossidasi e anti-tireoglobulina ed eventualmente anti-tireorecettore, che indicano la presenza concomitante di una tiroidite
autoimmune o di una tireotossicosi.
La valutazione della calcitonina fornisce un indice diagnostico
importante nel sospetto di un nodulo da carcinoma midollare. La
maggior parte degli esperti (Pacini et al, 2006) raccomanda il suo
dosaggio come screening, mentre secondo altri (Cooper et al, 2009;
Costante e Filetti, 2011), eseguita di routine, potrebbe rappresentare
un aggravio eccessivo di costi, anche per il frequente verificarsi di
risposte di dubbia interpretazione [mancata standardizzazione dei
valori normali in età pediatrica; fattori interferenti endogeni (malattie
neuroendocrine, nefropatie, autoimmunità tiroidea, anticorpi eterofili
anti-calcitonina) o esogeni (fumo, infezioni, alcool)]. Sicuramente si
tratta di una indagine da eseguire sempre nei casi di familiarità per
carcinoma midollare, per MEN 2 e nel riscontro citologico (vedi infra)
di neoplasie midollari. Nei casi dubbi l’accertamento deve essere
ripetuto dopo stimolo con pentagastrina (Elisei, 2008).
Ecografia tiroidea
Ricopre un ruolo fondamentale e ha sostanzialmente modificato l’iter diagnostico dei noduli tiroidei, consentendo, se eseguita da chi
possiede una esperienza specifica di ecografia pediatrica, di individuare noduli che hanno dimensioni di pochi millimetri (1 mm se di
natura cistica, fino a 3 mm se di natura solida) e di precisarne con
esattezza le caratteristiche idonee a stratificare il rischio neoplastico
(Maia e Zantut-Wittmann, 2012; Goldfarb et al., 2012).
Nello specifico, l’ecografia deve consentire di esaminare numerose
variabili sia a livello tiroideo, sia linfonodale (Tab. III).
Da rilevare che talora possono essere scambiati per noduli degli accumuli di sostanza colloide (lumps) che appaiono come formazioni
anecogene, con diametro inferiore a 10 mm, non circondante da
una capsula ben definita e che hanno probabilmente caratteristiche
dinamiche.
Un aspetto peculiare in età evolutiva è rappresentato dal rilievo in
sede intratiroidea di residui “ectopici” timici, che pongono talora
problemi di diagnosi differenziale nei confronti dei noduli tiroidei
“classici”. In uno studio giapponese (Hayashida et al, 2013) la loro
prevalenza è stata quantificata nell’ordine di circa il 2% nei soggetti
con età compresa tra 3 e 18 anni, con una maggiore frequenza nei
primi anni di età. Dal punto di vista ecografico, il residuo timico si
presenta con un aspetto caratterizzato da una lesione ipoecogena
con multiple strutture interne iperecogene generalmente lineari o
ramificate o, più raramente, punteggiate (King et al, 2012).
L’insieme dei dati ecografici, valutati nel loro complesso, consente
di costruire una stratificazione del rischio neoplastico che deve costituire uno degli elementi fondamentali per stabilire un appropriato
percorso diagnostico-terapeutico, in particolare per l’esecuzione
dell’agoaspirato e il conseguente atteggiamento terapeutico (Horvath et al, 2009).
Agobiopsia con ago sottile
Nella esecuzione eco-guidata, fornisce una accuratezza diagnostica
dell’80-90% ed è un esame accettato anche in età pediatrica, essenziale nell’iter diagnostico di un nodulo tiroideo, essendo considerato il gold-standard diagnostico (Corrias et al., 2001; Kapila et al.,
2010; Stevens et al., 2009). Può essere eseguito anche a livello del
tessuto linfonodale laterocervicale e consente di effettuare, oltre alla
valutazione citologica classica, anche altre indagini sul materiale
prelevato o sul liquido di lavaggio.
È possibile effettuare tale accertamento normalmente su noduli di
dimensioni superiori a 1 cm, ma può essere eseguito da persone
esperte anche per dimensioni di almeno 5 mm.
Le indicazioni all’impiego dell’agobiopsia tiroidea (Gharib et al.,
2010) sono riportate nella tabella IV.
La tecnica di esecuzione può essere quella “a mano libera”, aspirando quando, sotto controllo ecografico, si rileva che l’ago (eco-riflettente) è giunto nella posizione; il prelievo può essere effettuato su
più punti dello stesso nodulo o anche, naturalmente, su più noduli.
15
G. Cesaretti
Tabella IIIa.
Caratteristiche ecografiche da valutare.
Noduli
Numero [identificazione anche di quelli non palpabili (generalmente con un diametro maggiore inferiore a 1 cm) e definizione dell’eventuale nodulo
“dominante”, ossia quello con caratteristiche più sospette]
Dimensioni {calcolo del volume della formazione attraverso la formula dell’ellissoide di rotazione [lunghezza x spessore x larghezza x 6 (0,52)]; valutazione con esattezza nel follow-up delle eventuali variazioni di volume, considerando significative quelle maggiori del 30%}
Forma
Regolare o irregolare
Rotondeggiante o allungata
[la prevalenza del diametro ventro-dorsale rispetto al trasversale (“more tall than wide”) è considerata un indice di malignità]
Sede esatta
(è possibile convenzionalmente dividere il lobo tiroideo in tre parti per ciascuna delle tre dimensioni, che sono, nell’ordine, la trasversale, la ventro-dorsale
e la cranio-caudale, derivandone la individuazione di 27 settori in cui collocare il nodulo. Naturalmente, a seconda delle dimensioni, il nodulo potrà occupare prevalentemente uno o anche più settori)
Contenuto
interamente solido, ossia parenchimatoso e quindi ecogeno
interamente liquido:
•
cistico, anecogeno a contenuto sieroso
•
colloide (con finissimi echi non strutturati)
•
necrotico-emorragico (con pareti irregolari, setti e corpuscoli ecoriflettenti)
•
misto (solido e liquido)
Ecogenicità: rispetto al parenchima circostante, il nodulo può apparire, in parte o totalmente:
ipo-riflettente ossia ipoecogeno (motivo di sospetta lesione neoplastica)
normo-riflettente, ossia normo-ecogeno
iper-riflettente, ossia iperecogeno (indicativo di benignità nel 99% dei casi)
Ecostruttura, con aspetto:
omogeneo
finemente o grossolanamente disomogeneo
concamerato o cribroso, con eventuale vegetazione interna, caratterizzata da un gettone di tessuto solido in continuità con la parete
Margini:
regolari, lisci e ben presenti (“capsula” o “orletto periferico” o “vallo di benignità” o “halo-sign”)
assenti, in parte o totalmente senza soluzione di continuo col tessuto circostante, irregolari o frastagliati, con infiltrazione del parenchima tiroideo limitrofo
Eventuali calcificazioni:
grossolane, con distribuzione a guscio d’uovo (generalmente con carattere di benignità)
a spruzzo (finemente punteggiate), rilevate soprattutto come microcalcificazioni, identificabili come spot iperecogeni, del diametro inferiore a 2 mm
(orientano verso una patologia maligna, essendo tipiche del carcinoma papillare)
Vascolarizzazione, valutabile con le tecniche del color-doppler o del power-doppler, e con l’ausilio di mezzi di contrasto ecografici:
Di tipo periferico (sostanzialmente “benigno”)
Presente anche all’interno del nodulo (potenzialmente “maligno”).
Elastografia, basata sul principio che il nodulo neoplastico presenta una maggiore durezza rispetto al restante parenchima (Rago e Vitti, 2008):
5 livelli di “elasticità”.
Si possono impiegare tecniche di marcatura della cute sovrastante
al fine di ottimizzare il punto di inserimento dell’ago.
Un’altra tecnica di effettuazione utilizza delle sonde “dedicate” con
la guida dell’ago incorporata, utilizzando uno strumento di puntamento che migliora la qualità dell’accertamento, anche se lo può
rendere più indaginoso. Si fissa una guida alla sonda ecografica, cui
corrisponde una immagine di puntamento sullo schermo, per cui
inserendo l’ago-cannula nella apposita guida, si segue un percorso
ben definito eco-visibile.
16
Ricerca su agoaspirato tiroideo
L’esame citologico convenzionale riveste un’importanza fondamentale, consentendo di definire le caratteristiche delle cellule esaminate e di fornire quindi indicazioni sufficientemente precise sulle caratteristiche biologiche del nodulo. Deve essere eseguito da persone
esperte che hanno una specifica esperienza nel settore.
Si ritiene che, per definire adeguato un prelievo citologico di un nodulo
tiroideo, sia necessario identificare almeno due vetrini con almeno sei cluster cellulari formato ciascuno da 10-20 cellule follicolari ben conservate.
I noduli tiroidei in età pediatrica
Tabella IIIb.
Caratteristiche ecografiche da valutare.
Tabella IV.
Indicazioni all’impiego dell’agobiopsia tiroidea con ago sottile.
Linfonodi latero-cervicali
Nodulo unico con diametro superiore a 1 cm
Elementi ecografici suggestivi di lesione sospetta (Niedziela, 2006;
Dinauer et al., 2008; Cooper et al., 2009):
Nodulo dominante in un gozzo multinodulare
•
margini non ben definiti
•
scomparsa o asimmetria dell’ilo
•
rapporto tra asse maggiore e asse minore ridotto (segno di
malignità: < 1,5) con profilo rotondeggiante
•
corticale ispessita o eccentrica
•
presenza di calcificazioni punteggiate all’interno
•
ecostruttura disomogenea con aree simil-parenchimali
•
vascolarizzazione all’interno aumentata e non uniforme
Il reperto citologico viene oggi valutato secondo il sistema di Bethesda (Bongiovanni et al., 2012) che prevede 6 classi citologiche
(I: non diagnostico, II: benigno, III: lesione follicolare indeterminata,
IV: lesione follicolare sospetta, V: malignità sospetta, VI: malignità) e
prospettata l’eventuale ripetizione se il reperto non risultasse diagnostico (materiale insufficiente o reperto dubbio).
La maggior parte dei tumori tiroidei è ben differenziata, prevalendo nettamente il carcinoma tiroideo di tipo papillare (83%), seguito
dalla forma follicolare (10%) e da quella midollare (5%) (Hogan et
al., 2009). Rimane comunque piuttosto difficoltosa la definizione
biologica delle neoformazioni follicolari (classi III e IV di Bethesda:
10-20% di tutti i prelievi citologici), dal momento che la lettura non
consente di discriminare adeguatamente le forme benigne (adenoma follicolare, nodulo iperplastico) dalle forme maligne (carcinoma
follicolare, variante follicolare del carcinoma papillare).
Sul materiale allestito su vetrino è possibile effettuare anche indagini specifiche:
• immunocitochimica, per il riconoscimento di marcatori tumorali, quali galectina-3 umana, Human Bone Marrow Endothelial
Cell-1 (HBME1), citocheratina 19, telomerasi, calcitonina;
• videocitometria (image analysis): studio del contenuto del DNA
cellulare per la valutazione della ploidia;
• ricerca di marcatori, mediante tecniche di biologia molecolare,
come, ad esempio, le mutazioni del proto-oncogene RET/PTC
per il carcinoma midollare, del BRAF per il carcinoma papillare,
o del p53;
Sul liquido di lavaggio dell’ago è possibile:
• dosare marcatori quali la tireoglobulina, la calcitonina ed il paratormone, che identificati su citoaspirati da linfonodi cervicali
indicano la diffusione metastatica del tumore primitivamente
tiroideo (Elisei, 2008; Massaro et al., 2009).
• ricercare mutazioni genetiche caratteristiche del tumore tiroideo.
Scintigrafia tiroidea
È di impiego assai meno frequente rispetto a qualche anno fa, a causa
del miglioramento delle tecniche ecografiche ed ha una capacità di risoluzione non superiore a 8-10 mm. Viene eseguita con tecnezio-99m
pertecnetato (99mTc) o con 131Iodio o, se disponibile con 123Iodio, che ha
una breve emivita e proprietà dosimetriche ottimali in campo pediatrico. Fornisce un’immagine di funzione della ghiandola e del nodulo
(zone di captazione assente, ridotta, normale o aumentata).
Deve essere tenuto ben presente che, anche se l’indice di malignità
è più elevato nel nodulo freddo, sia i noduli tiepidi, sia quelli caldi
Lesioni nodulari nel contesto di malattia di Basedow o di tiroidite
giovanile autoimmune
Aree sfumate di parenchima tiroideo di dubbia interpretazione
nell’ambito di tiroiditi subacute o croniche
Aree ipercaptanti individuate con la esecuzione della PET/CT eseguita
con 18-FDG
Nodulo di qualsiasi dimensione, con presenza di fattori di rischio
significativi sulla base dei rilievi:
• clinico-anamnestici
• ecografici
posseggono percentuali di malignità del 4-9% (Niedziela, 2006) per
cui la presenza di captazione non esclude un carcinoma.
Attualmente l’unica indicazione alla esecuzione della scintigrafia
nelle lesioni nodulari è costituita dalla condizione di iperfunzione
tiroidea, in quanto permette di definire le aree iperfunzionanti ghiandolari, distinguendole dal restante parenchima.
Trattamento
Il trattamento chirurgico di tiroidectomia è indicato per:
• il carcinoma tiroideo;
• le lesioni citologicamente follicolari, in quanto non è possibile
differenziare con la sola indagine citologica le forme maligne da
quelle benigne, ottenendosi con l’asportazione chirurgica anche
una diagnosi definitiva istologica;
• l’adenoma tossico;
• le forme di MEN2, in quanto, dal momento che la penetranza
della mutazione genetica è di fatto quasi completa, è indicata
la tiroidectomia profilattica, da eseguire a diverse età a seconda
del tipo di mutazione (Fialkowski e Moley, 2006).
Il procedimento chirurgico deve essere seguito da un adeguato follow-up, tra cui l’eventuale somministrazione di iodio radioattivo per
ablare il residuo tiroideo o comunque le cellule neoplastiche presenti
a distanza. Con il trattamento con levo-tiroxina il TSH sierico deve
essere mantenuto ai limiti inferiori della norma, utilizzando l’aumento dei livelli di tireoglobulina sierica come marker di recidiva.
I bambini con carcinoma tiroideo, adeguatamente trattati, hanno un
buon indice di sopravvivenza, maggiore di quello degli adulti, arrivando ad un valore del 91% a distanza di 30 anni (Hogan et al., 2009).
Nel caso di noduli tiroidei con lesioni citologicamente benigne, i
soggetti possono essere controllati periodicamente attraverso l’ecografia. Nel caso di un significativo aumento delle dimensioni del
nodulo, può essere indicata la ripetizione dell’agoaspirato o l’eventuale lobectomia.
La terapia con levo-tiroxina sodica, nonostante la mancanza di chiari
effetti benefici nel diminuire le dimensioni nodulari, è impiegata da
diversi centri soprattutto sulla base di esperienze individuali. Teoricamente potrebbe essere utile al fine di prevenire lo sviluppo di
nuovi noduli o la comparsa di gozzo lobare dopo emitiroidectomia. È
sicuramente controindicata in noduli tiroidei autonomi e nei soggetti
in cui il trattamento con T4 apparirebbe rischioso, come per la presenza di patologie cardiache o ossee, per cui non è sostanzialmente
raccomandata per noduli benigni (Camargo et al., 2009).
17
G. Cesaretti
Figura 1.
Flow-chart di comportamento diagnostico-differenziale.
Conclusioni
La diagnosi differenziale del nodulo tiroideo è fondamentalmente
quindi tra formazione benigna e carcinoma tiroideo. Si avvale di un
insieme di dati clinico-anamnestici, strumentali e di laboratorio, solo
la cui valutazione complessiva è in grado di fornire le informazioni
atte a stabilire il comportamento diagnostico più adatto e, conseguentemente, la strategia terapeutica più appropriata.
Nella figura 1 è riportata una flow-chart di comportamento diagnostico-differenziale da osservare di fronte ad un nodulo tiroideo in età
pediatrica.
Box di orientamento
Il rilievo di un nodulo tiroideo richiede un adeguato inquadramento diagnostico al fine di individuare i casi con elevato rischio di carcinoma tiroideo.
Devono essere eseguiti un’attenta valutazione anamnestica, un completo esame clinico e le appropriate indagini strumentali, che si avvalgono soprattutto della ecografia, che deve essere effettuata da operatori con particolare esperienza specifica nel settore.
Sulla base di tutti i dati precedenti è possibile “stratificare” il grado di rischio neoplastico del nodulo e stabilire un adeguato percorso diagnosticoterapeutico, con l’obiettivo di ottenere un corretto inquadramento diagnostico ed una appropriata terapia.
La corretta diagnosi consente una ottima sopravvivenza nel caso di neoplasie tiroidee maligne e contemporaneamente evita accertamenti e/o terapie
non necessarie.
18
I noduli tiroidei in età pediatrica
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Corrispondenza
Graziano Cesaretti, U.O. Pediatria Universitaria, Dipartimento Materno-Infantile, Azienda Ospedaliera Universitaria, via Roma 35, 56126 Pisa.
Tel.: +39 050 992101. Fax: +39 050 993044. E-mail: g.cesaretti@med.unipi.it
19
Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 20-24
endocrinologia pediatrica
L’ipertiroidismo in età pediatrica: una realtà rara
Giovanna Weber, Elena Peroni, Maria Cristina Vigone
Clinica Pediatrica, Istituto Scientifico Universitario, Ospedale San Raffaele, Milano
Riassunto
La malattia di Graves è la causa più comune di ipertiroidismo in età evolutiva, seguita dalla tiroidite autoimmune. Nella realtà europea, la terapia medica
con farmaci anti-tiroidei rappresenta la prima scelta terapeutica, nonostante il difficile controllo della funzionalità tiroidea, i noti effetti collaterali e il basso
rate di remissione. Per questi motivi è frequente il ricorso a una terapia definitiva chirurgica o con I-131, che però determina inevitabilmente una condizione
di ipotiroidismo iatrogeno permanente. Nessuna delle tre opzioni attualmente disponibili si è pertanto rivelata ottimale, evidenziando la complessità della
gestione terapeutica dell’ipertiroidismo autoimmune in età pediatrica.
Summary
Graves’ disease is the most common cause of thyrotoxicosis in children and adolescents, followed by autoimmune thyroid disease. In the European context,
antithyroid drug therapy is recommended as the initial treatment, despite the difficult control of thyroidal function, known side effects and the low rate of
remission. For these reasons a definitive therapy (surgery or radioactive iodine treatment with I-131) is commonly used as a second step, which is invariably
associated with the development of permanent hypothyroidism. None of the three options currently available has been shown to be clearly superior to the
others which further highlights the complexity of the therapeutic management of pediatric autoimmune hyperthyroidism.
Parole chiave: ipertiroidismo, età pediatrica, farmaci anti-tiroidei, tiroidectomia, radioiodio
Key words: hyperthyroidism, pediatric, antithyroid drug therapy, thyroidectomy, radioactive iodine
Obiettivo
Presentare le diverse forme di ipertiroidismo in età pediatrica, l’iter
diagnostico e le alternative terapeutiche.
Metodologia della ricerca bibliografica
La ricerca degli articoli è stata effettuata sulla banca dati bibliografica Medline utilizzando il motore di ricerca PubMed. Sono state
utilizzate le seguenti parole chiave: Hyperthyroidism, Pediatric, Antithyroid drug therapy, Thyroidectomy, Radioactive iodine. Sono stati
selezionati articoli originali, revisioni e linee guida recenti inerenti
l’età pediatrica.
Introduzione
L’ipertiroidismo è un’entità clinica rara in età pediatrica, caratterizzata da elevati livelli di ormoni tiroidei liberi associati ad inibizione del
TSH ipofisario. Nella maggioranza dei casi l’eziologia è autoimmune
e comprende principalmente la malattia di Basedow-Graves (MG) e
meno frequentemente la tiroidite autoimmune. In quest’ultimo caso
l’ipertiroidismo può esprimersi in fase iniziale con un transitorio e
per lo più lieve ipertiroidismo (fase di Hashitossicosi) secondario a
un aumentato rilascio di ormoni tiroidei preformati, conseguente
all’infiltrazione linfocitaria (De Luca et al., 2013).
Esistono inoltre condizioni cliniche rare associate all’ipertiroidismo
in età evolutiva, elencate in tabella I.
Malattia di Basedow-Graves
La MG è la causa più comune di ipertiroidismo in età pediatrica,
con un’incidenza dello 0,02%, a comparsa prevalentemente in età
adolescenziale. Sono a maggior rischio i soggetti di sesso femminile
(F:M = 5:1), affetti da altre patologie immunomediate e/o con anamnesi familiare positiva per tireopatia autoimmune.
Alla base della MG si osserva un’aumentata produzione di anticorpi
stimolanti diretti contro il recettore del TSH (Trab) che inducono iper-
Tabella I.
Cause di ipertiroidismo in età pediatrica.
PIÙ FREQUENTI
Cause autoimmuni
Malattia di Basedow-Graves (95%)
Tiroidite autoimmune (fase di Hashitossicosi)
RARE
Iperfunzione tiroidea autonoma
Adenoma tossico o nodulo solitario
Gozzo multinodulare
Cause esogene
Tireotossicosi factitia o accidentale
Ipertiroidismo iodio-indotto (farmaci, mezzi di contrasto iodati,…)
Cause genetiche
Mutazioni attivanti il TSHR
Sindrome di McCune-Albright
Mutazione del recettore degli ormoni tiroidei
Disfunzione ipofisaria
Adenoma TSH-secernente
MOLTO RARE
20
L’ipertiroidismo in età pediatrica: una realtà rara
plasia ghiandolare, aumento della vascolarizzazione, della sopravvivenza cellulare e della sintesi della proteina simporto sodio/iodio,
incrementando la formazione e la secrezione degli ormoni tiroidei
(Morshed et al., 2009).
Il meccanismo che porta alla produzione dei Trab è ancora poco
chiaro, verosimilmente di natura multifattoriale. Un ruolo fondamentale sembrerebbe svolto dalla suscettibilità genetica (probabilmente
di origine poligenica), dal sistema immunitario e dall’esposizione
a un trigger esterno (secondo alcuni Autori mediante un meccanismo di mimetismo molecolare conseguente a un processo infettivo)
(Wang et al., 2010). Secondo altri studi, un insulto al parenchima
tiroideo (esempio, un processo infettivo) sarebbe in grado di indurre
l’espressione di molecole del Complesso Maggiore di Istocompatibilità di classe II da parte dei tireociti, trasformando questi ultimi in
cellule presentanti l’antigene, capaci di contribuire all’innesco della
risposta autoimmune.
Studi di linkage in cluster familiari con storia di tireopatia autoimmune hanno dimostrato il coinvolgimento di numerosi loci, ma ad
oggi nessuno sembra essere in grado di spiegare completamente
la patogenesi della malattia (Ban et al., 2004). Con molta probabilità
esistono altri geni, ancora da scoprire, in grado di modulare la penetranza della MG nei pazienti affetti.
All’esordio della MG, in alcuni studi effettuati su pazienti adulti, oltre
alla tireomegalia è riportata la presenza di iperplasia timica, che regredisce dopo il trattamento con farmaci anti-tiroidei; molto più rare
sono le segnalazioni in ambito pediatrico (Chiu et al., 2013; Kawano
e Kohno, 2011; Kubicky et al., 2010). Sebbene il meccanismo patogenetico dell’iperplasia timica sia attualmente dibattuto, sembra
esserci alla base un processo immunologico. È importante ricordare
questa associazione che, se misconosciuta (sospetto di massa mediastinica anteriore), può portare a una diagnostica inutile e spesso
invasiva (biopsia o timectomia).
Cause minori di ipertiroidismo
Iperfunzione tiroidea autonoma
Il sospetto diagnostico viene posto all’esame obiettivo in caso di palpazione di nodulo solitario o noduli multipli e a livello laboratoristico
in presenza di un quadro di ipertiroidismo non autoimmune. L’ecografia rappresenta il primo step diagnostico; la scintigrafia tiroidea
viene effettuata in seconda battuta. La terapia è in genere chirurgica.
Eccessiva ingestione di ormone tiroideo o eccessiva
esposizione a iodio
L’ipertiroidismo causato dall’assunzione esogena di ormone tiroideo
(definito factitio) può verificarsi durante l’adolescenza, quando l’abuso di ormone è legato al tentativo di perdere peso, sfruttandone il
potere regolatore sulla termogenesi e sulla lipolisi.
L’esposizione a quantità di iodio tali da indurre tireotossicosi può derivare dall’uso di antisettici topici o farmaci a base di iodio e dall’impiego di mezzi di contrasto iodati.
Cause genetiche
Mutazioni nel gene che codifica per il recettore del TSH: il recettore mutato (in genere a livello del dominio transmembrana) causa
un’attivazione costitutiva del pathway di trasduzione intracellulare
e, quindi, una costante stimolazione della crescita e dell’attività dei
tireociti (Alberti et al., 2001).
Sindrome di McCune-Albright: la mutazione interessa il gene GNAS1,
che codifica per la subunità α della proteina Gs compresa nel sistema
recettoriale di molti ormoni proteici (TSH, ACTH, gonadotropine, GHRH,
MSH). La proteina anomala, collocata sulla membrana cellulare, attiva
il complesso recettoriale, causando un’autonoma ed eccessiva proliferazione cellulare ed ipersecrezione ormonale che, se interessanti
la tiroide, determinano un quadro di ipertiroidismo non autoimmune.
Resistenza agli ormoni tiroidei: la mutazione interessa il gene β codificante per il recettore degli ormoni tiroidei. Si tratta di una sindrome ereditaria caratterizzata da una ridotta risposta agli ormoni
tiroidei, che si presenta con un quadro di elevati livelli di fT3 e fT4
associati a TSH normale o lievemente aumentato.
Adenoma pituitario TSH-secernente (Rabbiosi et al., 2012): può manifestarsi con elevati livelli ormonali non associati ad inibizione del
TSH; nel sospetto di tale condizione diventa importante il riscontro di
elevate concentrazioni sieriche della subunità α del TSH e di un’alterata risposta allo stimolo con TRH. La conferma viene dall’imaging
(RM encefalo con studio della regione ipotalamo-ipofisaria), mentre
la chirurgia rappresenta il gold standard terapeutico.
Malattia di Basedow-Graves
Presentazione clinica
In età pediatrica l’esordio dei sintomi tipici dell’ipertiroidismo è spesso
insidioso. Il più delle volte occorrono alcuni mesi prima che si arrivi
alla diagnosi definitiva; infatti, il sospetto diagnostico viene spesso
ritardato sia nei primi anni di vita, per la rarità della patologia e l’aspecificità dei sintomi, sia in epoca peri-puberale, quando le alterazioni
dell’umore e del comportamento o le difficoltà scolastiche caratteristiche dell’ipertiroidismo possono essere del tutto sovrapponibili alle
manifestazioni tipiche dell’età adolescenziale (Shulman et al., 1997).
In tabella II sono indicati i principali sintomi dell’ipertiroidismo in età
pediatrica.
In età evolutiva l’ipertiroidismo non trattato è in grado di interferire
con lo sviluppo puberale, la crescita, la maturazione e la mineralizzazione ossea (Mora et al., 1999).
Diagnosi
In associazione ai dati anamnestici e al riconoscimento di segni e/o
sintomi caratteristici, la diagnosi di ipertiroidismo si basa sul riscontro
di elevati livelli di ormoni tiroidei liberi associati a inibizione del TSH.
È fondamentale il riscontro della positività dei Trab (diagnostici per la
MG e positivi in più del 90% dei soggetti affetti) e degli anticorpi antitireoperossidasi e anti-tireoglobulina (solitamente elevati nelle forme
Tabella II.
Elenco dei principali sintomi di ipertiroidismo in età pediatrica.
SINTOMO
FREQUENZA (%)
Gozzo (Fig. 1)
99
Tachicardia
83
Irritabilità
80
Ipertensione
71
Esoftalmo
66
Tremori
61
Aumento appetito
60
Perdita di peso
54
Palpitazioni
34
Mal di testa
15
Incremento nella frequenza dell’alvo
13
21
G. Weber et al.
fronte a un aumento degli ormoni tiroidei con TSH normale o lievemente aumentato, bisogna valutare la possibilità che si tratti di una
rara forma di resistenza agli ormoni tiroidei (è possibile riscontrare
simili livelli di fT3, fT4 e TSH anche in uno dei genitori) o di un raro
caso di adenoma TSH-secernente (l’imaging risulterà dirimente).
In caso di iperplasia timica, il riscontro di un quadro ormonale caratterizzato da TSH inibito e ormoni tiroidei elevati è fondamentale nella
diagnosi differenziale tra ipertiroidismo e miastenia gravis.
Figura 1.
Gozzo in paziente con ipertiroidismo autoimmune.
di tiroidite autoimmune, per quanto non patognomonici) in considerazione del fatto che le forme di ipertiroidismo in età pediatrica riconoscono nella quasi totalità dei casi un’eziologia autoimmune.
Nell’iter diagnostico molto informativo risulta essere l’esame ecografico; in caso di MG la ghiandola appare di volume aumentato,
in genere con struttura finemente disomogenea, prevalentemente
iporiflettente, con aumentata vascolarizzazione all’esame colorDoppler. L’ecografia è inoltre fondamentale nella diagnosi e caratterizzazione delle lesioni nodulari.
All’esordio dell’ipertiroidismo è opportuno eseguire alcuni esami a
completamento, elencati in tabella III.
La scintigrafia tiroidea viene effettuata nel sospetto di adenoma tossico ipercaptante.
Le cause non autoimmuni di ipertiroidismo, seppur rare, devono
essere prese in considerazione nella diagnosi differenziale. L’ipertiroidismo factitio è caratterizzato da un quadro ormonale che può essere sovrapponibile a quello della MG; tuttavia l’anamnesi, l’assenza
di anticorpi anti-tiroide, il riscontro di valori di tireoglobulina molto
bassi e un quadro ecografico normale ne permettono la diagnosi. Di
Alternative terapeutiche
Nella realtà europea il Metimazolo (MMI) è consigliato come trattamento di prima scelta dell’ipertiroidismo in età evolutiva, da continuarsi per 18-24 mesi, in grado tuttavia di garantire una ridotta
frequenza di remissione a lungo termine (20-30% dei pazienti in
fase peri-puberale e 15% dei pazienti pre-puberi) (Bahn Chair et
al., 2011). Il MMI è in grado di inibire la sintesi degli ormoni tiroidei,
interferendo con l’ossidazione dello iodio e la successiva iodinazione
dei residui di tirosina della tireoglobulina, azione mediata dall’enzima tireoperossidasi (Cooper, 2005).
In passato veniva utilizzato anche il Propiltiouracile (PTU), attualmente sconsigliato in età pediatrica per l’elevato rischio di epatotossicità (Rivkees et al., 2009). A questo proposito la FDA ha recentemente emesso un avviso di sicurezza: il PTU dev’essere utilizzato
limitatamente al primo trimestre di gravidanza (in quanto associato
a un minor rischio di anomalie congenite) o alla fase di bridge verso
una terapia definitiva in un paziente fortemente allergico al MMI.
Più controverso è il metodo block-and-replace, da utilizzarsi nei casi
di difficile controllo della funzionalità tiroidea, che consiste nell’utilizzo di alte dosi di tionamidi (ossia i farmaci antitiroidei), per bloccare la sintesi degli ormoni tiroidei, combinato alla L-Tiroxina, per
garantire uno stato di eutiroidismo, pur mantenendo la tiroide a riposo grazie all’inibizione della sintesi ormonale endogena (Abraham
et al., 2010).
Gli effetti collaterali delle tionamidi si differenziano in minori e maggiori (Tab. IV).
In caso d’instabilità ormonale durante il trattamento medico o di
fronte a una recidiva di malattia all’atto della sospensione terapeutica è possibile ricorrere a una terapia definitiva o, in assenza di
Tabella III.
Elenco degli esami da effettuarsi all’esordio dell’ipertiroidismo.
Esami consigliati
Valutazione cardiologica, ECG ed ecocardiogramma
Esoftalmometria e/o ecografia retro-orbitaria
Esami opzionali, da valutare caso per caso
Età ossea negli stadi pre/peri-puberali
DEXA per escludere una ridotta mineralizzazione ossea
Eventuale screening delle principali patologie autoimmuni
Tabella IV.
Principali effetti collaterali associati alla terapia con tionamidi, distinti in minori e maggiori.
REAZIONI AVVERSE MINORI
(5-25% dei pazienti trattati)
Reazioni cutanee minori (orticaria, rash, edema)
Lieve leucopenia
Modesto e transitorio movimento degli indici di funzionalità epatica
Artralgia e mialgie
Cefalea
Alterazioni del gusto
Disturbi gastro-intestinali
REAZIONI AVVERSE MAGGIORI
Agranulocitosi farmaco-indotta
Vasculite ANCA-associata
Epatotossicità
22
L’ipertiroidismo in età pediatrica: una realtà rara
effetti collaterali, è possibile proseguire la terapia farmacologica
fino al raggiungimento dell’età migliore per il ricorso a chirurgia o
radioiodio.
Attualmente la tiroidectomia viene scelta come terapia definitiva in
considerazione dell’età del paziente (< 5-10 anni) e delle dimensioni
della ghiandola tiroidea (> 80 grammi) (Peroni et al., 2012).
La scuola statunitense utilizza la terapia radiometabolica come
prima scelta a partire dai 10 anni e come scelta alternativa (in caso
di fallimento della terapia medica) nei pazienti di età compresa tra
5 e 10 anni. Nella realtà europea ancora forti sono le perplessità
in merito all’utilizzo del radioiodio nei soggetti con meno di 18
anni; tuttavia, in considerazione dell’assenza di effetti collaterali
a lungo termine rilevati in letteratura e alla luce dell’esperienza
americana, l’introduzione della terapia radiometabolica è sempre
più oggetto di discussione tra i medici europei, almeno nei soggetti
post-puberi.
L’effetto collaterale più temuto della terapia radiometabolica è quello
relativo al potenziale cancerogeno delle radiazioni ionizzanti. È stato
però dimostrato che il rischio di neoplasia tiroidea è maggiore in
caso di esposizione a bassi livelli di radiazioni, ben lontani dalle alte
dosi utilizzate nel trattamento della MG (Read et al., 2004).
Un altro aspetto dibattuto è il possibile effetto dello I-131 sulle cellule germinali e le eventuali ripercussioni sulla progenie. In letteratura
ci sono dati su 500 nati da circa 370 soggetti sottoposti a terapia
radiometabolica durante l’infanzia o l’adolescenza; l’incidenza di
anomalie congenite in questi 500 bambini non differisce da quella
della popolazione generale.
Alla luce di questi dati, la terapia radiometabolica appare sicura ed
efficace se utilizzata nel modo corretto.
L’identificazione di fattori prognostici relativi all’evoluzione dell’ipertiroidismo autoimmune rappresenterebbe un importante traguardo
in campo medico, indirizzando il clinico nella scelta terapeutica più
adatta al singolo paziente, individuando già alla diagnosi coloro che
potrebbero giovarsi di un prolungamento della terapia medica o del
ricorso a una terapia definitiva. Purtroppo finora c’è disaccordo tra
i risultati dei differenti studi pubblicati in letteratura: nessun fattore prognostico è risultato confermato e condiviso da tutti gli studi.
Attualmente la decisione del trattamento più idoneo da seguire in
ambito pediatrico è frutto di una stretta interazione tra la figura del
medico, il paziente e la sua famiglia ed è fortemente influenzata
dalle strutture mediche di riferimento del territorio.
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
L’ipertiroidismo in età pediatrica è un’entità clinica rara, ma insidiosa. Attualmente la terapia migliore da seguire rimane materia di dibattito: nessuna
delle tre opzioni disponibili (terapia medica con farmaci anti-tiroidei, tiroidectomia e trattamento radiometabolico con I-131) si è rivelata ottimale,
presentando tutte vantaggi e svantaggi.
Che cosa sappiamo adesso
Attualmente si ricorre come prima scelta al trattamento con Metimazolo, da continuarsi per 18-24 mesi, in grado tuttavia di garantire una ridotta
frequenza di remissione a lungo termine. In caso d’instabilità ormonale durante il trattamento o di fronte a una recidiva di malattia all’atto della sospensione terapeutica è possibile ricorrere a una terapia definitiva o, in assenza di effetti collaterali, è possibile proseguire la terapia farmacologica, fino al
raggiungimento dell’età migliore per il ricorso a chirurgia o radioiodio.
Quali ricadute sulla pratica clinica
L’identificazione di fattori prognostici relativi all’evoluzione dell’ipertiroidismo autoimmune rappresenterebbe un importante traguardo in campo medico, indirizzando il clinico nella scelta terapeutica più adatta al singolo paziente, individuando già alla diagnosi coloro che potrebbero giovarsi di un
prolungamento della terapia medica o del ricorso a una terapia definitiva.
Bibliografia
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American Association of Clinical Endocrinologists. Thyroid 2011;21(6):593-646.
** L’articolo illustra le più recenti linee guida americane sull’ipertiroidismo, con
una sezione dedicata all’età pediatrica.
Ban Y, Concepcion ES, Villanueva R, et al. Analysis of Immune Regulatory gene in
familiar and sporadic Graves’ disease. J Clin Endocrinol Metab 2004;89,9:4562-8.
Chiu HK, Ledbetter D, Richter MW, et al. Reversible left recurrent laringeal nerve
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Cooper DS. Antithyroid drugs. N Engl J Med 2005;352(9):905-17.
* L’articolo illustra il meccanismo di funzionamento e gli effetti collaterali dei
farmaci anti-tiroidei.
De Luca F, Santucci S, Corica D, et al. Hashimoto’s thyroiditis in childhood: presentation modes and evolution over time. Ital J Pediatr 2013;39:8.
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Read CH Jr, Tansey MJ, Menda Y. A 36-year retrospective analysis of the efficacy
and safety of radioactive iodine in treating young Graves’ patients. J Clin Endocrinol Metab 2004;89(9):4229-33.
* L’articolo evidenzia l’efficacia e la sicurezza dell’utilizzo del radioiodio in età
pediatrica; la forza dello studio è rappresentata dalla numerosità del campione
e dalla durata del follow-up.
23
G. Weber et al.
Rivkees SA, Mattison DR. Propylthiouracil (PTU) Hepatoxicity in Children and Recommendations for Discontinuation of Use. Int J Pediatr Endocrinol 2009;132041.
* L’articolo sottolinea la pericolosità del PTU in età pediatrica.
Shulman DI, Muhar I, Jorgensen EV, et al. Autoimmune hyperthyroidism in prepubertal children and adolescents: comparison of clinical and biochemical features
at diagnosis and responses to medical therapy. Thyroid 1997;7,5:755-60.
Wang Z, Zhang Q, Lu J, et al. Identification of outer membrane porin f protein
of Yersinia enterocolitica recognized by antithyrotopin receptor antibodies in
Graves’ disease and determination of its epitope using mass spectrometry and
bioinformatics tools. J Clin Endocrinol Metab 2010;95(8):4012-20.
Corrispondenza
Giovanna Weber, IRCCS San Raffaele Università Vita-Salute, Centro di Endocrinologia dell’Infanzia e dell’Adolescenza, via Olgettina 60, 20132 Milano.
Tel.: +39 02 26432624. E-mail: weber.giovanna@unist.it
24
Infettivologia Pediatrica
Questa sezione dedicata all’Infettivologia Pediatrica di “Prospettive in Pediatria” è frutto del lavoro e dell’esperienza di tre autorevoli gruppi
clinici e di ricerca nell’ambito delle patologie infettive del bambino. I tre argomenti trattati sono certamente diversi tra loro ma, in tutti i casi,
ogni gruppo di autori ha voluto raccontare l’attualità, in termini di novità diagnostiche e/o terapeutiche, per fornire al lettore tutti i dati più
recenti della letteratura internazionale.
L’infezione da HIV è una malattia relativamente recente, tuttavia, anche in età pediatrica, sono stati fatti progressi, in termini di prevenzione
della trasmissione verticale dell’infezione e di possibilità terapeutiche, inimmaginabili solo 30 anni fa all’inizio della diffusione dell’epidemia.
Oggi l’infezione da HIV è una malattia cronica anche nel bambino e l’interesse della comunità scientifica è focalizzato sul miglioramento
delle possibilità di trattamento in età pediatrica e sulla prevenzione delle complicanze a lungo termine associate all’assunzione cronica di
farmaci antiretrovirali.
La tubercolosi, al contrario, è una malattia tutt’altro che recente, ma ultimamente sempre più prepotentemente “tornata sotto i riflettori”. I
cambiamenti demografici e sociali che stanno interessando tutto il pianeta, la mobilità delle persone e il fenomeno dell’immigrazione dai
paesi a medio-basso reddito verso i paesi economicamente più avanzati hanno fatto riemergere un problema sanitario, che, in paesi come il
nostro, stava per essere relegato ai libri di storia della medicina. Oggi tuttavia abbiamo la possibilità di diagnosticare prima e meglio questa
malattia riemergente e di trattarla sempre più efficacemente.
Infine la meningite batterica, una malattia sempre attuale e potenzialmente gravissima sia per la rapida evoluzione nell’acuzie sia per il
possibile esito con severe sequele a lungo termine. Oggi tuttavia vi è la possibilità di formulare diagnosi corrette sempre più rapidamente,
grazie alla disponibilità di nuovi presidi diagnostici, e di trattare efficacemente la malattia riducendo al minimo il rischio della permanenza
di danni a distanza dal fatto acuto.
Con questi articoli di revisione, il desiderio mio e degli autori è quello di fornire al lettore validi strumenti di aggiornamento e di guidarlo
nell’approfondimento di tematiche infettivologiche sempre di primo piano.
Gian Vincenzo Zuccotti
Clinica Pediatrica A.O., Polo Universitario Luigi Sacco
Università degli Studi di Milano
25
Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 26-35
Infettivologia Pediatrica
HIV in età pediatrica:
cosa è cambiato 30 anni dopo
Vania Giacomet, Valentina Fabiano, Gian Vincenzo Zuccotti
Clinica Pediatrica A.O. Polo Universitario Luigi Sacco, Università degli Studi di Milano, Milano
Riassunto
Alla fine del 2011, il numero delle nuove infezioni da HIV nel mondo è stato stimato in 2.5 milioni, di cui il 12% in bambini e adolescenti di età inferiore
a 15 anni. Nei paesi in cui è routinariamente applicata, la prevenzione della trasmissione da madre a feto dell’infezione da HIV attraverso lo screening
universale per HIV delle donne gravide, l’assunzione della terapia antiretrovirale durante la gravidanza e la sua somministrazione intrapartum, nonché la
somministrazione della profilassi antiretrovirale al neonato, ha permesso di ridurre i tassi di trasmissione materno-fetale dell’infezione da HIV a meno del
2%. Attualmente i bambini con infezione da HIV vengono precocemente trattati con la terapia antiretrovirale: la terapia ha drammaticamente cambiato la
storia naturale dell’infezione da HIV anche in età pediatrica, riducendo significativamente i tassi di mortalità e garantendo una sopravvivenza fino all’età
adulta in più del 90% dei casi. Tuttavia, la terapia dell’infezione da HIV in età pediatrica è limitata dalla disponibilità di farmaci approvati per questa fascia di
età, nonché dall’esistenza di formulazioni adeguate per la somministrazione ai bambini. Sono inoltre da monitorare strettamente gli effetti avversi associati
alla sua assunzione a lungo termine. La presente revisione della letteratura vuole fornire le più recenti evidenze relative alle modalità di prevenzione della
trasmissione verticale dell’infezione e le più aggiornate linee guida di terapia dell’infezione da HIV in età pediatrica.
Summary
By the end of 2011, it is estimated that 2.5 million subjects worldwide are newly infected with HIV; 12% of these are new infections in children and adolescents aged 15 years or less. In those countries where prevention strategies are routinely performed through HIV universal screening of pregnant women, administration of antiretroviral therapy during pregnancy and intrapartum, and administration of antiretroviral prophylaxis for the newborns, rates of mother to
child HIV transmission are now less than 2%. Currently, children affected by HIV infection are precociously treated with an antiretroviral therapy, significantly
changing the natural history of HIV infection also in the pediatric age, so that mortality rates are currently significantly reduced and the survival through
the adult age is guaranteed for more than 90% of affected children and adolescents. Nevertheless, administration of antiretroviral therapy in pediatric age
is limited by availability of drugs which are approved for the use in children and by adequate drug formulations for the pediatric age. Moreover, long term
adverse effects of antiretroviral therapy should be strictly monitored. This literature review is focused on the most recent evidences about prevention of
vertical transmission of HIV infection and on most updated guidelines for the use of antiretroviral therapy in pediatric age.
Parole chiave: HIV, prevenzione della trasmissione madre-bambino, terapia antiretrovirale altamente efficace
Key words: HIV, prevention of mother-to-child transmission (PMTCT), Highly Active Antiretroviral therapy (HAART)
Obiettivo della revisione
Obiettivo di questa revisione della letteratura è fornire le più recenti evidenze relative alle modalità di prevenzione della trasmissione
verticale dell’infezione da HIV, con discussione dell’applicabilità delle
stesse nei paesi a medio-basso reddito, nonché le più aggiornate linee
guida di terapia dell’infezione da HIV in età pediatrica. Per la stesura
di questa revisione è stata considerata la letteratura degli ultimi 20
anni circa la prevenzione della trasmissione dell’infezione maternofetale dell’HIV e la terapia dell’infezione da HIV in età pediatrica. È
stata eseguita una ricerca di letteratura in lingua inglese e italiana
sui principali database Pubmed, Scopus, UpToDate, utilizzando le seguenti parole chiave: “HIV/AIDS, children, adolescents, prevention of
mother-to-child transmission, therapy, antiretroviral therapy (HAART),
highly active antiretroviral therapy, infezione da HIV, AIDS, prevenzione, bambini, terapia antiretrovirale, taglio cesareo”. Sono state inoltre
considerate linee guida ufficiali WHO e PENTA e linee guida nazionali.
Introduzione
Secondo le stime del programma congiunto delle Nazioni Unite
su HIV/AIDS (UNAIDS), nel mondo, alla fine del 2011, 34 milioni di
26
soggetti risultavano affetti da infezione da HIV/AIDS: nello stesso
anno, il numero di nuove infezioni è stato stimato in 2,5 milioni,
di cui il 12%, pari a circa 330.000 casi, in soggetti di età inferiore
a 15 anni. Il 90% dei bambini ha contratto l’infezione dalla madre
per trasmissione verticale. La prevenzione della trasmissione da
madre a feto dell’infezione da HIV (prevention of mother to child
transmission o PMTCT) rappresenta un aspetto della gestione
dell’infezione da HIV che in 30 anni ha subito importanti cambiamenti (Birkhead et al., 2010; Nielsen-Saines et al., 2012). La precoce identificazione delle donne gravide affette da HIV attraverso
lo screening universale, l’assunzione della terapia antiretrovirale
(ARV) durante la gravidanza e la sua somministrazione intrapartum, nonché la somministrazione della profilassi antiretrovirale al
neonato rappresentano i cardini delle linee guida di prevenzione
della trasmissione verticale dell’infezione da HIV, che comprendono inoltre l’espletamento del parto per taglio cesareo elettivo e
l’allattamento artificiale esclusivo. Nei paesi dove queste strategie
di prevenzione sono universalmente intraprese, i tassi di trasmissione materno-fetale dell’infezione da HIV, naturalmente compresi
tra 20 e 45%, si sono ridotti al di sotto del 2% (Townsend et al.,
2008). Nei paesi meno sviluppati non è tuttavia infrequente che
solo una minore percentuale delle donne HIV-infette riceva farma-
HIV in età pediatrica: cosa è cambiato 30 anni dopo
ci antiretrovirali nell’ambito della prevenzione della trasmissione
materno-fetale dell’infezione. In questi stessi paesi, dove l’allattamento materno è una pratica di primaria importanza e la sua
sostituzione con l’allattamento con latti formulati è limitata dalle
scarse risorse economiche, il 40% dei bambini contrae l’infezione
dopo la nascita, proprio attraverso il latte della madre infetta.
Un altro aspetto fondamentale è rappresentato dal trattamento dei
bambini con infezione da HIV attraverso la precoce somministrazione
della terapia antiretrovirale, terapia che ha drammaticamente cambiato la storia naturale dell’infezione da HIV anche in età pediatrica,
riducendo significativamente i tassi di mortalità e garantendo una sopravvivenza fino all’età adulta in più del 90% dei casi. Attualmente
un bambino che vive in un paese sviluppato, che ha contratto l’infezione per trasmissione materno-fetale, è affetto da una patologia con
caratteristiche di cronicità, piuttosto che da una malattia a decorso
rapidamente e inesorabilmente fatale. Anche in questo caso tuttavia,
le possibilità di accesso alla terapia antiretrovirale sono assai diverse
nelle differenti aree geografiche del pianeta. Laddove nei paesi sviluppati dell’Europa e del Nord America più del 95% dei soggetti infetti da
HIV al di sotto dei 15 anni riceve una terapia antiretrovirale, in paesi
a medio e basso reddito questa percentuale scende fino a meno del
15% (WHO, 2013). La terapia dell’infezione da HIV in età pediatrica
è inoltre limitata dalla disponibilità di farmaci approvati per questa
fascia di età nonché dall’esistenza di formulazioni adeguate per la
somministrazione ai bambini.
Prevenzione della trasmissione materno-fetale
dell’infezione da HIV
Ogni anno, il 15% dei nuovi casi di infezione da HIV nel mondo è
dovuto a trasmissione verticale dell’infezione.
In assenza di qualunque intervento preventivo, il rischio di trasmissione materno-infantile di HIV-1 è del 13-25%, nel caso in cui sia
garantito l’allattamento artificiale esclusivo; l’allattamento materno
aumenta di oltre un terzo il rischio di trasmissione (WHO, 2103).
La maggior parte dei casi di trasmissione verticale avviene in prossimità del parto o durante il travaglio di parto. Il rischio di trasmissione
è correlato ai valori della carica virale materna durante la gravidanza
e al momento del parto. Grazie all’utilizzo della terapia antiretrovirale
assunta durante la gravidanza, a specifici interventi farmacologici e
ostetrici e all’allattamento artificiale esclusivo, il rischio di trasmissione materno-infantile può essere ridotto a meno del 2%.
Le strategie per ridurre la trasmissione materno fetale dell’infezione
da HIV si possono dividere in 3 fasi:
• Interventi antepartum: somministrazione di terapia ARV alla madre durante la gravidanza. Le scelte terapeutiche devono tenere
conto dello stato di salute della donna, dello stato immunitario,
della carica virale, delle precedenti e attuali terapie e devono
nascere da un confronto multidisciplinare tra specialista infettivologo, ostetrico e pediatra;
• Interventi intrapartum: somministrazione di terapia ARV alla madre durante il parto. Parto cesareo elettivo alla 38a settimana di
età gestazionale prima dell’inizio del travaglio di parto e della
rottura delle membrane;
• Interventi postpartum: somministrazione di terapia ARV al neonato-lattante. Allattamento artificiale esclusivo.
Per ottenere la massima efficacia preventiva è necessario che siano
effettuate tutte le tre fasi.
Attualmente più discussa è la reale necessità di espletare il parto
tramite taglio cesareo elettivo nelle madri in terapia ARV che ab-
biano una carica soppressa durante la gravidanza. Gli studi clinici
realizzati in epoca pre-HAART avevano infatti dimostrato la superiorità del taglio cesareo eseguito in elezione alla 38a settimana, in
assenza di travaglio e a membrane ostetriche integre, nel ridurre
i tassi di trasmissione materno-fetale dell’infezione da HIV (Tovo
et al., 1996; European Mode of Delivery Collaboration, 1999; The
International Perinatal HIV Group, 1999). Successivamente la diffusione della HAART e il riconoscimento della sua efficacia nella prevenzione della trasmissione verticale dell’infezione hanno messo
in discussione la bontà della raccomandazione all’esecuzione del
taglio cesareo elettivo in tutte le donne gravide affette da infezione
da HIV, suggerendo come invece potesse essere praticato il parto
vaginale in quelle donne con carica virale soppressa (Townsend et
al., 2006; Boer et al., 2010; Legardy-Williams et al., 2010). Tuttavia, nessuno studio è stato in grado di identificare un valore soglia
di carica virale al di sotto del quale il parto con taglio cesareo non
apportasse benefici in termini di prevenzione della trasmissione
dell’infezione. Questa situazione ha fatto sì che attualmente le diverse Linee Guida Nazionali indichino valori soglia differenti tra
loro: in Francia non è più consigliato il taglio cesareo elettivo per
donne con carica virale < 400copie/ml (Yeni P), negli Stati Uniti, in
Canada e in Spagna tale valore è invece pari a 1000 copie/ml (NIH,
2011; Loutfy et al., 2012; GESIDA, 2007), in Gran Bretagna il taglio
cesareo non è indicato per donne con carica virale <50 copie/ml
(de Ruiter et al., 2008), valore quest’ultimo recepito anche dalla
European AIDS Clinical Society (EACS, 2012). In Italia, le attuali
raccomandazioni del Ministero della Salute e dell’Istituto Superiore
di Sanità suggeriscono che un taglio cesareo programmato a 38+0
settimane è raccomandato in caso di:
• terapia antiretrovirale altamente attiva con carica virale plasmatica maggiore di 50 copie/ml;
• monoterapia con ZDV quale alternativa alla terapia antiretrovirale altamente attiva;
• coinfezione da HIV ed epatite C in donne non in terapia HAART
e/o con carica virale HIV plasmatica > 50 copie/ml.
Un travaglio di parto può essere offerto alle donne in terapia antiretrovirale con carica virale plasmatica <50 copie/ml, avendo cura di
limitare, per quanto possibile, le manovre che aumentano il rischio
di contaminazione ematica materno-fetale (amnioressi precoce, ripetute esplorazioni vaginali a membrane rotte, monitoraggio invasivo del benessere fetale, utilizzo di forcipe e ventosa, episiotomia). In
caso di indicazioni ostetriche al taglio cesareo in donne con carica
virale plasmatica <50 copie/ml, questo non deve essere effettuato
prima di 39+0 settimane di gestazione per ridurre i rischi neonatali
(Ministero Salute e ISS, 2012).
Al neonato nato da madre trattata e con viremia soppressa al
parto viene somministrato Zidovudina (ZDV) 2 mg/kg ogni 6 ore
per 4-6 settimane. In seguito il neonato verrà seguito in followup per l’esclusione della diagnosi di infezione mediante test di
biologia molecolare (PCR-DNA nei nati da madre caucasica o
HIV-RNA PCR nei nati da madre con possibile sottotipo non B). La
mancanza di terapia antiretrovirale durante la gravidanza apre
diversi scenari per l’approccio farmacologico al neonato: 1) iniziare la profilassi a 6 settimane con ZDV e aggiungere 3 dosi nella prima settimana di nevirapina; 2) l’utilizzare altre combinazioni di farmaci aggiuntive alle 6 settimane con ZDV, discutendone
con l’infettivologo pediatra dopo aver effettuato un counselling
con la madre circa la possibile tossicità per il neonato della terapia ARV (NIH, 2012).
Una grande eco internazionale ha avuto il caso di “guarigione” della bambina del Mississippi, per la prima volta presentato in marzo
27
V. Giacomet et al.
2013 in occasione della 20° Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections ad Atlanta e successivamente descritto da
Persaud et al. in un case report pubblicato su New England Journal
of Medicine (Persaud et al., 2013). La bambina nasceva alla 35 settimana di gestazione da parto vaginale, da gravidanza non seguita. Il
test rapido per HIV eseguito alla madre durante il travaglio risultava
positivo (confermato dalla presenza di replicazione virale) ma il parto
avveniva prima che ci fosse la possibilità di iniziare una profilassi
intrapartum. Considerato quindi l’alto rischio di trasmissione in utero
dell’infezione, la bambina veniva sottoposta a triplice terapia antiretrovirale con zidovudina, lamivudina e nevirapina a partire da 30
ore di vita. La ricerca di HIV-DNA eseguita a 30 ore di vita risultava
positiva e il dosaggio di HIV-RNA mostrava la presenza di replicazione virale (19.812 copie/mL), facendo concludere per una diagnosi
di infezione in utero. La terapia antiretrovirale veniva pertanto proseguita, sostituendo nevirapina con lopinavir-ritonavir per ridurre il
rischio di farmaco-resistenza in caso di non ottimale compliance alla
terapia ARV. Durante la terapia ARV veniva ancora riscontrata replicazione virale a 6, 11 e 19 giorni di vita; a partire dai 29 giorni di vita,
veniva ottenuta la soppressione della replicazione virale. Durante il
primo anno di vita, la bambina, allattata artificialmente, mostrava
una crescita regolare, buona compliance alla terapia, come dimostrato da ripetuti dosaggi di HIV-RNA che confermavano lo stato di
soppressione della replicazione virale. Dai 18 ai 23 mesi la bambina non veniva condotta con regolarità alle visite programmate e la
mamma, all’età di 23 mesi della bambina, dichiarava di non aver più
somministrato la terapia ARV alla bambina dai 18 mesi. Due dosaggi
di HIV-RNA a 23 e 24 mesi di vita risultavano negativi e la ricerca di
anticorpi contro HIV risultava anch’essa negativa a 24 mesi di vita.
A 30 mesi di vita, la carica virale della bambina continuava a rimanere soppressa e gli anticorpi anti-HIV negativi. Gli autori concludono quindi che l’inizio molto precoce di una terapia antiretrovirale di
combinazione è stata in grado di interferire sia quantitativamente sia
qualitativamente con la persistenza dei reservoirs virali. Una terapia
antiretrovirale aggressiva e iniziata precocemente potrebbe quindi
ottenere una clearance dell’infezione: se questo venisse confermato su un più ampio numero di bambini a rischio, un tale approccio
potrebbe risparmiare a questi bambini il peso di una terapia da proseguire per tutta la vita.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel documento di pianificazione delle strategie di prevenzione della trasmissione verticale dell’infezione da HIV (WHO, 2010) riserva un particolare riguardo
ai paesi cosiddetti low o middle-income, in cui si stima risieda circa
1.4 milioni di donne affette da infezione da HIV. Il 90% di queste donne vive in soli 20 paesi in via di sviluppo, 19 dei quali sono localizzati
nell’Africa sub-sahariana. L’OMS è impegnata nell’implementare
strategie adeguate di prevenzione della trasmissione materno-fetale
dell’infezione da HIV, con particolare attenzione alle 10 nazioni in
cui vive la maggior parte delle donne HIV-infette. In questi paesi gli
obiettivi da raggiungere sono la diagnosi precoce di infezione nelle
donne, l’implementazione di programmi di prevenzione dedicati e la
loro attuazione sul territorio specifico secondo linee guida condivise,
una più ampia disponibilità di farmaci ARV da somministrare durante
la gravidanza e un maggiore e più facile accesso alla terapia, la
presenza di servizi territoriali dedicati alla cura della donna e della
coppia donna-bambino, l’utilizzo della terapia antiretrovirale nelle
donne anche durante la fase dell’allattamento, essendo questi paesi
dove l’allattamento al seno rappresenta comunque la prima scelta
di alimentazione del bambino.
28
Terapia dell’infezione da HIV in pediatria
Terapia e prevenzione
Le terapie antiretrovirali ad oggi disponibili, per quanto non in grado
di eradicare l’infezione da HIV, hanno drammaticamente modificato
il decorso dell’infezione, riducendo la mortalità ed incrementando il
tasso di sopravvivenza e la qualità di vita del paziente HIV-infetto.
Ad oggi, nei Paesi industrializzati dove sono disponibili terapie antiretrovirali combinate altamente efficaci (HAART), la malattia da HIV
ha acquisito le caratteristiche di una patologia cronica anche nel
bambino che si infetta alla nascita. Le principali classi di farmaci
attualmente disponibili sono: inibitori nucleotidici e non nucleotidici
della trascrittasi inversa (NRTI, NNRTI), inibitori delle proteasi (PI),
inibitori delle integrasi del genoma virale, inibitori della fusione, antagonisti del recettore CCR5. Gli scopi della terapia antiretrovirale
sono: ridurre la morbosità e la mortalità HIV-correlate; ricostituire e
preservare la funzione immunitaria; indurre e mantenere una soppressione completa della replicazione virale; minimizzare la tossicità
dei farmaci; migliorare la qualità della vita. In pediatria sono inoltre
prioritari il mantenimento di una regolare crescita somatica e un
adeguato sviluppo neurocognitivo.
Data l’esigua disponibilità di farmaci antiretrovirali approvati per l’età pediatrica, le opzioni terapeutiche sono limitate; nella scelta vanno considerati l’età del paziente, la severità della malattia e il rischio
di progressione, il numero e/o la percentuale di linfociti T CD4 e la
carica virale. Inoltre vanno valutate la disponibilità di formulazioni
liquide e palatabili, la farmacocinetica, gli effetti collaterali a breve
e lungo termine, l’effetto della scelta del regime iniziale su future
opzioni terapeutiche e la presenza di comorbidità (TBC, HBV, HCV,
patologie croniche renali o epatiche).
Quando iniziare la terapia antiretrovirale nel paziente
pediatrico
In età pediatrica, le indicazioni per l’inizio della terapia antiretrovirale sono più aggressive rispetto all’adulto, poiché nel bambino la
progressione dell’infezione è più rapida e i parametri di laboratorio
sono meno predittivi del rischio di progressione, particolarmente nel
lattante. L’inizio della terapia antiretrovirale è raccomandato nel lattante < 12 mesi di vita, indipendentemente dalla situazione clinica,
numero assoluto e percentuale dei CD4+ e carica virale. Questa indicazione, oggi condivisa dal National Institute of Health americano,
dalla World Health Organization, e dalle linee guida PENTA (Paediatric European Network for treatment of AIDS), nasce dall’evidenza
che il rischio di progressione o morte nei primi 12 mesi di vita in
un bambino HIV-infetto è pari al 20-25% e che nei lattanti in cui la
terapia HAART viene iniziata precocemente sono significativamente
minori i tassi di mortalità e di progressione ad AIDS. Nei pazienti di
età ≥12 mesi è invece possibile differire l’inizio della terapia. Nel
bambino di età compresa tra 12 e 59 mesi, la % di CD4+ e i livelli di
HIV RNA sono fattori indipendentemente predittivi del rischio di progressione clinica o morte a parità di numero di CD4+, mentre al di
sopra dei 5 anni di vita, il rischio di morte o progressione di malattia
a un anno è maggiormente correlato a un numero di CD4+ inferiore
a 350 cell/µl; valori di HIV-RNA ≥ 100.000 cp/ml correlano con un
maggior rischio di morte o progressione di malattia a un anno, sia
sopra sia sotto i 5 anni di vita (PENTA 2009; NHI 2012; Puthanakit
et al., 2012) (Tab I).
Le nuove linee guida OMS raccomandano che tutti i bambini al di sotto
dei cinque anni inizino immediatamente il trattamento. La stessa raccomandazione è rivolta anche ai bambini di età uguale o superiore ai
HIV in età pediatrica: cosa è cambiato 30 anni dopo
Tabella I.
Criteri per l’inizio della terapia antiretrovirale in età pediatrica.
Età
Criterio
< 12 Mesi
L’inizio della terapia antiretrovirale è raccomandato in tutti i bambini sotto i 12 mesi, indipendentemente
da stadio clinico, percentuale di CD4+ e carica virale.
Fortemente raccomandato
12-59 Mesi
Clinico
CDC classe B** o C
indipendentemente da viremia e %
di CD4+
CDC classe B** o C indipendentemente da viremia
e % di CD4+
Fortemente raccomandato
Immunologico
CD4+ < 25% indipendentemente
dallo stadio clinico o dalla viremia
12-35 mesi: CD4+ < 25% o < 1000 cellule/µL
Fortemente raccomandato
36-59 mesi: CD4+ < 20% o < 500 cellule/µL
indipendentemente dallo stadio clinico o dalla viremia
Virologico
HIV-RNA > 100.000 copie/mL in
classi CDC N o A e CD4+ > 25%
HIV-RNA > 100.000 copie/mL in classi CDC N o A
e CD4+ > 25%
Considerabile
Clinico
CDC classe B** o C
indipendentemente dallo stadio
clinico o dalla viremia
CDC classe B** o C indipendentemente da viremia
e dal valore di CD4+
Fortemente raccomandato
Immunologico
CD4+ < 350 cellule/µL
indipendentemente dallo stadio
clinico o dalla viremia
CD4+ < 350 cellule/µL indipendentemente da
viremia e valore di CD4
Fortemente raccomandato
Virologico
HIV-RNA ≥ 100.000 copie/mL
in classi CDC N o A e con CD4+ ≥
350 cellule/µL
HIV-RNA ≥ 100.000 copie/mL
in classi CDC N o A e con CD4+ ≥ 350 cellule/µL
Considerabile
> 5 anni
NIH
PENTA
RACCOMANDAZIONE
DEL TRATTAMENTO
* Sufficiente un solo criterio.
** Ad eccezione del paziente che manifesti un singolo episodio di infezione batterica grave o di polmonite interstiziale linfoide.
cinque anni con una conta dei CD4 inferiore alle 500 cellule per mm3.
La difficoltà maggiore per il trattamento precoce dei bambini consiste nella mancata diagnosi dell’infezione nelle prime settimane dopo
la nascita. Secondo gli esperti, un enorme passo avanti per aumentare le diagnosi sarebbe l’introduzione dei test diagnostici per l’HIV
all’interno dei centri di vaccinazione, dove oltre l’80% delle madri in
Africa sub-sahariana porta i figli (WHO, 2013).
Quale combinazione di farmaci utilizzare nel paziente
pediatrico naïve
Al fine di limitare al minimo un fallimento terapeutico, si raccomanda
di iniziare sempre la terapia antiretrovirale utilizzando regimi farmacologici contenenti almeno tre farmaci di due classi diverse, previa
esecuzione di un test che valuti le resistenze a livello genotipico da
effettuare in tutti i soggetti naïve. Ad oggi, benché manchino studi randomizzati esaustivi, sono considerati di prima scelta i regimi
HAART contenenti 2 NRTI (backbone) + 1 PI oppure 2 NRTI (backbone) + 1 NNRTI (PENPACT-1 (PENTA 9/PACTG 390) Study Team, Babiker et al., 2011). L’uso di farmaci di ultima generazione come gli
inibitori delle integrasi, della fusione e dei corecettori CCR5 o CXCR4
è riservato ai casi di fallimento (Tab. II).
Scelta del backbone dei 2 inibitori nucleotidici della
trascrittasi inversa (NRTI)
Attualmente 6 inibitori nucleosidici [zidovudina (AZT), didanosina
(ddI), lamivudina (3TC), stavudina (d4T), abacavir (ABC) ed emtricitabina (FTC)] e un inibitore nucleotidico della trascrittasi inversa
[tenofovir (TDF)] sono approvati per pazienti pediatrici.
Regimi basati su inibitori non nucleotidici della trascrittasi
inversa (NNRTI)
Schemi terapeutici basati su NNRTI nei pazienti pediatrici naïve permettono un futuro utilizzo di regimi basati su PI. Lo sviluppo di una
sola mutazione, tuttavia, può conferire resistenza all’intera classe
di farmaci. Nevirapina (NVP) ed efavirenz (EFV) in combinazione con
due NRTI, sono i farmaci di prima scelta per bambini di età < e ≥ 3
anni, rispettivamente. EFV è il farmaco di scelta per la terapia iniziale
del bambino ≥3 anni; per i pazienti di età inferiore ai 3 anni o per
i bambini incapaci di deglutire le compresse, NVP risulta di prima
scelta perché disponibile anche in formulazione liquida. Etravirina è
stato recentemente approvato per bambini di età superiore ai 6 anni.
Regimi basati su inibitori delle proteasi (PI)
L’utilizzo di PI garantisce un’ottima soppressione della replicazione
virale, con minor rischio di sviluppare resistenze e la possibilità di
preservare regimi basati su NNRTI per future opzioni terapeutiche.
Ciononostante, la terapia con PI comporta non di rado lo sviluppo
di dislipidemia, lipodistrofia, insulino-resistenza ed alterazioni del
metabolismo epatico di altri farmaci. In ambito pediatrico, l’associazione lopinavir/ritonavir (LPV/r) è la più studiata e ha dimostrato una
persistente efficacia con bassa tossicità sia nel paziente naïve che
in quello con pregressa esposizione ad antiretrovirali. I PI alternativi
per i pazienti di età > 6 anni sono atazanavir/r, fossamprenavir/r e
darunavir/r.
Il fallimento della terapia antiretrovirale
Con “fallimento terapeutico” si intende una risposta sub-ottimale o
una risposta non sostenuta alla terapia antiretrovirale, che si manifesti come deterioramento clinico, immunologico o virologico.
La sostituzione della HAART è tanto più urgente quanto più il soggetto è immunocompromesso (Tab. III) e tale modifica deve essere
preceduta dall’esecuzione del test di Resistenza, in quanto durante
la replicazione virale si verificano facilmente mutazioni dell’HIV-RNA
e vengono progressivamente selezionati ceppi virali farmaco-resistenti.
29
V. Giacomet et al.
Tabella II.
Scelta dei farmaci per l’inizio della terapia.
Selezione dei 2 NRTI
Regime basati su NNRTI
Regimi basati su IP
ABC *+ 3TC oppure FTC
AZT + 3TC oppure FTC
ddI + FTC
TDF** + 3TC oppure FTC
Prima scelta
EFV (bambini > 3 anni)
NVP (bambini < 3 anni o che richiedano formulazione liquida
Seconda scelta
NVP (bambini > 3 anni)
Prima scelta
L PV/r
ATV/r (bambini > 6 anni)***
Seconda scelta (ordine alfabetico)
DRV/r (bambini > 3 anni)
fAPV/r (bambini > 6 anni)
IP sconsigliati
TPV, SQV, IDV
RTV dose piena
ATV senza booster di RTV (in bambini di età < 13 anni e/o < 39 Kg)
* Da eseguirsi test per HLA B*5701 prima dell’impiego del farmaco. Da non somministrarsi in caso di esito positivo.
** Negli adolescenti di età compresa tra 12 e < 18 anni con peso corporeo ≥ 35 kg, la dose raccomandata di TDF è di 245mg; dosaggio pediatrico: 8 mg/kg
*** Guidelines DHHS 2012
L’uso di un regime basato su 3 NRTI va riservato solo in casi particolari (es.:terapia antitubercolare associata).
d4T è sconsigliato nei bambini.
Tabella III.
Criteri di definizione di fallimento virologico, immunologico e clinico.
Fallimento virologico
Incompleta risposta virologica
Diminuzione della viremia < 1 Log a 8-12 settimane di terapia
(I livelli di HIV-RNA all’inizio del nuovo regime
influenzano la risposta e, soprattutto nei
bambini, il tempo necessario per ottenere
la completa soppressione della carica può
Rebound virologico
essere maggiore. Modalità e rapidità di
diminuzione della viremia dall’inizio del nuovo
regime sono predittivi della risposta virologica)
HIV-RNA > 400 copie/mL dopo 6 mesi di terapia
Fallimento immunologico
Bambino ≥ 5 anni con immunodepressione severa (CD4+ ≤ 200
cell/µL): mancato incremento dei CD4+ ≥ 50 cellule/µL entro il
primo anno dall’inizio della terapia
Incompleta risposta
immunologica
HIV-RNA > limite soglia di rilevazione nei primi 12 mesi di terapia
Viremia superiore alla soglia di rilevazione dopo il raggiungimento
della soppressione virologica
Bambino < 5 anni con immunodepressione severa (CD4% < 15%):
mancato incremento ≥ al 5 % del valore di CD4+ rispetto al basale
Declino immunologico
Diminuzione della percentuale di CD4+ del 5% rispetto ai valori al
basale ad ogni età
Diminuzione del numero assoluto dei CD4+ al di sotto dei livelli preterapia al basale in bambini di età ≥ 5 anni
Fallimento clinico
(Lo sviluppo di sintomi clinici nei primi
mesi di terapia non indica necessariamente
fallimento terapeutico, potendo infatti
rappresentare la “coda” di una disfunzione
immunologica HIV- correlata o la sindrome da
immunoricostituzione (IRIS))
30
Deterioramento progressivo
dello sviluppo neurocognitivo
Due o più dei seguenti reperti documentati in ripetute valutazioni:
Ritardo della crescita cerebrale
Declino della funzione cognitiva documentato da test psicometrici
Encefalopatia motoria
Ritardo di crescita
Persistente declino nella velocità di crescita ponderale nonostante
adeguato apporto nutrizionale e in assenza di altra spiegazione
Infezioni
Insorgenza di infezioni severe e/o ricorrenti definenti AIDS in uno
stesso paziente
HIV in età pediatrica: cosa è cambiato 30 anni dopo
Scelta del nuovo regime antiretrovirale
Il cambio terapeutico deve contemplare almeno due farmaci, preferibilmente tre, a cui il virus è sensibile, data l’elevata possibilità di comparsa di nuove resistenze. In linea generale, se la HAART fallita era
basata su NNRTI, è preferibile passare ad un regime basato su PI. La
resistenza crociata tra EFV e NVP limita l’uso di EFV nella nuova terapia. Il più recente NNRTI etravirina mantiene invece efficacia contro il
virus resistente a NVP ed EFV (Briz, et al., 2011). Un regime contenente
LPV/r ha rivelato efficacia sostenuta in bambini multi-trattati (Frange
et al., 2011; Bunupuradah et al., 2011); sono ancora limitati i dati
relativi all’uso dei farmaci appartenenti alle nuove classi: maraviroc
(antagonista del recettore CCR5) e raltegravir (inibitore dell’integrasi).
Enfuvirtide, inibitore di fusione, è approvato nei bambini di età ≥ 6 anni
e si è dimostrato efficace nei pazienti multi-resistenti e pluri-trattati,
tuttavia la somministrazione sottocutanea ne limita l’uso, in particolare negli adolescenti (Palladino et al., 2010; Cavarelli et al., 2010).
In caso di documentata estesa resistenza a vari farmaci, la possibilità di impostare un efficace regime terapeutico è scarsa e vanno
considerati: a) regimi off-label, b) la possibilità di arruolamento in
trial clinici per i nuovi farmaci; c) regimi “non soppressivi” al solo
scopo di prevenire l’ulteriore deterioramento clinico-immunologico,
in attesa di nuovi farmaci efficaci disponibili (Tab. IV).
Il monitoraggio terapeutico delle concentrazioni plasmatiche
di farmaci (TDM)
La misurazione della concentrazione plasmatica dei farmaci (TDM:
Therapeutic Drug Monitoring) è uno strumento strategico e raccomandato nei pazienti in terapia antiretrovirale, nei quali la risposta
clinica e virologica è diversa dall’atteso, per ottenere dosaggi ottimali minimizzando la tossicità e massimizzando il beneficio terapeutico, escludere livelli farmacologici sub-terapeutici e stabilire la
dose ottimale di farmaco nella transizione ad un nuovo regime. La
relazione tra concentrazione di farmaco ed effetto virologico è forte
per i PI e gli NNRTI, ma anche il mantenimento di concentrazioni sieriche adeguate degli NRTI si è dimostrato importante per una
massima attività antiretrovirale. L’uso di TDM in ambito pediatrico
è limitato da lunghe tempistiche, alta variabilità dei risultati nello
stesso paziente e scarsità di laboratori certificati.
Il test di resistenza
Durante la replicazione virale, a causa della propensione della trascrittasi inversa a commettere errori, si verificano facilmente mutazioni dell’HIV-RNA, ed in presenza di farmaci antiretrovirali, vengono
progressivamente selezionati ceppi virali farmaco-resistenti.
L’aderenza alla terapia antiretrovirale e la comunicazione della
diagnosi
L’aderenza è il fattore maggiormente coinvolto nel determinare
l’efficacia della terapia antiretrovirale. Studi prospettici condotti sia
nell’adulto sia nel bambino hanno dimostrato che il rischio di fallimento virologico aumenta proporzionalmente all’aumento delle dosi
omesse. Il processo di preparazione all’aderenza dovrebbe essere
avviato prima dell’inizio o del cambio della terapia e un’accurata
valutazione dovrebbe essere inclusa durante ogni visita di follow-up;
varie sono le strategie attuabili per migliorare l’aderenza alla terapia.
Per una valutazione della aderenza in un campione rappresentativo
Tabella IV.
Cambi terapeutici raccomandati.
Possibili cambi raccomandati
2 NRTI 1 + IP
2 NRTI 1 + NNRTI 2
2 NRTI 1+ IP alternativo con booster di ritonavir a bassa dose3
NRTI 1 + NNRTI 2 + IP alternativo con booster di ritonavir a bassa dose3
2 NRTIs 1 + [NNRTI 2o IP]
NRTIs 1 + [NNRTI 2 + IP]
>1 NRTI 1 + IP di nuova generazione con booster di ritonavir a bassa dose3
>1 NRTI + doppio IP con booster di ritonavir
(LPV/r + SQV, LPV/r + ATV) 4
NRTI(s) + IP alternativo con booster di ritonavir a bassa dose3
+ Enfuvirtide5 e/o antagonista del CCR56 e/o inibitore dell’integrasi6
L’uso di regimi contenenti fino a 3 IP e/o 2 NNRTI, pur aumentando probabilità di successo e raggiungimento del goal terapeutico, va valutato in base a
complessità, tollerabilità e interazioni sfavorevoli tra farmaci.
1. La simultanea sostituzione dei due NRTI è indicata per prevenire mutazioni aggiuntive e i principi attivi andranno scelti sulla base del test di resistenza;
inoltre, dati sulla popolazione adulta suggeriscono che proseguire 3TC in presenza di mutazioni che vi conferiscono resistenza non ne impedisce una
parziale efficacia nel sopprimere la viremia e la presenza della mutazione 184 V può in parte arginare l’effetto di mutazioni conferenti resistenza a
AZT, d4T e TDF.
2. La resistenza crociata tra NVP ed EFV limita l’uso di quest’ultimo nella nuova terapia. Il recente NNRTI etravirina (ETV) mantiene invece efficacia contro
HIV resistente a NVP ed EFV in presenza dell’unica mutazione K103.
3. Regimi contenenti LPV/r mostrano attività antiretrovirale durevole in bambini multi-trattati con diversi IP.
4. Nell’adulto e nel bambino, studi farmacocinetici hanno dimostrato concentrazioni efficaci o più elevate dei principi attivi per le associazioni di IP lopinavir/ritonavir con saquinavir e lopinavir/ritonavir con atazanavir.
5. Enfuvirtide, inibitore della fusione, è approvato sopra i 6 anni ed è efficace nel paziente multi-resistente e pluri-trattato. La somministrazione sottocute
rimane un ostacolo all’aderenza e ne limita l’uso negli adolescenti più che nei bambini piccoli.
6. Maraviroc e raltegravir, approvati sopra i 16 anni, sono valide opzioni negli adolescenti con fallimenti multipli; studi pediatrici sono in corso. Nell’adulto, l’uso dei nuovi farmaci inibitori delle integrasi (raltegravir) o antagonisti del recettore CCR5 (maraviroc), associati a un inibitore boosterato delle
proteasi (darunavir), garantisce una risposta virologica migliore.
31
V. Giacomet et al.
è stato somministrato un questionario ai carers e ai medici curanti
di 129 bambini con infezione da HIV: la aderenza alla terapia è stata
valutata considerando il numero di dose omesse nei 4 giorni precedenti il controllo clinico in ospedale ed è risultata essere maggiore
se la terapia veniva somministrata da genitori affidatari o adottivi
rispetto ai genitori naturali e paradossalmente maggiore nei bambini
in HAART rispetto a quelli in dual-therapy (Giacomet et al., 2003).
Un tassello importante nella gestione del bambino con infezione da
HIV è la comunicazione della diagnosi. Una comunicazione sincera
permette al bambino di non subire passivamente la propria malattia
e aiuta gli adolescenti a conoscere per intero la propria realtà. Comunicazione e relazione sono gli strumenti necessari e indispensabili
per raggiungere gli obiettivi terapeutici che un medico si propone.
È importante quando si comunica pensare dapprima alla persona e
alla sua storia emotiva e successivamente alle parole adeguate per
la comunicazione. Durante la comunicazione è necessario dire la
verità, per conquistare la fiducia del paziente e di conseguenza la
sua collaborazione alla cura. I segreti provocano fantasie negative,
di morte e pessimismo. È importante rendere il bambino partecipe
alla patologia di cui è affetto per dargli la possibilità di accettare la
malattia, l’ambiente in cui viene curato e l’importanza della cura. È
in egual modo essenziale chiamare la malattia col suo vero nome,
parlando direttamente al bambino (dopo aver chiaramente informato
i genitori del contenuto della comunicazione), adattando il dialogo
all’età, al carattere e alla personalità del piccolo paziente: stiamo
parlando di comunicazione empatica, che rinforza quella di contenuto. È importante che il bambino venga a conoscenza della propria
malattia per diventarne protagonista in senso positivo, attivando le
risorse per aumentare la compliance e l’aderenza terapeutica e per
elaborare i propri vissuti. Per quanto riguarda la comunicazione ai
genitori, è utile non dilungarsi troppo sui problemi clinici delle sindromi per non creare timori esagerati.
Effetti collaterali dei farmaci antiretrovirali
Nonostante gli indiscutibili benefici, l’esposizione prolungata a tera-
pie antiretrovirali non è scevra da complicanze, in primis alterazioni
metaboliche, che assumono ulteriore importanza nei pazienti pediatrici, sia per la maggior durata sia per l’interferenza con i normali
processi di crescita (Viganò et al., 2010).
Lipodistrofia: identifica le anomalie di distribuzione del tessuto adiposo; l’associazione di lipodistrofia ed alterazioni del metabolismo
lipidico e glucidico è definita sindrome lipodistrofica.
Dislipidemia: identifica le alterazioni del profilo lipidico, in base alla
concentrazione plasmatica di trigliceridi, colesterolo totale, colesterolo HDL e colesterolo LDL rispetto ai valori di norma per sesso ed
età.
Alterazioni dell’omeostasi glucidica: si intende un ampio spettro di
alterazioni, fino al quadro conclamato di diabete mellito tipo 2, risultanti dalla combinazione di vari fattori: terapia con PI, cambiamenti della composizione corporea, predisposizione genetica, stato
infiammatorio cronico determinato dall’infezione da HIV. La metformina è al momento l’unico farmaco approvato dall’FDA in età pediatrica (per bambini con diabete mellito tipo 2 di età > 10 anni).
Alterazioni del tessuto osseo: un incremento del turn-over osseo,
derivante dallo stato infiammatorio cronico e/o dalla terapia antiretrovirale, può essere responsabile di una ridotta mineralizzazione
ossea.
Tossicità mitocondriale: in corso di terapia con NRTI, espressione
di disfunzione mitocondriale è l’aumento della concentrazione plasmatica di acido lattico (>2 mmol/L) che può rimanere asintomatica
o manifestarsi con nausea, dolori addominali, vomito, modeste alterazioni della funzionalità epatica, fino a un quadro di severa acidosi
lattica (per livelli di acido lattico > 5 mmol/L) con steatosi epatica,
neuropatia, pancreatite, miopatia.
Alterazioni cardiovascolari: vari studi pediatrici hanno documentato la presenza di aterosclerosi subclinica – con incremento dello
spessore dell’intima a livello delle carotidi – ed aumento di vari indici infiammatori (in primis hsCRP, mieloperossidasi, omocisteina)
nei soggetti con infezione da HIV in terapia antiretrovirale, rispetto a
pazienti non in terapia e a controlli sani di pari età (Tab. V).
Tabella V.
Effetti metabolici associati ai farmaci antiretrovirali.
Sindrome lipodistrofica: anomalie di distribuzione del grasso periferico (lipoatrofia, lipoipertrofia, forma combinata). I dati relativi a prevenzione e
trattamento della lipodistrofia in età pediatrica sono ancora poco esaustivi. In Tabella 20 sono fornite le possibile indicazioni.
Dislipidemia: gruppo di alterazioni del metabolismo lipidico (ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia, forme miste).
Interventi farmacologici vanno considerati:
• In bambini di età > 8 anni con valori di colesterolo LDL > 190 mg/dl non responsivi a dieta ipocolesterolemica (o c-LDL > 160 mg/dl in caso di
familiarità per patologie cardiovascolari precoci)
• In bambini di età < 8 anni con valori di colesterolo LDL > 500 mg/dl
Alterazioni dell’omeostasi glucidica: insulino-resistenza e diabete mellito tipo 2 (osservati anche in pediatria, sebbene con minor frequenza rispetto
all’adulto). Interventi:
Dieta bilanciata
Esercizio fisico aerobico
Metformina, unico ipoglicemizzante orale approvato dall’FDA per l’impiego in età pediatrica (in bambini con diabete mellito tipo 2 di età > 10 anni)
Considerare l’uso di insulina esogena se i primi tre interventi non sono sufficienti
Complicanze cardiovascolari: aterosclerosi - processo degenerativo a carico dell’endotelio vascolare che inizia già nell’infanzia.
Lo spessore intimale (IMT) delle carotidi è un indice predittivo di aterosclerosi subclinica.
Studi condotti in coorti pediatriche hanno dimostrato che l’infezione da HIV e una lunga esposizione alla cART sono fattori di rischio per l’aumento dello
spessore intimale delle carotidi.
Tossicità mitocondriale: aumento di acido lattico plasmatico (asintomatico o associato a manifestazioni cliniche quali nausea, dolori addominali, vomito,
modeste alterazioni della funzionalità epatica fino al quadro di severa acidosi con statosi epatica, neuropatia, pancreatite, miopatia). In presenza di
segni clinici di mitocondriopatia è necessario dosare i livelli di acido lattico ed effettuare ulteriori accertamenti diagnostici.
32
HIV in età pediatrica: cosa è cambiato 30 anni dopo
Follow-up del bambino nato da madre HIV-positiva
Tutti i bambini nati da madre con infezione da HIV devono essere
sottoposti ad esami ematochimici, appena possibile dopo la nascita.
Tali accertamenti devono includere un esame emocromocitometrico
e gli esami biochimici di routine, finalizzati allo studio della funzionalità d’organo. Il successivo timing di valutazione degli esami ematici
in epoca neonatale va individualizzato sulla base dei risultati ottenuti
alla prima valutazione, dell’età gestazionale del bambino e della sua
situazione clinica, del tipo di profilassi a cui il neonato viene sottoposto. Raccomandata è comunque una rivalutazione dell’esame
emocromocitometrico dopo 4 settimane dall’inizio della profilassi al
fine di valutare il valore di emoglobina e la conta dei neutrofili. I test
anticorpali non devono essere utilizzati per la diagnosi di infezione
da HIV nei primi 18 mesi di vita, in quanto fino a quell’epoca, gli
anticorpi materni in grado di attraversare la placenta, sono dosabili
nel siero dei bambini nati da madre con infezione da HIV. Il bambino
deve quindi essere monitorato per l’eventuale diagnosi di infezione
con test virologici (HIV-DNA o HIV-RNA). Almeno 3 test virologici devono essere eseguiti tra 14 e 21 giorni di vita, tra 1 e 2 mesi e tra 4 e
6 mesi di vita. Alcuni autori raccomandano di sottoporre i neonati di
madre HIV-positiva ad un test virologico anche al momento della nascita, soprattutto nei casi in cui la carica virale materna non sia ottimamente controllata o in cui si preveda la possibilità che al neonato
non venga assicurato un adeguato follow-up. In caso di positività di
un test virologico, il neonato deve essere sottoposto il prima possibile ad un altro test virologico di conferma eseguito su un campione
ematico diverso. La presenza di due diversi test virologici positivi
consente di porre diagnosi di infezione da HIV. In epoca neonatale, il
test più adeguato per porre diagnosi di infezione da HIV è l’HIV-DNA
PCR. L’infezione può ragionevolmente essere esclusa in presenza di
due test virologici negativi, eseguiti a 14 o più giorni di vita e ad un
mese o più di vita. L’esclusione della trasmissione dell’infezione, in
bambini allattati con latte formulato, si pone in presenza di due test
virologici negativi eseguiti ad almeno 1 e ad almeno 4 mesi di vita. I
bambini devono comunque essere strettamente monitorati fino a 18
mesi di vita, epoca in cui eseguire la ricerca di anticorpi per HIV, al
fine di verificarne la negatività e di escludere così definitivamente la
trasmissione dell’infezione (NIH, 2011).
Follow-up del bambino infetto
Nel bambino con infezione da HIV in terapia antiretrovirale vanno
strettamente monitorati il valore dei CD4+ e della carica virale (HIVRNA), che in regime terapeutico efficace, deve essere undetectable.
Accanto ai parametri immunovirologici devono essere monitorati i
possibili effetti collaterali dei farmaci antiretrovirali. Infatti ogni farmaco può potenzialmente causare effetti collaterali che interessano
diversi apparati e organi.
Quando possibile, è preferibile evitare di associare farmaci che possono potenziare la tossicità delle singole molecole. È necessario effettuare il monitoraggio della possibile tossicità secondo necessità,
ma almeno ogni 3-4 mesi con esami specifici (funzionalità epatica e
renale, acido lattico, glicemia, colesterolo e trigliceridi, inoltre valutazione della mineralizzazione ossea tramite DEXA).
Nell’adulto sono stati condotti numerosi studi sulle possibili strategie di intervento (prevenzione e trattamento); i dati disponibili sul
paziente pediatrico sono molto limitati.
Per prevenire la lipoatrofia, evitare l’uso di stavudina e zidovudina o
sostituire preventivamente questi farmaci, sono opzioni suggeribili.
Per controllare la lipoatrofia, è preferibile sostituire gli analoghi timidinici (NRTI) con abacavir o un regime terapeutico risparmiante gli NRTI.
Per prevenire la lipoipertrofia, non esiste una strategia di provata efficacia.
Gli interventi farmacologici sperimentati nell’adulto non hanno dimostrato
un’efficacia a lungo termine e possono indurre nuove complicanze.
Per il controllo della dislipidemia: l’impiego di statine è raccomandato in bambini di età ≥ 10 anni con livelli di LDL-colesterolo > 190
mg/dl o 160 mg/dl e storia familiare positiva per precoci eventi cardiovascolari. L’impiego di fibrati è raccomandato per bambini di età
≥ 10 anni con livelli di trigliceridi compresi tra 700 e 1000 mg/dl.
Le modifiche dello stile di vita, quali l’incremento dell’esercizio fisico, l’adeguato apporto calorico, di macro e micronutrienti oltre
all’astensione dal fumo e dal consumo di alcool sono fortemente
raccomandabili. (Leonard e McComsey, 2005)
Per prevenire la demineralizzazione ossea è utile la supplementazione con Vit D e una dieta appropriata.
Conclusioni e prospettive per il futuro
L’infezione da HIV è attualmente considerata una patologia cronica nei paesi occidentali, poiché in essi la disponibilità e l’impiego
su larga scala delle terapie antiretrovirali ha dimostrato sostanziali
benefici dal punto di vista clinico e immunologico, nonché nella prospettiva di vita dei pazienti infetti, paragonabile a quelli degli individui non infetti.
Tuttavia, a fronte dei risultati positivi in termini di sopravvivenza libera da malattia e di miglior qualità di vita, le terapie HAART sono
associate a numerosi effetti collaterali, che si sono resi tanto più
manifesti, quanto più si è allungata la durata del loro impiego. Tali
effetti collaterali si manifestano a carico del sistema cardiovascolare, del rene, dell’osso e come sindrome lipodistrofica. Alla luce di tali
effetti collaterali il bambino HIV- infetto, per le co-morbosità a cui
va incontro, dovrebbe essere preso in carico in centri specialistici,
al fine di ricevere le terapie più consone e innovative e per una gestione appropriata.
WHO ha posto come goal per il 2015 l’eradicazione della infezione
da HIV in età pediatrica attraverso il trattamento delle donne gravide
in tutto il mondo al fine di interrompere la trasmissione maternofetale. Nel paziente adulto ricercatori in tutto il mondo stanno studiando l’agognato vaccino preventivo contro l’HIV; gli ultimi trials
mostrano un effetto preventivo incoraggiante ma ancora modesto
(31%) nei confronti del virus. Inoltre prosegue lo sviluppo di vaccini
che stimolano la risposta dei linfociti CD8+ citotossici in grado di
uccidere lentamente le cellule infettate dal virus HIV.
Nuovi farmaci antiretrovirali con minori effetti collaterali sono in
fase di sperimentazione e nuove strategie terapeutiche che utilizzano due classi di farmaci antiretrovirali in pazienti trattati e virologicamente soppressi sono state proposte per diminuire gli effetti
collaterali e alleggerire il carico farmacologico nei pazienti. Inoltre
il ruolo della farmacogenetica per la personalizzazione della terapia
antiretrovirale, il problema dei reservoirs, il monitoraggio nelle comorbilità sono i recenti target nella lotta all’AIDS da sviluppare nel
prossimo futuro. Ma è la prevenzione dei comportamenti a rischio
che rimane il goal nella lotta all’AIDS accanto all’eradicazione del
“sommerso”: purtroppo, in Italia, circa la metà delle persone con
diagnosi recente scopre l’infezione a uno stadio avanzato, quando
il virus ha già prodotto danni consistenti al sistema immunitario e
il numero assoluto dei linfociti CD4+ è molto basso. Il ritardo della
diagnosi è in rapporto con il cosiddetto “sommerso”, stimato oggi
tra il 15% e il 25% di tutta la popolazione HIV-positiva vivente in
Italia, rappresentato dai soggetti inconsapevoli del proprio stato
d’infezione, che ritardano o non eseguono il test. È la conseguenza
33
V. Giacomet et al.
della bassa percezione del rischio d’infezione, tipico nella popolazione sessualmente attiva ed in particolare di una fascia della
popolazione che comprende gli adolescenti ed i giovani adulti. Il
ritardo di diagnosi ha diverse conseguenze: riduce l’efficacia della
terapia; aumenta la probabilità di una progressione clinica; au-
menta la probabilità di trasmissione dell’infezione. Un accesso
precoce a diagnosi e terapia comporta benefici clinici (maggiore
efficacia, migliore recupero immunologico, ridotta mortalità) ma
anche epidemiologici, con conseguente ridotto numero di nuove
infezioni e ridotta prevalenza della infezione da HIV.
Box di orientamento
• L’infezione da HIV in età pediatrica è oggi una malattia cronica grazie alla disponibilità di terapie altamente efficaci.
• La prevenzione della trasmissione dell’infezione da madre a feto inizia durante la gravidanza con la terapia materna, prosegue al momento del parto
e dopo la nascita con la profilassi al neonato e l’allattamento artificiale esclusivo.
• Nei paesi a risorse economiche limitate sono necessarie strategie di diffusione della cultura della prevenzione, interventi dedicati alla diagnosi
precoce di HIV nelle donne e a garantire una maggiore disponibilità di farmaci antiretrovirali.
• È fortemente raccomandato trattare tutti i lattanti HIV-infetti di età inferiore ai 12 mesi di vita con idonea terapia antiretrovirale. I bambini di età
superiore a 12 mesi devono iniziare un terapia antiretrovirale sulla base di criteri clinici ed immuno-virologici.
• La terapia antiretrovirale nel bambino deve comprendere almeno 3 farmaci: la scelta si basa sui dati di efficacia e sicurezza in età pediatrica, sulla
disponibilità di formulazioni adeguate, sulle eventuali farmacoresistenze e sull’aderenza alla terapia stessa.
• La terapia antiretrovirale altamente efficace ha effetti collaterali a breve e lungo termine anche in età pediatrica: un adeguati follow-up in centri
specialistici è fondamentale.
• Il futuro dell’infezione da HIV in età pediatrica è l’azzeramento delle infezioni acquisite per via verticale. Non bisogna però dimenticare il presente: è
sempre necessaria una costante attenzione alla prevenzione dei comportamenti a rischio per acquisizione dell’infezione.
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Corrispondenza
Gian Vincenzo Zuccotti, Clinica Pediatrica A.O., Polo Universitario Luigi Sacco, Università degli Studi di Milano, via G.B. Grassi, 74, 20157 Milano.
E-mail: gianvincenzo.zuccotti@unimi.it
35
Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 36-44
Infettivologia Pediatrica
Aggiornamenti e nuove frontiere nella
tubercolosi in età pediatrica
Francesca Tucci, Andrea Lo Vecchio, Alfredo Guarino
Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Sezione di Pediatria, Università di Napoli “Federico II”, Napoli
Riassunto
La tubercolosi (TB) rappresenta ancora oggi una delle 10 cause più frequenti di morte nel mondo. In paesi con bassa incidenza come l’Italia, il sospetto di
TB deriva solitamente da un quadro clinico suggestivo o da una indagine epidemiologica per un contatto noto con un caso di tubercolosi. La presenza di
polmonite atipica o resistente agli antibiotici, sintomi respiratori di lunga durata, reperti radiografici tipici o a lenta progressione e quadri clinici suggestivi di
forme sistemiche o extrapolmonari devono far sorgere il sospetto di TB. La diagnosi nei bambini si basa tradizionalmente sull’intradermoreazione secondo
Mantoux, sulla radiografia del torace e la colorazione e coltura dei micobatteri. La microbiologia è sempre stata il principale ostacolo per confermare la diagnosi di TB in età pediatrica. Negli ultimi dieci anni nuove strategie diagnostiche sono state proposte per migliorare la raccolta dei campioni da bambini (es.
espettorato indotto), la sensibilità dei test microbiologici (metodi batteriologici e molecolari) e l’identificazione di resistenze farmacologiche. Recentemente,
i test di rilascio di interferone - gamma (IGRA) sono stati introdotti per uso clinico in età pediatrica. Questi test sono utili per escludere una falsa positività
alla Mantoux (es. vaccinazione BCG), confermano o escludono l’infezione, ma non forniscono il supporto per la diagnosi di malattia attiva. La corretta identificazione dei campioni per la conferma batteriologica, attraverso la coltura e per altri metodi di rilevazione del DNA molecolare, rimane fondamentale ai
fini diagnostici. Il test Xpert MTB/RIF consente in breve tempo di identificare il micobatterio e le resistenze alla rifampicina e rappresenta uno strumento
diagnostico pratico e utile, in grado di guidare la diagnosi e il trattamento. Recenti linee guida hanno aggiornato l’approccio terapeutico anche nei bambini
che vivono in aree a bassa incidenza, dove il regime a 4 farmaci è indicato in casi a maggior rischio e se il pattern di resistenze non è noto. La diffusione
di ceppi multiresistenti è in aumento in tutto il mondo (fino a circa 30% dei casi in zone endemiche). A causa della continua migrazione il sospetto deve
restare alto anche in paesi considerati a bassa endemia. I pazienti affetti da TB multiresistente hanno un elevato rischio di failure terapeutico e decorso
severo e necessitano di un trattamento specifico per almeno 1-2 anni; per tale motivo è necessario assicurare un inquadramento ed un rigoroso follow-up
presso centri specialistici.
Summary
Tuberculosis (TB) is one of the 10 most frequent causes of death in the world. In Italy, a low incidence country, children are usually evaluated for tuberculosis
because of presenting symptoms suggestive of disease or as a result of contact investigation. The presence of atypical or antibiotic-resistant pneumonia,
the presence of slowly progressive and long lasting respiratory symptoms in children, suggestive radiographic findings and suggestive systemic or extrapulmonary features should suggest TB. TB diagnosis in children is traditionally based on tuberculin skin testing, (TST) chest radiography, and microbiological methods from specific samples. Microbiological has always been the most difficult problem to confirm TB diagnosis in children. Other diagnostic
strategies have been proposed to improve sample collection from children (eg. induced sputum), sensitivity of microbiological tests (bacteriologic and
molecular methods), and identification of drug resistance. Recently, immune-based diagnostics, such as the interferon-gamma release assays (IGRA), have
been introduced in pediatric age. Although these tests may be helpful in excluding false-positive TST (eg. BCG vaccination), thereby certifying or excluding the infection state, they neither offer substantial improvements in sensitivity over TST in pediatric age, nor provide support to the diagnosis of active
disease. Proper identification of samples for bacteriological confirmation through microscopy and culture and for other molecular DNA detection methods
is important. The automated real-time nucleic acid amplification assay that can rapidly detect Mycobacteria and rifampicin resistance (Xpert MTB/RIF test)
effectively leads to a diagnosis and treatment. The current guidelines upgraded the therapeutic approach also in children living in low-incidence areas,
where the 4-drugs regimen may be also indicated in at-risk patients and if sensitivity to drugs is unknown. Spreading of multiresistent strains is increasing
worldwide (up to 30% in endemic areas) due to the continuous migration. Due to the high risk of treatment failure and severe outcomes, all children affected
by multiresistant TB should receive specific and long-lasting antibiotic therapy (at least 1-2 years) and close follow-up in center specialized for pediatric TB.
Parole chiave: Tubercolosi, Mantoux, Test Gamma Interferonici, Intradermoreazione
Key words: Tubercolosi, Tubercolin skin test, Mantoux, IGRA
Metodologia della ricerca bibliografica effettuata
Questa review si propone di illustrare le novità circa la diagnosi e il
trattamento della tubercolosi in età pediatrica.
La ricerca degli articoli rilevanti è stata condotta attraverso la banca bibliografica Medline utilizzando il motore di ricerca Pubmed.
Le parole chiave utilizzate sono state: “tuberculosis; management;
child; diagnosis; Mantoux; tubercolin skin test; interferon gamma
release assay; therapy OR treatment”. I limiti utilizzati sono stati:
“ages = all child: 0-18 years; language: English; type of articles:
clinical trials, RCT, metanalisis; reviewes; dates: last 5 years”. Studi
36
rilevanti e linee-guida utili alla revisione sono stati utilizzati anche se
antecedenti al 2008.
Perché parlare ancora di tubercolosi?
La tubercolosi (TB) rappresenta ancora oggi una delle 10 cause più
frequenti di morte nel mondo; è una malattia infettiva sostenuta da
Mycobacterium tuberculosis complex, trasmessa per via aerea e responsabile di forme polmonari ed extrapolmonari di malattia.
Il Global Tubercolosis Report fornisce i dati epidemiologici nel mondo
Aggiornamenti e nuove frontiere nella tubercolosi in età pediatrica
ed in Italia. Si stima che il numero globale di nuovi casi di TB tra i
bambini nel mondo sia di 349.000 nel 2012 (WHO, 2013). In Italia
4100 sono i nuovi casi del 2012 con una prevalenza pari a 5700 con
un tasso di mortalità pari allo 0.46% (esclusi i pazienti HIV).
L’aumento dell’incidenza in età pediatrica negli ultimi 10 anni è legato a diversi fattori:
• l’aumento dell’immigrazione da paesi endemici;
• l’aumento dei pazienti immunodepressi (infezione da HIV, farmaci immunosoppressori, biologici e chemioterapici);
• l’aumento dei ceppi di Mycobacterium tuberculosis resistenti
alle terapia di prima linea;
• l’abolizione delle infrastrutture dedicate al controllo della TB.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che, nel
2010, si sono verificati a livello globale 650.000 nuovi casi di TB
multi-resistente (MDR-TB). Si definisce MDR-TB un’infezione sostenuta da Mycobacterium tuberculosis complex, resistente ai due più
efficaci farmaci di prima linea: rifampicina e isoniazide. Secondo il
report del WHO del 2012, al livello mondiale nel 3,7% dei nuovi casi
e nel 20% dei casi precedentemente trattati si tratta di MDR-TB. Nel
2011 sono stati stimati 310.000 casi (range 220.000-400.000) di
MDR-TB tra i pazienti con TB polmonare, quasi il 60% dei quali in
India, Cina e Federazione Russa. L’ Europa dell’Est e l’Asia centrale
continuano quindi a rappresentare hot spots per MDR-TB.
In base al report 2013 dell’European Center for Disease Control,
78000 casi di TB-MDR sono stati segnalati nella regione europea
nel 2011. La prevalenza di MDR varia significativamente in base
all’area. Nell’Unione Europea, ad eccezione della Lituania (11%) ed
Estonia (23%), il tasso riportato è inferiore al 5%. Tuttavia in zone
esterne all’Unione Europea vengono riportati tassi significativamente più elevati: Belarus (26%), Moldavia (26,0%), Kazakistan (30,3%),
Uzbekistan (35,1%) and Tajikistan (44,7%). (ECDC/WHO, 2013)
I ceppi di Mycobacterium definiti come XDR sono ceppi MDR resistenti anche ai fluorochinoloni e ad almeno uno dei farmaci iniettabili di seconda linea (capreomicina, kanamicina e amikacina). La
valutazione delle resistenze a farmaci di seconda linea non è ancora
largamente diffusa sul territorio e riservata solo a pochi centri ultraspecializzati. Sulla base dei dati disponibili in Europa circa 10% dei
ceppi MDR sono risultati essere XDR.
La Società Italiana di Infettivologia Pediatrica ha creato nel 2013
il Registro Nazionale per la TB in età pediatrica. I dati (al momento
non ancora pubblicati) permetteranno di studiare dettagliatamente
l’epidemiologia, la distribuzione, la gestione e gli esiti di malattia nel
nostro paese.
Quando sospettare la tubercolosi?
La TB in età pediatrica ha connotazioni specifiche che la differenziano da quella dell’adulto (Tab. I). Il sospetto di tubercolosi in età
pediatrica può essere correlato a:
• un sospetto clinico (quadro clinico o radiologico suggestivo di
malattia tubercolare);
• un sospetto epidemiologico (legato alla probabile esposizione a
casi di tubercolosi, provenienza da paesi endemici o presenza di
fattori di rischio sottostanti);
• un sospetto sociale (correlato a condizioni sociali di sovraffollamento, istituzionalizzazione, basso livello socio-economico).
Gran parte dei casi derivano da una indagine epidemiologica per un
contatto noto (di solito adulto). Quest’ultima evenienza, tra le cause
più comuni di diagnosi in paesi a bassa endemia, riguarda bambini
in buono stato di salute risultati positivi allo screening per contatto
diretto e prolungato con un soggetto con diagnosi accertata di TB.
Tabella I.
Peculiarità della tubercolosi nell’età pediatrica.
Maggiore e più rapida tendenza all’evoluzione dell’infezione in malattia
Decorso più rapido della malattia
Alta incidenza di forme extrapolmonari
Minore carica batterica
Bassa incidenza di forme cavitarie
Radiologia aspecifica/atipica
Elevata frequenza in associazione con immunodeficienze
Minori effetti collaterali dei farmaci
Difficoltà diagnostiche correlate ad una più alta incidenza di anergia
cutanea, ad una minore affidabilità dei test IGRA ed all’incapacità del
bambino ad espettorare
Nei bambini il rischio di progressione a malattia è pari al 40% nel
primo anno di vita e si riduce progressivamente fino a raggiungere
in età scolare il valore dell’adulto (circa 10%). La progressione a malattia avviene, principalmente, nei 12 mesi successivi all’infezione
(Marais et al., 2004; Newton et al. 2008).
Secondo l’American Academy of Pediatrics vanno distinti tre quadri
clinico-laboratoristici, come indicato nella tabella II.
Valutazione clinica
L’infezione tubercolare in bambini che vivono in paesi a bassa endemia come l’Italia va sospettata essenzialmente in due condizioni
(non esclusive tra loro): la presenza di condizioni di rischio sociale/
familiare/epidemiologico che possano aver esposto il bambino,
anche se asintomatico, ad un elevato rischio di infezione e la presenza di sintomi e segni di tipici di malattia tubercolare, anche in
soggetti ritenuti a basso rischio. Un’anamnesi accurata è essenziale per la caratterizzazione dei sintomi (Marais et al., 2006). I segni clinici sono spesso subdoli e cambiano sensibilmente con l’età
del bambino, essendo molto aspecifici nel bambino più piccolo e
diventando, in età adolescenziale, progressivamente simili a quelli
dell’adulto. Ad oggi, nessun punteggio di valutazione diagnostica
è stato adeguatamente validato in età pediatrica (Hesseling et al.,
2002).
La TB polmonare resta in tutto il mondo la più frequente localizzazione di malattia tubercolare in età pediatrica. Dati retrospettivi
sia negli Stati Uniti che in Italia dimostrano che le forme polmonari
coprono circa il 70-75% delle localizzazioni di malattia (Winston et
al., 2012; Buonsenso, 2012).
La diagnosi di TB va specificamente ricercata in bambini in cui si
riscontrano i seguenti quadri clinici:
• Tosse persistente, non remittente soprattutto se di durata superiore a 4 settimane;
• Presenza di altri segni e sintomi respiratori suggestivi come
emottisi, dolore toracico o dispnea ingravescente;
• Polmonite con pleurite, polmonite con quadri radiologici suggestivi di TB (miliare, escavazioni, linfoadenopatie mediastiniche)
o presenza di calcificazioni polmonari e/o linfonodali ilo-mediastiniche;
• Polmonite resistente a terapia antibiotica di prima linea e/o polmoniti recidivanti;
• Quadro clinico di lunga durata con febbre (soprattutto serotina),
calo ponderale, sudorazione notturna;
• Segni respiratori aspecifici associati ad uno o più fattori di rischio (Tab. III);
37
F. Tucci et al.
Tabella II.
Quadri clinico-laboratoristici proposti dall’American Academy of Pediatrics.
Esposizione
Bambino che ha di recente avuto un contatto con un caso sospetto o confermato di malattia polmonare tubercolare, che
ha una Mantoux o un test IGRA negativo, esame clinico negativo, e radiografia del torace non compatibile con tubercolosi.
Infezione tubercolare
latente (LTBI)
Bambino che ha una Mantoux o un test IGRA positivo, ma nessuna evidenza clinica o radiologica di malattia tubercolare attiva.
Sono inclusi in questa categoria pazienti con segni di malattia pregressa (calcificazioni parenchimali e/o linfonodali ilari).
Malattia tubercolare
Bambino con infezione tubercolare (Mantoux e/o IGRA positivi), in cui siano presenti segni clinici e/o radiologici di malattia
tubercolare (polmonare, extra polmonare o entrambe).
Tabella III.
Fattori di rischio da correlare a quadri clinici aspecifici.
Fattori di rischio sociale e/o
demografico
Provenienza, o storia di viaggi in aree geografiche ad alta endemia (Est Europa, Africa, America Latina, Asia).
Basso livello socio-economico, sovraffollamento e/o provenienza da aree regionali in cui sono stati riportati cluster di casi.
Istituzionalizzazione del bambino.
Contatto familiare con adulti o anziani con immunodeficienza accertata e tosse cronica.
Fattori di rischio clinico
Immunodeficienze primitive o acquisite (terapie immunosoppressive, neoplasie, IRC, infezione da HIV).
Malattie croniche e malnutrizione.
Le forme extra polmonari sono significativamente più frequenti in
età pediatrica rispetto all’età adulta e rappresentano circa il 20% dei
casi di TB. Tali forme sono più comuni nel bambino più piccolo (lattanti ed età prescolare) che ha un rischio più elevato di disseminazione dell’infezione. Senza dubbio la forma linfonodale è quella più
comune, ma è possibile riscontrare in età pediatrica lesioni ossee
(soprattutto a livello vertebrale), forme laringee e bronchiali, malattia
infiammatoria cronica intestinale. Una delle localizzazioni più gravi
di TB extrapolmonare è la meningite tubercolare, che è correlata ad
un elevato tasso di mortalità e sequele neurologiche a lungo termine; solitamente si presenta con liquor limpido, pleiocitosi linfocitaria,
ipoglicorrachia ed iperproteinorrachia.
La Mantoux: quando praticarla?
Gold in tube (QFT-GIT), che valuta tramite ELISA la produzione di
IFN-γ da parte dei linfociti T sensibilizzati in vitro nei confronti di tre
antigeni tubercolari (ESAT- 6, CFP-10, TB7.7) e il T-Spot-TB (ELISPOT) che rileva, invece, le cellule effettrici T che secernono IFN-γ in
risposta ad attivazione mediante due dei precedenti antigeni tubercolari (ESAT-6 e CFP-10). In questo caso il dosaggio viene effettuato
contando gli spot su diversi pannelli antigenici. Questa seconda metodica, seppur abbia dei vantaggi in termini di sensibilità rispetto alla
Mantoux ed al QFT-GIT, resta maggiormente operatore-dipendente
(Ling et al., 2011).
Poiché gli antigeni utilizzati per la stimolazione linfocitaria vengono
persi durante la purificazione del batterio nel vaccino BCG, i test
IGRA non sono influenzati dalla vaccinazione. Inoltre questi test sono
meno influenzati dall’esposizione ai MOTT.
L’Intradermoreazione secondo Mantoux (Fig. 1) rappresenta ancora
il test principale per la diagnosi di infezione tubercolare. Le indicazioni e l’interpretazione della Mantoux sono riassunte rispettivamente nelle tabelle IV e V (American Academy of Pediatrics, 2009).
Circa il 10% dei soggetti con coltura positiva per Mycobacterium
tuberculosis ha, almeno inizialmente, una Mantoux negativa. Questo fenomeno è legato alla lenta positivizzazione della Mantoux in
2-10 settimane ed alla possibile immunosoppressione secondaria
all’infezione, responsabile di anergia cutanea. La Mantoux può essere falsamente positiva fino al 40% dei pazienti che hanno ricevuto
vaccino di Calmette-Guerin (BCG) o che hanno contratto infezione da
Micobatteri atipici (Mycobacterium other than tuberculosis - MOTT).
La positività dell’intradermoreazione è sufficiente a definire la diagnosi di infezione tubercolare (anche se va considerata la possibilità
di Mantoux positiva per vaccinazione); tuttavia la clinica e la radiologiasono indispensabili per la diagnosi di malattia.
La diagnostica di laboratorio: che cosa c’è di nuovo?
I test Interferon Gamma Release Assay (IGRA) studiano la risposta
immune di tipo cellulo-mediato ad antigeni specifici del M. tuberculosiscomplex.
Attualmente esistono due differenti test IGRA:il QuantiFERON-TB
38
Figura 1.
La Mantoux va effettuata attraverso l’introduzione per via intradermica
di 5U di PPD. Dopo 48-72 ore si effettua la misurazione del diametro
longitudinale (A-B) dell’indurimento dermico (e non dell’eritema) con il
calibro di Vernier (C-D). Il diametro è delimitato dall’interruzione dello
scalino causata dall’indurimento.
Aggiornamenti e nuove frontiere nella tubercolosi in età pediatrica
Tabella IV.
Indicazioni a praticare la Mantoux.
Contatto con pazienti affetti da tubercolosi contagiosa
Infezione da HIV
Screening pre-terapia con farmaci immunosoppressori
Quadri clinico-radiologici suggestivi:
• Polmonite di lunga durata/resistente a terapia o se versamento pleurico
• Emottisi
• Presenza di caverne/calcificazioni
• Atelettasia del lobo medio
Febbre e/o tosse cronica +/- perdita di peso in particolare se:
• Provenienza da aree geografiche ad alta endemia (Asia, Africa, America Latina ed Est Europa);
• Storia di viaggi in paesi ad alta endemia;
• Istituzionalizzazione del bambino
I test IGRA sono stati studiati sia per le forme attive che per le forme
latenti, in diverse aree geografiche, ma le evidenze sulla specificità e
sensibilità del test sono ancora limitate e gran parte degli studi sono
stati effettuati in pazienti adulti e/o ad alto rischio.
Per le forme attive, una metanalisi del 2011 condotta su una popolazione pediatrica (Sun et al., 2011) ha evidenziato che la Mantoux
e i test IGRA hanno valori di sensibilità simili [ELISA (85%); ELISPOT
(76%); Mantoux (85%)] mentre la specificità degli IGRA è nettamente maggiore [ELISA (100%) ed ELISPOT (90%)] della Mantoux (56%),
in particolare nei bambini vaccinati con BCG. Per tale motivo i test
IGRA dovrebbero essere utilizzati per confermare i casi con Mantoux positiva in aree con alta incidenza di infezioni da micobatteri
non tubercolari o di alto tasso di vaccinazione BCG. Per la diagnosi
delle forme latenti, allo stesso modo, esiste un’alta discordanza tra
i test IGRA e la Mantoux [ELISA (99,4%); ELISPOT (98%); Mantoux
(88,7%)]. Pertanto l’elevata specificità potrebbe essere utile nel ridurre il numero di pazienti pediatrici a basso rischio che ricevono la
terapia preventiva a causa di Mantoux falsamente positive (Diel et
al., 2011). I test inoltre non sono standardizzati nei lattanti e bambini
di età inferiore ai 2 anni; per tale motivo non vanno utilizzati routinariamente in questi bambini.
Infine è stata valutata l’utilità dei test IGRA nel monitoraggio della
terapia antitubercolare, ma attualmente sembra avere solo un significato speculativo (Chiappini et al., 2012). I profili di sensibilità e
specificità in bambini immunocompromessi non sono ancora chiari
(Bruzzese et al., 2009).
Tabella V.
Interpretazione della Mantoux secondo l’American Academy of Pediatrics.
•
Positività ≥ 5 mm
Bambini in contatto con casi contagiosi di TBC
Bambini con sospetta malattia tubercolare
Bambini immunodepressi o con HIV
•
Positività ≥ 10 mm
Bambini ad alto rischio di malattia disseminata (età <4 anni,
malattie croniche)
Bambini con aumentato rischio di esposizione ambientale
•
Positività ≥ 15 mm
Bambini di età >4 anni senza fattori di rischio
Questi test non sono quindi routinariamente indicati per la diagnosi
di infezione tubercolare in età pediatrica. Tuttavia, considerando i
vantaggi ed i limiti della tecnica (Tab. VI), il Center for Disease Control ha delineato alcune indicazioni all’uso di questi test (Mazurek
et al., 2010):
• in sostituzione alla Mantoux, nei soggetti vaccinati con BCG e
nei soggetti con alto rischio di mancato ritorno per lettura cutanea;
• in associazione alla Mantoux, nei bambini con Mantoux negativa ed alto rischio di infezione (contatto con TB noto) e/o progressione di malattia (età inferiore a 5 anni, o immunodeficit);
• in caso di Mantoux positiva, per identificare un’infezione causata da MOTT.
Ad oggi solo uno studio italiano ha dimostrato la capacità di distinguere fra forme latenti ed attive in età pediatrica (Chiappini et
al., 2012). Si basa sull’utilizzo di una variante del test ELISPOT che
valuta sia la secrezione di IFN-γ sia di IL2 in risposta all’attivazione mediante l’antigene AlaDH. È stata osservata una sensibilità del
100% e una specificità dell’81%. Probabilmente tale risultato è legato all’utilizzo di AlaDH, la cui espressione sembrerebbe alterata
nell’infezione latente dove il micobatterio necessita di adattarsi e
sopravvivere in condizioni di anaerobiosi.
La diagnostica radiologica
La radiografia del torace, in entrambe le proiezioni anteroposteriore
e latero-laterale (Perez-Velez et al., 2012), è ampiamente utilizzata
per distinguere l’infezione da malattia polmonare tubercolare.
I quadri radiologici di TB in età pediatrica sono estremamente eterogenei e correlati all’età. Sono comuni coinvolgimenti parenchimali
modesti e aspecifici (polmonite lobare o interstiziale), ma si possono
riscontrare quadri più tipici di malattia tubercolare, con presenza di
linfadenopatia mediastinica, cavitazioni, versamento pleurico, presenza di calcificazioni, o coinvolgimento multilobare ed in particolare dei lobi inferiori (Wong et al., 2010).
La tomografia computerizzata (TC) non rientra nella diagnostica radiologica di routine. Può essere tuttavia indicata nei casi in cui un
forte sospetto clinico di malattia si associa ad un Rx negativa. Inoltre
la TC può essere utile per quadri polmonari scarsamente responsivi
al trattamento di prima linea, forme complicate e con interessamento linfonodale ilare.
La diagnostica radiologica può essere di supporto nell’identificare e
caratterizzare la malattia tubercolare d’organo (es. coinvolgimento
osteoarticolare o cerebrale). La TC e la RM sono utili per diagnostica-
39
F. Tucci et al.
Tabella VI.
Vantaggi e limiti nell’utilizzo dei test IGRA.
Vantaggi
Limiti
Non necessita del ritorno del paziente per la lettura cutanea.
Costi elevati.
Maggiore specificità per mycobacterium tuberculosis rispetto ai
micobatteri non tubercolari.
Lavorazione del campione entro 8-30 ore dal prelievo ematico
(preferibilmente entro 2 ore).
Possibilità di distinguere pazienti affetti da soggetti vaccinati con BCG.
Scarsa affidabilità ed accuratezza nei bambini <5 anni.
Probabile utilità in pazienti immunosoppressi con anergia cutanea.
Necessità di specifica expertise per la lettura dell’ELISPOT-TB.
re forme muscolo-scheletriche ed articolari (es. coinvolgimento vertebrale nel morbo di Pott) e per monitorarne la risposta alla terapia.
Nel caso di interessamento del sistema nervoso centrale, nonostante
l’esame del liquor resti indispensabile per la diagnosi eziologica, la
RM permette l’identificazione del coinvolgimento meningeo, di microascessi cerebrali da disseminazione miliare o di tubercoloma cerebrale (Andronikou et al., 2009). Seppur non rientrino strettamente nelle
tecniche di imaging radiologico, gli esami endoscopici posso essere
estremamente utili nella diagnostica delle malattie tubercolari extrapolmonari. L’invasività di tali esami permette, non solo di evidenziare
in modo diretto il coinvolgimento d’organo, ma soprattutto di prelevare campioni di mucosa e secrezioni su cui effettuare la diagnostica
microbiologica e molecolare (endoscopia digestiva e broncoscopia).
La diagnostica microbiologica
Le indagini microbiologiche sono orientate ad identificare la presenza diretta del Mycobacterium (colorazione e PCR) o a dimostrarne la
crescita su terreni di coltura specifici.
La ricerca microbiologica del Mycobacterium Tuberculosis complex può
essere effettuata su differenti campioni biologici in base alla localizzazione dell’infezione (secrezioni respiratorie, liquor, liquido di lavaggio alveolare o di drenaggio ascessuale, urine etc…). Tuttavia anche in condizioni ottimali, è possibile isolare microbiologicamente il Mycobacterium
in meno della metà dei casi pediatrici di tubercolosi. Questo è legato da
un lato alla quasi totalità di forme primarie in età pediatrica e dall’altro
alla difficoltà di recuperare materiale biologico idoneo.
Il gold standard della ricerca microbiologica rimane l’esame colturale su terreni solidi e liquidi che richiede però tempi più lunghi (2-6
settimane). In presenza di una positività colturale è necessario in
ogni caso procedere all’identificazione del ceppo e al relativo antibiogramma. La colorazione specifica (colorazione di Zihel-Neelsen)
per la ricerca del Mycobacterium (o esame diretto) ha il vantaggio
della rapidità della risposta, ma ha una sensibilità molto bassa e
direttamente connessa alla carica batterica. Se infatti la carica batterica nell’espettorato o nell’aspirato gastrico risulta bassa, la colorazione risulterà molto probabilmente negativa e solo la coltura
permetterà l’identificazione del batterio e la sua tipizzazione.
L’aspirato gastrico rappresenta lo standard per la ricerca microbiologica in età pediatrica. Una delle principali barriere a tale metodica
è la necessità di effettuare 3 aspirati gastrici in giorni differenti ed
in regime di ricovero, in modo da effettuare il lavaggio al mattino al
risveglio. Dati recenti riportano un buon yield diagnostico dell’aspirato gastrico praticato in regime ambulatoriale. In questi pazienti la
sensibilità diagnostica cumulativa di esame diretto e coltura su due
campioni prelevati in giorni consecutivi raggiunge in alcune casistiche il 33% (Mukherjee et al., 2013).
Una valida alternativa per ottenere materiale biologico nei bambini più grandi, collaboranti e capaci di espettorare è rappresentata
40
dall’espettorato indotto, ovvero la raccolta dell’espettorato attraverso una stimolazione aereosolica con soluzioni saline ipertoniche al
3%. La validità diagnostica di questa tecnica è variabile: alcuni lavori
hanno riportato uno yield diagnostico cumulativo (colorazione e coltura) superiore all’aspirato gastrico (87% vs 67%) (Zar et al., 2005).
I metodi molecolari hanno apportato nuovi importanti opzioni per la
diagnosi, per la loro sensibilità, specificità e rapidità di elaborazione.
Il test Xpert MTB/RIF è un saggio di amplificazione genica in realtime che permette di identificare il micobatterio e la resistenza alla
rifampicina (Lawn et al., 2013).
I maggiori vantaggi di Xpert MTB/RIF rispetto alla diagnostica tradizionale sono:
• la possibilità di rilevare contemporaneamente sia il genoma di
M. tuberculosis che il gene che codifica per la resistenza del
micobatterio alla rifampicina;
• la rapidità di risposta (due ore) che consente di porre la diagnosi
ed iniziare la terapia nello stesso giorno;
• la possibilità di essere utilizzato con minime precauzioni di biosicurezza.
Le performance di Xpert MTB/RIF in ambito pediatrico sono meno
note, rispetto agli adulti. In due dei pochi studi disponibili su bambini,
la sensibilità rispetto al colturale di Xpert MTB/RIF su due campioni
di escreato indotto è risultata del 76%, mentre quella su aspirato
gastrico del 65% (Zar et al., 2013).
Approccio alla terapia
Nella tubercolosi è valido il dogma “nel dubbio tratta”. I tassi di conferma microbiologica di malattia rimangono bassi, ma l’inizio del
trattamento non dovrebbe essere rimandato nei bambini sintomatici.
In base alle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità
del 2010, il regime terapeutico a 4 farmaci è raccomandato per una
vasta popolazione di pazienti affetti (Tab. VII) (WHO, 2010).
I bambini con tubercolosi polmonare sospetta o confermata o con
linfadenite periferica che vivono in aree ad alta prevalenza di HIV o
in ambienti ad alta resistenza all’isoniazide devono essere trattati
con 4 farmaci. Lo stesso schema terapeutico va adottato anche per
i bambini esposti a ceppi multiresistenti, per coloro che presentano un’importante compromissione polmonare e/o malattie croniche
sottostanti o che presentano un esame diretto dell’espettorato positivo (alta carica batterica) (Getahun et al., 2012).
Il regime a tre farmaci (senza l’etambutolo) può essere utilizzato per
i bambini HIV-negativi con tubercolosi polmonare sospetta o confermata o linfadenite tubercolare che vivono in ambienti a bassa
endemia di HIV o con bassa resistenza all’isoniazide.
L’eccezione è la TB che interessa il sistema nervoso centrale e l’apparato osteoarticolare per i quali la durata del trattamento è di 12
mesi con un regime a 4 farmaci per i primi 2 mesi, seguito da isoniazide e rifampicina per i successivi 10 mesi.
Aggiornamenti e nuove frontiere nella tubercolosi in età pediatrica
Tabella VII.
Principali schemi terapeutici adottati.
QUADRO CLINICO
TERAPIA D’ATTACCO
DURATA
Tubercolosi latente (LTBI)
Isoniazide
6-9 mesi
Tubercolosi polmonare non
complicata
Rifampicina
Isoniazide
Pirazinamide
2 mesi
Rifampicina
Isoniazide
4 mesi
Tubercolosi polmonare complicata
Rifampicina
Isoniazide
Etambutolo
Pirazinamide
2 mesi
Rifampicina
Isoniazide
4 mesi
Tubercolosi linfonodale cervicale
Rifampicina
Isoniazide
Pirazinamide
2 mesi
Rifampicina
Isoniazide
4 mesi
Sebbene la frequenza di somministrazione trisettimanale abbia risultati migliori rispetto ad una frequenza bisettimanale, i bambini
che vivono con soggetti HIV dovrebbero ricevere un regime farmacologico giornaliero contenente la rifampicina (WHO, 2010).
Recentemente è stato rivisto il dosaggio dei farmaci antitubercolari
raccomandato per il trattamento e la profilassi (Tab. VIII).
Sono assenti formulazioni farmacologiche “a misura di bambino”
e le preparazioni farmacologiche sono in gran parte basate sui dosaggi degli adulti. Il rischio di fluttuazioni nel dosaggio effettivo dei
farmaci richiede lo sviluppo di combinazioni specifiche per l’età pediatrica.
Il trattamento delle forme MDR-TB, la cui gestione deve essere affidata completamente ai centri specialisti, è legato al pattern specifico di resistenze e basato sull’antibiogramma. Recenti dati riportano
alti tassi di resistenza all’isoniazide in età pediatrica (Yuen et al.,
2013), che espongono a due importanti rischi: l’inefficace profilassi
di bambini LTBI (Tab. II) che rischiano di progredire a malattia e l’impostazione erronea di poli-antibioticoterapie basate solo sui test di
resistenza alla rifampicina.
Le Linee Guida del 2011 (Al-Dabbagh et al., 2011) prevedono che i
bambini con MDR-TB siano trattati con i farmaci di prima linea a cui
il ceppo di M. tuberculosis è suscettibile, tra cui la streptomicina, la
pirazinamide e l’etambutolo (tenendo presente che questo ultimo è
battericida a dosi più elevate - fino a 25 mg /kg) in associazione ad
almeno un aminoglicoside per via parenterale (streptomicina; kanamicina; amikacina; capreomicina) ed un fluorochinolonico di ultima
generazione (ciprofloxacina; ofloxacina; levofloxacina; moxifloxacin). A seconda della gravità della malattia e degli effetti avversi, i
farmaci somministrati per via parenterale devono essere somministrati per almeno 4 a 6 mesi mentre la durata totale del trattamento,
da effettuare giornalmente, dovrebbe essere di 12-18 mesi dopo la
negativizzazione delle colture (negli XDR anche 24 mesi) (Shah et
al., 2012).
Tutti i pazienti con MDR-TB dovrebbero essere trattati con la terapia
direttamente osservata (DOT), eliminando così una delle principali
cause di resistenza e garantendo l’aderenza del paziente alla terapia. Indipendentemente dal trattamento, tutti i pazienti con infezione
da MDR o XDR-TB dovrebbero essere seguiti per almeno 2 anni.
Sebbene sia stato riscontrato che il successo del trattamento precoce dei MDR-TB e XDR-TB in età pediatrica sia elevato, con un tasso
di guarigione del 80-95%, è necessario implementare la ricerca nei
confronti di nuovi farmaci.
A tal proposito Gler et al. (2012) hanno riportato i risultati di uno
studio su un nuovo farmaco, un nitro-diidro-imidazooxazolo, dela-
TERAPIA DI PROSEGUIMENTO
DURATA
/
manid, attivo contro i ceppi di Mycobacterium tuberculosis resistenti
agli agenti convenzionali. I pazienti con MDR-TB hanno ricevuto uno
o due dosi di delamanid o un placebo corrispondente, insieme con
un regime di farmaci di seconda linea. La negativizzazione della cultura a 8 settimane è aumentata dal 30 % nel gruppo di controllo
al 45 % nei gruppi trattati con delamanid. Uno studio su un altro
farmaco, bedaquilina, ha mostrato che i tassi di risposta in otto settimane nei pazienti trattati con bedaquilina erano simili a quelli tra
i pazienti che ricevono delamanid nello studio di Gler et al. (48%
e 45%, rispettivamente), ma i tassi di risposta nel gruppo placebo
sono stati sostanzialmente inferiori nel trial con bedaquilina rispetto
al delamanid (9 % vs 30%). Le differenze nelle popolazioni di studio
e nella definizione dei punti finali potrebbero essere un motivo, ma
l’inclusione di fluorochinoloni più potenti nel regime di fondo nel trial
con delamanid è una spiegazione più giustificabile. Tali farmaci sono
stati già approvati dalla FDA e, a breve, è prevista la commercializzazione anche in Italia: se pur saranno approvati per l’uso nell’adulto, rappresenteranno comunque un’importante opzione terapeutica
anche in pediatria.
La chemioterapia preventiva ottimale per i bambini esposti ad un
contatto MDR XDR-TB non è standardizzata. Idealmente i test di
suscettibilità provenienti dal caso indice dovrebbero essere usati anche per guidare la scelta di tali regimi terapeutici. La terapia
farmacologica comprende la combinazione della pirazinamide e
dell’etambutolo per 9-12 mesi, oppure, se non può essere utilizzato
l’etambutolo, la pirazinamide ed un fluorochinolone da 6 a 12 mesi.
Nei soggetti esposti a DR-TB di età superiore a 4 anni la terapia
preventiva deve essere praticata, finché non viene praticato un secondo TST circa 8-12 settimane dopo dall’esposizione. Se il secondo
TST è negativo, la terapia può essere interrotta mentre i bambini
immunocompetenti di età inferiore ai 4 anni dovrebbero ricevere la
chemioterapia preventiva dopo l’esposizione, indipendentemente
dal risultato del TST. La profilassi può essere interrotta se il TST è
negativo 8-10 settimane dopo l’esposizione, a condizione che non
vi sia alcuna esposizione in corso. I bambini immunocompromessi
(con infezione da HIV, in terapia con steroidi, ecc) devono iniziare
la chemioterapia preventiva dopo l’esposizione (dopo l’esclusione
della malattia TB), a prescindere dal risultato del TST o dall’età, visto
che il TST non può escludere in modo affidabile l’infezione.
Follow-up
I pazienti in corso di terapia antitubercolare necessitano di un monitoraggio periodico (ogni 2 mesi) per la valutazione della risposta,
41
F. Tucci et al.
Tabella VIII.
Farmaci di prima linea per il trattamento della tubercolosi in età pediatrica.
Farmaco
Dose/Kg/die
(range)
Somministrazioni
al giorno
Dose massima
giornaliera
Isoniazide
10 mg
(10-15)
1
300 mg
Epatite; neuropatia periferica
Rifampicina
15 mg
(10-20)
2
600 mg
Epatite; colorazione arancione delle secrezioni; interazioni con altri farmaci.
Pirazinamide
35 mg
(30-40)
2
2000 mg
Epatite; artralgia.
Etambutolo
20 mg
(15 -25)
2
1600 mg
Disturbi della vista (acuità visiva; discriminazione cromatica).
della compliance e degli effetti collaterali del trattamento. L’aumento
delle transaminasi di oltre 4 volte i valori di riferimento rappresenta
un’indicazione alla sospensione e/o sostituzione di un farmaco.
La prima valutazione andrebbe fatta a circa 2 settimane dall’introduzione della terapia allo scopo di modificare eventualmente il trattamento e studiare strategie alternative.
Per i potenziali effetti collaterali dell’etambutolo a carico dell’occhio,
è necessario un controllo oculistico pre-trattamento, per valutare
l’acuità visiva e la discriminazione dei colori.
Nelle forme di TB polmonare non complicata, il controllo radiografico
andrebbe effettuato a termine del trattamento (entro due mesi dalla
fine) ed eventualmente ad un anno per lo studio degli esiti, oppure
durante il trattamento in caso di peggioramento clinico. I pazienti
con infezione tubercolare non complicata vengono seguiti in followup per almeno 12-18 mesi dopo l’interruzione della terapia specifica. Nei casi di tubercolosi da ceppi MDR il follow-up deve essere più
frequente ed affidato a centri specializzati.
Vaccino
Ancora oggi il bacillo di Calmette-Guérin (BCG), un vaccino vivo attenuato derivato dal Mycobacterium bovis, è l’unico vaccino disponibile in commercio per la prevenzione della tubercolosi. Il BCG è
ampiamente utilizzato in paesi ad alta endemia, dove i neonati ricevono una singola dose intradermica. Purtroppo l’efficacia e la durata
dell’effetto non sono ottimali. Recenti metanalisi hanno chiaramente riportato un’efficacia nella prevenzione delle forme meningee e
disseminate di TB pediatrica. Tuttavia studi clinici controllati hanno
riportato un’efficacia estremamente variabile per le forme polmonari
(0-80%) (Behr, 2002; Hesseling et al., 2008; Dalmia et al., 2012).
Diversi studi hanno dimostrato che dosi booster di vaccino BCG non
ne aumentano la protezione contro la TB. Per la sua scarsa efficacia
nel prevenire le forme polmonari, il BCG ha una limitata efficacia nel
prevenire la diffusione dell’infezione tubercolare.
La somministrazione di BCG resta in ogni caso sicura nei bambini
per altro sani, ma può causare gravi infezioni disseminate in pazienti
affetti da immunodeficienze primitive ed acquisite (BCGosi).
Le indicazioni all’uso del vaccino in paesi a bassa endemia sono
molto limitate (contatti di pazienti affetti), ma, come è evidente da
quanto descritto in precedenza, avere un vaccino più sicuro ed effi-
42
Effetti avversi
cace resta una esigenza mondiale. La pipeline di STOP-TB prevede
lo sviluppo di 12 nuovi vaccini che possono “rinforzare” l’effetto iniziale del BCG (vaccini booster con vettori virali o adiuvanti), sostituire completamente il precedente vaccino (BCG ricombinante o con
ceppi geneticamente attenuati) o ridurre la durata della terapia della
TB (vaccino terapeutico) (Montagnani et al., 2014).
Conclusioni e prospettive per il futuro
La TB in età pediatrica è un problema riemergente anche in aree
a bassa endemia come l’Italia, sia dal punto di vista clinico che di
igiene pubblica. Purtroppo la scarsa diffusione di dati epidemiologici
e l’aggiornamento professionale non può che ridurre la soglia di sospetto in ambito clinico e favorire la diffusione della malattia.
Il futuro della ricerca scientifica nell’ambito della TB pediatrica dovrebbe essere focalizzato sui seguenti aspetti:
• la standardizzazione dei percorsi diagnostici ed assistenziali,
con lo sviluppo di reti formative che prevedano un aggiornamento periodico degli operatori sanitari e parasanitari;
• lo sviluppo di test affidabili in grado di differenziare l’infezione
dalla malattia tubercolare;
• la definizione di protocolli sia infermieristici che laboratoristici,
volte ad ottimizzare la raccolta e l’analisi di campioni biologici
per l’isolamento del micobatterio;
• la conduzione di trial clinici ad hoc per lo studio dell’efficacia
delle terapie di seconda linea ed il trattamento di ceppi MDR;
• lo sviluppo di algoritmi che tengano conto del management
dell’infezione e della malattia, del peso dei fattori di rischio di
tipo sociale;
• Sperimentazione di nuovi vaccini in grado di ridurre la disseminazione della TB nel mondo.
La Società Italiana di Infettivologia Pediatrica, in collaborazione con
altre numerose società scientifiche con interessi specifici nella medicina dell’età evolutiva, dell’adulto e della prevenzione e sanità pubblica, sta elaborando le linee guida italiane nazionali per la gestione
della tubercolosi in età pediatrica. La pubblicazione ed adeguata implementazione di questo documento porterà alla standardizzazione
dei percorsi diagnostici ed assistenziali per la tubercolosi, migliorando le misure di prevenzione per la diffusione dell’infezione e gli
outcomes clinici dei bambini.
Aggiornamenti e nuove frontiere nella tubercolosi in età pediatrica
Box di orientamento
• Il sospetto di tubercolosi in età pediatrica deriva solitamente o da un quadro clinico suggestivo o da un’indagine epidemiologica per un contatto
noto con un caso di tubercolosi. Un elemento di sospetto deriva dalla presenza di rischio sociale (immigrazione e presenza di malattia croniche).
• Un’anamnesi accurata è essenziale per valutare la natura dell’esposizione e la caratterizzazione dei sintomi. I segni clinici sono spesso subdoli e,
allo stato attuale, nessun punteggio di valutazione diagnostica è stato adeguatamente convalidato, in particolar modo nei pazienti ad alto rischio.
• La conferma batteriologica dovrebbe essere sempre effettuata. Negli ultimi dieci anni, nuove strategie diagnostiche sono state proposte per migliorare la raccolta dei campioni da bambini (es. espettorato indotto), la sensibilità dei test microbiologici (metodi batteriologici e molecolari), e
l’identificazione di resistenze farmacologiche.
• I test di rilascio di interferone - gamma (IGRA) possono essere utili per escludere una falsa positività alla Mantoux (es. vaccinazione BCG) ma non
forniscono il supporto per la diagnosi di malattia attiva.
• La diffusione di ceppi multiresistenti è in aumento in tutto il mondo e raggiunge il 20-30% dei casi in zone endemiche. A causa dell’elevato rischio
di failure terapeutico ed outcomes severi, tutti bambini affetti da TBC multiresistente devono ricevere una terapia antibiotica specifica e di lunga
durata (almeno 1-2 anni) ed un rigoroso follow-up; pertanto è necessario affidarli ad un centro di riferimento per TB pediatrica.
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Corrispondenza
Prof. Alfredo Guarino, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Sezione di Pediatria, Università di Napoli “Federico II”, via Pansini 5, 80131
Napoli. Tel./fax: +39 081 7464232. E-mail: alfguari@unina.it
44
Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 45-52
Infettivologia Pediatrica
La gestione della meningite batterica
Giulia Remaschi, Alessia Nucci, Chiara Tersigni, Melodie Aricò, Clementina Canessa,
Francesca Lippi, Chiara Azzari, Luisa Galli
Dipartimento di Scienze della Salute, Università di Firenze, Ospedale Pediatrico Anna Meyer, Firenze
Riassunto
Le meningiti batteriche rappresentano un’importante causa di mortalità e morbilità. L’introduzione di strategie preventive, tra cui le vaccinazioni contro
alcuni degli agenti eziologici e la profilassi antibiotica intrapartum, ha permesso una notevole riduzione dell’incidenza di tale patologia. Il rapido riconoscimento dei sintomi e segni clinici, l’esecuzione precoce delle procedure diagnostiche e il tempestivo inizio della terapia antibiotica sono fondamentali per
ridurre la mortalità e il rischio di sequele. Nel sospetto di una meningite batterica l’esame chimico-fisico e microbiologico del liquido cefalo-rachidiano resta
il gold standard. Un corretto e approfondito esame obiettivo neurologico volto ad identificare la presenza di segni di ipertensione endocranica, talora con
l’ausilio della radiodiagnostica, rappresenta un valido criterio per effettuare una puntura lombare in sicurezza. Nell’ultimo decennio la biologia molecolare
su liquor e/o sangue ha apportato grandi vantaggi nella diagnosi di meningite batterica, permettendo rapidamente di individuare con una sensibilità e
specificità molto elevate, l’agente eziologico coinvolto, anche quando si sia già intrapresa una terapia antibiotica empirica. L’esame colturale su liquor e/o
sangue rimane, tuttavia, un esame fondamentale per la diagnosi nelle meningiti batteriche, in quanto permette di testare la sensibilità dell’agente patogeno
ai chemioterapici utilizzati e di guidare quindi la terapia. La terapia antibiotica empirica, come suggerito dalle più recenti linee guida, deve essere orientata
dall’età del paziente e della prevalenza locale di ceppi antibiotico-resistenti. Benché sull’utilizzo dei cortisonici sistemici non vi sia accordo unanime in
letteratura, la maggior parte degli autori ne raccomanda l’uso nei bambini al di sopra dei tre mesi di età.
Summary
Bacterial meningitis represents an important cause of mortality and morbidity. Thanks to vaccines against some of the causal microbial agents and preventive strategies, as intra-partum antibiotic prophylaxis for pregnant women with positive vaginal swab, incidence of such disease drastically decreased.
Early identification of clinical signs and symptoms, rapid diagnostic assessment and prompt antibiotic therapy are critical for reduction of mortality and
complications. Chemical and microbiological analysis of cerebrospinal fluid (CSF) is the gold standard when bacterial meningitis is suspected. Careful neurologic examination directed to recognize signs of endocranial hypertension, with the support of neuroimaging, allows to perform lumbar puncture safely.
In the last decade, molecular biology techniques gave a big support to the diagnosis of bacterial meningitis, permitting a rapid detection of microorganism
with high sensitivity and specificity, even when antibiotic treatment was ongoing. Nevertheless, colture on CSF and/or blood has a central diagnostic role in
meningitis, since it permits to test antibiotic susceptibility of pathogens and to lead therapy. As recent guidelines suggest, empiric treatment should consider
patient’s age and local prevalence of resistant strains. Although there is not agreement on the use of systemic steroids, they are mainly recommended in
children over 3 months of age.
Parole chiave: meningite batterica, clinica, diagnosi, diagnosi molecolare, terapia
Key words: bacterial meningitis, clinic, diagnosis, molecular diagnosis, therapy
Metodologia della ricerca bibliografica utilizzata
I lavori considerati per la realizzazione del presente manoscritto sono
rappresentati da testi di riferimento e dalle linee guida disponibili in
letteratura per l’inquadramento epidemiologico, clinico, diagnostico
e terapeutico e da articoli di aggiornamento in materia. La ricerca è
stata effettuata mediante la consultazione del database MEDLINE, utilizzando come motore di ricerca PubMed. I lavori sono stati selezionati
in base alla rilevanza per il tema trattato e alla data di pubblicazione.
Non sono state incluse le meningiti tubercolari, né le meningiti nel
paziente oncologico o immunodepresso, poiché necessitano di trattazione a parte.
Introduzione
Ogni anno in tutto il mondo le meningiti batteriche sono responsabili di
circa 1.200.000 morti, in particolare nella popolazione pediatrica (Centers for Disease Control and Prevention, 2012). In questa fascia di età,
infatti, la mortalità allo stato attuale varia dal 20% al 40% con un rischio
di sequele a lungo termine del 20%, prevalentemente correlate ad infezioni causate da Streptococcus pneumoniae (Hudson et al., 2013).
La disponibilità di vaccini immunogeni, ben tollerati e sicuri rivolti
verso i principali agenti etiologici di meningite batterica (S. pneumoniae, Haemophilus influenzae tipo b e Neisseria meningitidis) ha
determinato un enorme cambiamento nell’epidemiologia delle meningiti batteriche. I principali patogeni causa di meningite batterica
distinti per età sono indicati in tabella I.
L’introduzione del vaccino anti-Haemophilus influenzae tipo b (Hib)
ha determinato negli USA una riduzione dei casi di meningite da H.
influenzae del 99%, con una riduzione dell’incidenza a meno di 1
caso/100.000 bambini sotto i 5 anni (American Academy of Pediatrics; Red Book 2012); in Italia, come riportato dal sistema di sorveglianza dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), si è registrata una
riduzione analoga, che ha portato ad un’incidenza di 0,7/100.000
abitanti nel 2011 (Ancona, 2012).
Anche per lo pneumococco, grazie a un’efficace campagna di vaccinazione prima con il vaccino coniugato eptavalente e successivamente
con il 13-valente, si è registrata una diminuzione di oltre il 97% dei casi
di malattia invasiva dovuti ai sierotipi vaccinali (Pilishvili et al., 2010).
N. meningitidis continua a rappresentare a livello mondiale una delle
principali cause di meningite batterica e sepsi, essendo responsa-
45
G. Remaschi et al.
Tabella I.
Principali agenti eziologici di meningite batterica e sepsi in rapporto
all’età.
<1 mese
Streptococcus agalactiae
Escherichia coli
Klebsiella pneumoniae
Listeria monocytogenes
1-23 mesi
(<2 anni)
Streptococcus pneumoniae
Neisseria meningitidis
Streptococcus agalactiae
Haemophilus influenzae
Altri Gram negativi (raro)
>2 anni, <18 anni
Neisseria meningitidis
Streptococcus pneumoniae
Haemophilus influenzae
18–50 anni
Neisseria meningitidis
Streptococcus pneumoniae
>50 anni
Neisseria meningitidis
Streptococcus pneumoniae
Listeria monocytogenes
bile di 500.000 casi l’anno con una case fatality ratio di oltre il 10%
(Azzari et al., 2014). Prima dell’introduzione della vaccinazione antimeningococco C avvenuta a partire dal 1999 in alcuni paesi europei, l’incidenza di meningite meningococcica in Europa era di 1,67
casi/100.000 abitanti (European Centre for Disease Prevention and
Control, 2013). Grazie ad un’efficace campagna di prevenzione con
vaccino monovalente anti-meningococco C l’incidenza in Italia nel
2010, così come in Europa e negli USA, si è ridotta a 0,24/100000
(Ancona, 2012; European Centre for Disease Prevention and Control,
2013). L’introduzione recente in alcuni paesi del vaccino tetravalente coniugato (A, C, W-135, Y) e la commercializzazione del nuovo
vaccino anti-meningococco B permetterà di allargare ulteriormente
la protezione nei confronti della meningite meningococcica. Numerosi studi hanno suggerito la necessità di effettuare la vaccinazione
anti-meningococco B nei primi mesi di vita, in considerazione della
maggior incidenza al di sotto dell’anno di età (Azzari et al., 2014).
Un’efficace campagna vaccinale che comprenda anche gli adolescenti è essenziale in quanto in questa fascia di età la prevalenza
di portatori è del 23% (Fig. 1), fattore di rischio oltre che per gli
adolescenti stessi anche per le categorie maggiormente suscettibili
di infezione (Christensen et al., 2010).
Nelle ultime decadi si è anche assistito ad un cambiamento nell’etiologia
delle meningiti batteriche nel lattante. In particolare, per quanto riguarda
lo Streptococcus agalactiae (SBEGB), comune patogeno causa di meningite nel neonato, la diffusione dello screening con tampone vaginorettale delle gestanti tra la 35° e 37° settimana di gestazione e la conseguente attuazione della profilassi antibiotica intrapartum ha permesso
una riduzione dei casi d’infezioni neonatali precoci del 65% (Schrag et
al., 2000). Il miglioramento delle condizioni igieniche e la riduzione della
contaminazione degli alimenti ha poi determinato la riduzione di infezioni causate da Lysteria monocytogenes, responsabile negli USA di circa il
2% dei casi di meningite batterica (Brouwer et al., 2010).
Segni e sintomi clinici
Un precoce riconoscimento dei sintomi e dei segni clinici, l’esecuzione tempestiva delle procedure diagnostiche e della terapia antibiotica sono punti fondamentali per ridurre la mortalità e il rischio di
sequele a lungo termine (Richardson et al., 2007) (Tab. II).
Segni e sintomi clinici specifici di meningite batterica non sono costantemente presenti, soprattutto nelle prime età della vita. I segni e
sintomi distinti per età sono riportati nella figura 2.
Se nel bambino oltre i due anni di età l’esordio classico della meningite si caratterizza per la presenza di febbre, cefalea, rigidità nucale,
Age (years)
Figura 1.
Stima dei portatori di meningococco per età, modificato da Christensen H et al. 2010.
46
La gestione della meningite batterica
Tabella II.
Principali sequele a breve e a lungo termine della meningite batterica.
Complicanze a breve termine
Complicanze a lungo termine
Sindrome da inappropriata secrezione di ormone antidiuretico (SIADH)
Ritardo mentale
Coagulazione intravascolare disseminata
Ritardo nell’acquisizione del linguaggio
Shock settico
Convulsioni
Cerebrite e infarto cerebrale
Disturbi comportamentali
Empiema subdurale e ascesso cerebrale
Sordità neurosensoriale
S. Waterhouse-Friderichsen (sepsi meningococcica)
Figura 2.
Segni e sintomi di meningite batterica.
manifestazioni cliniche classiche di irritazione meningeale (positività
dei segni di Kernig e Brudzinski, posizione a canna di fucile), fotofobia, vomito, alterazione dello stato di coscienza e crisi convulsive,
nel neonato e nel lattante la diagnosi è più complessa per la presenza di segni clinici più sfumati. La presenza di ipotonia, torpore, pianto inconsolabile, difficoltà ad alimentarsi, pallore in un bambino al di
sotto dei due anni di età devono indurre il sospetto di meningite. Solo
il 50% dei neonati con meningite presenta febbre e solo nel 30% dei
casi è apprezzabile una fontanella bombata (American Academy of
Pediatrics; Red Book 2012).
Nelle forme da pneumococco non sono infrequenti paralisi dei nervi
cranici, soprattutto oculomotori (III, IV, VI) e del faciale (VII) (Jit, 2010).
Lo spettro clinico della malattia meningococcica può avere un’ampia variabilità, dalle manifestazioni cliniche tipiche di meningite fino
a sepsi, shock e morte. Particolare attenzione va posta alla ricerca di
petecchie e porpora ad esordio nella regione ascellare ed inguinale
e dei segni classici dello shock, per permettere un tempestivo trattamento (American Academy of Pediatrics; Red Book 2012).
Aspetti diagnostici
Esami emato-chimici
Nel sospetto di una meningite batterica gli esami di laboratorio da
richiedere in urgenza comprendono emocromo con formula, proteina C reattiva, parametri della coagulazione, glicemia ed elettroliti.
Fondamentale l’esecuzione di un’emocultura e il prelievo di un campione di sangue in EDTA per l’esecuzione della polymerase chain
reaction (PCR), laddove disponibile (Radcliffe et al., 2011). Gli esami
ematochimici nella meningite batterica mostrano solitamente una
leucocitosi neutrofila ed un notevole incremento degli indici di flogosi. La presenza di una bassa conta leucocitaria e di una proteina
C reattiva normale non escludono tuttavia la presenza di meningite
batterica o di sepsi meningococcica (NICE clinical guideline, 2010).
Nessuno studio in letteratura è stato in grado di individuare un cutoff nella conta leucocitaria o nei valori di proteina C reattiva tale da
discriminare tra una meningite batterica ed altre patologie infettive
(Radcliffe et al., 2011).
Esami microbiologici e di diagnostica molecolare su liquido
cefalo-rachidiano
Nel sospetto di una meningite batterica l’esame del liquido cefalorachidiano (LCR) resta il gold standard.
Nelle fasi precoci l’esame chimico-fisico e la colorazione di Gram su
LCR restano fondamentali e sono di ausilio al pediatra per un rapido
orientamento diagnostico.
Le caratteristiche del LCR fortemente sospette per la presenza di
meningite batterica sono indicate in tabella III.
La puntura lombare (PL) andrebbe eseguita in ogni caso sospetto, in
mancanza di controindicazioni specifiche (Tab. IV). L’eventuale controindicazione all’esecuzione della puntura lombare non deve mai far ritardare l’inizio della terapia antibiotica. Infatti, in presenza di controindicazioni
relative e della necessità di stabilizzare il paziente, si deve comunque
iniziare la terapia antibiotica. Va rivalutata l’opportunità dell’esecuzione della puntura lombare dopo 8-12 ore, anche in considerazione della
possibilità di fare diagnosi eziologica grazie alla biologia molecolare.
47
G. Remaschi et al.
Tabella III.
Principali alterazioni del LCR in corso di meningite batterica acuta
(Tunkel et al., 2004)
Caratteristiche
Pressione
Torbido, purulento
Aumentata, >180 mm H2O
GB
1.000-5.000/ µL
Neutrofili
>80%
Proteine
100-500 mg/dL
Glucosio
< 40 mg/dL
Rapporto glucosio
LCR/sangue1
<0,4
¹La concentrazione di glucosio nel liquor corrisponde a circa il 50%-60% del valore
di glicemia del paziente
Tabella IV.
Controindicazioni assolute e relative all’esecuzione della puntura
lombare (Chaudhuri et al., 2008).
Controindicazioni assolute
Segni di aumentata pressione intracranica
Infezione della cute nella sede di puntura
Segni suggestivi di idrocefalo ostruttivo, edema cerebrale diffuso o
erniazione delle tonsille cerebellari alla TC ( o alla RMN)
Controindicazioni relative
Sepsi o ipotensione (pressione sistolica <100mmHg e diastolica
<60mmHg): il paziente deve essere prima stabilizzato
Disordini della coagulazione (CID, conta piastrinica <50000/mm3 terapia
con warfarin)
Presenza di deficit neurologici focali
Glasgow coma score (GCS) ≤8
Convulsioni subentranti
Negli ultimi tre casi deve essere eseguita una TC o una RMN dell’encefalo. La paralisi isolata di nervi cranici senza papilledema non necessariamente controindica
la puntura lombare senza neuroimmagini.
Numerosi studi presenti in letteratura, al contrario di quanto ritenuto
in passato, concordano nell’affermare che la TC dell’encefalo non
deve essere eseguita di routine prima della rachicentesi (Nagra et
al., 2011), poiché essa rappresenta un indicatore inattendibile per
identificare la presenza di ipertensione endocranica e soprattutto
perché una TC negativa non esclude completamente il rischio di erniazione delle tonsille cerebellari (Chaudhuri et al., 2008). Un corretto e approfondito esame obiettivo neurologico volto ad identificare la
presenza di segni di ipertensione endocranica (papilledema, deficit
neurologici focali, postura decerebrata, grave compromissione o rapido peggioramento dello stato di coscienza) rappresenta un criterio
più specifico per effettuare una puntura lombare in sicurezza. (NICE
clinical guideline, 2010).
L’esecuzione di una TC non necessaria e delle immagini inappropriate determinerebbero inoltre un ritardo nel trattamento portando
a tassi di morbilità e mortalità sicuramente più alti. La TC diventa
al contrario indispensabile nei bambini con un livello di coscienza
ridotto o fluttuante (GCS<9) o con segni neurologici focali per identificare la presenza di altre patologie intracraniche (NICE clinical guideline, 2010).
Generalmente, se le condizioni cliniche del paziente migliorano e la
terapia antibiotica è appropriata non c’è necessità di ripetere la PL.
La rachicentesi deve essere ripetuta in caso di ri-emergenza o persistenza della febbre, deterioramento delle condizioni cliniche, persistenza della positività dei marker d’infiammazione oppure comparsa
di nuovi segni clinici (NICE clinical guideline, 2010).
L’esecuzione dell’esame colturale sia su sangue che su LCR nonostante la disponibilità di metodiche di diagnostica più rapide e non
influenzate dalla terapia antibiotica, resta fondamentale per una corretta gestione della meningite batterica. Esso infatti permette l’esecuzione dell’antibiogramma, dato sempre più rilevante considerata
l’emergenza di ceppi di N. meningitidis con ridotta suscettibilità o
resistenti alla penicillina (Bertrand et al., 2012).
Affiancando l’esame colturale, la diagnostica molecolare ha assunto un ruolo sempre maggiore nella diagnosi delle forme batteriche
di meningite. La PCR, eseguita su sangue e su liquor, permette di
rilevare anche piccole quantità di acido nucleico del patogeno responsabile, permettendo l’identificazione del batterio in causa e del
sierotipo (Wang et al., 2012).
Uno dei vantaggi della PCR è la sua indipendenza dalla vitalità del
germe, permettendo quindi una corretta diagnosi eziologica anche
in presenza di una terapia antibiotica già instaurata (Resti et al.,
2009) (Tab. V); consente di ottenere risultati in tempi brevi (4-6 ore)
utilizzando apparecchiature semplici e automatizzate con un costo
inferiore rispetto alle metodiche tradizionali (Wang et al., 2012).
La metodica molecolare ha inoltre una importante utilità epidemiologica; permette infatti l’isolamento e la sierotipizzazione del batterio causale nella maggior parte dei casi di meningite (Azzari et al.,
2008). Ciò consente quindi di monitorare l’andamento epidemiologico dei germi e di conseguenza adattare le campagne vaccinali.
Tabella V.
Maggior sensibilità di PCR Real-time nei confronti dei metodi culturali nella diagnosi di meningite su liquor in pazienti con pregressa terapia
antibiotica, modificato da (Chiba et al., 2009).
Patogeno
Campioni positivi in PCR
n (%)
Campioni positivi con il metodo colturale
n (%)
S. pneumoniae
36 (21.4)
27 (16.1)
H. influenzae
76 (45.2)
48 (28.6)
S. agalactiae
4 (2.4)
2 (1.2)
E.coli
3 (1.8)
3 (1.8)
L. monocytogenes
1 (0.6)
1 (0.6)
M. pneumoniae
1 (0.6)
0
N.meningitidis
57 (25,1)
36 (17,7)
48
La gestione della meningite batterica
Tabella VI.
Principali agenti patogeni da indagare con metodica molecolare nel sospetto di meningite batterica.
Lattanti
(0-2 mesi)
Bambini
(2 mesi-2 anni)
Bambini
> 2 anni
Streptococco β-emolitico di gruppo B
Streptococco β-emolitico di gruppo B
Streptococcus pneumoniae
Listeria monocytogenes
Listeria monocytogenes
Neisseria meningitidis
Escherichia coli
Escherichia coli
Haemophilus influenzae
Klebsiella pneumoniae
Klebsiella pneumoniae
Streptococcus pneumoniae
Neisseria meningitidis
Haemophilus influenzae
La sensibilità e specificità della PCR sono risultate estremamente
elevate (96-98% sensibilità e 95-99% specificità), rivelando un’importante sottostima dei casi noti di malattie batteriche invasive (Azzari et al., 2008). La sensibilità della PCR è inoltre da 3 a 8 volte più
alta della coltura (Azzari et al., 2014).
I principali patogeni indagati nel sospetto di meningite batterica
sono riportati nella tabella VI.
Nel caso di diagnosi eziologica dubbia, possono essere utilizzate, in
casi selezionati, metodiche molecolari che determinano l’amplificazione dell’rRNA 16S batterico, sfruttando la conservazione di questa
porzione del genoma nelle specie batteriche più frequentemente responsabili delle forme invasive. Resta comunque preferibile, quando
possibile, utilizzare tecniche più specifiche (Realtime-PCR) che non
sono basate sull’amplificazione del 16S, ma che utilizzano primers
e sonde specifici.
Ruolo della diagnostica per immagini
Studi sul ruolo della risonanza magnetica nucleare (RMN) e della
TC nella diagnosi e nella gestione della meningite batterica sono
estremamente limitati. La sensibilità della RMN nell’identificare alterazioni indicative della presenza di meningite batterica varia dal
9% al 100%, con una specificità tra il 93% e il 100% (Upadhyayula,
2013). In assenza di complicanze, la TC senza mezzo di contrasto
e la RMN possono risultare perfettamente normali (Foerster et al.,
2007). In alcuni casi è possibile rilevare con la RMN alterazioni aspecifiche nell’enhancement meningeale (non utili ai fini di una corretta
diagnosi differenziale) dopo somministrazione di mezzo di contrasto
che potrebbero essere visibili anche mesi dopo la risoluzione del
quadro clinico (Schneider et al., 2011).
La RMN e la TC hanno invece un ruolo fondamentale nella valutazione delle complicanze. La RMN ha mostrato una maggiore sensibilità
nella valutazione della presenza di edema citotossico o vasogenico,
alterazioni ischemiche, idrocefalo, ascesso subdurale, epidurale o
parenchimale (Nickerson et al., 2012).
Terapia
Nel sospetto di meningite batterica, la terapia antibiotica deve essere iniziata il più precocemente possibile. Quando non è noto l’agente patogeno
deve essere intrapresa una terapia empirica in base all’età del bambino e
in base all’epidemiologia in quella fascia d’età. Le linee guida disponibili in
letteratura suggeriscono un approccio non sempre uniforme nella gestione dei bambini con sospetta meningite (De Gaudio et al., 2010).
Nella tabella VII vengono elencate le indicazioni terapeutiche suggerite dalle più autorevoli linee guida.
L’utilizzo del ceftriaxone in età neonatale non è raccomandato per
il suo potere di spiazzare la bilirubina dai siti di combinazione con
l’albumina (Radcliffe, 2011).
Come già ribadito, la terapia antibiotica deve essere somministrata più precocemente possibile, anche prima dell’esecuzione della
rachicentesi quando questa non possa essere eseguita in tempi rapidi, poiché un trattamento precoce riduce in maniera significativa
la mortalità (Richardson et al., 2007). Inoltre, benché la somministrazione di antibiotici prima dell’esecuzione della puntura lombare
possa associarsi ad elevata negatività di esami colturali, essa non
influenza i risultati ottenuti con le moderne tecniche diagnostiche
molecolari. Il tempo di sterilizzazione del liquido cefalorachidiano
dopo somministrazione della prima dose di antibiotico per via parenterale è di 2 ore per N. meningitidis e 4 ore per S. pneumoniae
(Meningitis/encephalitis guideline Melbourn, 2013). Inoltre, la somministrazione di antibiotico può modificare i livelli di glicorrachia e di
proteinorrachia, ma non sembra aver effetto sulla conta leucocitaria
liquorale né sul valore assoluto dei neutrofili (Nigrovic et al., 2008).
Quando dagli esami colturali o molecolari emerga la positività per
uno specifico agente eziologico, è consigliabile proseguire con una
terapia antibiotica mirata. Nella tabella VIII viene riportata la terapia antibiotica specifica per i principali patogeni coinvolti nelle meningiti batteriche. Nella meningite pneumococcica la decisione di
associare la vancomicina deve essere considerata in relazione alla
prevalenza locale di ceppi di pneumococco penicillino e cefalosporino-resistenti. Per quanto riguarda invece la terapia della meningite
meningococcica, le linee guida NICE suggeriscono di proseguire la
terapia iniziata empiricamente con cefotaxime o ceftriaxone, mentre l’American Academy of Pediatrics raccomanda di passare alla
somministrazione di penicillina, sempre però tenendo in considerazione la sensibilità riscontrata e l’epidemiologia locale (NICE clinical
guideline, 2010; American Academy of Pediatrics, Red Book 2012).
Dalla letteratura internazionale si evincono dati discordanti sull’efficacia dell’uso dei corticosteroidi sistemici in associazione alla terapia antibiotica, in termini di mortalità e di sequele a lungo termine
nelle meningiti batteriche. Uno studio randomizzato controllato in
doppio cieco in bambini trattati con desametasone rispetto a quelli
trattati con glicerolo non evidenziava differenze significative sullo
sviluppo di ipoacusia, che era invece correlato alle manifestazioni
cliniche all’esordio e all’età del bambino (Peltola et al., 2010). Numerose metanalisi sono state condotte nell’intento di ottenere dati risolutivi sull’argomento, anche in considerazione del fatto che in molte
metanalisi erano anche inclusi studi condotti in paesi con scarse
risorse economiche e che includevano quindi pazienti nei quali la
diagnosi di meningite era verosimilmente più tardiva e, conseguen-
49
G. Remaschi et al.
temente, il corticosteroide sistemico era stato inizato tardivamente.
La più recente metanalisi (che quindi include tutti gli studi fino alla
data della pubblicazione) conclude che, pur in assenza di un signi-
antibiotica. Una recente revisione della letteratura ha messo in evidenza come l’uso del glicerolo, come diuretico osmotico, non abbia effetto
sulla riduzione della mortalità, mentre sembrerebbe ridurre l’incidenza
Tabella VII.
Terapia empirica raccomandata dalle linee guida: National Institute for Health and Care Excellence (NICE), Infectious Diseases Society of America
(IDSA), European Federation of Neurological Societies (EFNS).
Linea guida
Fasce di età
Terapia
NICE 2010
< 3 mesi
Cefotaxime+ amoxicillina o ampicillina
≥ 3 mesi
Ceftriaxone ± vancomicinaa
IDSA 2004
EFNS 2008
< 1 mese
ampicillina+ cefotaxime o aminoglicoside
1-23 mesi
Vancomicinac + cefalosporina III generazione b
2-50 anni
Vancomicinac + cefalosporina III generazioneb
>50 anni
Vancomicinac + cefalosporina III generazioneb + ampicillina
Bambini (oltre l’età neonatale) e adulti
(Cefriaxone o cefotaxime) ± vancomicina
o
Meropenem
o
Cloramfenicolo
Adulti, nel sospetto di meningite da Listeria
Ampicillina/amoxicillina
In bambini che abbiano recentemente viaggiato in aree ad elevata prevalenza di ceppi di pneumococco resistenti ai beta-lattamici o che siano stati esposti a prolungati
o ripetuti cicli di terapia antibiotica negli ultimi 3 mesi.
b
Ceftriaxone o cefotaxime.
c
Alcuni esperti raccomandano l’aggiunta della rifampicina nel caso in cui venga eseguita la terapia con desametasone.
a
Tabella VIII.
Terapia specifica e durata del trattamento. Tratto dalle linee guida NICE ed IDSA.
Microorganismo
Neisseria meningitidis
Terapia specifica
Durata (giorni)
Penicillina G o ceftriaxone
7
Haemophilus influenzae
Ceftriaxone
7-10
Streptococcus pneumoniae
Ceftriaxone
10-14
Cefotaxime o penicillina G + gentamicina
14-21
Streptococcus agalactiae
Bacilli aerobi gram-negativi
Listeria monocytogenes
21
Ampicillina o amoxicillina + gentamicina
ficativa riduzione sulla mortalità, i corticosteroidi sistemici riducono
la mortalità nelle meningiti da Streptococcus pneumoniae ed inoltre
hanno efficacia nel ridurre lo sviluppo di sordità e di sequele neurologiche a breve termine nei paesi con risorse economiche avanzate
(Brouwer et al., 2013). Esistono, inoltre perplessità sulla ridotta penetrazione a livello del SNC di alcuni antibiotici, in particolare della
vancomicina, in corso di terapia steroidea, come suggerito da studi
in modelli animali (Tunkel et al., 2004). Purtuttavia, l’utilizzo di tali
antibiotici a dosaggi elevati, può risultare in concentrazioni liquorali
sufficienti a superare le MIC necessarie per l’effetto terapeutico. Le
linee guida inglesi raccomandano, per i bambini più grandi, l’uso di
desametasone al dosaggio di 0,15 mg/Kg per un massimo di 10 mg
per quattro giorni in caso di liquor francamente purulento, in caso di
conta leucocitaria nel liquor > 1000/microL, aumento dei leucociti
nel liquor associato a proteinorrachia> 1g/L e/o presenza di batteri
Gram positivi o negativi. Non raccomandano l’uso dei corticosteroidi
sotto i 3 mesi di vita per le scarse evidenze scientifiche presenti in
letteratura in questa fascia di età.
Sempre con l’obiettivo di ridurre l’edema a livello cerebrale sono stati
proposti trattamenti con diuretici osmotici in associazione alla terapia
50
≥21
di sordità. Tuttavia gli autori sottolineano l’importanza di ulteriori studi
clinici per confermare tali risultati (Wall et al., 2013)
Anche per quanto riguarda l’utilizzo dei fluidi di mantenimento non vi
sono chiare evidenze in letteratura. In passato si è sempre sostenuta
la necessità di una restrizione dei liquidi per i pazienti con meningite a
causa del rischio della sindrome da inappropriata secrezione di ormone antidiuretico. Da una recente revisione sistematica emerge che vi
siano vantaggi nell’uso di fluidi di mantenimento rispetto alla restrizione dei fluidi nelle prime 48 ore dall’inizio del trattamento nei paesi con
alta mortalità e con una valutazione medica tardiva. Tuttavia, nei paesi
dove la valutazione medica è precoce e la mortalità è bassa, non ci
sono sufficienti evidenze per definire delle raccomandazioni (Maconochie et al., 2008). Le linee guida NICE consigliano l’uso dell’idratazione
di mantenimento a meno che non compaiano i segni e sintomi di ipertensione endocranica o della sindrome da inappropriata secrezione di
ormone anti-diuretico (NICE clinical guideline, 2010).
Conclusioni
La gestione delle meningiti batteriche non si è modificata radical-
La gestione della meningite batterica
mente negli ultimi anni. Tuttavia alcuni aspetti gestionali sono evoluti
in relazione alla messa a punto delle nuove metodiche diagnostiche
molecolari, laddove disponibili. In particolare, la possibilità di disporre rapidamente della diagnosi eziologica, anche nei casi nei quali
sia stata già intrapresa la terapia antibiotica sistemica, permette da
una parte di valutare con maggiore accortezza se eseguire subito
la rachicentesi o di rimandarne l’esecuzione dopo stabilizzazione
del paziente, dall’altra di modificare la terapia antibiotica empirica
qualora possa essere sostituita con una più mirata. Inoltre, la rapida
identificazione dell’agente eziologico risulta utilissima per la tempe-
stiva gestione dei contatti in comunità, qualora si tratti di eziologia
meningococcica. È comunque determinante inviare gli esami colturali, sia da liquor che da sangue anche per disporre di antibiogramma e conoscere la sensibilità agli antibiotici del patogeno responsabile. La crescente segnalazione in molte aree del mondo di ceppi a
ridotta sensibilità alla penicillina e ad altri beta-lattamici suggerisce
l’opportunità di ottimizzare, ogniqualvolta possibile, la terapia mirata
sulla base dell’antibiogramma e, comunque, di monitorare la sensibilità agli antibiotici dei più comuni patogeni causa di meningiti e
malattie invasive ad eziologia batterica.
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
Da sempre è nota l’importanza di instaurare una terapia antibiotica precoce nel sospetto di meningite batterica. Tuttavia la necessità di eseguire l’esame chimico-fisico e colturale del liquido cefalo-rachidiano prima dell’inizio della terapia antibiotica, per non compromettere la validità diagnostica di tali
esami, determinava spesso un ritardo nel trattamento. L’esecuzione della rachicentesi, a sua volta, poteva essere ritardata dal sospetto di ipertensione
endocranica, che poneva l’indicazione ad eseguire una TC cranio-encefalo prima della procedura per stabilirne il rischio di complicanze.
Da un punto di vista fisiopatologico, è stato evidenziato che i danni cerebrali sono mediati da una massiva liberazione di citochine proinfiammatorie
indotta dai batteri ed è stato quindi ipotizzato un possibile ruolo dei corticosteroidi in associazione alla terapia antibiotica per contrastare gli effetti
dannosi del processo infiammatorio.
Cosa sappiamo adesso
Oggi sappiamo che:
• è possibile instaurare una terapia antibiotica precoce non compromettendo le indagini diagnostiche, grazie alle tecniche di biologia molecolare e
alle conoscenze delle modificazioni chimico-fisico e microbiologiche del liquor dopo la prima dose di antibiotico;
• l’esecuzione della TC prima della puntura lombare non è sempre dirimente per escludere la presenza di ipertensione endocranica. Un esame neurologico approfondito è fondamentale per individuare i segni di ipertensione endocranica;
• la terapia antibiotica empirica deve essere orientata dall’età del paziente e dalla prevalenza locale di ceppi antibiotico-resistenti;
• nella terapia, l’uso dei cortisonici, in associazione alla terapia antibiotica, potrebbe avere un ruolo nella riduzione della mortalità e delle sequele a
lungo termine, ma sono necessari ulteriori studi in merito.
Quali ricadute sulla pratica clinica
La ricerca nel campo della meningite batterica è volta alla riduzione della mortalità e della morbilità associate a tale patologia, ad oggi ancora molto alte.
Il precoce inizio del trattamento, possibile grazie all’utilizzo delle tecniche di biologia molecolare e alle conoscenze sulle modificazioni chimico- fisicomicrobiologiche del liquor dopo la prima somministrazione dell’antibiotico, costituisce un elemento fondamentale per un buon outcome.
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Corrispondenza
Luisa Galli, Unità di Infettivologia Pediatrica, AO Anna Meyer, Università di Firenze, viale Gaetano Pieraccini, 24, 50141 Firenze.
E-mail: luisa.galli@unifi.it
52
Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 53-60
Frontiere
Alimenti e malattie infiammatorie croniche
Salvatore Auricchio, Maria Vittoria Barone
Laboratorio Europeo per lo Studio delle Malattie Indotte da Alimenti (ELFID)
Università “Federico II”, Napoli
Riassunto
Studi epidemiologici hanno associato l’aumento delle malattie infiammatorie croniche, quali diabete, arteriosclerosi, asma, epatopatie croniche, malattie
autoimmuni, malattie degenerative e malattie infiammatorie croniche intestinali, alla diffusione della cosi detta “Western diet”. La dieta mediterranea è
invece sempre più considerata la dieta standard per la salute dell’uomo.
Gli alimenti esplicano i loro effetti sull’infiammazione tissutale, sia per azione diretta sulle cellule, sia perché regolano la composizione del microbiota intestinale. L’enterocita e le cellule immunocompetenti intestinali, sono dotate di sistemi complessi per “sentire” gli alimenti e per rispondere ad essi. Anche i
cereali (ed in particolare il grano) possono causare infiammazione intestinale, per esempio nella celiachia. Vi sono due tipi principali di risposta infiammatoria a peptidi del glutine nella celiachia: vi è la risposta adattativa mediata da cellule T e la risposta innata.
In conclusione si pone l’attenzione sulla necessità di svezzare il lattante a dieta mediterranea, anche allo scopo di fare sviluppare nel corso del divezzamento il gusto del bambino per alimenti della nostra tradizione alimentare.
Summary
Epidemiological studies, have associated the increase in chronic inflammatory diseases, such as diabetes, atherosclerosis, asthma, chronic liver disease,
autoimmune diseases, degenerative diseases and inflammatory bowel diseases to the spread of the so-called “Western diet”. The Mediterranean diet has
increasingly been regarded as the gold-standard diet for human health.
The nutrients exert their effects on tissue inflammation, either by direct action on the cells, or because they regulate the composition of the intestinal
microbiota. The enterocyte and the intestinal immunocompetent cells, are equipped with complex systems to “feel” the food and to respond to them. Even
cereals (especially wheat) can cause intestinal inflammation, in celiac disease for example. There are two main types of inflammatory response to gluten
peptides in celiac disease: there is the adaptive immune response mediated by T cells and the innate immune response.
In conclusion, the weaning of the infant, with the Mediterranean diet, is advisable also in order to develop the taste of the infant for our traditional food.
Parole chiave: infiammazione intestinale, Western diet, dieta mediterranea, nutrienti ed infiammazione, infiammazione e celiachia, svezzamento
Key words: Intestinal infiammation, Western diet, Mediterranean diet, nutrienty and inflammation, inflammation and celiac disease, weaning
Metodologia della ricerca bibliografica
La ricerca bibliografica è stata effettuata utilizzando PubMed. Essa
ha preso in esame soprattutto la più recente letteratura disponibile
su infiammazione ed alimenti.
Introduzione
L’interazione alimenti-flora batterica-intestino (in particolare enterocita e cellule immunocompetenti) è alla base di molteplici fenomeni
che influenzano lo stato di salute o di malattia del soggetto.
In tempi recenti si è osservato un aumento di malattie infiammatorie
croniche quali diabete, arteriosclerosi, asma, epatopatie croniche,
malattie autoimmuni, malattie degenerative e malattie infiammatorie croniche intestinali.
Studi epidemiologici hanno associato l’aumento dei disordini infiammatori cronici alla diffusione della cosi detta “Western diet”, considerata un fattore di rischio per le malattie infiammatorie croniche
ed il cancro: essa è caratterizzata da elevati livelli di carni rosse,
carboidrati semplici (zuccheri), grassi, cereali “raffinati” e da bassi
livelli di vegetali, frutta e pesce. Questa dieta è sempre più diffusa
nei paesi in via di sviluppo ed il suo consumo correla con il drammatico aumento della incidenza delle malattie infiammatorie croniche
nelle ultime sei decadi (Bach, 2002; Devereux, 2006). I danni che
tale dieta comporta sono dovuti alla incapacità del genoma umano
di adattarsi ai rapidi cambiamenti dell’ambiente, in particolare della
dieta stessa (Willett, 2002).
La dieta mediterranea è invece sempre più considerata la dieta
standard per la salute dell’uomo. Essa è ricca di olio di oliva, frutta,
verdure, cereali integrali, noci o frutta secca in generale, con un modesto consumo di pesce e pollame, ed essendo povera di carni rosse
e carboidrati semplici, è molto più vicina alla dieta dei nostri antenati
di quanto non lo sia la dieta attuale. Non a caso la piramide alimentare, che riassume i consigli dietetici del Ministero dell’Agricoltura
statunitense per una corretta alimentazione allo scopo di prevenire
l’obesità, è basata sulla dieta mediterranea. Infatti la dieta mediterranea è sempre più considerata la dieta standard per la salute
dell’uomo (Tracy, 2013): riduce il rischio di malattie cardiovascolari,
cancro, Alzheimer, Parkinson e morte prematura in genere. I risultati
di studi molto recenti (Estruch et al., 2013) confermano la superiorità
della dieta mediterranea, anche in confronto con altri regimi alimentari ricchi di vegetali e frutta, nella prevenzione primaria di eventi
morbosi cardiovascolari. Sarebbero proprio le caratteristiche nutrizionali del complesso degli alimenti piuttosto che i singoli macronutrienti (proteine, carboidrati e grassi) e micro-nutrienti (minerali e
vitamine), a giocare un ruolo importante nell’effetto protettivo della
dieta mediterranea (Tracy, 2013).
La dieta mediterranea è ricca di fibre, carboidrati non assorbibili, che
hanno un ruolo importante nella prevenzione di molte malattie così
dette “moderne”. Infatti popolazioni che consumano adeguate o ab-
53
S. Auricchio, M.V. Barone
bondanti quantità di fibre hanno incidenza più bassa di malattie infiammatorie croniche, come coliti, diabete tipo 2, ed anche di cancro
del colon, rispetto a popolazioni che consumano diete a più basso
contenuto di fibre (Slavin, 2003). Del tutto recentemente uno studio
prospettico di 170.000 donne (Nurses Health Study) ha dimostrato
che l’assunzione con la dieta di fibre è associata a ridotto rischio di
ammalare di morbo di Crohn (Ashwin et al., 2013).
Non a caso la bassa incidenza di asma, in Giappone rispetto ad Australia ed USA, tutti paesi con alto grado di igiene e di urbanizzazione, è stata messa in relazione alla ricchezza della dieta giapponese
in riso, legumi, cibi fermentati e pesce (Maslovski et al., 2011). È
interessante inoltre notare che la popolazione giapponese è, attualmente, la più longeva conosciuta.
Alimenti e infiammazione
Alimenti e microbiota intestinale
La dieta esplica i suoi effetti sull’infiammazione tissutale sia per
azione diretta sulle cellule, sia perché regola la composizione della flora intestinale (microbiota intestinale). A sua volta, il microbiota
attraverso la sua composizione e per mezzo dei prodotti del metabolismo batterico, influenza la risposta metabolica, immune ed infiammatoria dell’organismo (Maslowski et al., 2011). In particolare,
livelli ridotti di fibre nella dieta alterano il microbiota intestinale, con
ridotta produzione, da parte dei batteri presenti, di composti modulanti la risposta immune (quali, ad esempio, acidi grassi a catena
corta come il butirrato, il polisaccaride A, i peptidoglicani e altri prodotti non ancora completamente identificati). Questo è un campo
di ricerca in pieno sviluppo con implicazioni che interessano anche
altri ambiti, come suggerisce uno studio pubblicato recentemente,
in cui si dimostra che il microbiota intestinale modula le anomalie
comportamentali e metaboliche presenti in un modello sperimentale
di autismo (Jack et al., 2013)
Pattern recognition receptors (PRR) che “sentono”
patogeni e nutrienti
Gli alimenti inoltre influenzano, per effetto di alcuni nutrienti, direttamente la risposta immune e quindi l’infiammazione tissutale, intestinale ed extra intestinale.
Le cellule intestinali, infatti, in particolare l’enterocita e le cellule
immunocompetenti, sono dotate di sistemi complessi per “sentire”
gli alimenti e per rispondere ad essi. Da sottolineare che vi sono vie
metaboliche comuni sia ai sistemi cellulari che sentono i patogeni
che a quelli che sentono i nutrienti, il che aiuta oggi a comprendere
meglio i rapporti tra dieta e malattia (Hotamisligil, 2006). Le cellule
intestinali, e tra queste gli enterociti e le cellule dendritiche, esprimono infatti Pattern recognition receptors (PRR), come i Toll-like
receptors (TLR), i NOD-like receptors (NLR) e i Leucine rich alpha2-glycoprotein 1 (LRG1). Questi riconoscono sia Pathogen associated molecular patterns (PAMPs) che Damage associated molecular
patterns (DAMPs) (Schema in Fig. 1).
Infatti, infiammazione in assenza di patogeni, può verificarsi in tutti
i tessuti in risposta ad un ampio range di stimoli, che causano
stress e danno alle cellule (cosiddetta infiammazione sterile) (Kubes et al., 2012): in questo contesto alcuni nutrienti sono capaci di
provocare condizioni di stress cellulare. Nell’infiammazione sterile,
quindi, vari DAMPs sono liberati dalle cellule danneggiate e attivano i recettori delle cellule immuni (TLR, NLR, LRG1) che, come
54
detto prima, sono stati originariamente identificati come sensori
di PAMPs.
In particolare i DAMPs portano all’assemblaggio di un complesso
proteico del citosol, chiamato inflammasoma, che attiva la proteasi
caspasi-1 con conseguente attivazione e secrezione di IL-1-beta e
altre citochine proinfiammatorie (Kubes et al., 2012).
Recettori nucleari e nutrienti
Nelle cellule intestinali vi sono inoltre diversi recettori nucleari che
sono attivati da ligandi (sostanze esterne alle cellule, come ormoni,
lipidi, vitamine ed altri costituenti degli alimenti).
Dopo attivazione, i recettori nucleari attivano fattori di trascrizione
che regolano l’espressione di specifici geni coinvolti in molteplici
funzioni cellulari, tra l’altro, anche nell’infiammazione e nella risposta immune. I recettori nucleari connettono quindi la trascrizione
a stimoli esterni, per esempio, gli alimenti (Veldhoen et al., 2008,
2012) (Fig. 2).
Numerosi ligandi per recettori nucleari si trovano nella frutta e nella
verdura. Alcuni metaboliti della vitamina A, gli acidi retinoici, possono essere prodotti anche nell’enterocita e nelle cellule dendritiche,
a seguito dell’assorbimento della vitamina A. Essi svolgono un ruolo
fondamentale nella tolleranza verso antigeni alimentari, reclutando
e inducendo cellule T regolatorie (Coombes et al., 2007; Sun et al.,
2007; Hadis et al., 2011). Gli acidi retinoici sono i ligandi dei recettori dell’acido retinoico (RARs) o dei recettori X per l’acido retinoico
(RXRs) (Mora et al., 2008; Elias et al., 2008); recettori nucleari che
riconoscono nel nucleo specifiche sequenze di DNA. Gli RXRs possono formare etero-dimeri con altri recettori nucleari, lipid-sensing
come il recettore per la vitamina D (VDR), i Peroxisome-proliferatoractivated receptors (PPARs), i Liver X receptors (LXR), il Pregnano X
receptor (PXR) e il Farnesoide X receptor (FXR).
La forma attiva della vitamina D, la 1-25 (OH) D3, si lega al recettore
per la vitamina D (VDR), che forma un eterodinero con RXR. Molti dei
recettori ai quali si legano la vitamina D e la vitamina A sono presenti
nelle cellule immuni intestinali, in particolare T regolatorie, Th 17 e
cellule linfoidi innate. Analogamente alla vitamina A, la vitamina D
inibisce la attività delle cellule Th1 e aumenta quello delle cellule
Th2 (Veldhoen et al., 2012).
Lo Aryl hydrocarbon receptor (AHR) è un altro recettore nucleare
presente nelle cellule T regolatorie Th 17 (Veldhoen, 2008; Quintana
et al., 2008), e nelle cellule linfoidi innate (Kiss et al., 2011; Lee et
al., 2011; Qiu et al., 2012) e nei linfociti intraepiteliali (Li et al., 2011):
la sua principale funzione è quella di mediare la risposta immune
cellulare ai contaminanti ambientali. Analogamente ai RARs e RXRs,
AHR è responsivo a ligandi lipofili (Wincent et al., 2009). Derivati del
triptofano o suoi metaboliti possono generare ligandi ad alta affinità
per AHR. Tali ligandi si formano nell’intestino per ingestione di broccoli e cavolfiori che risultano quindi essenziali per il mantenimento
dell’immunità intestinale. Uno di questi, l’indolo -3- carbinolo, è responsabile del mantenimento dei linfociti intraepiteliali nell’intestino
(Li et al., 2011). Altri composti naturali derivati da frutta e vegetali
come il flavonoide quercetina (mele) e probabilmente il resveratrolo
(vino rosso) sono possibili ligandi di AHR, che quindi non solo è un
importante mediatore della risposta immune cellulare, ma anche un
sensore di nutrienti. È interessante notare che una dieta supplementata con tutti i nutrienti essenziali, ma priva di vegetali, non è
comunque sufficiente per mantenere una buona omeostasi della risposta immune intestinale nel topo (Kiss et al., 2011; Li et al., 2011).
Inoltre l’equilibrio tra reattività immune e tolleranza può essere direttamente regolato dai grassi della dieta (Veldhoen et al., 2012).
Gli acidi grassi saturi sono considerati pro-infiammatori, mentre
Alimenti e malattie infiammatorie croniche
Figura 1.
Sono rappresentati due modelli per l’attivazione della risposta immune regolata da PRRs (Pattern-Regognition Receptors).
A) Modello molecolare della risposta immune alle infezioni regolata dai PAMPs (Pathogen Associated Molecular Patterns), che possono essere
ligandi per il recettore Toll-like (TLR), il recettore NOD-like (NLR) e il Leucine rich alpha-2-glycoprotein 1 (LRG1). L’attivazione di questi recettori
porta alla produzione di citochine pro-infiammatorie con conseguente risposta infiammatoria e danno tissutale che porta al rilascio di DAMPs
(Damage Associated Molecular Patterns) – che agiscono sinergicamente con i PAMPs per indurre la riposta infiammatoria.
B) Modello molecolare della risposta immune al danno tissutale regolata dai DAMPs – che agiscono da ligandi per i recettori: TLR, NLR e LRG1
avviando una risposta infiammatoria, così detta sterile, che porta al danno tissutale.
quelli insaturi possono avere proprietà sia anti-infiammatorie che
pro-infiammatorie (Shi et al., 2006; Solinas et al., 2006; Wang et
al., 2006). Gli acidi grassi polinsaturi omega-3 e omega-6, oltre ad
essere i componenti essenziali delle membrane cellulari, sono i precursori delle prostaglandine, potenti regolatori della infiammazione.
Gli omega-3 esplicano azione anti-infiammatoria sostituendo gli
omega-6 nelle vie metaboliche che li vedono coinvolti. L’aumento
del rapporto omega-3 /omega-6 si realizza con l’aumentato consumo di pesce ed il ridotto consumo di oli vegetali. Un buon rapporto
omega-3 /omega-6 nella dieta ha effetti protettivi nei confronti di
molte patologie, incluse le malattie cardiovascolari, la aterosclerosi
e l’Alzheimer.
Alcuni grassi stimolano direttamente i TLR, legando così ancora una
volta tra di loro le vie metaboliche che sentono i nutrienti con quelle
che sentono i patogeni: per esempio, gli acidi grassi a media catena
insaturi e quelli saturi a lunga catena attivano il signaling di TLR2
e TLR4 nei macrofagi con conseguente secrezione di citochine pro
infiammatorie (Shi et al., 2006; Wang et al., 2006). Inoltre gli acidi
grassi insaturi attivano un’altra serie di recettori nucleari, i Peroxisome proliferator activated receptor (PPARs) (Forman et al., 1995;
Kliewer et al., 1995) nelle cellule T e nelle cellule dendritiche, promuovendo o inibendo l’infiammazione. La attivazione di PPAR delta
aumenta la risposta cellulare pro infiammatoria Th1 e Th17, che è
invece diminuita per attivazione di PPAR gamma (Faveeuw et al.,
2000; Dunn et al., 2010). I nutrienti, insomma, possono interagire
con l’epitelio intestinale e le cellule del sistema immune, esattamente come i virus, i batteri o altri fattori ambientali, attivando le stesse
vie di segnale cellulare ed in questo modo possono attivare o ridurre
l’infiammazione.
Gli alimenti possono influenzare l’infiammazione anche in
tessuti al di fuori dell’intestino
RORs, PPARs e AHR sono stati implicati nella disregolazione della
omeostasi dell’energia e di varie vie metaboliche, che hanno importanza nella patogenesi di diverse malattie, incluse le malattie
autoimmuni, l’asma, il cancro, la obesità. La vitamina A e D, i ligandi
di AHR, ed i lipidi che attivano PPAR gamma e LXR sono tutti stati
coinvolti in modelli e forme di autoimmunità (Veldhoen et al., 2012).
L’eccesso cronico di nutrienti e di calorie può indurre segnali di
stress intracellulare (per es. stress del reticolo endoplasmico), che
55
S. Auricchio, M.V. Barone
dall’intestino, per es. cellule Th17. Basti pensare alla infiammazione
di tessuti lontani dall’intestino nelle malattie infiammatorie croniche
intestinali e alla “infiammazione intestinale” del diabete di tipo 1
(vedi appresso).
I cereali e l’infiammazione intestinale
Figura 2.
Rappresentazione schematica dell’attivazione di un recettore nucleare
(AhR) da parte di un lingando (L). Il complesso ligando-recettore trasloca nel nucleo ed attiva la trascrizione. Nel caso del recettore AhR l’effetto biologico conseguente sarà la mediazione della risposta cellulare
ai contaminanti ambientali.
portano all’infiammazione dei tessuti, che è alla base della sindrome
metabolica e di altre condizioni patologiche (Osborn et al., 2012): è
ben noto che la resistenza all’insulina è il difetto alla base del diabete mellito di tipo 2 e che l’obesità è la causa più frequente di resistenza all’insulina. L’attuale epidemia di obesità nei paesi occidentali sta causando infatti una corrispondente epidemia di diabete di
tipo 2 (Osborn et al., 2012). La causa più importante della resistenza
all’insulina è proprio l’infiammazione di vari tessuti, probabilmente
generata da eccesso di nutrienti e stress del reticolo endoplasmico.
Lo stress del reticolo endoplasmico è uno dei meccanismi che lega
la risposta immune al sensing dei nutrienti nella patogenesi dell’arteriosclerosi (Hotamisligil, 2010a; Hotamisligil, 2010b).
Inoltre malattie infiammatorie in siti lontani dall’intestino possono
essere promosse dalla disseminazione dall’intestino di citochine
proinfiammatorie, come IL23 o TNF alfa o da cellule che migrano
Anche i cereali (ed in particolare il grano) possono causare infiammazione intestinale, per esempio nella celiachia. Il danno intestinale
da glutine (il complesso delle proteine alcool solubili del grano) nella
celiachia consiste nella infiammazione e nel rimodellamento della
mucosa, con appiattimento dei villi ed ipertrofia della cripte. Vi sono
due tipi principali di risposta infiammatoria ai peptidi del glutine nella celiachia (Gianfrani et al., 2008): vi è la risposta adattativa mediata da cellule T CD4+ ad alcuni peptidi: prototipo è il 33 mer della
A-Gliadina, resistente alla digestione gastrica, intestinale endoluminale e parietale. Il peptide viene deamidato ad opera della trasglutaminasi tissutale (tTG) e presentato dagli antigeni di istocompatibilità
di classe II, DQ2 e DQ8, alle cellule T CD4+, con risposta del tipo Th1,
mediata da gamma interferone e altre citochine proinfiammatorie.
Vi è poi la risposta, non mediata da cellule T, ad altri peptidi: prototipo il peptide 31-43 della A-gliadina (P 31-43) (Fig. 3).
Il P 31-43, che fa parte del peptide 31-55, anche esso resistente
alla digestione gastrica ed intestinale, provoca infiammazione con
meccanismi molteplici, il più noto dei quali consiste in una risposta
da stress/innata e proliferativa, mediata da EGF e IL15.
Il peptide P31-43 è anche un fattore di crescita per varie linee cellulari e per l’enterocita del celiaco, in quanto è in grado di attivare
il sistema EGF-EGFR (Barone et al., 2007), il più potente mitogeno
presente nel nostro organismo. La proliferazione degli enterociti delle cripte del celiaco indotta da gliadina (P31-43) è non solo
EGF dipendente, ma anche IL15-dipendente (Barone et al., 2011).
La proliferazione degli enterociti delle cripte e la risposta immune
innata alla gliadina del celiaco, sono regolate da una cooperazione
tra EGF e IL15 (Nanayakkara et al., 2013) (Fig. 4). Si viene così a
delineare una duplice azione della gliadina nell’induzione del danno
della mucosa dei soggetti celiaci. Da un lato la gliadina può attivare
la risposta T-mediata e dall’altro può indurre una risposta innata,
mediata dall’IL15, ed effetti proliferativi mediati dall’EGF. Gli effetti
congiunti di questa duplice azione inducono la lesione tipica della
mucosa celiaca.
Figura 3.
Rappresentazione schematica dei meccanismi di danno dei peptidi della gliadina per la mucosa intestinale dei soggetti celiaci.
56
Alimenti e malattie infiammatorie croniche
Figura 4.
Nell’enterocita la cooperazione tra IL15 ed EGF è mediata da un complesso dei due recettori (IL15R–alpha ed EGFR). Il signaling che parte
dal complesso dei due recettori può essere attivato sia da EGF che
da IL15, essendo ciascuno dei due in grado di stimolare ambedue i
recettori. Inoltre EGF ed Il15 inducono aumento dell’RNA messaggero
di IL15 ed EGF, rispettivamente, creando così un loop di attivazione che
si auto-incrementa. Il P31-43, capace di indurre proliferazione degli
enterociti ed attivazione il IL15 nella celiachia, aumenta il complesso
dei due recettori e la fosforilazione di ciascuno di essi con il relativo signaling a valle. Inoltre è in grado di aumentare la trascrizione dell’mRNA
di EGF ed IL15 e di aumentare sulla superficie cellulare il complesso
IL15/IL15 R alpha trans presentato (Barone et al., 2011; Nanayakkara
et al., 2013, b).
Resta da spiegare la maggiore suscettibilità del celiaco a queste particolari attività biologiche di alcuni peptidi della gliadina, in particolare del
P31-43. La figura 5 riassume quanto fino ad oggi noto sull’argomento.
Il traffico intracellulare delle vescicole di endocitosi regola l’endocitosi dell’EGFR e degli altri recettori, e numerose funzioni cellulari
e vie di signaling. Dopo legame dell’EGF al suo recettore EGFR, e la
attivazione di questo, il complesso EGF-EGFR è reclutato in vescicole di endocitosi ricoperte da clatrina e internalizzato negli early
endosomi e poi nei late endosomi e nel corpo multi vescicolare, per
essere poi o riciclato sulla superficie cellulare oppure trasportato
ai lisosomi, dove è degradato ed inattivato. È questo il principale
meccanismo di attenuazione del signaling dell’EGF: il complesso ligando-recettore continua a segnalare all’interno delle cellule, prima
della inattivazione nei lisosomi (Fig. 5A).
Nelle cellule (enterocita e fibroblasto) del celiaco il traffico vescicolare di EGF è alterato (Fig. 5B). In queste cellule vi sono infatti
alterazioni strutturali e funzionali del compartimento endocitico. In
particolare il traffico vescicolare del complesso EGF-EGFR è ritardato con accumulo di EGFR attivo negli early endosomi e attivazione
del signaling a valle di EGFR, con conseguente aumento della proliferazione degli enterociti (Nanayakkara et al., 2013, b). Queste alterazioni di base possono rappresentare, nei tessuti del celiaco una
condizione predisponente all’azione dannosa di alcuni peptidi della
gliadina, in particolare del P31-43. Infatti il P31-43/49 si localizza
nelle cellule dei soggetti normali negli early endosomi e ritarda il
traffico vescicolare probabilmente per interferenza con la localizzazione di Hrs sulla membrana degli endosomi (Hrs è una molecola
chiave nella regolazione della maturazione degli endosomi) (Barone
et al., 2011) (Fig. 5C).
P31-43 riproduce così nella cellula normale il fenotipo celiaco: le
stesse vie metaboliche influenzate dal P31-43 sarebbero già costitutivamente alterate nel celiaco, che risulterebbe pertanto più sensibile all’azione dannosa di questo peptide (Nanayakkara et al., 2013).
Un altro importante mediatore della risposta immune innata alla
gliadina nel celiaco è lo INFalfa (Monteleone et al., 2001), che è un
noto induttore della risposta proinfiammatoria Th1 alle infezioni virali. D’altra parte studi epidemiologici (sulla incidenza delle infezioni
da rotavirus nei celiaci), studi sperimentali (stimolazione del TLR3
induce nel topo enteropatia con attivazione di tTG) e di genetica (le
regioni genomiche che codificano per il TLR7, TLR8, IRF4 influenzano la suscettibilità alla celiachia) hanno dimostrato l’importanza
delle infezioni virali nella celiachia.
Il peptide P31-43 è capace infatti di indurre la produzione di INF alfa
nell’intestino del celiaco e nelle cellule CaCo2, nelle quali potenzia anche la produzione di INF alfa indotta dal ligando per il TLR7 (Barone et
al., dati non pubblicati). Ciò dimostra che gli alimenti possono giocare
un ruolo nei rapporti tra infezioni virali e malattie autoimmuni.
Un altro meccanismo con il quale il P31-43 può provocare infiammazione è quello di indurre stress del reticolo endoplasmico, con
liberazione da questo di calcio ed attivazione intra cellulare della tTG
(Caputo et al., 2012)
Ma il glutine e altre proteine del grano possono provocare danno
(infiammazione) intestinale ed extra intestinale anche in soggetti
non celiaci. Per esempio, nel topo, l’eliminazione del glutine dalla
dieta riduce l’aumento di grasso, la infiammazione dei tessuti e l’aumento della resistenza all’insulina provocati da eccesso di grassi
nella dieta (Soares et al., 2013). Inoltre una particolare frazione delle
albumine di grano, quella che inibisce l’alfa amilasi e la tripsina,
causa infiammazione intestinale per attivazione del TLR4 (Junker
et al., 2012). Il glutine stesso potrebbe rappresentare un fattore di
rischio anche in patologie diverse dalla celiachia, per esempio nel
diabete di tipo 1. È noto infatti che nei bambini con diabete insulinodipendente, non celiaci, vi sono segni di infiammazione dell’intestino
(Savilahti et al., 1999) (Westerholm-Ormio et al., 2003) e possibili
triggers di questa infiammazione sono virus e proteine alimentari
(Lefebvre et al., 2006).
Più in particolare segni di alterata risposta immune mucosale alla
gliadina sono stati evidenziati nel diabete di tipo 1 sia per challenge
rettale in vivo con peptidi del glutine (Troncone et al., 2003) che per
challenge in vitro della mucosa dell’intestino tenue con gli stessi
peptidi (Auricchio R et al., 2004).
Nell’insieme queste osservazioni suggeriscono che i cereali contenenti glutine non sono sempre dei “buoni” alimenti. Sorge forse
anche il quesito se i grani oggi utilizzati nell’alimentazione umana
siano più dannosi di quelli ancestrali, che l’uomo iniziò a coltivare
all’inizio del neolitico.
È possibile che l’aumento dell’incidenza della malattia celiaca (e di
altre intolleranze al glutine) sia da connettere all’aumento del consumo di glutine e alla qualità del glutine stesso presente nei cereali
della nostra dieta.
Probabilmente è da inquadrare in questo contesto la presunta intolleranza al glutine non celiaca (gluten sensitivity), che ha fatto
sviluppare una vera e propria moda delle diete prive di glutine in
molti paesi. Di fatto la letteratura scientifica su questo argomento
è contraddittoria e confusa. Mentre da un lato sono state descritte
condizioni patologiche che migliorano eliminando dalla dieta il glutine, dall’altra è stato dimostrato che i pazienti considerati “sensibli”
al glutine sono in realtà sensibili ai FODMAPS, oligosaccaridi non digeribili e fermentabili nell’intestino, presenti nella dieta con glutine.
(Shepherd SJ et al., 2013)
57
S. Auricchio, M.V. Barone
A
B
C
Figura 5.
Rappresentazione schematica della endocitosi recettore mediata.
A.Traffico dei recettori IL15 R alpha, EGFR e transferrina, all’interno delle cellule normali. I ligandi si legano ai rispettivi recettori sulla superficie
cellulare. I complessi ligando/recettore vengono internalizzati mediante un processo di endocitosi ed entrano in vescicole così dette “precoci”.
Gli endosomi precoci si formano ad opera di una proteina HRS che regola anche la maturazione degli endosomi da precoci in tardivi. Se HRS
non è correttamente localizzato sulla membrana degli endosomi precoci, tutto il trafficking vescicolare è alterato. IL15 e transferrina entrano nel
compartimento vescicolare di riciclaggio ed in questo modo sono riportati in membrana. I recettori a tirosina kinasi come l’EGFR vengono solo
parzialmente riciclati mentre il loro destino principale è quello di essere trasportati nei compartimenti vescicolari tardivi fino ad essere degradati
nei lisosomi. È interessante notare che questi recettori quando sono nel compartimento precoce possono ancora segnalare all’interno della
cellula. Questi fenomeni di trasporto all’interno delle cellule regolano la durata dell’attivazione dei recettori, regolando processi fondamentali
per la funzione cellulare, quali attivazione dell’immunità innata, proliferazione, regolazione del citoscheletro di actina, motilità e permeabilità.
Alterazioni della maturazione degli endosomi possono, quindi, compromettere la funzionalità della cellula in molti modi diversi.
B.Traffico dei recettori IL15 R alpha, EGFR e trasferrina, all’interno delle cellule dei soggetti celiaci. Le cellule dei soggetti celiaci presentano
alterazioni constitutive del trafficking vescicolare. In particolare in questi soggetti la maturazione degli endosomi precoci in tardivi è rallentata,
con conseguente aumento di recettori riciclati in membrana e ridotta degradazione dell’EGFR. Le conseguenze biologiche di queste alterazioni,
a livello dell’epitelio intestinale, consistono in un aumento della proliferazione, della permeabilità ed alterazioni del citoscheletro.
C.Effetto del peptide P31-43 sul traffico vescicolare dei recettori IL15 R alpha, EGFR e transferrina, all’interno delle cellule. Il peptide P31-43 a causa
di una omologia di sequenza con HRS interferisce con la sua corretta localizzazione a livello degli endosomi precoci, con conseguente rallentamento
della maturazione degli endosomi da precoci in tardivi, prolungata attivazione di EGFR, aumento di transferrina in membrana di IL15 trans-presentata. Le principali conseguenze biologiche a livello degli enterociti dell’alterato trafficking di questi recettori sono un aumento della proliferazione, una
alterazione della permeabilità, alterazioni del citoscheletro da un lato e dall’altro un incremento della risposta immune innata.
La prevenzione
In conclusione due aspetti principali di interesse pediatrico, della
prevenzione dei danni da infiammazione dovuta ad alimenti vanno
segnalati.
Il primo riguarda la necessità di svezzare il lattante a dieta mediter-
58
ranea: uno degli scopi del divezzamento dovrebbe essere quello di
fare sviluppare il gusto del bambino per alimenti della nostra tradizione alimentare. Si sa infatti che lo sviluppo del gusto per alimenti
dipende dalle esperienze fatte dal lattante per sapori, derivati dalla
dieta materna, in utero o durante l’allattamento al seno o per in-
Alimenti e malattie infiammatorie croniche
gestione degli alimenti stessi nei primi mesi di vita extra uterina
(Vereijken et al., 2011). I lattanti che si svezzano da soli alla dieta
degli adulti imparano in ogni caso a regolare l’assunzione di cibo in
modo da raggiungere un indice di massa corporea più giusto ed una
maggiore preferenza per cibi “sani” (per esempio, per carboidrati
complessi) rispetto a lattanti svezzati in modo tradizionale (Towsend
et al., 2012).
Va anche sviluppata la ricerca di alimenti che siano “poco infiammatori” (grani, per esempio) da utilizzare fin dalle prime epoche della
vita. È allo studio la possibilità di utilizzare nella alimentazione umana grani ancestrali (monococchi) con ridotta capacità di provocare
infiammazione (e celiachia?). Un monococco coltivato in Italia si è
rivelato non essere capace di attivare in vitro la risposta immune
innata al glutine nell’intestino del celiaco: resta naturalmente da dimostrare se a ciò corrisponde una ridotta capacità di indurre la celiachia in soggetti geneticamente predisposti (Gianfrani et al., 2012).
Inoltre è stato del tutto recentemente dimostrato che le gliadine di
monococchi contengono epitopi per le cellule T della mucosa intestinale del celiaco più facilmente digeribili ad opera degli enzimi intestinali di quelli presenti in grani esaploidi (Mamone: comunicazione
personale). Anche la risposta TC mediata del celiaco ai monococchi
potrebbe perciò rimanere al di sotto della soglia di stimolazione, al
di sopra della quale la risposta immune provoca celiachia in soggetti
geneticamente predisposti.
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
Nell’intestino e in particolare negli enterociti, i nutrienti sono modulatori di varie funzioni cellulari e possono essere coinvolti nella risposta immunitaria e
nell’infiammazione tessutale. Studi epidemiologici hanno associato l’aumento dei disordini infiammatori cronici alla diffusione della cosi detta “Western
diet”, considerata un fattore di rischio per le malattie infiammatorie croniche ed il cancro. La dieta mediterranea è invece sempre più considerata la
dieta stantard per la salute dell’uomo essa infatti riduce il rischio di malattie cardiovascolari, cancro, Alzheimer, Parkinson e morte prematura in genere.
Un esempio di risposta infiammatoria e rimodellamento dell’intestino alle proteine alimentari è la lesione del piccolo intestino nella Malattia Celiaca,
che è indotta dal glutine- una proteina alimentare presente nel frumento e altri cereali.
Che cosa sappiamo adesso
I nutrienti possono interagire con l’epitelio intestinale e le cellule del sistema immune, esattamente come i virus, i batteri o altri fattori ambientali, attivando le stesse vie di segnale cellulare ed in questo modo possono modulare l’infiammazione.
Lo studio degli eventi precoci della malattia celiaca e in particolare dell’interazione fra i peptidi indigeriti della gliadina e le cellule epiteliali intestinali ha
rivelato che il cosiddetto peptide “tossico” (P31-43) della gliadina condivide una omologia di sequenza con un mediatore chiave della maturazione degli
endociti da precoci (early) in tardivi (late), lo HRS (Hepatocytes-growth factor-Regulated -Substrate-kinase): il peptide P31-43 interferisce infatti con la
funzione di HRS, alterando il traffico vescicolare: il P31-43 induce così almeno due effetti principali (mediati da EGF e IL15), cioè la proliferazione degli
enterociti delle cripte e la risposta immunitaria innata. È probabile che alterazioni costitutive del compartimento endocitico possano rappresentare, nei
tessuti del celiaco, una condizione predisponente all’azione dannosa di alcuni peptidi della gliadina, in particolare del P31-43.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Appare raccomandabile svezzare il bambino alla dieta mediterranea, favorendo lo sviluppo del gusto del lattante per gli alimenti che caratterizzano
tale dieta.
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Corrispondenza
Salvatore Auricchio, Professore Emerito di Pediatria, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Laboratorio Europeo per lo Studio delle Malattie
indotte da alimenti (ELFID), via S. Pansini 5, 80131 Napoli. E-mail: salauric@unina.it
60
Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 61-68
tavola rotonda
Pediatria, Neuropsichiatria Infantile
e Neurologia Pediatrica. Problemi attuali di
assistenza e ricerca
Tavola Rotonda
“Recenti Progressi in Neurologia Infantile: dalla ricerca alla Clinica”, Convegno organizzato dalla Fondazione Pierfrancesco e Luisa Mariani (Milano, Università Statale, 26-27
settembre 2013)
A cura di Fabio Sereni
Fabio Sereni (Milano): Sono ben lieto di moderare, con Ermellina Fedrizzi, questa Tavola Rotonda, organizzata
dalla Fondazione Mariani in un convegno dedicato a recenti progressi in neurologia infantile1.
Non è affatto usuale tenere una Tavola Rotonda su un problema di politica sanitaria in un convegno dedicato
alla formazione, seppure ad alto livello. Ma ho pensato che fosse una occasione da non perdere, per discutere
un annoso problema istituzionale e sanitario quale è il difficile rapporto tra neuropediatria e neuropsichiatria
infantile, avendo qui riunite tante significative personalità della pediatria italiana.
Ringrazio in particolare i presidenti delle società scientifiche per avere accettato l’invito di partecipare a queProfessore Emerito
di Pediatria, Università sta Tavola Rotonda. È vero che la collaborazione professionale, e la stima, tra neuropediatri e neuropsichiatri
infantili non è mai mancata, ma sul piano istituzionale-culturale, e anche su quello della programmazione
degli Studi di Milano
assistenziale, non vi è stato finora colloquio. Due mondi, all’interno della pediatria, per molti versi separati.
Da un lato la neuropsichiatria infantile, con i numerosi qualificati servizi clinici e la sua consolidata ricerca clinica (mi piace qui
ricordare la Stella Maris di Pisa e le Unità di Neuropsichiatria Infantile dell’Istituto Besta), dall’altro i neuropediatri della Società
Italiana di Neurologia Pediatrica affiliata alla SIP, operanti in policlinici pediatrici e in cliniche universitarie (dal Bambino Gesù
al Gaslini, come in tante altre istituzioni).
Da sempre, come clinico pediatra, ho molto sofferto per questa separazione. Questo mio disappunto è forse, oggi, ancora più
accentuato di ieri, in quanto è sempre più evidente che l’avvenire della moderna pediatria è condizionato dall’esistenza e dal
successo delle specializzazioni pediatriche, e nessuno può negare che la neuropediatria sia, tra le specializzazioni pediatriche,
una delle più rilevanti.
La discussione, in questa Tavola Rotonda, consisterà in due parti. Nella prima i presidenti delle società scientifiche ci dovranno
dire cosa pensano dell’attuale situazione e come immaginano possano essere migliorati nel prossimo futuro i rapporti istituzionali tra neuropsichiatria infantile e neuropediatria.
Nella seconda parte della Tavola Rotonda abbiamo chiamato a testimoniare illustri clinici per dirci dei vantaggi e degli svantaggi che nelle loro esperienze sono derivati dall’operare in contesti clinici tra loro molto diversi, come indubbiamente sono i
grandi policlinici pediatrici (Bambino Gesù, Gaslini, Meyer) o le istituzioni monospecialistiche (Stella Maris, Istituto Besta) o,
ancora ospedali universitari (Brescia).
Spero, concludendo questo mio breve commento introduttivo che questa Tavola Rotonda, sia non solo il primo importante
momento di incontro istituzionale, ma anche occasione per proposte concrete di collaborazione futura tra neuropsichiatria
infantile e neuropediatria.
Le parole ora ai presidenti delle società scientifiche.
In ordine alfabetico, per primo la parola spetta a Giovanni Corsello, presidente della Società Italiana di Pediatria (SIP).
61
a cura di Fabio Sereni
Giovanni Corsello (Palermo): Vorrei inquadrare il problema dei rapporti tra neuropsichiatria
infantile e neuropediatria non solo nel più vasto
ambito del problema delle specialità pediatriche,
ma anche alla luce delle necessità del bambino
e del suo benessere nella società.
Vorrei anche inquadrare il tema specifico che
Presidente Società
oggi ci viene qui proposto nel quadro delle proItaliana di Pediatria
blematiche più generali dell’area pediatrica, che
(SIP)
va dal concepimento all’adolescenza, con tutte le
conseguenti necessità assistenziali e di ordine specialistico che devono essere programmate ed erogate, particolarmente oggi in epoca
di carenza di risorse finanziarie.
Medici dell’area pediatrica sono sia il pediatra, come il neuropsichiatra infantile. Condividiamo quindi, in questa ottica, obiettivi comuni: dobbiamo insieme pretendere che vi siano percorsi immaginati e messi in atto con l’obiettivo di difendere e garantire il bambino
e l’adolescente.
Vi sono oggi tutta una serie di aree assistenziali in cui si svolgono le attività del pediatra, dalle cure intensive neonatali alla salute
mentale dell’adolescente, al follow-up delle malattie croniche. Sono
tutte aree che fino a poco tempo fa non esistevano, ma che oggi
necessitano di percorsi dedicati.
Come è organizzata, in Italia, il sistema di cure del bambino? Esiste
l’area delle cure primarie, affidata al pediatra di famiglia, esiste l’area delle cure ospedaliere, affidata ai molti reparti di pediatria degli
ospedali generali e ad alcuni policlinici pediatrici, e poi vi sono le
specialità pediatriche. È lo stesso modello che esiste in tutti i paesi
d’Europa, anche se in quasi tutti le cure primarie non sono affidate
al pediatra di famiglia. Si sente oggi particolarmente la necessità di
integrare la pediatria generale con quella specialistica.
Il pediatra è colui che per primo monitorizza deviazioni dalle norma di funzioni neurologiche o cognitive, e deve quindi coinvolgere,
prima possibile, lo specialista. Ma è frequente anche la necessità
inversa, e cioè che lo specialista abbia necessità di ricorrere al pediatra generalista per le diverse patologie organiche che il bambino
con patologia neurologica o cognitiva può avere.
Bisogna quindi assolutamente aumentare il livello di integrazione tra
neuropsichiatria infantile, neurologia pediatrica e pediatria generale,
a tutti i livelli, da quello formativo a quello assistenziale.
Ricordo un noto neuropsichiatra infantile affermare, molti anni orsono, quando io ero ancora specializzando, che ogni neuropsichiatra
infantile doveva essere stato prima pediatra. Vi è qualche verità in
questa affermazione, anche se non credo che la questione sia stata
ben posta in questi termini. Il vero problema è la integrazione, innanzitutto a livello formativo, a partire dalle scuole di specializzazione.
Non penso che nella situazione attuale vi sia la possibilità di varare nuove scuole di specializzazione con nuovi indirizzi, se non altro
per motivi finanziari. Per la pediatria ciò potrebbe anche risultare un
vantaggio, e porsi come un freno alla frammentazione della nostra
disciplina. Ricordo, a questo riguardo che non esistono oggi possibilità di attivazione di concorsi ospedalieri riservati alle specialità
pediatriche. Malgrado le difficoltà odierne, sussiste la necessità di
garantire i percorsi della formazione pediatrica sub specialistica
come garanzia dei livelli di salute dei bambini, in particolar modo dei
bambini con malattie croniche e ad alta complessità assistenziale.
Come Società Italiana di Pediatria siamo molto coscienti che vi sia
oggi un concreto, grave pericolo. Quello che prevede la confluenza
delle specialità pediatriche d’organo nell’analoga specialità dell’adulto, provvedimento che potrebbe essere giustificato dalla riduzione del numero di specializzandi. Per ovviare a questo pericolo abbia-
62
mo proposto che si introducano, in armonia con il curriculum delle
scuole di specialità in pediatria, dei sistemi di formazione sub specialistici accreditati dalle società scientifiche con il riconoscimento
istituzionale. Si tratta di identificare una sorta di Syllabus per i vari
settori, e cioè un corpus di competenze necessario per ciascuna
delle specialità pediatriche, che definisca le nozioni e gli skills che
il pediatra deve possedere per svolgere le funzioni cliniche di “specialista”, soprattutto a livello ospedaliero. In altre parole, vorremmo
che si giungesse a una certificazione di competenze specialistiche
riconosciute, anche in ambito ministeriale, in grado di corrispondere
alle necessità assistenziali delle varie aree.
Fabio Sereni: Grazie presidente Corsello. Vorrei sottolineare due
punti della tua relazione, perché mi sembrano non solo importanti ma anche di “apertura”. Innanzitutto Corsello ha detto
che le specialità pediatriche sono tante, ma la neurologia e la
neuropsichiatria infantile sono particolarmente importanti. Non
tutte le specialità pediatriche hanno la stessa valenza clinica
di alta specializzazione. In secondo luogo è stata sottolineata la necessità di potenziare la neuropsichiatria infantile nelle
nostre strutture sanitarie. Ma Corsello ha anche accennato al
fatto che le attuali normative concorsuali e organizzative ospedaliere non contemplano le specialità pediatriche e ha proposto l’introduzione di Syllabus ufficialmente riconosciuti. Vorrei
fare presente, a questo proposito, che già oggi alcuni servizi
ospedalieri specialistici hanno una ben riconosciuta collocazione nel servizio sanitario nazionale. Ricordo la legge che ha
istituito unità operative complesse per la cura della fibrosi cistica in ogni Regione. Inoltre esistono disposizioni ministeriali
che indicano la necessità di centri di nefrologia pediatrica per
ogni determinato numero di abitanti. Lo stesso vale per il diabete infantile. Non sono questi riconoscimenti “non formali” ma
effettivi di specializzazioni pediatriche? La parola spetta ora a
Bernardo Della Bernardina, presidente della Società Italiana di
Neuropsichiatria Infantile (SINPIA)
Bernardo Dalla Bernardina (Verona): Vorrei iniziare il mio discorso dal concetto di area pediatrica che Corsello ha trattato nella prima parte della
sua relazione, concetto che condivido. E condivido
anche ovviamente la sottolineatura dell’importanza della patologia dello sviluppo neuropsichico
nell’ambito dell’area pediatrica. Ricordo che circa
Presidente
il 20% delle patologie pediatriche riguarda le noSocietà Italiana di
stre competenze, riguarda cioè la neuropsichiatria
Neuropsichiatria
infantile. Per questa patologia scindere la compodell’Infanzia e
Adolescenza (SINPIA) nente neurologica da quella psichiatrica è un “artefatto”. Spesso queste patologie si manifestano con
sintomatologie specifiche di determinate funzioni
d’organo, neurologiche o comportamentali, ma nella stragrande maggioranza dei casi evolvono, non si complicano, in condizioni neuropsichiche complesse.
Da ciò derivano, a mio parere, due considerazioni:
La prima è la necessità, per il medico curante, di possedere nozioni adeguate di come le forme morbose evolvono, di comprendere i
meccanismi che condizionano l’evoluzione patologica, la seconda è
di prenderne atto con una presa in carico clinica adeguata.
Ma lo specialista neuropsichiatra infantile deve anche tenere conto
che queste condizioni patologiche di nostra competenza evolvono
condizionate da una interazione con l’ambiente, che ne condiziona/
determina la prognosi. Conseguentemente è necessario garantire la
Pediatria, Neuropsichiatria Infantile e Neurologia Pediatrica. Problemi attuali di assistenza e ricerca
continuità territoriale della presa in carico del bambino con queste
patologie.
Perché ho desiderato sottolineare queste particolarità? Perché anche se la neuropsichiatria italiana è una singolarità rispetto ad altre
realtà europee, penso che sia una disciplina, certamente all’interno
dell’area pediatrica, ma specificatamente deputata a questo tipo di
cultura e a queste importanti necessità assistenziali.
Ancora: riconosco che l’attenzione per molte nozioni di patologia
neurologica può essere carente nell’attuale cultura neuropsichiatrica
infantile, ma d’altra parte si deve anche ammettere che nella cultura
pediatrica la neurologia non ha, molte volte, uno spazio adeguato.
In conclusione penso vi siano molte buone ragioni per sostenere che
accanto alla pediatria, all’interno dell’area pediatrica, la neuropsichiatria infantile svolga un ruolo importante.
Vorrei ora rispondere alla domanda di Sereni di come ho vissuto la
separazione tra neuropsichiatria infantile e pediatria (o, se volete
neuropediatria), e quali secondo me sono state le conseguenze negative o positive. Devo confessare che non ho mai vissuto “male”
questa separazione. Penso anche che la separazione non sia nata
da una volontà ostile, credo che non debba essere considerata un
problema, sono convinto che debbano essere trovate modalità per
evitare che si creino situazioni “schizofreniche”. A questo proposito
è cosa buona che la neuropsichiatria infantile sia tornata nell’area
pediatrica, per quanto riguarda le carriere universitarie e i problemi
assistenziali, mentre penso debba essere corretto il fatto che la specializzazione in neuropsichiatria infantile sia ancora, formalmente,
nel tronco comune delle neuroscienze.
Del resto anche la Società Italiana di Neuropediatria non è nata in
conflitto con la neuropsichiatria, come Pavone e Fois qui presenti
sicuramente ricordano, e anche oggi non siamo certamente in conflitto. Abbiamo fatto anche percorsi comuni, congressi congiunti, e
anche ipotizzato una federazione. Auspico, fortemente per il futuro
un potenziamento di queste convergenze. Vi è ad esempio sul tappeto l’ipotesi di masters comuni per pediatri e neuropsichiatri infantili,
con conseguente possibilità di potenziamento della cultura pediatrica per chi viene dalla neuropediatria e di quella neurologica per chi
viene dalla neuropsichiatria.
Stiamo vivendo un momento difficile, dobbiamo uscirne tenendo
presente che la storia è fatta dagli uomini, che devono trovare accordi e superare conflitti personali.
Ma qui usciamo dai temi di questa Tavola Rotonda e mi fermo.
Fabio Sereni: Grazie, Dalla Bernardina, per l’equilibrio e la profondità delle tue argomentazioni. Ha chiesto ora la parola Ermellina Fedrizzi. Subito dopo Carlo Minetti concluderà questa
prima serie di interventi
Ermellina Fedrizzi (Milano): Ringrazio Bernardo Dalla Bernardina, anche perché condivido
al cento per cento quanto ha appena detto. Se
Sereni si definisce un vecchio pediatra, io sono
una vecchia neuropsichiatra infantile. Nel corso
della mia lunga carriera ho potuto tante volte
constatare l’importanza di non separare mai, soprattutto nel bambino piccolo, le problematiche
Fondazione P. e L.
Mariani, Milano
neurologiche da quelle psichiatriche, che sono
strettamente connesse. Ma vorrei anche sottolineare il grande problema culturale della neurologia dello sviluppo,
che è stato portato avanti in Italia dapprima al Besta e poi anche a
Pisa alla Stella Maris, con lo studio sia della normalità dello sviluppo
come della riorganizzazione delle funzioni dopo determinate lesioni,
settore questo della riabilitazione oggi di grande attualità. Anche per
questo aspetto è molto importante che la neuropsichiatria italiana
mantenga e sviluppi le sue capacità cliniche e assistenziali.
Carlo Minetti (Genova): Vorrei partire dalla domanda di Sereni che ci ha chiesto in prima istanza
di dirci come abbiamo vissuto la separazione tra
neuropsichiatria infantile e neuropediatria. Concordo con Dalla Bernardina. Non è, in effetti, che
prima fossimo uniti e che poi sia avvenuta una separazione. No, la neuropediatria è stata il frutto di
Presidente Società
uno sviluppo autonomo, spontaneo e necessario,
Italiana di Neurologia
nell’ambito della Società Italiana di Pediatria.
Pediatrica (SINP)
Desidero in primo luogo sottolineare che considero la neuropsichiatria infantile, specificità molto italiana, esperienza senza dubbio utile, come è utile partendo da una solida cultura
pediatrica una formazione specialistica in neuropediatria. Io stesso
mi sono specializzato prima in pediatria e poi in neuropsichiatria
infantile.
Ma non possiamo pretendere che un giovane medico ripeta oggi la
nostra esperienza, che avrebbe una durata di ben 10 anni dopo la
laurea.
Vorrei a questo punto aggiungere che non è contestabile, a mio
parere, la complementarietà della neuropediatria con la psichiatria
infantile.
Detto questo desidero però sottolineare che le necessarie competenze specialistiche sono oggi talmente sviluppate che ne consegue
che sia indubbio che non vi possa essere competenza “globale” in
neuropediatria e in neuropsichiatria infantile, soprattutto a livello
ospedaliero. Come può un medico che si occupa di epilessie genetiche o di encefalopatie mitocondriali fornire pareri utili e iperspecialistici al pediatra che chiede consiglio come curare un bambino con
disturbi del comportamento?
Ognuno di noi partecipante a questa Tavola Rotonda ha una sua specializzazione, pur partendo noi tutti dallo stesso tronco comune culturale.
Dobbiamo quindi, io credo, arrivare al riconoscimento di ruoli iperspecialistici nell’ambito della neurologia e della neuropsichiatria
pediatrica.
Fabio Sereni: L’iperspecialità della subspecialità?
Carlo Minetti: Forse, almeno in ambito ospedaliero, proprio si. Ma
mi accontenterei di meno. Voi tutti sapete, e oggi è già stato detto,
che la neurologia pediatrica italiana non è riconosciuta in Europa a
livello accademico e ospedaliero. In altre parole se esiste un posto
vacante di neuropediatria in un ospedale francese un pediatra italiano esperto in neuropediatria non ha alcuna possibilità di concorrere,
a meno che non acquisisca un curriculum in Europa in tale settore.
Io credo quindi che il problema fondamentale sia oggi giungere a un
processo formativo che porti al riconoscimento europeo della neurologia pediatrica italiana. Se ottenessimo questo risultato vi sarebbe anche un vantaggio economico, perché oggi a livello europeo la
mancata specializzazione italiana in neuropediatria comporta anche
il non riconoscimento di prestazioni ospedaliere neuropediatriche.
Come questo problema può essere superato?
Ne parleremo nella seconda parte di questa Tavola Rotonda, ma vorrei
anticipare che potrebbero essere creati masters ad hoc o, in alternativa, indirizzi specifici nel curriculum della specialità di pediatria.
Concludo con una nota sulla necessità che il neuropediatra abbia
una solida base culturale pediatrica. Il neuropediatra non deve solo
saper riconoscere e curare le convulsioni febbrili, ma deve anche
63
a cura di Fabio Sereni
curare la febbre. E ai neuropsichiatri infantili dico che dobbiamo noi
tutti puntare, come obiettivo primario, a una formazione culturale
per i giovani nell’ambito della medicina dell’età evolutiva, con la
sottolineatura che non vi è assolutamente, né da parte dei pediatri
come dei neuro pediatri, la volontà di imporre alcun schema culturale prefissato.
Fabio Sereni: Grazie signori presidenti. Siamo tutti colombe, qui
non ci sono falchi. Non vi è quindi bisogno di alcuna conciliazione, ma solo di fare nel prossimo futuro passi avanti nella
collaborazione. È tempo ora di passare alla seconda parte di
questa discussione tra presidenti, e di sentire come ognuno di
voi pensa si possano superare, in tempi accettabili, le difficoltà
e le carenze segnalate.
Giovanni Corsello: Penso che questa Tavola Rotonda sia stata molto utile. Possiamo costruire una prospettiva nuova.
Abbiamo condiviso la centralità del bambino, che accomuna i nostri
propositi nell’agire in tema di neuroscienze pediatriche. Dobbiamo
lavorare affinché l’integrazione delle nostre competenze e attività
sia sempre maggiore.
Alcuni esempi. Il tronco comune, che già esiste nelle due scuole di specializzazione, dovrà essere condiviso e valorizzato, perché ciò rafforzerà
l’area pediatrica nella sua globalità. Dobbiamo cercare e individuare
altri percorsi comuni di formazione che abbiano al centro la neurologia pediatrica. Penso, ad esempio, a un master integrato specialistico,
riconosciuto ufficialmente, anche perché mi sembra poco probabile che
siano nel prossimo futuro approvati dal Ministero nuovi indirizzi di specializzazione, di cui Carlo Minetti ha auspicato la creazione.
Ogni impegno comune, sia sul piano culturale-formativo come su
quello assistenziale, tra neuropediatri e neuropsichiatri infantili, va
incoraggiato.
Fabio Sereni: Si, va bene. Ma vorrei proposte più concrete, da
attuare in tempi brevi.
Giovanni Corsello: Sarebbe importante creare una task-force come
strumento.
Oltre a questo io credo che si debbano collegare tra loro le società
scientifiche dell’area pediatrica. Dobbiamo pensare a una sorta di
Federazione unica che dia un segnale forte alle istituzioni, e cioè a
una voce unica che rappresenti l’area pediatrica.
La proposta che la Società Italiana di Pediatria (SIP) fa qui oggi è
questa: creare una struttura federativa operativa in tempi brevi.
Fabio Sereni: Come promotore di questa Tavola Rotonda suggerirei che per iniziare non fosse una federazione di tutte le società scientifiche pediatriche, ma che si iniziasse con il federare
la Società Italiana di Pediatria con la Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA). Ma tu,
Bernardo Dalla Bernardina, come rispondi a questa proposta?
Bernardo Dalla Bernardina: Devo continuare a fare la colomba?
Non possiamo, progettando una futura collaborazione, puntare contemporaneamente a più obiettivi, assistenziali, formativi, accademici. Si eliderebbero a vicenda.
L’Italia non è l’unico paese d’Europa in cui non esiste una specializzazione medica in neurologia pediatrica. Il problema a mio parere è
più semplice, è come arrivare al riconoscimento di una formazione
specialistica neuropediatrica.
È vero che lo specializzando della mia scuola può andare a lavorare,
in Europa, come psichiatra infantile, ma ha molte più difficoltà a
lavorare come neuropediatra, anche se ciò non è impossibile.
64
Ad esempio se vorrà lavorare in Francia, dovrà fare lo stesso percorso formativo che fanno i pediatri francesi, e cioè master di primo
livello, master di secondo livello, oppure dovrà lavorare per un tempo adeguato sotto la supervisione di un riconosciuto neuropediatra
locale.
Le possibilità, quindi, di lavorare oltre confine come neuropediatra ci
sono (anche senza specializzazione in Italia).
L’ipotesi di creare un curriculum formativo riconosciuto a livello
europeo, e certificato con crediti una volta accertate determinate
competenze, è oggi, purtroppo, fermo. D’altra parte è anche vero
che la direzione di una unità operativa ospedaliera di neuropediatria
può oggi essere affidata in Italia, sia a un pediatra come a un neuropsichiatra infantile.
Non andiamo da nessuna parte se ci proponiamo di mutare, oggi,
questa situazione con nuove normative. Né io credo sia la cosa più
urgente.
Io credo sia più saggio iniziare con l’ipotesi di Corsello di una Federazione, evitando di affrontare subito i problemi accademici e formativi.
Federazione tra la Società di Neurologia Pediatrica (SINP) e la Società di Neuropsichiatria Infantile (SINPIA), anche se questa sarebbe
una Federazione “anomala”, in quanto tra una società specialistica
di pediatria e una disciplina pediatrica autonoma. Ma io credo che
questo sarebbe un inizio molto positivo sotto l’aspetto culturale.
Fabio Sereni: Se ho ben capito Bernardo Dalla Bernardina aderisce alla proposta Corsello, ma pone l’accento sulla necessità
di una “gradualità” di attuazione, iniziando con un patto federativo tra SINP e SINPIA, rimandando a tempi successivi quello
tra SIP e SINPIA.
Carlo Minetti: Sono d’accordo con entrambi gli interventi. Ritengo
che una Federazione, anche allargata, sia molto utile ma non credo
che questo sarà lo strumento che risolverà tutti i problemi. Io credo
che sia molto importante istituire presto un tavolo tecnico, che Corsello ha chiamato task-force, con la presenza di tutte e tre le società
scientifiche. Questo tavolo tecnico dovrebbe avere il compito, finale, di ottenere un riconoscimento della neurologia pediatrica come
specialità e definire nel frattempo un curriculum formativo preciso.
L’obiettivo immediato della task-force dovrà essere il coordinamento
delle attività culturali.
Fabio Sereni: La prima parte della Tavola Rotonda si conclude
qui. Da quanto ho inteso, a me sembra realistico chiedere che
sia al più presto istituita la task-force, con propositi soprattutto
culturali formativi, iniziativa per la quale vi è stato oggi, io credo,
unanime consenso. Passiamo ora a discutere, dopo gli aspetti
normativi-istituzionali, quelli assistenziali. Sono qui presenti al
tavolo cinque illustri personalità della neuropediatria, personalità che operano in istituzioni ospedaliere tra loro molto diverse.
Enrico Bertini e Renzo Guerrini dirigono importanti servizi clinici
in grandi policlinici pediatrici (Bambino Gesù e Meyer), Giovanni
Cioni e Nardo Nardocci sono responsabili di unità operative in
enti monospecialistici (Stella Maris e Istituto Besta), infine Elisa
Fazzi lavora come responsabile della neuropsichiatria in un grande ospedale convenzionato con l’Università (Brescia). A ognuno
di questi personaggi chiedo di commentare e discutere vantaggi
e svantaggi di lavorare in contesti ospedalieri così differenti, sia
dal punto di vista culturale che assistenziale, ben conscio che
non sarà sicuramente semplice giungere a indicazioni in senso
operativo-migliorativo. Tuttavia io penso che quanto gli illustri
clinici diranno potrà, anzi dovrà essere attentamente considerato
Pediatria, Neuropsichiatria Infantile e Neurologia Pediatrica. Problemi attuali di assistenza e ricerca
da quanti, politici e amministratori, hanno il compito della conduzione e programmazione ospedaliera. La parola per primo (in
ordine alfabetico) a Enrico Bertini.
Enrico Bertini (Roma): Lavoro in un grande
ospedale policlinico pediatrico IRCCS e mi occupo di sviluppare la Medicina Traslazionale
nell’ambito della Malattie Rare e in particolare
delle malattie neuromuscolari e neurodegenerative. Obiettivo principale della disciplina è quella
di poter sviluppare protocolli innovativi per ricoOspedale Pediatrico
struire la storia naturale di malattie neurogeneBambino Gesù, Roma
tiche e per trovare nuove terapie. Tutto questo
lavoro molto specialistico, che si adatta bene a una società sviluppata come l’Italia, è possibile svolgerlo solo in un grande policlinico pediatrico, quale è l’Ospedale Bambino Gesù. In tale struttura la
disciplina della neuropsichiatria svolge un ruolo diverso dalla neurologia, e io posso personalmente operare in una terza struttura di
neurogenetica dedicata alle malattie neuromuscolari e malattie neurodegenerative sviluppando diagnostica genetica, studiando modelli
cellulari e potendo tradurre rapidamente le acquisizioni del laboratorio nella pratica clinica. La complessità di tali percorsi è garantita dal
fatto che opero in un ospedale policlinico pediatrico che fa parte del
network italiano degli istituti di ricerca e di cura a carattere scientifico. Il vantaggio di operare in un policlinico pediatrico per lo sviluppo
della complessità assistenziale e di ricerca è ovvio. È possibile in
questa ampia scomposizione del lavoro medico poter approfondire
sempre più le mille sfaccettature delle malattie genetiche. Avverto
tuttavia che la carenza maggiore è ancora la scarsa sensibilità, e
conseguentemente lo scarso sviluppo sul nostro territorio nazionale,
in particolare per il centro sud, di sviluppare l’offerta di centri multispecialistici per il follow-up delle malattie neuromuscolari e per le
malattie rare in generale. Abbiamo costituito un centro coordinatore per le malattie rare sul territorio nazionale, le Regioni anch’esse
stanno sviluppando centri regionali di riferimento per le malattie
rare (molte Regioni per ora si limitano a fare censimenti annuali e
hanno costituito i centri per le malattie rare ma complessivamente
esiste una scarsa visione sulle reali necessità che le malattie rare
impongono all’organizzazione sanitaria). Il nodo principale che bisogna organizzare è la creazione di centri e visite periodiche multispecialistiche per il follow-up delle malattie rare. Alcune esperienze
stanno sorgendo per volere di Telethon, che si batte con una visione
anticipatoria per lo sviluppo della medicina traslazionale, come i
centri NEMO, ma tali esperienze vanno moltiplicate perché i centri
multispecialistici per le malattie rare sono una condizione necessaria per la conoscenza oggi della storia naturale delle malattie e
domani per lo sviluppo delle terapie future. La creazione di centri
multispecialistici e multidisciplinari ricevono la resistenza all’interno
dei singoli istituti, perché complicano la contabilizzazione e monitorizzazione amministrativa interna, e ricevono altresì resistenza dalle
Regioni, perché temono un iniziale esborso di maggiori risorse, ma
certamente queste verrebbero recuperate con una maggiore razionalizzazione della spesa sanitaria con la creazione di centri esperti a
livello nazionale per specifiche malattie.
Fabio Sereni: Comprendo il tuo disappunto di non poterti compiutamente giovare della presenza, in un policlinico pediatrico, delle
diverse competenze cliniche specialistiche, ma, ciò nonostante i
vantaggi di lavorare al Bambino Gesù sicuramente ne hai!
Enrico Bertini: Certamente, ma volevo solo sottolineare che i vantaggi sono più potenziali che reali. Il sistema è tale per il quale è
difficile creare un vero e proprio ambulatorio multispecialistico, perché ogni operatore deve dare conto, alla amministrazione, del suo
ambulatorio, per la sua specialità.
Ma confido nella pianificazione futura.
Oggi, in Regione Lazio, l’attività di day hospital non è incentivata,
spero che nel prossimo futuro questo avvenga tenendo conto della
multidisciplinarietà, riservando spazio e tempo a pazienti che richiedono più consulenze con patologie multiorgano, come quelle che io
seguo.
Desidero concludere questo mio intervento ricordando uno dei vantaggi reali che comporta, per un neurologo pediatra, lavorare in un
grande policlinico pediatrico. Questo vantaggio concerne la formazione dei giovani medici. Sempre di più la mia esperienza mi porta
a valorizzare l’importanza che il giovane in formazione, nel corso di
un dottorato di ricerca o di un master, associ alle esperienze cliniche
quelle di ricerca in un laboratorio di biologia e (o) di genetica. Questo
tipo di formazione può essere realizzato con facilità in una struttura
come il Bambino Gesù, ove la ricerca è molto presente.
Dopo alcuni anni di ricerca il giovane medico può tornare alla clinica
con un notevole valore aggiunto, culturale e professionale.
Fabio Sereni: Grazie Bertini, anche per avere, con le tue ultime
parole, sottolineato che nella cultura medica moderna ricerca
di base, traslazionale e clinica non possono essere disgiunte.
La parola spetta ora a Giovanni Cioni, professore ordinario di
Neuropsichiatria Infantile all’Università di Pisa e anche, o soprattutto, direttore scientifico dell’IRCCS Fondazione Stella Maris.
Giovanni Cioni (Pisa): La mia esperienza, il mio
impegno lavorativo è diverso da quello di Enrico
Bertini. Come ha indicato il moderatore di questa
Tavola Rotonda, lavoro nella ricerca, l’assistenza e la didattica per i disturbi neuropsichici del
bambino e dell’adolescente presso l’IRCCS Stella
Maris. La Fondazione Stella Maris è un istituto di
Fondazione Stella
ricovero e cura, una struttura di ricerca e cura,
Maris, Università di
completamente dedicata ai disturbi dello svilupPisa
po. Esso ha da sempre nel suo DNA l’integrazione tra neurologia e psichiatria, tra assistenza e ricerca, tra lavoro in
ospedale e sul territorio.
Sono convinto che nella nostra istituzione sia il medico che vi opera
che il lavoro diagnostico e terapeutico con il paziente e la sua famiglia abbiano una caratterizzazione differente da quella di altre strutture ospedaliere che si occupano di neurologia dell’età evolutiva nel
nostro paese, operando in policlinici pediatrici o aziende ospedaliere.
L’IRCCS Stella Maris è un’azienda sanitaria piccola, con all’interno
unità ospedaliere di neurologia, di psichiatria e di riabilitazione. Inoltre la sua alta specializzazione ha imposto la creazione di laboratori
“trasversali” avanzati, come quello di neurogenetica e quello di neuroimmagini RM a campo alto e ultra alto.
Abbiamo, in lunghi anni, acquisito un buon credito scientifico e assistenziale e abbiamo conseguentemente ricevuto adeguati finanziamenti di ricerca.
Premesso questo, vorrei riassumere brevemente gli aspetti di forza
che possiamo vantare, rispetto ad altre istituzioni, sia per i pazienti
come per le loro famiglie, senza celare alcuni aspetti di debolezza
del nostro modello.
Da noi i pazienti e i loro familiari non si interfacciano separatamente
con il neurologo e lo psichiatra, ma sempre con il neuropsichiatra
infantile. Inoltre nello stesso ospedale, durante il brevissimo tempo
65
a cura di Fabio Sereni
del loro accesso, essi trovano accanto alla valutazione clinica neuropsichiatrica e degli altri professionisti del team, anche i contributi
essenziali delle più moderne tecnologie diagnostiche e terapeutiche.
Gli approcci complementari, neurologico e psichiatrico, funzionale
e strumentale, medico e delle altre professionalità, con cui vengono
presi in carico i nostri pazienti, è un importante strumento clinico,
molto apprezzato dalle famiglie.
L’approccio integrato, nostra caratteristica, è anche senza dubbio
un valore aggiunto per la formazione, sia del medico neuropsichiatra infantile come del pediatra, sia per i pochi che poi lavoreranno
in strutture di secondo e terzo livello, che per chi poi opererà sul
territorio.
Per svolgere al meglio questi compiti è necessario raggiungere una
“massa critica” di posti letto, di casistiche, di operatori, di risorse
cliniche e strumentali, come avviene in un IRCCS dedicato.
È vero che vi sono anche aspetti nel nostro modello di ospedale
dedicato ai disturbi dello sviluppo neuropsichico non così positivi.
Tra le principali, la necessità ma anche la difficoltà di coinvolgere,
nel caso di patologie sempre più complesse, talvolta multiorgano,
medici e reparti con altre competenze specialistiche, non neuropsichiatriche. Attualmente ciò si svolge attraverso consulenze in sede o
presso il policlinico universitario di Pisa o l’AOU Meyer, strutture con
le quali il nostro IRCCS ha rapporti convenzionali da sempre, ma che
restano lontane, con disagi per i pazienti, difficoltà di integrazione,
limitazioni nelle tipologie dei pazienti ricoverabili senza l’immediata
vicinanza della rianimazione.
Speriamo di ridurre in parte queste difficoltà con la realizzazione
della nuova sede dell’IRCCS che ospiterà degenze e laboratori e che
sorgerà entro 3 anni accanto al nuovo policlinico universitario di Pisa
e vicinissimo all’Area di ricerca del CNR. Miriamo a mantenere così
la specificità, l’autonomia e l’integrazione di un IRCCS dedicato alla
neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, che rimane il valore del nostro modello, con la maggiore integrazione con le altre
competenze mediche.
Fabio Sereni: Grazie, amico Cioni. La parola ora alla professoressa Elisa Fazzi, che ha portato la sua grandissima specializzazione di neuropsichiatra infantile in un grande ospedale
universitario di una città di medie dimensioni. A Elisa Fazzi io
chiedo: come hai vissuto l’esperienza di esserti trasferita da
Pavia a Brescia, dal lavorare in un istituto monospecialistico
come l’IRCCS C. Mondino a inserire la neuropsichiatria infantile
in un ospedale generale. Quali vantaggi e quali svantaggi?
Elisa Fazzi (Brescia): Premetto: nel corso della
mia oramai trentennale esperienza, sono sempre
stata convinta della specificità e dell’utilità della neuropsichiatria infantile, ma altresì dell’importanza del dialogo e della collaborazione con
i pediatri. Essere neuropsichiatri infantili in un
istituto monotematico di neurologia permette
di coltivare una dimensione culturale in cui le
Università di Brescia
neuroscienze sono centrali e la neuropsichiatria
infantile nasce da quella cultura con una specificità età-dipendente. Quella di Brescia è stata, ed è, per me, un’avventura molto complessa, ma anche ricca di nuove potenzialità. La
neuropsichiatria bresciana è storicamente inserita a fianco della
pediatria nell’Ospedale dei Bambini, un tempo autonomo, fondato
all’inizio del 1900, per i bambini poveri della città, e con forte vocazione assistenziale. A Brescia, l’integrazione tra pediatria, molto
valida, e neuropsichiatria infantile, pure qualificata, è sempre stata
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forte e naturale. La competenza pediatrica quindi è molto integrata
con una facilitazione nel gestire la neurologia d’urgenza, ma con una
perdita di alcune specificità di osservazione e di valutazione complessa e interdisciplinare, che la dimensione di un grande ospedale
con pronto soccorso non permette facilmente, dovendo privilegiare
risposte rapide, efficaci ed efficienti a bisogni acuti.
Il nostro lavoro, a Brescia, è prevalentemente di neurologia e psichiatria d’urgenza in reparto, di neurologia infantile nell’ambulatorio
dell’ospedale, mentre il lavoro di presa in carico di patologie psichiatriche, di riabilitazione e di rapporti con le scuole è più territoriale.
La ricchezza quantitativa e qualitativa dell’attività assistenziale e la
presenza di una struttura di neuropsichiatria infantile molto grande
permettono esperienze formative molto diversificate con la possibilità di offrire ai medici in formazione un percorso completo e
differenziato. Come direttore della Scuola di specializzazione di neuropsichiatria, ho il vantaggio di poter formare clinicamente i medici
in formazione anche in un contesto clinico pediatrico di alta qualità:
nel primo anno lo specializzando in neuropsichiatria infantile riceve
una formazione pediatrica come parte del tronco comune. L’aspetto
problematico, e conflittuale, riguarda le urgenze neurologiche e la
gestione delle patologie complesse multi organo, con significativa
componente neurologica: a Brescia la responsabilità clinica della
gestione di questi casi è della neuropsichiatria infantile con la collaborazione della componente pediatrica.
Fabio Sereni: Cara Fazzi, a me sembra che con il tuo dire tu stia
portando acqua alla causa pediatrica, ai vantaggi cioè di inserire cultura e professionalità neuropsichiatriche in un contesto
di pediatria clinica efficiente. O sbaglio?
Elisa Fazzi: La neuropsichiaria infantile si occupa di età evolutiva
e quindi deve camminare in parallelo con la pediatria, ma devi
tenere presente che esiste il pericolo, ed è un pericolo da non
trascurare, di perdere parte della specificità culturale preziosa e
unica della neuropsichiatria infantile (porre al centro il bambino
malato e i suoi genitori e non la malattia, necessità di integrazione
fra psiche e soma nei percorsi diagnostico-terapeutici, centralità
dello studio delle funzioni e del loro sviluppo con messa a punto di
una semeiotica osservativa e interattiva, attenzione alla famiglia e
alle sue problematiche e forte vocazione sociale) che deve essere
assolutamente conservata.
Fabio Sereni: Non credo che a Brescia si corra questo pericolo,
sapendo della tua forza, accademica e culturale!
Elisa Fazzi: Grazie per la tua considerazione nei miei riguardi, ma il pericolo
esiste, e sarebbe grave danno perdere ciò che all’estero tutti ci invidiano.
Vorrei aggiungere: è vero quello che ha detto il collega Minetti sulla
necessità della superspecializzazione, ma è anche vero che complessità non è solo complessità di patologia d’organo, ma anche
complessità di patologia di funzioni e l’approccio alla patologia di
funzioni complesse, che è uno specifico della neuropsichiatria infantile, è un bene da non perdere.
Infine mi preme sottolineare che la neuropsichiatria infantile è anche
garanzia di un modello per come deve instaurarsi il rapporto tra il
medico e la famiglia del bambino con patologia neuropsichica, anche curando la necessaria dimensione sociale.
Fabio Sereni: Bene. Elisa Fazzi ha espresso efficacemente la necessaria complementarità tra pediatria e neuropsichiatria infantile. Ora la parola spetta a Renzo Guerrini, che opera al Meyer, forse
il più rinnovato, in tempi recenti, dei policlinici pediatrici italiani.
Pediatria, Neuropsichiatria Infantile e Neurologia Pediatrica. Problemi attuali di assistenza e ricerca
Renzo Guerrini (Firenze): Un policlinico pediatrico offre la possibilità di concentrare le energie verso patologie di particolare complessità,
che affluiscono proprio in virtù della possibilità
di avvalersi di team multidisciplinari. In un certo
senso, è proprio la complessità della patologia
afferente che costringe a definire delle priorità
Ospedale pediatrico
per dare una risposta alle necessità della clinica.
Meyer, Università di
Ciò è condizionato in parte dalla incidenza delle
Firenze
varie patologie ma anche dal potere di attrazione
del centro stesso, a sua volta sviluppato verso determinati ambiti in
ragione degli interessi scientifici che sono stati storicamente prioritari per il team che opera in una determinata sede. La clinica impone quindi delle scelte che sono necessarie al fine di organizzare le
migliori risposte possibili, in relazione alla rilevanza delle patologie
osservate. Nel policlinico è poi necessario e conveniente spingere
sempre i limiti delle proprie conoscenze oltre i limiti della monotematicità, al fine di dialogare adeguatamente con le altre discipline
chiamate in causa. Nell’area delle neuroscienze la condivisione di
attività clinica con l’area neurochirurgica, neurometabolica, internistica, e dell’emergenza rappresenta un enorme stimolo e spinge
verso una definizione strategica delle proprie modalità di intervento
che sia razionalmente distribuita e in modo da erogare la maggiore
capacità di intervento, diagnostico, terapeutico o preventivo, dove
esistono maggiori possibilità di impatto sulla patologia. Gli ambiti
clinici in cui la neurologia pediatrica ha reali possibilità di incidere
favorevolmente e in modo tangibile sulla realtà clinica sono pochi.
Diventa quindi necessario organizzare il proprio team in modo da
poter rispondere adeguatamente alle varie necessità, senza tuttavia
rinunciare ad aree di approfondimento scientifico, ma privilegiando
quelle per le quali la ricaduta traslazionale è più tangibile. Approfondimenti verso aree cliniche di grande interesse fisiopatologico
ma con minore ricaduta su patologie ad alta intensità di cura sono
di più difficile realizzazione nel policlinico. Questa direzione, che è
destinata a produrre risultati nel lungo termine, è altrettanto necessaria e interessante, ma più facilmente percorribile presso istituzioni
monotematiche, soprattutto negli istituti di ricerca.
Fabio Sereni: Grazie, Guerrini. Hai saputo puntualizzare molto
efficacemente i vantaggi, ma anche i necessari limiti che ti vengono dal lavorare in un policlinico pediatrico multispecialistico.
Io penso che dalle tue considerazioni derivi la necessità che
una saggia programmazione sanitaria provveda a indirizzare
in luoghi diversi patologie neurologiche pediatriche con caratteristiche differenti. Se ho bene compreso al policlinico pediatrico spettano soprattutto le patologie che necessitano, per
adeguata assistenza medica, di servizi multispecialistici e alta
intensità di cure; ad altre istituzioni, come IRCCS “monotematici”, spettano invece patologie croniche che comportino anche
assistenza sociale integrata. Il caso ha voluto che concluderà
la serie di interventi in questa Tavola Rotonda Nardo Nardocci,
che dirige una UOC di neuropediatria presso l’IRCCS Besta, che
ha tutte le caratteristiche cui accennava Renzo Guerrini complementari a quelle del policlinico pediatrico.
Nardo Nardocci (Milano): L’Istituto Neurologico
Besta è un istituto di ricovero e cura a carattere
scientifico, la cui missione è rappresentata dalla diagnosi e trattamento delle malattie neurologiche dell’età pediatrica e adulta. L’Istituto ha
sempre avuto una vocazione particolare per la
ricerca che negli anni si è concretizzata nel defiIstituto Neurologico
nirsi ed evolversi di strumenti e metodologie per
Besta, Milano
ricerca clinica, pre-clinica e di base.
La divisione che dirigo opera in stretta collaborazione con le varie
strutture dell’Istituto, quali neuroimaging, biochimica e neurogenetica, molecolare, neurofisiologia clinica, neuropatologia e una importante quota di attività è svolta in collaborazione con le strutture di
neurochirurgia e neurorianimazione.
L’attività della divisione è focalizzata sulla diagnosi e il trattamento di condizioni patologiche nella quasi totalità incluse nell’ambito
delle malattie rare, quali encefalopatie metaboliche e degenerative, epilessie rare, disordini del movimento, encefalopatie immunomediate.
L’afferenza percentualmente più alta è rappresentata da pazienti a
diagnosi non nota, in genere già sottoposti a indagini non conclusive presso altre strutture pediatriche o di neuropsichiatria infantile
o pazienti in rivalutazione terapeutica o candidabili a trattamenti
neurochirurgici di elezione (chirurgia dell’epilessia nelle sue varie
opzioni) o innovativi, come neuromodulazione (in particolare stimolazione cerebrale profonda o corticale). L’obiettivo è ovviamente
garantire la risposta migliore alle richieste di diagnosi e trattamento
ai pazienti ricoverati e alle loro famiglie. La domanda è se una struttura monospecialistica quale l’Istituto neurologico ne garantisca il
raggiungimento.
Certamente, in particolare per alcune malattie metaboliche a coinvolgimento multiorgano, la caratterizzazione complessiva comporta la necessità di valutazioni extraneurologiche, ma la porzione di
questi pazienti è esigua e il problema viene usualmente risolto con
collaborazioni in essere da molti anni con strutture pertinenti. Al
contrario, l’expertise del personale medico e infermieristico, l’approccio “globale” alla patologia neurologica che include gli aspetti
cognitivi e comportamentali e la disponibilità di strutture diagnostiche e di ricerca di grande rilievo permettono una gestione integrata
e multidisciplinare delle condizioni neurologiche sopradescritte. La
disponibilità di una neurorianimazione permette poi la gestione di
pazienti “critici” come i pazienti in stato di male epilettico o in stato
distonico.
In conclusione ritengo che il modello rappresentato dall’Istituto, così
come tradotto nell’attività della UO di neuropsichiatria infantile, risponda agli obiettivi istituzionali di un Istituto di ricerca a carattere
scientifico e alle richieste di diagnosi e cura in un ambito patologico
fondamentale della Neuropsichiatria Infantile come quello considerato.
Problematiche importanti riguardano invece numerosi aspetti legati
alla continuità di cura anche in considerazione dell’alta percentuale
di afferenza extraregionale dei nostri pazienti e la transizione all’età
adulta.
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a cura di Fabio Sereni
Conclusioni
A cura di Fabio Sereni e Generoso Andria
Una premessa è necessaria. Questa Tavola Rotonda, organizzata da
Prospettive nel contesto di un importante convegno della Fondazione Mariani, non è stata concepita con ambizione di discutere, a tutto
campo, i problemi attuali clinici e assistenziali della neurologia e della psichiatria infantile. È stata concepita come confronto tra pediatri,
neuropediatri e neuropsichiatri infantili su alcuni specifici problemi,
istituzionali e ospedalieri.
A nostro parere la Tavola Rotonda è stata un successo, soprattutto
perché da essa sono venuti due importanti messaggi condivisi da
tutti gli illustri partecipanti.
Il primo è sicuramente la necessità di stabilire collegamenti istituzionali e organici, tra la pediatria generale e le sottospecialità, in questo
caso tra neuropediatria e neuropsichiatria infantile. I presidenti delle
società scientifiche interessate, e cioè Giovanni Corsello per la pediatria, Bernardo Dalla Bernardina per la neuropsichiatria infantile e
Carlo Minetti per la neuropediatria, hanno concordato di perseguire,
in un non lontano futuro, l’obiettivo di un accordo federativo. Ma è
stata soprattutto accettata la proposta di Giovanni Corsello di istituire in tempi brevi una task-force operativa per affrontare, di comune
accordo, i più urgenti problemi sanitari e culturali.
Ma da questa Tavola Rotonda è anche venuto un secondo importante messaggio: la necessità, urgente, di programmare razionalmente in Italia i più importanti servizi specialistici pediatrici. Per
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tutta la seconda parte della Tavola Rotonda illustri neuropediatri,
con diverse competenze “superspecialistiche” e operanti in strutture ospedaliere tra loro molto differenti, hanno esposto e discusso difficoltà e opportunità che incontrano per svolgere adeguatamente le loro attività, cliniche e di ricerca. Nei policlinici pediatrici
(come il Bambino Gesù e il Meyer) è chiaro il vantaggio di potersi
giovare di una assistenza coordinata multispecialistica per patologie acute e complesse (anche se spesso vi sono difficoltà per l’attuazione pratica del coordinamento anche in strutture ospedaliere
ben organizzate e di alto livello), mentre negli istituti monospecialistici (come lo Stella Maris e il Besta) è sicuramente più agevole
poter disporre di servizi diagnostici specifici di alta tecnologia, ma
il rapporto con la pediatria generale è ovviamente più problematico. È risultato in ogni caso evidente che tutto non può essere fatto
in un’unica istituzione, e che sia quindi opportuno programmare
per grandi aree, sicuramente per la neuropediatria, ma anche per
ogni altra grande “sottospecialità”.
Non ci resta quindi che attendere con fiducia che le chiarissime
persone che hanno il compito istituzionale di guidare le sorti della
pediatria italiana non solo diano attuazione a quanto è stato deciso
in tema di collegamento tra pediatria e sottospecialità, ma anche
sollecitino i responsabili della sanità pubblica ad agire per una efficiente programmazione dei servizi pediatrici specialistici.
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