Periodico bimestrale. Poste Italiane SpA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 conv.in L.27/02/2004 n°46 art.1, comma 1, DCB PISA Aut. trib. di Firenze n. 4387 del 12-05-94 - IR - I.P. - Dicembre Diabete mellito tipo 2 Malattie digestive Errore in medicina Edizione digitale www.simg.it ISSN 1724-1375 Società Italiana di Medicina Generale 2013 6 BPCO a 270° Rivista Società Italiana di Medicina Generale Direttore Scientifico Giuseppe Ventriglia SIMG Società Italiana di Medicina Generale Via Del Pignoncino 9/11 • 50142 Firenze Tel. 055 700027 • Fax 055 7130315 segreteria@simg.it • www.simg.it Copyright by Società Italiana di Medicina Generale Edizione Pacini Editore S.p.A. 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Fassina.................................................................................. 16 Congress Report Malattia diverticolare del colon e sindrome dell’intestino irritabile: sintomi simili e approccio terapeutico simile? Simposio Satellite, 19° Congresso FISMAD, Bologna 10-23 marzo 2013 a cura di A. Bertelé, S. Bertolini....................................................................... 21 Inserto speciale HS-Newsletter Manuela Mori Advertising Manager Tel. 050 31 30 217 • mmori@pacinieditore.it Alice Tinagli Junior Advertising Manager Tel. 050 31 30 223 • atinagli@pacinieditore.it Redazione Lucia Castelli Tel. 050 31 30 224 • lcastelli@pacinieditore.it Stampa Industrie Grafiche Pacini • Pisa Finito di stampare presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A. - Dicembre 2013 Rivista stampata su carta TCF (Total Chlorine Free) e verniciata idro. L’editore resta a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare e per le eventuali omissioni. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, segreteria@aidro.org, http://www.aidro.org. I dati relativi agli abbonati sono trattati nel rispetto delle disposizioni contenute nel D.Lgs. del 30 giugno 2003 n. 196 a mezzo di elaboratori elettronici ad opera di soggetti appositamente incaricati. I dati sono utilizzati dall’editore per la spedizione della presente pubblicazione. Ai sensi dell’articolo 7 del D.Lgs. 196/2003, in qualsiasi momento è possibile consultare, modificare o cancellare i dati o opporsi al loro utilizzo scrivendo al Titolare del Trattamento: Pacini Editore S.p.A. - Via A. Gherardesca 1 - 56121 Ospedaletto (Pisa). Medicina Generale Direttore Editoriale Alessandro Rossi Diabete mellito tipo 2 La gestione del paziente con diabete mellito tipo 2 in Medicina Generale Esperienza di Audit professionale di un gruppo di MMG della ASL 11 di Empoli (Regione Toscana) nel 1° semestre del 2013 F. Calcini, G. Susini........................................................................................... 3 Società Italiana di Direttore Responsabile Claudio Cricelli Filippo Calcini, Giovanni Susini Medici di Medicina Generale della ASL 11 partecipanti all’Audit: A. Alessi, R. Bagnoli, M. Bargiani, A. Bellucci, D. Benvenuti, M. Bianchi, S. Bimbi, M.R. Biondi, G. Borrone, L. Caciagli, S. Caliari, M. Cammisa, A. Cantini, M.L. Carangelo, B. Cicconofri, C. Cinini, F. Cinotti, C. Colombini, G. Dainelli, S. Dini, A. Ferreri, G. Fontanelli, A. Giannanti, D. Isolani, G. Innocenti, S. Logli, M. Lupi, R. Mengozzi, D. Moriani, B. Niccolai, F. Niccolini, L. Nigi, A. Orsini, F. Peruzzi, P. Piazzini, L. Rocchi, L.D. Rodari, E. Rottoli, G. Santoli, J. Scaduto, B. Vitale, M. Viviani La gestione del paziente con diabete mellito tipo 2 in Medicina Generale Esperienza di Audit professionale di un gruppo di MMG della ASL 11 di Empoli (Regione Toscana) nel 1° semestre del 2013 Introduzione sull’Audit professionale Sono trascorsi circa 10 anni da quando abbiamo iniziato a trasformare la metodologia formativa per la Medicina Generale (MG) nella nostra ASL; siamo passati lentamente, ma costantemente, da una metodologia di tipo “tradizionale” (lezioni al grande gruppo con discussione finale) a una metodologia che prevedeva un sempre maggior coinvolgimento del medico di medicina generale (MMG) nella propria formazione. Abbiamo adottato la metodologia dell’Audit professionale con la quale sono i medici stessi, riuniti in gruppi, che stabiliscono tutto il ciclo della propria formazione, a partire dalla scelta dell’argomento da trattare, in base a un’attenta analisi dei bisogni, fino ad arrivare a una revisione e successiva valutazione quantitativa e qualitativa del proprio operato. Tutto ciò al fine di apportare correttivi al proprio lavoro capaci di migliorare le loro performance. L’Audit professionale è un processo sistematico di autovalutazione che consta di alcune fasi ben definite, come riportato nella Tabella I 1 3. Nel presente lavoro abbiamo convenuto di trattare globalmente l’argomento “diabete mellito tipo 2 (DMT2)”. Sono state effettuate quattro riunioni del gruppo a cadenza mensile, della durata di quattro ore ciascuna. n.6>>> 2013 Obiettivi del lavoro Obiettivo generale Verifica della qualità dell’assistenza ai pazienti con DMT2, con particolare riguardo alla diagnosi clinica e funzionale, al monitoraggio dei dati e alla loro corretta registrazione nella cartella clinica di un gruppo di medici dell’AUSL 11. Sottobbiettivi 1. Il problema della prevalenza. 2. Identificazione di criteri, indicatori e standard di buona pratica clinica in base alle linee guida (LG) 2. 3. Verifica delle abilità essenziali dei medici nella registrazione ed estrazione dei dati dagli archivi. 4. Valutazione delle caratteristiche organizzative degli ambulatori del MMG. 5. Valutazione della diffusione delle regole del Cronic Care Model (modello di Diabete mellito tipo 2 Animatori di Formazione in Medicina Generale, ASL 11 Empoli (Regione Toscana) medicina di iniziativa mirata sulle principali patologie croniche) (CCM) negli studi medici. 6. Valutazione della applicabilità in MG delle LG internazionali per la gestione del DMT2. Analisi dei bisogni: perché parlare di DMT2 Il DMT2 è una patologia importante ed estremamente rilevante nell’ambito delle patologie croniche a causa della sua alta incidenza e dei suoi alti costi sia umani che sociali. Le conoscenze sulla sua eziopatogenesi, fisiopatologia e terapia sono molto cresciute in questi ultimi anni e sono stati scoperti numerosi nuovi farmaci di notevole efficacia 4 7. L’incidenza e la prevalenza sono in aumento principalmente a causa dell’allungamento della vita media, degli errati stili di vita, del mancato riconosci- Ta b e l l a I. Le fasi dell’Audit professionale. 1 Individuazione del problema, selezione della priorità specifica degli obiettivi 2 Definizione dei criteri di buona qualità, degli indicatori e degli standard 3 Selezione delle fonti dei dati, raccolta, organizzazione e presentazione degli stessi 4 Confronto della performance con criteri, indicatori e standard predefiniti 5 Discussione e identificazione delle cause di criticità 6 Progetto di miglioramento e introduzione dei cambiamenti necessari 7 Rivalutazione della performance Rivista Società Italiana di Medicina Generale 3 Diabete mellito tipo 2 mento precoce della malattia e della scarsa aderenza alle LG nel trattamento da parte dei medici. Anche nell’ambito della medicina generale il DMT2 è sicuramente sottostimato e/o gestito, talvolta, in modo non corretto. Il MMG è deputato ad eseguire la diagnosi precoce della malattia, a impostare l’iter diagnostico e terapeutico e a collaborare, qualora necessario, con lo specialista di riferimento e/o con un team multidisciplinare di cure. è il MMG, inoltre, che per primo affronta il problema dell’educazione del paziente e del suo coinvolgimento nella gestione della cura. L’attività di formazione dovrebbe riuscire ad affinare nel medico generale la sensibilità diagnostica, terapeutica e di gestione complessiva del paziente diabetico. Tutto questo allo scopo di ridurre il tasso di mortalità e delle complicanze della patologia, di ridurre le prestazioni ospedaliere, di ridurre le giornate di assenza scolastica o lavorativa e, non ultimo, di migliorare la qualità di vita del paziente 6 8. Il campione dei MMG, il metodo di estrazione dati e il problema delle diagnosi Su 47 MMG iscritti all’Audit, 3 si sono ritirati, 40 hanno inviato i dati completi, 4 hanno inviato dati incompleti a causa di difficoltà tecniche incontrate nell’estrazione con mezzo informatico. Dei 44 medici che hanno inviato i dati, 17 sono femmine e F. Calcini, G. Susini 27 sono maschi con un numero medio di pazienti in carico pari a 1.358. Tutti i medici usano con regolarità, nella propria attività professionale, il programma MilleWin. I dati dell’Audit sono stati estratti mediante l’invio di “stringhe di estrazione” uniformi che sono state inserite nel programma Mille Utilità/Statistiche. I colleghi hanno eseguito una revisione di tutta la propria casistica che ha portato a selezionare e ad estrarre le diagnosi certe di DMT2 sulla base delle indicazioni emerse dall’attività formativa (Tab. II) 2 che sono state oggetto di discussione e approfondimento durante le riunioni del gruppo. Successivamente ogni medico ha eseguito un importante lavoro di “Self Audit” che gli ha permesso di estrarre, analizzare e, eventualmente, correggere le inappropriatezze riscontrate. Lo studio di prevalenza Sono stati studiati complessivamente 59.470 assistiti di età superiore ai 16 anni; di questi 842 (21,5% del campione) hanno un’età maggiore di 80 anni e sono portatori di importanti comorbidità (le patologie associate “aperte” nella cartella clinica sono risultate pari a 7,6 per ogni paziente). Il numero medio dei pazienti diabetici per medico è stato di 95,9. Tutte le diagnosi erano codificate secondo la classificazione internazionale ICD9. La prevalenza totale del DMT2 nel campione è stata di 7,3% con un numero totale di diabetici pari a 4.314 e un’età media di 69,1 anni. La prevalenza era attesa in un range compreso fra 4,57,0%; i dati in letteratura fanno però prevedere prevalenze, in un prossimo futuro, sino a 11% a causa dell’aumento dell’obesità, della sedentarietà e degli stili di vita. Risultati Nella Tabella III sono riportati i risultati di 13 indicatori confrontati con gli Standard/LAP (Livello Accettabile di Performance) attesi. Discussione Dei 13 indicatori valutati, 7 sono risultati nello standard atteso (studio di prevalenza, rilevazione HbA1c nell’ultimo anno, rilevazione creatininemia negli ultimi 15 mesi, calcolo rischio cardiovascolare (RCV) negli ultimi 10 anni, diabetici senza terapia farmacologica nell’ultimo anno o in terapia con solo metformina o con antiaggreganti piastrinici). Quattro indicatori non hanno raggiunto lo standard atteso, ma si sono avvicinati molto a tale risultato (rilevazione indice di massa corporea (BMI) negli ultimi 2 anni, rilevazione abitudine fumo negli ultimi 2 anni, rilevazione pressione arteriosa (PA) nell’ultimo anno e rilevazione LDL negli ultimi 15 mesi). Due indicatori, invece, hanno evidenziato un più cospicuo scostamento dallo standard atteso: la percentuale di diabetici con Ta b e l l a I I. Criteri diagnostici adottati 2. Diagnosi, nosografia e fattori di rischio del DMT2 - Criteri diagnostici (Raccomandazioni) In assenza di sintomi tipici della malattia (poliuria, polidipsia e calo ponderale), la diagnosi di DMT2 deve essere posta con il riscontro confermato in almeno 2 diverse occasioni di: Glicemia ≥ 126 mg/dl (con dosaggio su prelievo eseguito al mattino, alle ore 8 circa, dopo almeno 8 ore di digiuno) Oppure Glicemia ≥ 200 mg/dl 2 ore dopo carico orale di glucosio eseguito con 75 g Oral Glucose Tolerance Test (OGTT) In entrambi casi da confermare con un secondo test Oppure HbA1c ≥ 6,5% (solo col dosaggio standardizzato) In presenza dei sintomi tipici della malattia, la diagnosi di diabete mellito deve essere posta con il riscontro, anche in una sola occasione, di: Glicemia ≥ 200 mg/dl (indipendentemente dall’assunzione di cibo) Nota: il dosaggio dell’HbA1c deve essere standardizzato e allineato a IFCC; inoltre devono essere tenute in considerazione eventuali condizioni che possano interferire con il dosaggio dell’HbA1c. 4 Rivista Società Italiana di Medicina Generale La gestione del paziente con diabete mellito tipo 2 in MG Diabete mellito tipo 2 Ta b e l l a III. Criteri. Indicatori, risultati e standard**. INDICATORI RISULTATI Totale assistiti in carico al gruppo dei MMG 59.470 Diagnosi codificate (ICD9) di DMT2 4.314 STANDARD/LAP 1 Prevalenza totale del gruppo 7,3 4,5-7,0 2 % diabetici con BMI rilevato negli ultimi 2 anni 63,6 70-90 3 % diabetici con dato Fumo rilevato negli ultimi 2 anni 63,6 80-95 4 % diabetici con HbA1c rilevato nell’ultimo anno 78,9 50-95 5 % diabetici con PA rilevata nell’ultimo anno 64,1 70-90 6 % diabetici con microalbuminuria rilevata negli ultimi 15 mesi 50,3 60-80 7 % diabetici con creatininemia rilevata negli ultimi 15 mesi 78,1 70-90 8 % diabetici con LDL rilevato negli ultimi 15 mesi 56,1 70-90 70-90 9 % diabetici con clearance creatinina (Cockoft) rilevata negli ultimi 15 mesi 43,1 9a % diabetici con Cockoft < di 60 negli ultimi 15 mesi 18,1 9b % diabetici con Cockoft < di 60 negli ultimi 15 mesi con insufficienza renale 10 % diabetici con calcolo del rischio cardiovascolare (RCV) rilevato negli ultimi 10 anni 56,0 50-90 11 % diabetici senza terapia farmacologica specifica nell’ultimo anno 24,0 15-30 12 % diabetici in terapia con metformina monocomponente ultimo anno 43,8 40-50 13 % diabetici in terapia con antiaggreganti piastrinici (ASA, ticlopidina, clopidogrel) ultimo anno 44,0 40-60 4,8 (207 casi) ALTRI DATI EMERSI DALLO STUDIO % medici con ambulatorio organizzato secondo il CCM 27,3 % medici con ausilio infermieristico in ambulatorio 40,9 % medici che usano il programma di Audit del MilleWin (MilleGPG) 20,45 ** I criteri sono i valori, le condizioni, i comportamenti e le regole specifiche, giudicati di buona qualità, dalla letteratura o da esperti (rappresentano il ”che cosa dobbiamo fare”). Gli indicatori sono gli elementi da scegliere per monitorare e “misurare” le attività professionali dei medici; rappresentano la fotografia delle prestazioni effettivamente fornite (rappresentano il ”che cosa stiamo facendo”). Gli standard corrispondono alla specificazione quantitativa precisa del livello qualitativo di un determinato criterio che ne stabilisce la soglia di accettabilità o il livello di ottimalità (rappresentano il ”livello minimo di performace che dobbiamo raggiungere”). clearance creatinina (calcolata secondo la formula di Cockoft) rilevata negli ultimi 15 mesi è risultato al 43,1% contro un valore atteso del 70-90%, mentre la rilevazione della microalbuminuria negli ultimi 15 mesi è risultata del 50,1% contro un valore atteso di 60-80%. In relazione a tali risultati negativi, nel gruppo è nata una discussione per meglio valutare le possibili cause e conseguenze di questa importante inappropriatezza. Abbiamo, pertanto, approfondito il tema delle complicanze del DMT2 rilevando che le complicanze coronariche e le cerebrovascolari rappresentano la prima e più costosa causa di morte, mentre la nefropatia diabetica, in casistiche nordeuropee e statunitensi, rappresenta la prima causa di insufficienza renale terminale con necessità di dialisi 5. Nel registro italiano delle cause di dialisi e trapianti dell’anno 2001 il DMT2 si colloca al terzo posto di tutte le cause con un’incidenza pari al 12%. Per quanto riguarda le forme non terminali, casistiche italiane su coorti cliniche e di popolazione riportano una prevalenza della microalbuminuria compresa tra il 20 e il 32% e tra il 7 il 17% di macroalbuminuria (nefropatia conclamata). Abbiamo deciso pertanto di approfondire questa rilevante complicanza del DMT2, estraendo dai nostri archivi il dato “Percentuale dei diabetici con clearance secondo Cockoft < 60 negli ultimi 15 mesi” che sono risultati il 18,1% e “la percentuale dei diabetici con Cockoft < 60 negli ultimi 15 mesi con reale insufficienza renale” che sono risultati il 4,8% con un valore assoluto pari a 207. Abbiamo quindi stadiato questi pazienti (Tab. IV) e abbiamo applicato le raccomandazioni per lo screening e il trattamento della nefropatia diabetica (Tab. V). Conclusioni Durante l’audit abbiamo discusso e superato gli ostacoli legati alla registrazione e all’estrazione dei dati. I risultati analitici presentano una discreta variabilità della prevalenza da medico a medico. Questo può derivare dalla maggiore o minore accuratezza delle diagnosi, dal fatto che alcuni diabetici sfuggono al MMG perché vengono seguiti dallo specialista o a causa di una non corretta registrazione delle diagnosi. Come evidenziato nella discussione in 7 Rivista Società Italiana di Medicina Generale 5 Diabete mellito tipo 2 F. Calcini, G. Susini Ta b e l l a I V. Stadi della malattia renale cronica 2. Stadio Descrizione GFR (ml/min per 1,73 m2) 1 Danno renale* con GFR normale o aumentato ≥ 90 2 Danno renale* con GFR lievemente ridotto 60-89 3 Moderata riduzione del GFR 30-59 4 Grave riduzione del GFR 15-29 5 Insufficienza renale terminale <15 o dialisi * Il danno renale è definito dalla presenza di anormalità del sedimento urinario, ematochimiche, anatomopatologiche o degli esami strumentali. Ta b e l l a V. Raccomandazioni per lo screening e il trattamento della nefropatia diabetica 2. Raccomandazioni generali Ottimizzare il compenso glicemico per ridurre il rischio e/o rallentare la progressione della nefropatia Ottimizzare il controllo pressorio (< 130‑80 mm Hg) per ridurre il rischio e/o rallentare la progressione della nefropatia Nei pazienti con nefropatia conclamata l’apporto proteico dovrebbe essere ridotto alla razione dietetica raccomandata (0,8 g/kg/die). Un’ulteriore riduzione (0,6‑0,8 g/kg/die) può essere utile per rallentare il declino del filtrato glomerulare (GFR) in pazienti in progressione nonostante l’ottimizzazione del controllo glicemico e pressorio e l’uso di ACE‑inibitori e/o sartani (ARB) Tutti gli individui con nefropatia diabetica devono essere considerati a elevato rischio di eventi cardiovascolari e dovrebbero essere trattati per ridurre tale rischio. In particolare, è opportuno correggere eventuali alterazioni del quadro lipidico al fine di rallentare la progressione della nefropatia e ridurre l’associato RCV indicatori sui 13 valutati, si è raggiunto e superato lo standard atteso. Performance meno positive sono state ottenute nei restanti 6 indicatori specialmente in relazione ai dati sul filtrato glomerulare, sulla rilevazione della microalbuminuria e dell’LDL. Complessivamente, comunque, un quarto del campione è al di sopra del LAP. Dobbiamo migliorare la capacità di registrazione e di estrazione dati. L’attenzione per i pazienti a rischio di complicanze renali deve proseguire nel tempo con assiduità. Attualmente non si sono registrate differenze significative nelle performance tra i medici organizzati secondo il CCM e/o con ausilio infermieristico e i medici che lavorano in assenza di tali caratteristiche e/o ausili. Le LG per la cura del diabete offrono un riferimento importante per impostarne una corretta gestione. Anche un gruppo di medici di famiglia italiani ha partecipato ad uno studio di validazione per l’Italia di tali LG, ma vi sono evidenze che dimostrano che la loro applicazione nella medicina generale è ancora scarsa e/o disomogenea. Esse, invece, dovrebbero essere costante- 6 Rivista Società Italiana di Medicina Generale mente testate nella pratica quotidiana al fine di ottenere gli eventuali aggiustamenti e la definitiva validazione. Dobbiamo quindi fare uno sforzo per migliorare la conoscenza del diabete da parte del MMG e per implementare nella sua pratica quotidiana l’utilizzo di LG validate. Relativamente alla metodologia formativa usata nel nostro studio, è importante che i medici, i formatori e le strutture del SSN a ciò preposte prendano atto sempre più del fatto che una formazione efficace non può prescindere da un coinvolgimento sempre maggiore del MMG nell’arricchimento delle proprie competenze e nella successiva verifica delle proprie performance al fine di ricercare adeguati correttivi al proprio lavoro. Bibliografia Susini G. La formazione continua in medicina generale: “Un lavoro sul campo” - Esperienza di Audit professionale su argomento Pneumologico (BPCO) di un gruppo di MMG della ASL 11 di Empoli (Regione Toscana) nell’anno 2012. Rivista SIMG 2013;(2):3-9. 2 Standard italiani per la cura del diabete 3 4 5 6 7 1 8 mellito tipo 2. Edizione per la Medicina Generale (2011). Revisione e adattamento del testo originale a cura di G. Medea. Medea G, Pasculli D. Self audit e audit di gruppo supportati dal MilleGPG quale pratici strumenti di formazione sul campo e di miglioramento nella gestione del diabete mellito tipo 2 in Medicina Generale: il progetto Analysis. Rivista SIMG 2011;(6):9-14. Medea G. Nuove terapie per il diabete mellito tipo 2 (analoghi del GLP-1): la soddisfazione del paziente e il miglioramento della qualità di vita. Rivista SIMG 2011;(5):51-7. Piccinocchi G. Nuova Linea Guida dell’Istituto Superiore di Sanità sull’identificazione, prevenzione e gestione della malattia renale cronica nell’adulto. Rivista SIMG 2011;(5):36-8. Grilli P, Paccamiccio E, Mastrodicasa F. Gestione del paziente con diabete mellito tipo 2 in un ambulatorio dedicato nel setting della Medicina Generale. Verifica di una esperienza. Rivista SIMG 2009;(3):15-9. Cucinotta D. Il ruolo dei glitazoni nella terapia del diabete mellito tipo 2. Rivista SIMG 2008;(5):53-7. Girotto S, Andreoli C, Vaona A, et al. Il diabete mellito di tipo 2 nell’ambulatorio del medico di famiglia: una proposte per la gestione del paziente diabetico. Medicina Pratica Dialogo sui farmaci 2010;(1). Marcello Salera, Cesare Tosetti, Giandomenico Savorani, Donato Zocchi, Antonio Balduzzi, Luigi Bagnoli Malattie digestive nelle cure primarie: rilevanza e impatto nella pratica quotidiana Background Le malattie digestive sono assai diffuse nella popolazione e costituiscono un campo di intervento quasi quotidiano per il medico di medicina generale (MMG) 1-6. L’eterogeneità e la complessità delle malattie digestive comporta la necessità di diversi gradi di integrazione tra MMG e specialista, tuttavia è possibile che una quota rilevante dei pazienti venga gestita esclusivamente nell’ambito delle cure primarie. In realtà è poco conosciuto quanto il MMG consideri proprio appannaggio la gestione diretta di tali patologie (nel senso di una autonoma programmazione dei percorsi diagnosticoterapeutici) o quanto ricorra alla collaborazione degli specialisti o addirittura all’affidamento diretto del caso ai centri gastroenterologici di riferimento. Abbiamo voluto quindi sondare quale rilevanza abbiano alcune malattie digestive nella percezione soggettiva del MMG, qual è la percezione di incidenza sul lavoro quotidiano, quale impegno professionale esse richiedano e quale è il rapporto di gestione della patologia con gli specialisti. Metodi I MMG iscritti alla SIMG di Bologna sono stati invitati a rispondere ad un questionario on line, in cui si ponevano 6 domande per ciascuna patologia selezionata. Le problematiche gastroenterologiche su cui eseguire l’indagine sono state selezionate sulla n.6>>> 2013 base di differenti epidemiologie e necessità di expertise specifico per la loro gestione. Sono state pertanto selezionate l’infezione da Helicobacter pylori (HP), le intolleranze alimentari, la stipsi cronica, la diarrea cronica, l’epatite virale HCV-correlata e l’ascite. Le domande poste per ciascun item erano le seguenti: quale impatto sull’attività quotidiana del MMG, quando e come nasce il sospetto diagnostico della patologia, chi gestisce l’iter diagnostico, chi decide e gestisce la terapia, chi si fa carico della gestione del follow-up e, infine, quale rilevanza sanitaria e sociale avrà lo specifico problema nel prossimo futuro (previsione di una espansione o di una regressione del problema). Hanno partecipato allo studio 55 MMG iscritti alla SIMG di Bologna (71% maschi) con un carico assistenziale totale di oltre 88.000 pazienti e con un’anzianità media di attività convenzionata>25 anni nel 62% dei casi. Risultati La prima domanda del questionario aveva l’intento di sondare la percezione del MMG di quanta rilevanza abbia lo specifico problema digestivo nel proprio contesto lavorativo (Fig. 1). La stipsi cronica risulta essere per tutti un problema significativo: il 68% lo considera di grande rilevanza e di forte impegno professionale. Questi dati confermano l’impatto epidemiologico della stipsi nella popolazione degli assi- Malattie digestive Medici di Medicina Generale, SIMG Bologna stiti, in particolare in quelli più anziani 6. Di notevole impatto sulla attività quotidiana del medico di famiglia sono anche le altre patologie ad elevata diffusione nella popolazione: intolleranza alimentari e l’infezione da HP, che risultano essere rilevanti e impegnative per l’85% dei MMG. Di impatto marginale per oltre il 30% degli intervistati sono la diarrea cronica e l’epatite virale HCV correlata; assolutamente marginale, probabilmente in relazione alla sua bassa prevalenza, l’ascite (93% delle risposte). Il sospetto diagnostico del singolo problema digestivo nasce in genere quando il paziente accede all’ambulatorio del proprio medico curante: come espresso nella Figura 2 ciò avviene in crescendo a partire da un minimo del 14% dei casi (epatite virale HCV-correlata) a un massimo del 76% (la stipsi). La segnalazione da parte dei centri specialistici di riferimento è rilevante (2427%) solo nei casi di epatite virale e sue complicanze, laddove prevale comunque la rilevazione casuale, che avviene spesso nel corso dell’esecuzione di esami di routine o di altri esami non indirizzati specificatamente alla diagnosi del problema (44%). Interessante, invece, da sottolineare la discreta percentuale di intervento attivo del medico di medicina generale (variabile dall’8 al 23% a seconda della patologia) che ha predisposto dei propri percorsi di medicina di iniziativa per i singoli problemi digestivi. Rivista Società Italiana di Medicina Generale 7 Malattie digestive M. Salera et al. Figura 1. Rilevanza del problema nel contesto lavorativo del MMG. Stipsi 32 Intolleranza alim. 13 Infezione HP 15 Diarrea 62 60 25 60 2 25 33 Epatite HCV 6 60 37 52 58 Ascite 5 93 0 20% 7 40% Marginale 60% Intermedio 80% Rilevante 100% Impegnativo Figura 2. Formulazione del sospetto diagnostico della patologia digestiva: A. casualmente (eseguendo esami di routine non indirizzati alla diagnosi del problema); B. all’interno di percorsi di medicina di iniziativa predisposti dal MMG; C. per segnalazione dell’ospedale; D. per accesso diretto del paziente in ambulatorio causa sintomatologia specifica. 76 10 8 8 5 11 8 44 23 6 15 13 16 10 13 Ascite Epatite HCV Casuale Iniziativa MMG Rivista Società Italiana di Medicina Generale Ospedale Stipsi 15 27 0% 8 74 18 40% 20% 63 Diarrea 60% 49 50 24 Intolleranza alim. 80% 14 Infezione HP 100% Accesso paziente Una volta individuato il problema, è necessario avviare un iter diagnostico specifico: nella maggioranza delle malattie digestive che abbiamo preso in considerazione, la quasi totalità dei MMG prescrive le indagini di primo livello e poi invia il paziente allo specialista per condividere le scelte diagnostico-terapeutiche e per gestire il paziente in collaborazione (Fig. 3). Ci sono però due campi in cui la Medicina Generale rivendica con forza la propria pertinenza e la gestione autonoma del problema: si tratta della stipsi cronica (83%) e dell’infezione da HP (90%). Quest’ultima rappresenta certamente un’area di intervento della MG in funzione della facilità diagnostica e delle terapie disponibili 7, anche se persistono aree di incertezza legate prevalentemente alle disposizioni normative conflittuali in assenza di linee guida condivise con la Medicina Generale 8. La quarta domanda del questionario sonda la disponibilità del MMG a gestire la terapia, una volta definita la diagnosi. Molto spesso la terapia del singolo problema gastroenterologico viene decisa dallo specialista di riferimento e poi seguita nel tempo dal MMG, nell’ambito di una gestione in collaborazione (Fig. 4); solo nel caso dell’epatite virale HCV una discreta percentuale dei casi (33%) viene affidata totalmente al centro specialistico, probabilmente anche in relazione alla complessità degli schemi terapeutici che la patologia comporta. Ancora una volta, stipsi e infezione da HP vengono avocate dal medico di medicina generale, che per il 90% degli intervistati decide in prima persona il trattamento e gestisce la terapia in totale autonomia. Anche per quanto riguarda il follow-up delle malattie digestive, il MMG opta nella maggioranza dei casi per una piena collaborazione con lo specialista, riservandosi il compito di rilevare gli effetti collaterali dei farmaci, di diagnosticare per tempo le possibile complicanze e di rinviare il paziente allo specialista per i controlli programmati o in caso di necessità (Fig. 5). Ciò non vale per la stipsi e per l’infezione da HP, campi in cui più del 75% degli intervistati afferma di prendere in carico il paziente, impostando personalmente il proseguo delle cure e lo scadenziario dei controlli clinici e strumentali. Malattie digestive Malattie digestive nelle cure primarie F i g u r a 3. Il comportamento del MMG di fronte al problema digestivo: A. gestione in prima persona del percorso diagnostico e terapeutico; B. avvio delle indagini di primo livello e poi invio del paziente allo specialista per condividere le scelte e gestire il paziente in collaborazione; C. affidamento al centro specialistico di riferimento. Infezione HP 90 Stipsi 10 83 Diarrea 17 25 Intolleranza alim. 75 15 73 Epatite HCV 90 Ascite 85 12 9 15 Con l’ultima domanda del questionario si è richiesto al MMG di cimentarsi in una previsione per il futuro: le patologie digestive sin qui trattate tenderanno a diventare più diffuse, complesse e rilevanti e quindi a coinvolgere e a impegnare più duramente il MMG sul piano professionale? Certamente sì quando si parla di epatite virale HCV (45% degli intervistati), forse in rapporto al crescere degli immigrati provenienti dalle zone endemiche, e quando si parla di stipsi (48%), forse in relazione all’invecchiamento della popolazione e al cambiamento delle abitudini alimentari. Ma il problema più temuto è senz’altro quello delle intolleranze alimentari che per l’87% dei MMG comporterà presto gravi problemi di gestione, sia per una maggiore diffusione nella popolazione sia per le difficoltà di diagnosi e cura che esse comportano 9. Conclusioni 0 20% Gestione in autonomia 40% 60% Indagini di 1° livello e cogestione 80% 100% Delega allo specialista F i g u r a 4. Gestione della terapia: A. in autonomia dal MMG; B. delegata totalmente al centro specialistico di riferimento; C: decisa dallo specialista e seguita nel tempo dal MMG, nell’ambito di una gestione in collaborazione. 100% 12 10 88 90 80% 70 92 10 5 3 Ascite Epatite HCV 0% Gestita in collaborazione 20 Infezione HP 33 1 32 Delegata allo specialista Diarrea 40% 20% 67 Stipsi 67 Intolleranza alim. 60% Decisa e gestita dal MMG I risultati di questa indagine illustrano come il MMG sia parte attiva di un sistema integrato di gestione delle patologie digestive dove la collaborazione con gli specialisti di riferimento e la condivisione dei percorsi sono gli elementi fondamentali. Risulta essenziale il ruolo del MMG nella intercettazione del caso e nel suo primo inquadramento diagnostico nonché nella facilitazione della compliance terapeutica del paziente e della sua adesione ai controlli clinici e strumentali programmati. Due sono le problematiche gastroenterologiche che vengono prepotentemente avocate dai medici di famiglia per una propria gestione in autonomia: si tratta della stipsi cronica e della infezione da HP, considerate ormai campo specifico di intervento della Medicina Generale. Ringraziamenti Hanno partecipato allo studio i seguenti MMG della SIMG Bologna: Aldrovandi Emanuela, Amorati Paolo, Amovilli Marco, Bandi Giulio, Baraldini Laura, Benassi Rita, Borghi Paolo, Camanzi Maurizio, Cammarata Antonino, Casadei Massimo, Casadio Roberto, Dalaiti Andrea, Delfini Enrico, Erlich Shirley, Ermini Giuliano, Francia Roberta, Furlò Giancarlo, Grandi Marina, Lalli Antonio luigi, Livio Franco, Maccaferri Marco, Marzo Carla, Mazzetti Gaito Piero, Nadalini Nino, Oggianu Rivista Società Italiana di Medicina Generale 9 Malattie digestive M. Salera et al. F i g u r a 5. Ruolo del MMG nel follow-up del problema gastroenterologico: A. delega completa al centro specialistico di riferimento; B. gestione in collaborazione con lo specialista; C. presa in carico totale da parte del MMG (impostazione personale delle cure e dello scadenziario dei controlli). 100% 5 5 25 80% 40% 94 70 92 1 2 8 60% Bibliografia 23 77 3 75 77 22 23 Diarrea 0% Intolleranza alim. 20% 4 Delega allo specialista Gestione in collaborazione Infezione HP Stipsi Ascite Epatite HCV 3 Presa in carico del MMG 5 6 7 8 Massimo, Ognibene Gianluca, Palasciano Maria, Palestini Saida, Pollini Giovanni, Pretto Paola, Quadrelli Stefano, Rambaldi Francesca, Ramini Giovanni, Rocchi Piergiovanni, Romualdi Anna, Rubini Stefano, Santi Sandra, 10 Rivista Società Italiana di Medicina Generale Serio Alberto, Severino Anna Maria, Siena Matteo, Simoncini Elisabetta, Speziali Pietro, Tavernelli Stefano, Tovoli Stefano, Vecchiatini Roberto, Verri Andrea, Virgilio Silvana, Zoccoli Giuseppe. 9 VII Report Health Search 2011-2012. www. healthsearch.it/documenti/Archivio/Report/ VIIReport_2011-2012/uniflip_publication/ index.html. Libro Bianco AISF (Associazione Italiana per lo Studio del Fegato) 2011. Proposta per un piano nazionale per il controllo delle malattie epatiche. Definizione ambiti e possibili interventi. www.webaisf.org/media/13891/ libro-bianco-aisf-2011.pdf. Everhart JE, Kruszan.Maran D, PerezPerez GI, ET AL. Seroprevalance and ethnic differences in Helicobacter pilori infection among adults in the United States. Journal of Infectious Diseases 2000;181:1359-1363. Biselli R, Fortini M, Matricardi PM, et al. Incidence of Helicobacter pilori infection in a cohort of Italian military students. Infection 1999;27:187-91. Capurso L, Ubaldi E. Stipsi cronica e probiotici. Medicina Generale 2008;5:32-40. Tosetti C, Cottone C, Ubaldi E. La stipsi cronica. Inquadramento clinico. Medicina Generale 2011;6:49-54. Maconi G, Tosetti C, Miroglio G, et al. Management of Helicobacter pylori related gastrointestinal diseases by general practitioners in Italy. Alimentary Pharmacology & Therapeutics 1999;11:1499-1504. Tosetti C. Evolution of the management of Helicobacter pylori infection in general practice. Helicobacter 2006;1208-10. Bozzani A. Il ruolo della ipersensibilità agli alimenti nella sindrome dell’intestino irritabile. Medicina Generale 2006;4:42-43. G.L. Bettini1, A. Bonvicini1, A. Braga1, G. Filippini1, M.A. Franchini1, F. Inverardi1, M.G. Rossi1, A. Turrini1, G. Bettoncelli2 Ambulatorio Medico San Luca, Villanuova sul Clisi (Bs); 2 Responsabile Area Pneumologica SIMG bpco 1 BPCO a 270° Nel novembre 2009 ha preso corpo un progetto della nostra medicina di gruppo per la medicina di famiglia per l’approccio alla diagnosi di BPCO nei pazienti di età compresa tra 35 e 65 anni, a rischio per esposizione tabagica, denominato BPCO a 270°. Il nome voleva indicare la volontà di riappropriarsi della gestione del malato di BPCO per la parte di nostra competenza ristabilendo un giusto rapporto di collaborazione con gli specialisti. Con il patrocinio di AIPO ricerche, il progetto è stato realizzato dal team della medicina di gruppo “Ambulatorio San Luca s.r.l.” di Villanuova sul Clisi in provincia di Brescia. Il gruppo era (ed è) costituito da 8 medici di famiglia, una infermiera professionale, 3 segretarie e 2 specializzandi in medicina di famiglia che, avvicendandosi nei 12 mesi di lavoro, hanno collaborato al progetto dal 1 novembre 2010 al 31 ottobre 2011. Partendo dalle premesse, note a tutti, circa le criticità evidenziate (Tab. I) nell’approccio alla diagnosi della BPCO, abbiamo cercato di proporre un modello adatto al setting della medicina generale, con strumenti facilmente reperibili, di pronto e rapido utilizzo e di basso costo (Tab. II). Il progetto si proponeva di raggiungere i seguenti obiettivi: • raccogliere il dato fumo in tutti i pazienti afferenti all’ambulatorio nell’ambito di un intervento opportunistico; • selezionare in base al dato anamnestico la popolazione a rischio; n.6>>> 2013 • individuare in questo gruppo mediante un pratico test di screening una sottopopolazione di pazienti ad alta probabilità di danno tabagico da sottoporre a esame spirometrico per diagnosi di BPCO; • elargire a tutti i pazienti fumatori un minimal advice; • intercettare i pazienti BPCO dei primi stadi mediante diagnosi spirometrica; • implementare un modello di collaborazione con gli specialisti secondo il PDT per la BPCO rilasciato dall’ASL di Brescia. Ta b e l l a I. Le criticità note. • Dato fumo incompletamente indagato • Diagnosi tardiva e negli stadi più avanzati e sintomatici • Prevalenza bassa negli stadi iniziali • Imprecisione nella stadiazione e nella classificazione per carenze metodologoche diagnostiche • La maggior parte dei pazienti hanno diagnosi senza esame spirometrico • Incompletezza e inaffidabilità dei dati diagnostici essenziali (spiro senza FEV1) • Terapia spesso sproporzionata alla gravità della malattia o non commisurabile alla stessa • Scarsa compliance alla terapia continuativa Il Progetto Il progetto era basato su interventi da effettuarsi in regime di medicina opportunistica durante la normale attività lavorativa. La Figura 1 mostra il disegno del progetto. Il progetto è iniziato nell’aprile del 2010 con la fase preparatoria, con incontri tra pari su temi di audit e, successivamente, in collaborazione con il servizio di pneumologia dell’Ospedale locale, con gli specialisti su temi di aggiornamento specifico. I dati iniziali del gruppo (Fig. 2) mostravano una prevalenza di BPCO del 5,1% (mediana 3,94) con notevole variabilità nel gruppo anche quando si confronta la prevalenza con la presenza del dato spirometrico a conferma della diagnosi (Fig. 3). Da notare il dato di un Collega con abnorme prevalenza associata al valore più basso di conferma spirometrica, emblematico di certe situazio- Ta b e l l a I I. Gli strumenti. • L’audit • L’anamnesi • Lo “screening” • Il minimal advice • La collaborazione Rivista Società Italiana di Medicina Generale 11 BPCO G.L. Bettini et al. Figura 1. Disegno dello studio. Riunione di Start-up • Dott. Bettini (MMG): presentazione protocollo operativo al Gruppo Cure Primarie (8 MMG) Entro il 15 ottobre 2010 TO: prevalenza BPCO confermata spirometria sul totale fumatori • dott. Vincenzo: BPCO, stato dell’arte Entro il 30 ottobre 2010 Novembre 2010 Arruolamento fumatori ed ex fumatori con età 35-65 anni - Stop Winsmoke, test di Fagestroem e motivazionale Esame PIKO 6 + - Bassa Motivazione Consuelling Alta motivazione Conferma spirometrica PNL BPCO Sì/No – Stadiazione Trattamento farmacologico + Trattamento come da linee guida internazionali Astinenza 12 mesi Sì/No T1-Apr 2011 T2-Nov 2011 Figura 2. Ambulatorio San Luca. Prevalenza 20 17,71 15 10 3,98 4,06 3,57 12 o7 ed ic o6 M o5 ed ic M ed ic o4 Rivista Società Italiana di Medicina Generale M ed ic o3 M ed ic o2 M ed ic M M ed ic o1 0 HS 2,53 2,57 2,43 o8 3,9 ed ic 4,23 M 5 ni note in medicina generale in cui prevale la diagnosi clinica su quella spirometrica. L’osservazione dei dati nei 2 anni precedenti evidenzia come l’esame spirometrico (la rilevazione è riferita a tutte le spirometrie registrate ed eseguite per malattie ostruttive o per altri motivi come tutela della salute nei luoghi di lavoro) sia utilizzato marginalmente con una media di poco più di una spirometria per medico al mese (103 e 119 nei 2 anni precedenti lo studio). Il progetto prevedeva che tutti i pazienti, di età compresa tra 35 e 65 anni che fossero afferiti all’ambulatorio per qualunque causa, dovessero essere indagati circa l’abitudine tabagica. Un “warning” inserito nella cartella ricordava al medico che quel paziente era arruolabile nel progetto. I casi possibili erano 4: 1. paziente che non ha mai fumato. Si cancellava l’avviso e si registrava il dato fumo. In questo caso l’iter finiva qui; 2. paziente ex fumatore: se non già fatto, si inseriva il problema “Anamnesi personale uso tabacco” con la data di BPCO BPCO a 270° F i g u r a 3. Prevalenza/% spirometrie. 80 Ta b e l l A I I I. Progetto BPCO 270° - Dati iniziali. Pazienti totali 73,17 72,5 Età 35-65 72 70 61,11 60 39,53 40 32,5 Spirometria 20 17,71 9,14 10 119 20 giorni 624 (5,08%) Ta b e l l a I V. Progetto BPCO 270° - I risultati. Pazienti da esaminare 6.144 Pazienti valutati abitudine tabagica 3.751 HS ed ico 7 3,57 M ed ico 6 M ed ico 5 M ico 4 inizio, quindi si valutava il consumo tabagico pregresso inteso come packyear (n. sigarette medio x n. anni di fumo/20). Cut off posto a 10 Py. Nel caso fosse superiore a 10 si proponeva l’esecuzione di test di screening “PIKO 6”. Il valore di questo determinava il successivo iter, come vedremo poi; 3. paziente fumatore: inserimento del problema “Anamnesi personale uso tabacco” secondo quanto già detto, counselling breve e test di Fagestroem/Mondor a discrezione del medico nei casi idonei, valutazione consumo tabagico in pack/ year ed esecuzione del test di screening “Piko 6”. Se il valore era inferiore a 70 (come per il Tiffeneau nella BPCO) si richiedeva spirometria con eventuale test di broncodilatazione per sospetta BPCO. Se il valore era superiore a 80 non si dava indicazione ad esame spirometrico. Nel caso di risultato tra 70 e 79, si lasciava alla valutazione clinica del medico curante la opportunità di esecuzione di spirometria secondo i criteri codificati. In ogni caso il giudizio clinico del curante poteva condurre alla 2,57 8 2,53 2,43 ed M ico 3 4,06 ed ico 2 ed M ico 1 ed M ico 3,98 3,9 M 4,23 ed M Spirometrie eseguite periodo 2009-10 Prevalenza 30 0 103 Pazienti con diagnosi BPCO 33,33 6.144 (50,05%) Spirometrie eseguite periodo 2008-09 Tempo d’attesa 31,03 50 12.275 necessità di approfondimento spirometrico a prescindere dal risultato del test di screening; 4. paziente noto per precedente diagnosi di BPCO o Asma: valutazione clinica e anamnestica della necessità di valutazione spirometrica. Risultati Le Tabelle III e IV illustrano alcuni dati iniziali del nostro lavoro. I pazienti da esaminare rappresentavano circa il 50% del totale (6.144 su 12.275). Alla fine dell’anno sono stati valutati 3.751 pazienti, cioè il 61,5% (mediana 65,9) con una grossa variabilità nelle performance dei membri del gruppo. I fumatori attivi erano 724, cioè il 19,3% (la DOXA nel 2010 aveva calcolato la prevalenza dei fumatori al 21,7% in Italia) mentre i fumatori che avevano superato il cut off dei 10 pack year erano 657, il 17,5%. Abbiamo eseguito e registrato 657 esami con “Piko 6”. Un quarto circa di questi avevano un valore borderline (tra 70 e 79) e 1 su 10 circa, francamente patologico. Sulla base di questi dati abbiamo richiesto 206 spirome- Percentuale sul totale 61,5% (88,7% - 26,3% Mediana 65,9) Fumatori attivi 724 (19,3%) Fumatori > 10 PY 657 (17,51%) trie, cioè poco meno di un terzo dei pazienti che avevano mostrato un consumo tabagico oltre i valori limite dei 10 P.Y. (Tab. V). Come si vede dalla Tabella VI le spirometrie effettivamente eseguite sono state 164; cioè ben 42 esami, 1 su 4, prescritti dal medico non sono stati eseguiti dal pazien- Ta b e l l a V. Progetto BPCO 270° - I risultati. Pazienti da esaminare 6.144 Pazienti valutati 3.751 - 61% Fumatori 724 - 19,3% Pazienti > 10 PY = piko eseguiti 657 Piko borderline 70/79 170 - 25,9 Piko > 70 72 - 10,9 Spirometrie richieste 206 - 31% Rivista Società Italiana di Medicina Generale 13 BPCO Ta b e l l a V I. Progetto BPCO 270° - I risultati. Pazienti totali G.L. Bettini et al. 6.144 Nuove diagnosi – stadiazione Pazienti valutati 3.751 - 61% • Stadio 1° 46 (88,3%) Fumatori 724 - 19,3% • Stadio 2° 4 (7,8%) • Stadio 3° 2 (3,9%) • Stadio 4° 0 Pazienti > 10 PY = piko eseguiti 657 Piko border line 70/79 170 - 25,9 Piko > 70 72 - 10,9 Spirometrie realmente eseguite 164 - 25% Minimal advice registrato Spirometrie non eseguite Ta b e l l a I X . Progetto BPCO 270° - Riepilogo. • 689 pazienti con diagnosi di BPCO (vs. 624; +65) • 5,63% prevalenza finale (vs. 5,08; +0,55) • 88,7% con dato fumo registrati (vs. 71,5%) • 32,5% dei BPCO sono fumatori (vs. 27,2%) • 42% hanno una spirometria prescritta (vs. 29,6%) • 32,8% con FEV1 registrato (vs. 17,1%) (cioè oltre il 75% delle spirometrie hanno il FEV1 registrato!) • 55,51 età media alla diagnosi 412 42 te. Ricordiamo che la fascia dei pazienti era sotto i 65 anni e che la BPCO è l’unica importante malattia cronica priva di esenzione e che il costo di una spirometria va da una trentina di euro (spirometria semplice) a circa un centinaio di euro (spirometria globale con test di broncodilatazione). Il minimal advice è stato elargito e registrato in 412 pazienti. Come sempre accade, una buona parte di noi ha effettuato, in alcuni casi, il minimal advice senza registrarlo … Il lavoro ha prodotto questi risultati in termini di nuove diagnosi (Tabb. VII, VIII): le nuove diagnosi hanno interessato quasi esclusivamente (88%) il primo stadio della BPCO, come ci si aspettava trattandosi di pazienti asintomatici o paucisintomatici. I 2 pazienti al 3° stadio erano asmatici riclassificati in BPCO probabilmente per evoluzione del quadro clinico. Alla fine dell’anno di lavoro i dati complessi- Ta b e l l a V I I. Le nuove diagnosi. Pazienti > 10 pack/year 657 Piko anormale 242 Ta b e l l a X . BPCO 270° - Fumo Pz tot Spirometrie patologiche 52 Rivista Società Italiana di Medicina Generale % valut % fumat Piko Piko bord Piko patol Spiro Con MMG 1 777 88,7% 689 21,2% 146 148 43 10 32 122 MMG 2 772 64,4% 487 21,2% 113 46 6 12 23 6 MMG 3 802 211 26,3% 39 18,5% 24 6 6 14 1 MMG 4 766 67,4 516 17,4 90 79 6 6 13 95 MMG 5 673 73,6% 495 10,9% 54 83 13 11 35 55 MMG 6 745 50,1% 373 25,2% 94 85 13 1 32 43 MMG 7 827 39,5% 327 15,9% 62 9 2 4 10 11 MMG 8 782 82,2% 643 19,6% 126 183 81 22 55 79 Spirometrie eseguite 164 14 vi dimostrano (Tab. IX) un significativo incremento delle nuove diagnosi di BPCO (+65 contando anche altre diagnosi nei pazienti over 65 anni) con buona efficienza nella registrazione del dato fumo (88,7% contro il 71,5% iniziale), con diagnosi spirometrica quasi raddoppiata e il dato registrato di Fev1 (stadiazione possibile!) nel 75% dei casi. Altro dato importante è l’età media alla diagnosi nei pazienti dello studio: 55,51 anni. Il BMI è stato registrato nel 76% dei pazienti BPCO. Il lavoro è stato effettuato dagli otto medici con percentuali di efficienza assai diverse, legate a fattori di diversa origine, che vanno da una differente adesione al progetto, da differente efficacia personale sino a problemi personali incidentali che hanno influenzato la partecipazione. Nella Tabella X potete vedere il quadro riassuntivo relativo al lavoro dei medici. Questa variabilità era forse legata a una inconciliabilità o impraticabilità, almeno secondo alcuni, di questo lavoro con la pratica clinica quotidiana? Lo abbiamo chiesto ai medici e la Figura 4 evidenzia come quasi tutti, ma non tutti, i Colleghi abbiano giudicato che il carico lavorativo aggiuntivo sia compatibile con il pur pesante carico lavorativo quotidiano del medico di famiglia. Cosa ha prodotto, ed è rimasto, di questo Ta b e l l a V I I I. Progetto BPCO 270° - I risultati. BPCO BPCO a 270° Ta b e l l a X I. Dati BPCO 2011. F i g u r a 4. Questionario. Prevalenza Registrazione fumo Spirometria Spirometria con dato Governo clinico ASL 2011 3,2 69,4 35,6 42,3 Heath Search 2012 3,57 79,5 61 - S. Luca 5,63 97,2 72,4 75,2 L’impegno richiesto è compatibile con il lavoro routin.? • Sì 7 • No 1 L’entità dell’impegno è comunque stato: • Poco impegnativo 3 • Impegnativo 5 • Molto impegnativo 0 lavoro, come traccia di modificazione permanente o persistente, mutuando i termini applicati per la fibrillazione atriale, nella pratica quotidiana dei medici che vi hanno partecipato? Il dato soggettivo è illustrato nella Figura 5 dove si vede come questa esperienza abbia indotto un cambiamento rispetto agli atteggiamenti inziali della quasi totalità dei Colleghi nei confronti del problema fumo e della totalità nei confronti dell’approccio alla BPCO. Mentre la Tabella XI propone un significativo confronto dei dati raggiunti con realtà professionali significative a livello locale (Governo Clinico Asl Brescia) e a livello nazionale (Health Search). Ma il dato soggettivo non basta e quindi siamo andati a vedere cosa è cambiato dal punto di vista pratico nel comportamento dei medici nell’anno successivo al termine del progetto in assenza di input alla prosecuzione di attività che non fossero l’autoconvincimento della pratica utilità delle stesse. Le spirometrie eseguite nel periodo succesF i g u r a 5. Questionario. L’approccio al problema fumo è: • Immodificato 1 • Poco modificato 3 • Molto modificato 3 L’approccio al problema BPCO è: • Immodificato 0 • Poco modificato 1 • Molto modificato 6 sivo (01/11/2011-31/10/2012) sono state 280 e gli esami piko 6 eseguiti, 100. Se confrontiamo il dato spirometrico con quello prima dell’intervento (Tab. III), si può ben vedere come la richiesta sia incrementata di oltre il 150% e per quanto riguarda il test di screening vi sia stato un utilizzo pratico al di là della necessità legata al progetto. L’ultimo dato significativo di questo lavoro, illustrato nella Figura 6, riguardante l’intervento sul fumo mostra come, a distanza di oltre un anno, la metà dei pazienti con nuova diagnosi (BPCO stadio 1°) persista nella cessazione dell’abitudine tabagica. Tale dato non può non essere significativamente legato alla persistenza nel tempo del rapporto medico-paziente che lega spesso per decenni il paziente al proprio medico e ne impronta il rapporto, rendendone significativamente più efficaci gli interventi reiterati nel tempo. Conclusioni Il lavoro che abbiamo concluso temporalmente il 30 ottobre 2011 in realtà prosegue e, nell’esperienza quotidiana, continua ad essere implementato e corretto. In via di realizzazione, con la partecipazione dei nuovi giovani medici specializzandi, la ricerca nella fascia 65-70 che ci pare quella in cui si possa programmare un intervento preventivo sui pazienti senza diagnosi ma con abitudine tabagica corrente o pregressa significativa. Il “BPCO a 270°” a nostro avviso dimostra che le principali criticità riscontrate nell’approccio alla diagnosi della BPCO siano risolvibili nell’ambito della Medicina di Famiglia con interventi di medicina opportunistica a costi assai contenuti. La nostra esperienza, non si tratta di uno studio con i sacri crismi scientifici, necessita di conferme e di studi costruiti ad hoc per eliminare bias ma per ora sembra concretamente evidenziare le immense potenzialità della medicina generale nella capacità di dare risposta a problemi concreti, purché ci si creda. “Tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa” Einstein Ringraziamenti Un particolare ringraziamento a chi ha sostenuto attivamente la realizzazione del progetto: AIPO ricerche e G. Parlato. Un ringraziamento per l’aiuto concreto ai medici specializzandi: A. Avanzi, C. Provaroni. Infine un grazie allo staff dello studio per la preziosa collaborazione: la nostra I.P. M. Tiboni e lo staff di segreteria coordinato da L. Arbini: C. Cocca e M. Baccinelli. F i g u r a 6. Problema fumo. Interventi sui nuovi pz BPCO Interventi di smoke cessation Metà dei pazienti di nuova diagnosi hanno cessato il fumo di sigaretta a distanza di 1 anno dalla fine del progetto strutturato (dati personali) 412 consigli 65 pz eleggibili a terapia farmacologica Rivista Società Italiana di Medicina Generale 15 Riccardo De Gobbi, Roberto Fassina L’errore Medici di Medicina Generale, docenti nella Scuola di Formazione Specifica in Medicina Generale della Regione Veneto L’errore in medicina – Parte prima Introduzione Il riconoscimento dell’errore è antico quanto la medicina ma la ricerca sistematica delle cause o, forse meglio, dei fattori e delle procedure che lo hanno favorito è una acquisizione piuttosto recente. Nel 1992 il Department of Health (UK) pubblica il primo manuale per la realizzazione di programmi di Risk Management (RM); nel 1995 vengono introdotti standard per il RM, viene adottato un sistema di incident reporting, viene introdotta una policy per il monitoraggio e l’analisi degli incidenti più gravi nonché un sistema di gestione dei reclami, di informazione al paziente e di acquisizione del consenso; vengono introdotte precise modalità di compilazione, utilizzo ed archiviazione delle cartelle cliniche e di inserimento di neo assunti nello staff 1. Il riferimento internazionale di tutte le iniziative istituzionali, che nei paesi occidentali hanno affrontato il problema dell’errore e del rischio clinico, è dato dal rapporto del 1999 “To err is Human” dell’Institute of Medicine della National Academy of Science (USA). Esso evidenzia che annualmente: 1.000.000 di americani riporta danni da cure mediche; un numero compreso tra 44000 e 98000 americani muore per errori medici; dai 17 ai 37,6 miliardi di dollari vengono spesi per errori e danni 2. Nel 2000 l’Agenzia Americana per la Qualità delle Cure e la Sicurezza (Agency for Healthcare and Quality Research, AHRQ) vara un innovativo Piano per la sicurezza: vengono finanziati progetti finalizzati allo studio ed alla prevenzione degli errori nelle cure, aggiornati periodicamente 3. In Italia, il Ministero della Salute nel 2004 pubblica “Risk Management in Sanità. Il problema degli errori” e nel 2006 “La sicurezza dei pazienti e la gestione del rischio clinico”, cui sono seguiti progetti ed iniziative in alcune regioni italiane 4. A livello accademico e professionale nel nostro paese vanno ricordate le magistrali lezioni del maestro Augusto Murri (1841- La Medicina Generale presenta un’elevata complessità gestionale, legata a molteplici fattori. Tra questi, molto rilevante è il fenomeno del progressivo incremento di prevalenza di malattie cronico-degenerative e delle conseguenti comorbilità. Il medico di famiglia, in questo sistema complesso, è il primo e principale riferimento per la salute delle persone, ed è chiamato a trovare tutte le risorse, le energie e le competenze necessarie per rispondere a questa domanda. C’è quindi la necessità di costanti verifiche e di una formazione continua guidata dai bisogni e orientata alle criticità. Un indicatore di bisogni formativi e culturali è rappresentato dalla conoscenza e consapevolezza dei “punti deboli”, che possono emergere conoscendo le distorsioni dei percorsi assistenziali provocati dagli errori gestionali e professionali. Per tale motivo, occorre prendere in considerazione il rischio clinico insito nell’attività professionale, gli errori medici e gli eventi avversi che possono verificarsi, così da correggere i percorsi e i comportamenti responsabili di danni evitabili al paziente. L’articolo, insieme a un altro che seguirà su questa Rivista, si pone l’obiettivo di analizzare le dinamiche dell’errore in medicina e al tempo stesso individuare le possibilità di prevenzione attraverso diversi approcci, che possono partire sia dalle strutture e dai processi, sia dall’individuo con le sue caratteristiche e i suoi limiti. Questo lavoro contribuisce a sviluppare nell’analisi dell’errore un prezioso strumento che ci consente di individuare misure correttive delle criticità umane, organizzative e strutturali, e quindi un mezzo per tendere al miglioramento continuo della qualità delle cure e della sicurezza delle persone. Damiano Parretti Responsabile Incident Reporting SIMG 16 Rivista Società Italiana di Medicina Generale n.6>>> 2013 L’errore L’errore in medicina – Parte prima 1932) 20: esse hanno tracciato una via che è stata proficuamente sviluppata in particolare da E. Poli, Mario Austoni e la sua Scuola 5. Tuttavia, malgrado l’indiscusso valore dei clinici italiani, gli apporti più innovativi nell’analisi dell’errore e del rischio in medicina sono venuti dai Paesi Anglosassoni, con l’elaborazione dell’Analisi dei Sistemi (che si occupa delle strutture che erogano le cure e dei processi da queste seguiti) e con gli approfondimenti della Psicologia cognitivista (che si occupa dell’individuo e di ciò che lo induce ad errare). Scopo di questo articolo è presentare questi due importanti approcci all’errore, analizzandone le varie parti e la relativa specificità in relazione alla professione medica, e commentando la loro utilizzazione pratica in due casi clinici presi dal vero. L’approccio sistemico Nell’ambito dell’approccio sistemico dobbiamo ricordare gli importanti contributi pervenutici da ambiti culturali e professionali apparentemente lontani dalla medicina, quali l’ingegneria e l’aeronautica 6. In ambito medico l’approccio sistemico è stato sviluppato con successo in particolare da James Reason, psicologo di Cambridge che è divenuto un punto di riferimento internazionale: basterà qui ricordare il suo scherzoso modello delle fette di formaggio svizzero giustapposte che rappresentano altrettanti potenziali barriere all’errore, che si manifesterà solo se ogni barriera non riesce a compensare ciò che la barriera precedente non è riuscita a fermare. I “buchi” del formaggio simbolizzano le permeabilità dei sistemi di controllo: se non si pone rimedio alle permeabilità precedenti, l’errore come una freccia percorrerà tutto il suo iter lesivo 7. L’approccio sistemico ha fornito e continua a fornire contributi di grande rilievo nella prevenzione dell’errore, in particolare in ambito sanitario. In sintesi possiamo affermare che esso si occupa non tanto dell’individuo quanto piuttosto dei processi lavorativi nei quali l’operatore sanitario è inserito e delle procedure con le quali svolge il suo lavoro: si esaminano analiticamente tutte le fasi del processo con l’intento di prevenire l’errore e di mitigarne le conseguenze con sistemi di filtraggio e di compensazione. Il princi- pio che sta alla base di questo approccio è il riconoscimento che l’essere umano inevitabilmente commette errori: l’unico modo di prevenirli è quello di evidenziarli, di individuarne i più frequenti e ricorrenti e di ridurne la variabilità ed imprevedibilità stabilendo procedure rigorose e controllate. L’approccio sistemico ha individuato in particolare cinque aree di azione nella prevenzione dell’errore e degli effetti avversi 8. Aree di azione nell’approccio sistemico 1. 2. 3. 4. Ridurre la complessità. Ottimizzare il processo di Informazione. Introdurre procedure automatizzate. Usare meccanismi di restrizione nelle procedure ad alto rischio. 5. Mitigare gli effetti indesiderati di ogni innovazione attraverso un attento monitoraggio. 1. Ridurre la complessità Risale al discorso sul metodo di Cartesio l’aureo principio che non vi è pensiero o progetto tanto complesso che non possa essere tradotto in un numero adeguato di elaborazioni più semplici e comprensibili. Nei sistemi sanitari questo significa aver ben chiari tanto gli obiettivi quanto le varie tappe necessarie al raggiungimento degli obiettivi, ognuna delle quali comporta l’analisi delle procedure e degli operatori coinvolti. 2. Ottimizzare il processo di informazione in una ottica di continuità delle cure Molti errori sono correlati ad una incompleta o inadeguata trasmissione di informazioni: un importante articolo pubblicato nel 2008 dal New England documenta un impressionante numero di negligenze od inadeguatezze nella trasmissione e nella gestione delle informazioni sanitarie 9. Va pertanto favorita e controllata una corretta ed esauriente trasmissione delle informazioni tra i vari operatori sanitari. 3. Introdurre – con saggezza – un numero quanto possibile elevato di procedure automatizzate L’automazione delle procedure può com- portare una considerevole riduzione delle possibilità di errore sempre che il principio guida sia quello, tanto semplice quanto profondo, che l’automazione deve supportare non sostituire l’operatore sanitario. Se queste condizioni di partenza sono rispettate e se i processi automatizzati avvengono sotto il vigile controllo dell’operatore i risultati sono generalmente molto positivi. 4. Usare meccanismi di restrizione nelle procedure ad alta frequenza di errore o ad alto rischio Le applicazioni sono molteplici: dai programmi informatici intelligenti che mettono in guardia sulle interazioni farmacologiche pericolose all’abolizione di soluzioni concentrate di elettroliti (esempio potassio) per evitare errate somministrazioni. 5. Mitigare gli effetti indesiderati di ogni nuovo farmaco, tecnica o procedura attraverso un attento monitoraggio ed una semplificazione delle procedure Va ricordato che in un processo a più fasi, in cui si ipotizzi il 5% di probabilità media di errore o di evento indesiderato per ogni fase, se aumenta il numero di queste aumenta considerevolmente la probabilità di errore: con il passaggio da 1 a 5 fasi la probabilità sale al 33% ed arriva al 72% nei sistemi con 25 fasi 8. All’interno dell’approccio sistemico all’errore uno dei filoni più ricco di sviluppi e di ricadute positive per la medicina è la tecnica della RCA (Root-Cause-Analysis), l’analisi delle cause profonde di errore. Essa si è sviluppata in USA ed in Inghilterra sul finire del Novecento ed è stata recentemente perfezionata in Canada. L’Agenzia Sanitaria della Regione Emilia Romagna nel 2006 ne ha pubblicato una utilissima versione italiana. La RCA si basa sull’assunto che ogni evento sia l’effetto di una causa o di più concause che a loro volta possono essere l’effetto di ulteriori fattori causali: nell’indagine si risale a ritroso fino ad individuare ogni fattore causale e ad identificare le azioni correttive e di miglioramento. Nella RCA si effettua anzitutto una descrizione precisa e molto dettagliata dell’evento indesiderato con particolare attenzione a Rivista Società Italiana di Medicina Generale 17 L’errore R. De Gobbi, R. Fassina tutti i fattori che possono avere influenzato l’evento. Quindi fattore per fattore si prendono in esame le possibili cause chiedendosi sistematicamente perché la singola causa abbia potuto agire portando a quell’effetto 10. La rappresentazione grafica di una analisi delle cause profonde (diagramma a spina di pesce o diagramma ad albero) è particolarmente efficace nella individuazione delle possibili azioni correttive e migliorative. Esempio di caso clinico con evento critico esaminato con la metodica della RCA Si prenda in considerazione questo esempio (frattura di anca) tratto dalla casistica personale degli Autori. Ta b e l l a I. Esame con metodica RCA del fattore causale “Incremento Terapia Ipotensiva” (diagramma ad albero). Azioni correttive NO Sì È intervenuto adeguatamente e tempestivamente Azioni correttive NO Il personale era a conoscenza del rischio di caduta della paziente Sì Valutare e disporre le azioni correttive NO Sì È stata informata la paziente sui possibili effetti collaterali Valutare e disporre le azioni correttive NO Sì Era necessario? Incremento terapia ipotensiva 18 Rivista Società Italiana di Medicina Generale L’errore L’errore in medicina – Parte prima Una donna di 79 anni, ipertesa e diabetica da molti anni, viene ricoverata in reparto medico per edema polmonare in corso di crisi ipertensiva. Durante il ricovero viene potenziata la terapia ipotensiva (aggiun- ta di carvedilolo e diuretici: furosemide + spironolattone) con miglioramento di tutti i parametri cardiovascolari. Poco prima della dimissione, recatasi da sola al bagno, dopo avere urinato presenta un episodio sincopa- le in seguito al quale cade procurandosi un trauma cranico di moderata entità ed una frattura d’anca. La paziente viene ricoverata in ortopedia ove viene operata: la degenza si prolunga per settimane con sofferenza, Ta b e l l a I I. Esame con metodica RCA del fattore causale “La paziente si reca da sola in bagno” (diagramma ad albero). Disporre azioni correttive Il personale era a conoscenza del rischio di caduta? è intervenuto adeguatamente e tempestivamente? Sì NO Nel bagno sono presenti ausili che evitano le cadute? Disporre azioni correttive Sì NO Sono presenti barriere architettoniche Sì NO La caduta è stata favorita dalle caratteristiche del bagno Tornare al diagramma sulla terapia NO Sì Disporre azioni correttive È caduta per problemi legati alla terapia NO Era in grado di farlo Sì La paziente si reca da sola in bagno Rivista Società Italiana di Medicina Generale 19 L’errore disagi ed aumento della spesa sanitaria. L’analisi dell’evento critico con la metodica della Root Cause Analysis porta anzitutto a individuare una prima serie di fattori che hanno concorso all’episodio sincopale. Esame del caso clinico con le metodiche della RCA Fattori principali in gioco: a. incremento della terapia ipotensiva; b. introduzione dei diuretici con aumento della diuresi; c. la paziente si reca in bagno da sola; d. caratteristiche del servizio igienico. Ognuno di questi fattori causali viene ulteriormente analizzato per chiarire se in ogni singolo fattore vi fossero carenze, errori od omissioni. a+b)Nel caso della terapia essa risulta giustificata, ma resta da verificare se sia stata adeguatamente monitorata la 20 Rivista Società Italiana di Medicina Generale R. De Gobbi, R. Fassina pressione arteriosa della paziente e se la paziente sia stata adeguatamente informata sui possibili effetti collaterali della terapia (ipotensione). Si veda il relativo diagramma ad albero (Tab. I). c) Il dato che la paziente si sia recata in bagno da sola suggerisce l’ipotesi di una carente informazione e comunicazione nonché quella di una carente assistenza infermieristica. Si veda il relativo diagramma ad albero (Tab. II). d) Le caratteristiche del servizio igienico vanno attentamente valutate sia sotto l’aspetto strutturale (barriere, spigoli ecc.) che da quello funzionale (maniglie ed appoggi), che, infine, da quello della manutenzione (pavimento bagnato ecc.). Ogni dato emerso in questo secondo livello di indagine va ulteriormente indagato con approfondimenti successivi, individuando, livello per livello, le azioni correttive necessarie. La RCA si è dimostrata uno strumento molto utile, versatile e di facile applicazione e dovrebbe far parte del bagaglio culturale e degli strumenti di indagine di tutti i medici che operano in strutture sanitarie integrate o comunque complesse (sia Ospedali che RSA, Case di Riposo, ecc.). Non dobbiamo tuttavia dimenticare che anche riducendo al minimo gli errori legati alle procedure vi sono meccanismi psicologici che ci portano inconsapevolmente ad errare nel processo diagnostico. Di questi meccanismi inconsapevoli se ne occupa, con successo, la psicologia cognitiva. (Fine prima parte. Nel prossimo numero della Rivista verrà esposto l’approccio cognitivista e sarà pubblicata la bibliografia completa) a cura di Anna Bertelé1,2, Simone Bertolini1 1 Unità di Farmacologia Clinica & Fisiopatologia Digestiva, Dipartimento di Medicina Clinica & Sperimentale, Università di Parma; Divisione di Gastroenterologia & Endoscopia Digestiva, Azienda Ospedaliera Universitaria di Parma Malattia diverticolare del colon e sindrome dell’intestino irritabile: sintomi simili e approccio terapeutico simile? Simposio Satellite, 19° Congresso FISMAD, Bologna 10-23 marzo 2013 Introduzione Franco Bazzoli Dipartimento di Scienze Mediche & Chirurgiche, Università di Bologna La sindrome dell’intestino irritabile (SII) e la malattia diverticolare (MD) sono state, in passato, considerate due entità molto diverse tra loro, entrambe con alta prevalenza ed elevato impatto sulla qualità della vita. La MD era spesso considerata una “malattia chirurgica” mentre la SII una malattia funzionale e pertanto “medica”. Lo scenario sta cambiando, infatti il ruolo dei chirurghi nel trattamento della MD si sta riducendo e il “dogma” dell’intervento necessario dopo due attacchi di diverticolite è stato superato; si tratta comunque di un cambiamento recente poiché fino al 2005 le linee guida riportavano ancora due episodi di diverticolite come indicazione assoluta all’intervento chirurgico. Anche per la SII le cose stanno cambiando ed essa non viene più considerata solo una patologia funzionale ma le sono riconosciute anche componenti organiche. Ci si deve dunque chiedere se le due patologie siano legate da processi per esempio infiammatori e/o infettivi e se esistano percorsi terapeutici comuni per le due malattie. Si tratta di malattia diverticolare o di sindrome dell’intestino irritabile? Vincenzo Stanghellini Dipartimento di Scienze Mediche & Chirurgiche, Università di Bologna n.6>>> 2013 SII e MD sono sempre state considerate due entità separate; tuttavia spesso in clinica ci si confronta con pazienti portatori di una delle due condizioni in cui si riscontra una sintomatologia simile. Sembra quindi opportuno chiedersi se la gestione debba essere diversa o se, entro certi limiti, il trattamento possa essere sovrapponibile. La definizione di SII globalmente riconosciuta deriva dai criteri di Roma III nei quali si parla di dolore o fastidio addominale associati a modificazioni dell’alvo 1. Tali sintomi devono essere migliorati dal passaggio di feci o gas, devono durare da almeno tre mesi ed essere insorti negli ultimi sei. La definizione di MD deve partire dalla considerazione che la diverticolosi è, in genere, un reperto occasionale e non si tratta di una malattia; si tratta di una condizione frequente e la maggior parte della popolazione anziana presenta diverticoli che non necessariamente richiedono un trattamento. Si può parlare di malattia quando la condizione diventa sintomatica con eventi che vanno da semplici episodi di dolore addominale con modificazione dell’alvo, come nella SII, a forme decisamente più complicate con flogosi importanti come la colite segmentaria, nelle quali deve essere presa in considerazione una diagnosi differenziale con le malattie infiammatorie croniche intestinali. Infine la MD a differenza della SII può provocare ascessi e altre complicanze e, in rari casi, anche portare all’exitus. NeI primo caso, con dolore addominale e modificazione dell’alvo sovrapponibili ai casi di SII, spesso è difficile comprendere se il paziente sia affetto da SII con diverticoli asintoma- Congress Report 2 tici oppure da diverticoli che sono divenuti sintomatici. Anche la SII può comunque essere considerata importante dal punto di vista sintomatologico e della qualità di vita; infatti uno studio recente dimostra come lo score di attività della malattia possa avere valori simili nella malattia di Crohn e nella SII, sia in variante diarroica che in variante stiptica. Per differenziare le due malattie, Crohn e SII, occorre ricorrere alla valutazione di esami di laboratorio con indici di flogosi ed ematocrito che risultano alterati nell’una e non nell’altra patologia 2. Nello studio di Lovell e Ford 3 si evidenzia come la prevalenza media di SII sia di circa il 10% su una casistica, studiata in tutto il mondo, di oltre 260.960 persone con una variabilità che dipende dalla provenienza geografica, e che in Italia si attesta attorno al 12%; un terzo dei pazienti presenta stipsi. L’incidenza di SII è di 1,5% per anno, tuttavia solo un quarto delle SII presenti nella popolazione vengono effettivamente diagnosticate 4 5. Altro dato importante è che, indipendentemente dal tipo di definizione scelta, la SII è una patologia che si sviluppa prevalentemente nei giovani e negli adulti, a differenza di quanto accade per la MD la cui frequenza, nei paesi occidentali, tende a salire con l’avanzare dell’età. Nei paesi orientali l’andamento è diverso e presenta un picco tra i giovani adulti; inoltre, mentre la SII è una condizione prevalentemente femminile, la MD non conosce differenze di genere 6-8. La diverticolosi diventa sintomatica solo nel 20% dei casi e, oltre alle forme sovrapponibili alla SII, vi sono forme più importanti, alcune con febbre, leucocitosi e Rivista Società Italiana di Medicina Generale 21 Congress Report Malattia diverticolare del colon e sindrome dell’intestino irritabile Per quanto concerne i fattori di rischio per MD negli anni Settanta, e per il ventennio successivo, si è pensato che una dieta vegetariana proteggesse dall’insorgenza della malattia, mentre una dieta prevalentemente a base di carne rossa esponesse maggiormente alla malattia. Anche la sedentarietà era considerata predisponente mentre fumo, alcool e caffè non sembravano comportare rischi particolari; studi effettuati verso fine anni ’90 invece segnalavano come il fumo generasse un rischio aumentato di 3 volte per lo sviluppo di MD 12-16. Studi più recenti hanno però smentito i dati del passato e hanno indicato come una dieta ricca di semi, noci, popcorn e fibre in genere non è differente nel portare o meno a sviluppo di MD 17. Recentemente uno studio della Mayo Clinic ha mostrato come l’essere affetti da SII sia esso stesso un fattore di rischio (di circa 2 volte) di sviluppo di diverticolite e MD in generale: avere una età avanzata anche senza avere SII porta a un rischio di circa 3 volte maggiore rispetto alla popolazione più giovane ma avere, o avere avuto, per un lungo periodo SII è un fattore di rischio dolore, altre più severe, eventualmente con complicanze, isolate o ricorrenti, per cui è necessario il ricovero. I pazienti possono essere dimessi anche in presenza di febbre purché sia dimostrato un deciso calo della proteina C reattiva 9. Infine esiste una forma complicata di malattia che si presenta con stenosi, ascessi, fistole, perforazioni, occlusioni ed emorragie ove è, ancora oggi, spesso necessaria la terapia chirurgica 9. Nei paesi occidentali, nel 95% dei casi, sono colpiti da MD il sigma insieme ad altre parti del colon, in genere il discendente, a volte il trasverso, e molto raramente l’intero colon; il solo sigma è colpito nel 65% dei casi. Nei paesi orientali invece, nel 70% dei casi è colpito il colon destro con eventuali complicanze diverse; mentre in occidente prevalgono forme infiammatorie, in oriente prevalgono forme emorragiche. I diverticoli del colon destro sono in genere veri diverticoli che coinvolgono tutta la parete nelle sue tre componenti (mucosa, sottomucosa e muscolare) mentre quelli localizzati nel sigma e colon discendente sono spesso pseudo diverticoli 10 11. ancora più elevato. Sembrerebbe quindi che curare meglio, anche in termini di dieta, la SII in giovane età potrebbe ridurre il rischio di sviluppare MD con l’invecchiamento 18. I fattori di rischio per una diverticolite ricorrente sono: l’eventuale presenza di un ascesso, una storia familiare di diverticolite e l’estensione a un segmento superiore ai 5 cm; mentre sembrerebbe essere un fattore protettivo avere diverticoli localizzati al colon destro. L’unico fattore di rischio significativo per il sanguinamento dei diverticoli è la stipsi, come dimostrato da un’analisi presentata all’ultima Digestive Disease Week, differentemente dalla presenza di ipertensione, diabete, vasculopatie, o terapie con anticoagulanti e/o antiaggreganti 19. Per quanto concerne il rischio di perforazione sembrano avere un effetto favorente le terapie con farmaci antiinfiammatori non steroidei, oppiacei e corticosteroidi 20. Il rischio di mortalità legata a MD complicata sembra essere aumentato dall’uso di steroidi, da presenza di diabete, malattie del collagene o compromissione del sistema immunitario 20 21. Microbiota Fattori psicologici Eosinofili Dolore Mastociti + Linfociti T Mediatori Sistema Nervoso Enterico Aumentata sensibilità viscerale Muscolatura liscia Alterata motilità Figura 1. Fisiopatologia della sindrome dell’intestino irritabile. 22 Rivista Società Italiana di Medicina Generale Fibre nervose afferenti Malattia diverticolare del colon e sindrome dell’intestino irritabile Da un punto di vista fisiopatologico, la presenza di una alterata permeabilità intestinale funzionale permette il contatto del contenuto luminale (flora, alimenti ecc.) con le cellule del sistema immunitario presenti nella sottomucosa, portando alla liberazione di mediatori dell’infiammazione che comunicano con il sistema nervoso enterico e con le fibre nervose afferenti generando uno stato di ipersensibilità con conseguente percezione dei sintomi (Fig. 1). L’infiammazione microscopica, che è identificabile solo attraverso una biopsia effettuata durante l’endoscopia, è sovrapponibile a quella che si identifica nella colite microscopica e nella forma inattiva della retto-colite ulcerosa. Sembrerebbe inoltre che nei soggetti femminili ci sia una prevalenza di mastociti in stretto contatto con le terminazioni nervose e che vi sia una forte correlazione tra il numero di mastociti presenti e il grado di dolore percepito; mentre nei soggetti di sesso maschile sembrerebbe esserci una risposta maggiormente legata ai linfociti 22. La permeabilità intestinale risulta aumentata anche nei pazienti con diverticolite rispetto ai soggetti sani 23. Quindi una barriera che non permette un corretto controllo della flora e degli altri contenuti dell’intestino, li porta in contatto con il sistema immunitario che si attiva e libera citochine infiammatorie e proteasi che causano la rottura delle giunzioni serrate e portano a una infiammazione intestinale che spesso non è visibile macroscopicamente e comporta una percezione dei sintomi a livello centrale e una alterazione delle funzioni attraverso la modulazione del sistema nervoso enterico. Questi risultati hanno quindi chiarito anche la causa della “corda colica” generata da una ipercontrattilità non propulsiva del sigma stimolata dal pasto. Anche nella diverticolosi esiste una ipercontrattilità non propulsiva che porta a un incremento della tensione e, in zone di minore resistenza, come i forami obliqui, determina una estroflessione di mucosa e sottomucosa (Fig. 2). Tutto ciò è spiegato dalla legge di Laplace, che dice come in un condotto cilindrico la tensione sulle pareti sia inversamente proporzionale al quadrato del raggio; pertanto, in un organo cavo piccolo, la tensione è maggiore che in un organo di diametro ampio 24. Anche nella diverticolite, come nella SII, vi è una eccitazione delle fibre nervose causata dalla sostanza P, dalla galanina e da altre tachichinine che mediano la contrazione dell’intestino e che risultano sovra espresse nella MD più che nella diverticolosi 25. LOCI MINORIS RESISTENTIAE Forami obliqui Arterie perforanti (plesso sottomucoso e muscolare) CAMERE DI SEGMENTAZIONE Camere chiuse formate per l’effetto di contrazioni segmentarie (Painter e Truelove, 1964) LEGGE DI LAPLACE P (pressione) = T (tensione) / r (raggio) La pressione intraluminale è maggiore dove minore è il raggio del cilindro cavo (Almy, 1965) Figura 2. Patogenesi della diverticolosi (da Jeyarajah e Papagrigoriadis) 24. Congress Report Le basi della terapia che ancora oggi viene applicata sono riassunte nella monografia di Mayer del 2008 28 in cui si consigliano almeno 20 grammi di fibre nella stipsi anche se devono essere considerate le differenze fra fibre solubili e insolubili poiché un uso generalizzato non sembra corretto; si consigliano anche lassativi osmotici o ammorbidenti delle feci (Fig. 3). Nelle situazioni in cui prevale la diarrea è consigliata la loperamide che però non è certamente il farmaco più adatto; per quanto concerne il gonfiore è invece difficile dare indicazioni specifiche tuttavia il trattamento della stipsi con l’ausilio di probiotici sembrerebbe utile. Per controllare il dolore si suggerisce di trattare stipsi e diarrea, di impiegare antispastici e, nel caso non si riesca a risolvere il problema in questo modo, sono indicati lassativi da contatto come il bisacodile con l’ausilio di probiotici, di antidepressivi e di antibiotici anche non assorbibili (come la rifaximina) per la riduzione dei gas. Una considerazione si deve fare sull’uso delle fibre; una meta-analisi sull’argomento indica come la loro assunzione sia utile nel trattamento della SII, ma il vantaggio terapeutico si dimostra solo con l’impiego di fibre solubili mentre le fibre insolubili, che sono quelle maggiormente consigliate nella pratica quotidiana, non sembrerebbero avere effetto nel trattamento della SII, ma invece peggiorare i sintomi nel 55% dei casi 27. Considerato che l’infiammazione riveste un ruolo importante nella SII, è stato valutato l’effetto della somministrazione di prednisolone, in soggetti con SII postinfettiva, alla dose di 30 mg/die per tre settimane, ma la risposta ottenuta non è stata diversa rispetto alla terapia con placebo 28. Vi è un solo studio sull’argomento, e quindi non è possibile trarre conclusioni. Studi degli anni Novanta hanno dimostrato che il sodio cromoglicato ha un effetto positivo poiché riduce il rilascio dei mediatori dei mastociti e conseguentemente anche i sintomi 29 30. Uno studio di fase 2B su pazienti trattati con mesalazina ha messo in evidenza una riduzione del numero dei mastociti, un incremento nello stato di benessere generale e una riduzione, su un numero piccolo ma significativo di soggetti, del dolore addominale 31. La terapia della MD si basa anch’essa sulla Rivista Società Italiana di Medicina Generale 23 Congress Report Malattia diverticolare del colon e sindrome dell’intestino irritabile Trattamento della SII Sintomi Stipsi Meteorismo Borborigmi Diarrea Dolore Prima linea di trattamento • Aumentare l’apporto di fibre (20 g) • Lassativi osmotici • Ammorbidenti delle feci • Loperamide • Trattare la stipsi • Probiotici • Trattare stipsi/diarrea • Antispastici • Colestiramina • Alosetron • Probiotici • Antibiotici • Antidepressivi Seconda linea di trattamento • Bisacodyl • Tegaserod F i g u r a 3. Approccio farmacologico alla sindrome dell’intestino irritabile (da Mayer, 2008) 26. somministrazione di fibre, rifaximina, mesalazina e probiotici; tuttavia gli studi eseguiti a sostegno di queste modalità di trattamento avrebbero bisogno di ulteriori conferme 32. Evidenze recenti su pochi soggetti che avevano avuto almeno due attacchi di diverticolite nell’anno precedente, sembrerebbero evidenziare che un trattamento ogni tre mesi con macrogol, nel dosaggio utilizzato per la preparazione alla colonscopia, porterebbe alla normalizzazione della sintomatologia; infatti nessuno dei soggetti in trattamento ha avuto recidive mentre due soggetti che hanno sospeso la terapia sono stati sottoposti a intervento chirurgico 33. Gatta ha recentemente pubblicato uno studio open sull’impiego di mesalazina nella MD nel quale i soggetti in trattamento hanno avuto una riduzione della ricorrenza di malattia rispetto ai soggetti non trattati 34. Rispetto al passato il ricorso alla chirurgia nelle diverticoliti non è più considerato necessario purché vi sia una risposta, anche parziale, alla terapia medica. 24 Rivista Società Italiana di Medicina Generale L’intervento chirurgico urgente si impone solo nel caso di una peritonite aperta, mentre una chirurgia elettiva è necessaria in caso di fistole, di stenosi o di ascessi non rispondenti alla terapia antibiotica. Ovviamente, la terapia chirurgica non è scevra da problemi ed è gravata da una mortalità che va dall’1 al 3% e l’età avanzata e obesità sono fattori di rischio per un esito negativo. Se non si utilizzano antibiotici come profilassi, la morbilità addo- SII • Diagnosi basata sui sintomi • Alta prevalenza • Giovani adulti, F > M • Nessun rischio per la vita minale può raggiungere il 6,5%, mentre la morbilità extraddominale si eleva al 18% in caso di presenza di patologie polmonari o epatiche 20 35 36. In conclusione le due patologie, SII e MD, sono diverse sotto svariati punti di vista: la definizione per ora è puramente sintomatica per la SII mentre è morfologica e associata alla clinica per quanto concerne la MD (Fig. 4). Hanno entrambe prevalenza elevata; quella della MD è solo parzialmente Diverticolosi, MD • Diagnosi morfologica ± quadro clinico • Prevalenza sconosciuta • Età Avanzata, M = F • Rischio per la vita F i g u r a 4. Sindrome dell’intestino irritabile e malattia diverticolare del colon: principali caratteristiche differenziali. Malattia diverticolare del colon e sindrome dell’intestino irritabile conosciuta in quanto la sua diagnosi si basa su indagini strumentali. Età e distribuzione di genere sono diverse. Inoltre la SII comporta costi sociali e personali ma non ha rischi di mortalità contrariamente alla MD. Nonostante questo, molti aspetti fisiopatologici e probabilmente anche molti aspetti nella terapia sono simili; sembrano essere due malattie che si influenzano vicendevolmente. Modificazione del microbiota intestinale nella terapia della malattia diverticolare e della sindrome dell’intestino irritabile Gerardo Nardone Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia, Università di Napoli Federico II Alla nascita l’intestino è sterile, ma dopo poche ore inizia una lenta e progressiva colonizzazione influenzata dalle modalità del parto, dalla flora batterica vaginale e dal tipo di alimentazione del neonato. In una prima fase la flora è costituita da bifidobatteri, successivamente si aggiungono i lattobacilli e con la crescita del bambino si ha un arricchimento in varietà di batteri anaerobi e aerobi facoltativi, sia gram negativi che gram positivi; alla fine del secondo anno di vita la flora batterica è completa ed è costituita da specie acquisite alla nascita e da specie transitorie di origine ambientale 37. La distribuzione dei batteri differisce qualitativamente e quantitativamente nei vari tratti dell’intestino e vi si trovano dalle 500 alle 1.000 specie batteriche che danno ragione di un peso di 1,5 Kg. La composizione in batteri dipende da vari fattori: dall’acidità gastrica, dalla motilità intestinale, dal sistema immunitario dell’individuo e dalla continenza della valvola ileo-cecale. Ci si è più volte chiesti se la flora batterica rivesta un ruolo importante e positivo o se sia solo potenzialmente dannosa per l’individuo. Lo studio di animali da esperimento germ-free che, per la loro vita in condizioni di sterilità, presentano anomalie strutturali, morfologiche e funzionali, ha consentito di comprendere meglio il ruolo dei batteri nell’intestino. Queste alterazioni si estrinsecano in una mucosa intestinale sottile, villi piccoli, cripte poco profonde, ridotta secrezione degli enzimi digestivi, rete vascolare poco svilup- pata e motilità abnorme. In sintesi, questi animali invecchiano precocemente e muoiono prima, rispetto a quelli allevati in condizioni normali. Andando a ricolonizzare l’intestino di animali germ-free con una specie batterica come il Bacteroides thetaiotamicron, esso riprende tutte le normali funzioni e pertanto, come affermava Pasteur, “sarebbe impossibile su questo pianeta la vita senza batteri”. La flora ha funzioni trofiche, protettive, contribuisce alla regolazione della permeabilità intestinale, è coinvolta nei processi di immunomodulazione e influenza la motilità del tratto gastrointestinale. In presenza di una alterata permeabilità, batteri e prodotti della degradazione batterica attraversano la barriera intestinale e possono raggiungere organi e tessuti vicini e divengono responsabili di malattie allergiche, ma anche di patologie a carico di detti organi, come avviene, ad esempio, per la cistite ricorrente da E. coli che si riscontra nei soggetti di sesso femminile. Inoltre i batteri intestinali stimolano i sistemi dell’immunità sia acquisita che innata e in questo modo influenzano lo sviluppo del tessuto linfoide associato all’intestino (GALT – Gut-Associated Lymphoid Tissue). Tra le 500-1.000 specie che compongono il microbiota intestinale vi sono batteri utili, cioè quelli che non inducono una risposta infiammatoria e non attivano le vie del segnale che portano alla secrezione del TNFα; ma anche batteri nocivi che sono in grado di legarsi ai Tool Like Receptors (TLR) sulle membrane cellulari che, attraverso la proteina MyD88, defosforilano l’inibitore di NFkB (IkB) permettendo a quest’ultimo di migrare nel nucleo e di portare a una sovra espressione di TNFα e IL8 generando effetti proinfiammatori. In questo modo si attiva una risposta infiammatoria di tipo Th17 che è in grado di influenzare anche l’enteroglia e le vie di trasmissione del segnale, e quindi del dolore, a livello della sottomucosa. Uno studio dimostra come animali germfree abbiano un intestino ipocinetico e un cieco disteso che dopo contaminazione con sole due specie batteriche, riprendono un’attività motoria che risulta ulteriormente aumentata in presenza di flora intestinale convenzionale 39 40. Quindi in presenza di una flora in equilibrio e di un ambiente sano non si verificano reazioni infiammatorie a Congress Report livello intestinale e pertanto si ha uno stato di benessere e di salute; se questo equilibrio si altera e ci si trova in una condizione di disbiosi o di sovraccrescita batterica si genera uno stato infiammatorio che potrebbe essere responsabile dello sviluppo di SII o MD sintomatica. Ne deriva che il microbiota intestinale dovrebbe diventare un bersaglio specifico della terapia in queste condizioni patologiche. I fattori eziopatogenetici della MD, in particolare di quella sintomatica e non complicata, hanno un denominatore comune rappresentato dal microbiota intestinale; infatti una flora batterica alterata può determinare, attraverso uno stato infiammatorio, un’alterata attivazione delle fibre afferenti ed efferenti con una relativa disfunzione muscolare e neuronale, che porta allo sviluppo dei sintomi addominali 41. Sopeña e Lanas hanno considerato la presenza di una flora batterica alterata con un’elevata fermentazione e un’elevata produzione di gas alle quali consegue la distensione del lume intestinale con conseguente sviluppo di sintomi 42. I principali agenti che possono modificare favorevolmente l’equilibrio del microbiota intestinale sono gli antibiotici e i probiotici, che non eliminano la flora batterica intestinale ma la modulano in senso favorevole. Gli antibiotici dovrebbero agire riducendo la carica batterica e quindi i processi fermentativi, la produzione di gas, in modo da ridurre la pressione intraluminale e con essa la presenza di sintomi. I batteri principalmente implicati in una MD sintomatica sono gli anaerobi sia gram positivi che gram negativi, ma anche i germi aerobi 43; l’antibiotico ideale non dovrebbe agire a livello sistemico, ma avere un ampio spettro d’azione che gli consenta di agire contro i batteri aerobi e anaerobi sia gram positivi che negativi, dovrebbe essere altamente biodisponibile nel tratto gastrointestinale e, soprattutto, dovrebbe poter essere impiegato in condizioni limite come nell’anziano che in genere è polimedicato e dunque più soggetto ad affetti indesiderati e a interazioni tra farmaci. Diversi sono gli antibiotici che hanno effetti sulla flora batterica ma l’unico con le caratteristiche ideali sopra citate è la rifaximina. Infatti altri antibiotici hanno attività limitata (metronidazolo) o sono gravati da nefrotossicità o ototossicità (neomicina Rivista Società Italiana di Medicina Generale 25 Congress Report Malattia diverticolare del colon e sindrome dell’intestino irritabile Batteri aerobi Gram + Enterococcus spp M. tuberculosis Streptococcus pyogenes Streptococcus faecalis Streptococcus pneumoniae Staphylococcus epidermidis Staphylococcus aureus Batteri anaerobi Gram Escherichia coli Shigella spp Salmonella spp Yersinia enterocolica Proteus spp Peptococcus spp Peptostreptococcus spp Vibrio cholerae Gram + Gram - Clostridium perfrigens Clostridium difficile Peptococcus spp Peptostreptococcus spp Bacteroides spp Bacteroides fragilis Helicobacter pylori L’assorbimento della rifaximina è inferiore all’1% F i g u r a 5. Rifaximina: spettro dell’attività antibatterica (da Scarpignato e Pelosini, 2005) 44. e paramomicina). Rifaximina agisce contro i batteri aerobi e anaerobi ma, soprattutto presenta uno scarso assorbimento a livello del tubo digerente (< 1%) anche in presenza di malattie infiammatorie e quindi di alterata permeabilità (Fig. 5) 44. Dopo la terapia si ha una riduzione della escrezione di idrogeno e quindi una minore produzione di gas che si rispecchia in un miglioramento da un punto di vista sintomatologico 45. Come dimostrato da Zullo et al. 46 in una sua revisione sistematica della letteratura pochi sono gli studi selezionabili sul trattamento della MD con antibiotici, ma tutti sono concordi nel ritenere che l’aggiunta di rifaximina a una terapia ricca di fibre riduca lo score globale sintomatologico. Sugli stessi studi è stata recentemente fatta una meta-analisi che concorda nel ritenere che l’aggiunta di rifaximina alla terapia migliora i sintomi e riduce il rischio di ricorrenza di attacchi di diverticolite (Fig. 6) 47. Un ulteriore, recente studio in cui viene impiegata rifaximina a supplementare una dieta ricca in fibre evidenzia un miglioramento globale e una riduzione della ricorrenza dei sintomi. Tuttavia l’efficacia di questa terapia sembra evidente soprattutto nei soggetti con lunga 26 Rivista Società Italiana di Medicina Generale storia di MD 48. La ricerca comunque è stata svolta su una popolazione di ridotta numerosità e sono quindi necesari studi metodologicamente più robusti per confermarne i risultati 49. In sintesi, tutti gli studi sono concordi nel dimostrare che la rifaximina in aggiunta a una dieta ricca in fibre è in grado di ridurre la sintomatologia e la recidiva di diverticolite. Tuttavia le attuali evidenze non hanno ancora permesso di produrre delle linee guida concrete su un argomento così importante; anche l’AIFA 50 auspica che vengano sviluppati protocolli di studio per razionalizzare la gestione dei pazienti affetti da MD che, nella terza età, colpisce una elevata parte della popolazione. Nell’ambito della MD i probiotici sono utili perché contrastano l’adesione dei batteri nocivi a livello della mucosa intestinale, modificano gli aspetti metabolici a livello mucosale e riducono la sintesi di citochine infiammatorie. Una rassegna recente che analizza i lavori scientifici svolti sull’argomento conclude che i probiotici da soli, o in combinazione con mesalazina, sono sicuri e potenzialmente utili nel trattamento della sintomatologia della MD; gli autori hanno comunque sottolineato che la qualità degli studi è bassa, che il numero di pazienti è limitato e che ci sono alcuni problemi metodologici. Anche in questo caso, quindi, non ci sono dati sufficienti per raccomandare l’uso dei probiotici nel trattamento di questa condizione 51. Si può pertanto concludere che per quanto riguarda il trattamento della MD ci sono dati favorevoli all’impiego di rifaximina e probiotici ma, ad oggi, occorrono studi multicentrici, randomizzati e contro placebo per comprendere se questa scelta terapeutica possa avere un forte impatto sociale ed economico positivo. La SII ha visto, negli ultimi tempi, modificate le ipotesi sulla sua eziopatogenesi e oggi si parla di alterata percezione degli stimoli, di un’aumentata sensibilità viscerale e di alterata motilità. Recentemente, però, le ricerche si sono focalizzate su alterazioni a carico della risposta immunitaria e sull’infiltrazione di linfociti a provocare un basso grado di infiammazione; inoltre gli studi si sono concentrati anche sul ruolo del microbiota intestinale nello sviluppo della patologia 52. Le evidenze a favore dell’ipotesi che alterazioni nell’equilibrio microbico intestinale possano avere effet- Congress Report Malattia diverticolare del colon e sindrome dell’intestino irritabile Quattro studi prospettici randomizzati: 1.660 pazienti Miglioramento dei sintomi rifaximina vs. controlli Incidenza di diverticolite rifaximina vs. controlli Chocrane RD (random effect) Chocrane RD (random effect) Papi 1992 Papi 1992 Papi 1995 Papi 1995 Latella 2003 Latella 2003 Colecchia 2007 Colecchia 2007 0,1 0,2 0,3 0,4 0,5 -0,09 Pooled RD = 0,29 (95% CI = 0,245 to 0,336) -0,05 -0,01 0 0.0 0,0 Pooled RD = -0,019 (95% CI = -0,034 to -0,0057) Il trattamento con rifaximina associata a fibre è efficace nel miglioramento dei sintomi e nella prevenzione delle complicanze F i g u r a 6. Efficacia della rifaximina nel controllo dei sintomi e nella prevenzione della diverticolite acuta in pazienti con malattia diverticolare (da Bianchi et al., 2011) 47. SII Controlli Parodi et al. a p = 0,0137 Grover et al. b p = 0,07 McCallum et al. a p = 0,001 Lupascu et al. a p = 0,0001 Pimentel et al. c p = 0,0137 0 20 40 60 80 100 Percentuale di soggetti a Glucosio b Lattulosio c Saccarosio (utilizzati come substrato) F i g u r a 7. Prevalenza di Breath Test positivo in pazienti con sindrome dell’intestino irritabile e soggetti sani di controllo (da Pimentel, 2010) 53. Rivista Società Italiana di Medicina Generale 27 Congress Report Malattia diverticolare del colon e sindrome dell’intestino irritabile Sei studi randomizzati, 1.859 pazienti, prevalenza di SII con diarrea Studio OR (95% IC) Sharara et al. 3,70 (0,92, 14,89) 3,06 Pimentel et al. 4,83 (1,44, 16,18) 3,99 Lembo et al. 1,39 (0,93, 2,07) 20,01 Target 1 1,52 (1,09, 2,11) 33,20 Target 2 1,44 (1,04, 2,00) Overall 1,57 (1,22, 2,01) 0.5 1 1.5 2 Peso % 5 Studio OR (95% IC) Peso % Pimentel et al. 3,81 (1,39, 10,45) 5,16 Lembo et al. 1,30 (0,87, 1,95) 25,83 Target 1 1,62 (1,16, 2,27) 33,84 33,73 Target 2 1,48 (1,07, 2,05) 35,17 100,00 Overall 1,55 (1,23, 1,96) 100,00 0,5 1 2 3 Rifaximina > efficace del placebo nel miglioramento globale dei sintomi Rifaximina > efficace del placebo nel miglioramento del gonfiore addominale OR = 1,57; 95% IC = 1,22-2,01 Guadagno terapeutico = 9,8% Numero di pazienti da trattare = 10,2 OR = 1,55; 95% IC = 1,23-1,96 Guadagno terapeutico = 9,9% Numero di pazienti da trattare = 10,1 Rari eventi avversi seri (< 1%) simili con rifaximina e placebo F i g u r a 8. Efficacia della rifaximina sulla sintomatologia globale e sul gonfiore addominale in pazienti con sindrome dell’intestino irritabile: meta-analisi di studi randomizzati (da Menees et al., 2012) 55. to sulla patogenesi della SII derivano dal fatto che, dopo un evento acuto, in molti soggetti permangono sintomi gastrointestinali che portano allo sviluppo di SII. Diversi studi hanno valutato le differenze nella produzione di gas a livello intestinale e, indipendentemente dalla metodologia impiegata, tutti hanno dimostrato un’aumentata produzione di gas nei soggetti affetti da SII (Fig. 7) 53. In altri studi sono stati valutati gli effetti degli antibiotici nel trattamento della SII e tutti concordano nell’indicare come l’antibiotico-terapia, in particolare con rifaximina, sia utile nella gestione dei sintomi e nel ridurre la ricorrenza degli attacchi; essa è anche in grado di ridurre la produzione di idrogeno a livello intestinale 54. Una meta-analisi, che raccoglie sei studi per un totale di 1.859 pazienti, evidenzia come ci possa essere un beneficio nel trattamento con antibiotici; tuttavia se si valuta il numero di pazienti da trattare per avere un effetto benefico, si nota come occorra trattare dieci soggetti per avere il beneficio su uno (Fig. 8) 55. 28 Rivista Società Italiana di Medicina Generale Lo studio di Pimentel, pubblicato sul New England Journal of Medicine nel 2011 56, ha analizzato circa 1.260 pazienti trattati con 550 mg di rifaximina 3 volte al giorno e ha dimostrato come la terapia antibiotica porti a un miglioramento dei sintomi. Tuttavia è cruciale la dose dell’antibiotico. Infatti, nei pazienti che non rispondono a un trattamento con 1.200 mg di rifaximina per due settimane, l’utilizzazione di una doppia dose determina un sostanziale incremento nel numero di pazienti in cui si riscontra un miglioramento dei sintomi e una risposta alla terapia 57. Dopo un trattamento di due settimane gli effetti benefici perdurano per un periodo di tempo di circa 10-12 settimane 58 59. Una meta-analisi di 19 studi randomizzati e controllati sull’impiego dei probiotici nel trattamento della SII indica come questi possano avere effetti benefici; tuttavia vi sono ancora diverse perplessità per quanto concerne la specie e la quantità di probiotico da impiegare 60. Occorre un follow-up più lungo che permetta di valutare meglio il tipo di probiotico, il dosaggio e la durata del trattamento da utilizzare 61. Uno studio svolto dal gruppo di lavoro che ha sviluppato i criteri di Roma ha valutato i vari metodi disponibili per il trattamento della SII in base a criteri di efficacia e invasività, dimostrando che la terapia antibiotica risulta più efficace ma anche più invasiva in considerazione del fatto che la categoria comprende anche gli antibiotici sistemici mentre i probiotici sono meno efficaci ma sicuramente meno invasivi 62. In conclusione, brevi cicli di trattamento antibiotico con rifaximina sono utili nella gestione dei pazienti con SII, ma, sia per gli antibiotici sia per i probiotici, occorrono ulteriori ricerche metodologicamente corrette, con un numero adeguato di soggetti e un lungo periodo di follow-up. Bibliografia Longstreth GF, Thompson WG, Chey WD, et al.Functional bowel disorders. Gastroenterology 2006;130:1480-92 1 Malattia diverticolare del colon e sindrome dell’intestino irritabile Lahiff C, Safaie P, Awais A, et al. Crohn’s Disease activity index (CDAI) is similarly elevated in patients with Crohn’s disease and patients with irritable bowel syndrome. Aliment Pharmacol Ther 2013;37:786-94. 3 Lovell RM, Ford AC. Global prevalence of and risk factors for irritable bowel syndrome:a meta-analysis. Clin Gastroenterol Hepatol 2012;10:712-21. 4 Hungin AP, Whorwell PJ, Tack J, et al. The prevalence, patterns and impact of irritable bowel syndrome:an international survey of 40,000 subjects. 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Tale decisione deve infatti soppesare da una parte la qualità della vita e il rischio di morte legato alla storia naturale della malattia epatica, e dall’altra considerare i rischi di mortalità e morbilità del trapianto. Utile a questo riguardo è la stadiazione della malattia epatica secondo Child-Pugh che tiene conto della compromissione delle attività sintetiche e detossificanti del fegato (albuminemia, attività protrombinica, bilirubinemia) nonché della presenza di complicanze maggiori della cirrosi, quali l’ascite e l’encefalopatia. In genere viene proposto per il trapianto un soggetto cirrotico in stadio di Child-Pugh B o C. Nella classificazione di Child-Pugh non viene purtroppo tenuta in considerazione la terza complicanza maggiore della cirrosi ovverossia il sanguinamento da varici gastroesofagee. Il pregresso sanguinamento da varici o la persistenza di varici esofagee a elevato rischio emorragico costituisce comprensibilmente un ulteriore importante criterio clinico di riferimento per il timing malattia epatica è meglio evidenziata con il punteggio MELD (Model for End Stage Liver Disease) che predice la sopravvivenza del paziente entro 6 mesi dalla valutazione e che considera in scala logaritmica i valori di bilirubina, INR e creatinina. Un fattore limitante per una corretta valutazione del timing al trapianto è rappresentato dalla discrepanza esistente fra organi da trapiantare e pazienti che necessitano il trapianto. Questo fa sì che i pazienti debbano spesso aspettare molti mesi in lista di attesa con conseguente progressione della malattia epatica, aggravamento delle condizioni generali e soprattutto aumento dei rischi perioperatori. Protocolli di immunodepressione Lo scopo principale dell’immunosoppressione nel trapianto è quello di prevenire lo sviluppo del rigetto. Il rischio di rigetto è particolarmente elevato nelle prime settimane post-trapianto e tende ad attenuarsi col passare del tempo. Sebbene il numero dei protocolli terapeutici sia estremamente vasto, quasi uguale a quello dei centri trapianto, vi è un accordo generale sui seguenti punti: 1) Associazione di più farmaci. La combinazione di più farmaci consente di esplicare un’azione immunosoppressiva efficace utilizzando dosaggi inferiori dei singoli preparati con conseguenti minori effetti collaterali. Lo schema più utilizzato prevede l’associazione della ciclosporina o di FK506 (Prograf) (farmaci cardine dello schema) con gli steroidi. A questo schema a due farmaci può essere aggiunta l’azatioprina o il micofenolato (schema a 3 farmaci). Alcuni centri (tra cui anche il nostro) trovano vantaggioso utilizzare per i primi 5 giorni post-trapianto anche un siero policlonale purificato (schema a 4 farmaci) o un inibitore anticorpale selettivo di IL2. L’aggiunta di questi farmaci ha il vantaggio di consentire di ritardare di qualche giorno l’impiego della ciclosporina (terapia sequenziale) la cui tossicità nell’immediato postoperatorio può essere particolarmente minacciosa in presenza di insufficienza renale o di encefalopatia nel ricevente. 2) Immunosoppressione scalare nel tempo. L’immunosoppressione deve essere certamente più profonda nelle prime settimane post trapianto (terapia di induzione) per poi ridursi progressivamente (terapia di mantenimento). Per quanto riguarda la ciclosporina, i livelli ematici di riferimento presentano ampie variazioni da centro a centro oscillando tra i 200 e i 400 ng/ml nelle prime settimane post trapianto per poi progressivamente diminuire fino a una finestra tra i 100 e 200 ng/ml dopo il 12° mese, mentre per l’FK506 vanno mantenuti valori iniziali di 5-8 mg/ml a scalare fino a 3-5 mg/ml dopo i primi 12 mesi. Per quanto riguarda gli steroidi questi vengono generalmente impiegati a dosi superiori al mg/kg/die per la prima settimana. Rapidamente (in genere entro una settimana) si passa a un mantenimento di 0,2-0,3 mg/kg/die. Vi è poi una generale tendenza a una progressiva riduzione fino alla sospensione completa dopo un periodo di tempo variabile tra 1 e 12 mesi post-trapianto. L’azatioprina infine viene abitualmente impiegata al dosaggio di 1-2 mg/kg/ die e continuata nel tempo per periodi molto variabili da centro a centro. Il micofenolato va mantenuto a posologia generalmente di 500 mg x 2 mantenendo monitorata la crasi ematica. Attualmente per prevenire l’insufficienza renale da farmaci inibitori delle calcineurine come la ciclosporina e l’FK, sono stati introdotti farmaci mTOR inibitori meno nefrotossici (Everolimus) che hanno manifestato anche interessanti proprietà antitumorali (1,2). 3) Immunosopressione aggiuntiva. Quando si sviluppa un rigetto acuto, l’immunosoppressione va rafforzata somministrando farmaci che interferiscono con l’arco effettore della risposta immunitaria (steroidi a dose bolo o siero antilinfocitario o anticorpi monoclonali). Le complicanze chirurgiche del trapianto Complicanze vascolari La complicanza vascolare più temibile e più frequente, soprattutto in età pediatrica, è la trombosi arteriosa (3-11% nelle diverse casistiche). Il flusso arterioso è fondamentale per una pronta ripresa funzionale del graft epatico; un’occlusione o una stenosi significativa precoce dell’arteria epatica non è generalmente compatibile con la sopravvivenza e si deve pertanto procedere con rapidità a un tentativo di rivascolarizzazione del graft o a ritrapianto. Indici indiretti devono essere considerati un incremento repentino delle transaminasi, un crollo dell’attività protrombinica e un arresto del flusso biliare. La trombosi arteriosa tardiva può essere invece discretamente tollerata e consentire una sopravvivenza a lungo termine del fegato tendendo a manifestarsi unicamente come complicanza biliare di differente grado di gravità, dalla semplice substenosi al danno biliare massivo e irreversibile (dilatazioni e stenosi intra ed extraepatiche, vanishing bile duct syndrome, ecc.). Più rare risultano le complicanze legate a una occlusione del flusso portale (2% circa) e generalmente, pur provocando un’importante danno funzionale sul neofegato e la ricomparsa di ipertensione portale con frequente repentino sanguinamento esofagogastrico, sono suscettibili di trattamento chirurgico o radiologico (TIPPS, stent portale). Rare risultano le complicanze cavali (1% nelle diverse casistiche) e si manifestano, a seconda della sede della trombosi o della stenosi, con massivi edemi declivi, insufficienza renale di vario grado, insufficienza epatica, o, in caso di distacco del trombo, con embolia polmonare parcellare o massiva. Complicanze biliari precoci Le complicanze biliari sono raramente conseguenze di errore tecnico (stenosi anastomotica, eccessiva lunghezza dei due monconi biliari con conseguente Kinking, ischemia dei monconi biliari da eccessiva scheletrizzazione, perdite biliari perianastomotiche), ma più frequentemente conseguenza di danni immunologici o di perfusione-conservazione sull’epitelio biliare. Da non sottovalutare le complicanze legate alla presenza del tubo di Kehr per suo malposizionamento o dislocazione con conseguenti peritoniti biliari e stenosi cicatriziali coledociche, tali da indurre alcuni autori a non utilizzare più il Kehr nella ricostruzione biliare. La diagnosi e il trattamento delle complicanze biliari si avvale della colangiografia retrograda (ERCP) e della colangiografia percutanea (PTC) che consentono da un lato la definizione diagnostica della sede e della morfologia della lesione, dall’altro permette di intervenire sulla stessa mediante papillosfinterotomia, dilatazione del tratto stenotico e “stentaggio” della via biliare principale. I nostri protocolli, che prevedono il mantenimento dello stent per circa un anno, con la sua sostituzione ogni 3 mesi, hanno permesso la risoluzione della compli- canza biliare in circa l’85% dei casi senza necessità di intervento chirurgico. Le complicanze mediche del trapianto Rigetto acuto Nonostante la terapia immunosoppressiva, un certo grado di risposta immune contro il neofegato (rigetto minimo o lieve alla biopsia epatica) è praticamente la regola anche se non sempre la sua presenza rende necessario l’impiego di farmaci immunosoppressori aggiuntivi. Il rigetto acuto meritevole di terapia aggiuntiva si osserva invece in una percentuale variabile tra il 30 e il 70% dei pazienti. Questa grande discrepanza tra le varie casistiche riflette la grossa variabilità circa i protocolli di immunosoppressione, i non univoci criteri impiegati per la diagnosi di rigetto e non da ultimo la diversa predisposizione al rigetto di alcune forme di cirrosi. Il rigetto acuto si manifesta nella maggior parte dei casi tra la 5a e la 10a giornata postoperatoria. I segni clinici più probanti sono rappresentati da una modificazione dell’aspetto della bile che diventa più chiara e meno filante e da un’elevazione degli indici di colestasi (bilirubina, gGT, alkaline phosphatase). Non infrequentemente è associato anche un incremento delle transaminasi. Meno specifici sono la comparsa di febbre, leucocitosi ed eosinofilia. La biopsia epatica è certamente molto utile per suffragare il sospetto di rigetto acuto. Rigetto cronico I criteri istologici per la diagnosi di rigetto cronico sono assai meno chiaramente definiti rispetto a quelli riconosciuti per il rigetto acuto. In linea genereale la progressiva scomparsa dei dotti biliari (vanishing bile ducts) associata a colestasi e a degenerazione piumosa degli epatociti (foam cells) costituiscono dei criteri suggestivi. Dal punto di vista clinico la forma più frequente di rigetto cronico insorge tra la 6a settimana e il 6° mese post-trapianto, in genere dopo ripetuti episodi di rigetto acuto e si caratterizza per la comparsa di una colestasi rapidamente ingravescente associata a un qua- dro istologico quale quello sopra descritto. Il destino finale è l’insufficienza epatica a impronta colestatica. Più raramente il rigetto cronico insorge tardivamente, anche anni dopo il trapianto, e tende in questi casi ad avere un andamento clinico più lentamente evolutivo nel tempo. L’incidenza di rigetto cronico è estremamente variabile, oscillando tra il 3 e il 20% nelle varie casistiche. Anche in questo caso la grande variabilità di dati riportati in letteratura riflette la mancanza di criteri univoci per la diagnosi di rigetto cronico e l’impiego di protocolli di immunosoppressione molto variabili da centro a centro. Dal punto di vista terapeutico il retrapianto rappresenta probabilmente l’unica opzione terapeutica anche se non si può escludere la comparsa di rigetto cronico nel nuovo fegato. Incorraggianti sono le recenti segnalazioni di regressione di rigetto cronico in fase iniziale dopo conversione da ciclosporina a FK506. Disturbi neurologici e psichiarici Un ruolo particolarmente importante è quello dei farmaci immunosoppressori, soprattutto la ciclosporina e l’FK596 che presentano molti aspetti in comune: tendono a causare disturbi neuropsichiatrici nelle prime settimane post-trapianto, soprattutto quando somministrati per via endovenosa; generalmente l’effetto neurotossico è correlato con elevati “trough levels” del farmaco; i disturbi neurotossici regrediscono con la riduzione delle dosi o la sospensione del farmaco. È degno di nota come l’effetto neurotossico di questi farmaci sia più elevato nei pazienti sottoposti a trapianto epatico rispetto a pazienti sottoposti a trapianto di altri organi solidi e questo dato sembra trovare spiegazione nelle alterazioni della barriera ematoencefalica presente nei pazienti cirrotici. I quadri clinici di neurotossicità sono estremamente variabili essendo stati descritti casi di cecità corticale, mutismo, afasia, paresi e convulsioni, atassia cerebellare. Le complicanze biliari tardive L’albero biliare riceve una tenue irrorazione arteriosa dall’arteria epatica e le possibilità di circoli collaterali sono alquanto scar- se. Questa caratteristica anatomica rende ragione del fatto che situazioni di ischemia secondarie a cause differenti (trombosi arteriosa o rigetto) possano portare all’insorgenza di complicanze biliari sia di tipo stenotico che di leakage biliare. Le complicanze biliari tardive sono prevalentemente di tipo ostruttivo ed è utile distinguere: • ostruzioni anastomotiche: tipicamente tra il 2° e il 6° mese post-trapianto. Possono essere secondarie a un problema arterioso o a rigetto cronico. Si trattano sia endoscopicamente che chirurgicamente (conversione a colodocodigiunostomia); • ostruzioni ilari: sono in parte attribuibili alla tenue irrorazione arteriosa di questo distretto. Sono particolarmente frequenti nei riceventi di fegati che hanno subito tempi di ischemia prolungati oppure nei riceventi di fegati ABO incompatibili. Sono molto difficili da correggere chirurgicamente, mentre possono essere talvolta risolte con procedure di radiologia interventistica (dilatazione e posizionamento di stent); • ostruzioni biliari diffuse: riconoscono gli stessi elementi patogenetici delle ostruzioni ilari. Spesso l’unica opzione terapeutica è il retrapianto; • coledocolitiasi: in genere si associano ad una patologia stenotica che deve ovviamente essere corretta in prima istanza; • disfunzione dello sfintere di Oddi: non infrequente dopo trapianto epatico, probabilmente consegue a un’alterazione della normale motilità delle vie biliari. La terapia consiste nella sfinterotomia. La recidiva della malattia di base La recidiva dell’epatite B Le prime esperienze di trapianto epatico in pazienti affetti da cirrosi HBV correlata sono state alquanto sconcertanti. In assenza di profilassi, la recidiva dell’epatite dopo trapianto si verificava nel 100% dei pazienti con elevata replica virale prima del trapianto (HBV-DNA o HBeAg-positivi) e in circa il 70-80% dei pazienti con bassa replica vira- le (HBV-DNA o HBeAg negativi). Sempre in assenza di profilassi, i pazienti con epatite fulminante o con coinfezione delta recidivavano meno frequentemente (50%). La minore incidenza di recidiva epatitica in questi casi trova probabilmente spiegazione nell’assenza di HBV-DNA nella maggior parte dei pazienti con epatite fulminante e nell’inibizione della replica dell’HBV indotta dall’HDV nei pazienti con coinfezione delta. La profilassi antivirale mediante immunoglobuline specifiche iperimmuni somministrate indefinitamente dopo il trapianto ha consentito di migliorare di molto i risultati soprattutto nei pazienti con bassa replica virale prima del trapianto con percentuali di recidiva attualmente comprese tra il 10 e il 30%. Le immunoglobuline specifiche non si sono purtroppo rivelate altrettanto efficaci nei pazienti con alta replica virale i quali ancor oggi sono esclusi nella maggior parte dei centri dal programma di trapianto. Solo recentemente l’impiego profilattico di nuovi farmaci antivirali quali la Lamivudina e il Famciclovir ed ora nuovi farmaci ancora più efficaci (nucleosidici e nucleotidici) sembrano poter garantire il trattamento e la profilassi di questa infezione portando virtualmente a zero la recidiva post-trapianto (3). La recidiva dell’epatite C La reinfezione da virus C è evento pressochè costante dopo trapianto epatico e verosimilmente origina da particelle virali circolanti presenti al momento dell’intervento. Questo fatto spiega perchè il 90-95% dei pazienti con cirrosi HCV correlata rimangano sempre HCV-RNA positivi dopo trapianto. La reinfezione, peraltro, non significa malattia epatica in quanto la recidiva epatitica si osserva solo nel 40-60% dei pazienti reinfettati. Generalmente l’epatite recidiva presenta un decorso clinico blando e apparentemente non evolutivo, ma in una percentuale, compresa tra il 10-20% dei casi, l’evoluzione della malattia può essere così rapida da portare alla cirrosi e alla insufficienza epatica terminale entro 1 o 2 anni dal trapianto. Queste forme ad andamento più aggressivo sono caratterizzate da una marcata colestasi e fibrosi non dissimile dalla “fibrosing cholestatic hepatitis” descritta nel corso di recidiva di epatite B. Purtroppo non si conoscono ancora i fattori che agiscono sull’espressione clinica della recidiva virale e sul perché ad esempio alcuni pazienti abbiano una recidiva epatitica severa e altri invece un’epatite blanda o addirittura assenza di malattia. Un fattore predittivo sembra essere rappresentato dal genotipo virale laddove il genotipo 1b (secondo la classificazione di Simmonds) appare associato più frequentemente a malattia epatitica aggressiva. Altri possibili elementi predittivi quali il livello di virioni circolanti e la relazione immunologica tra donatore e ricevente sono ancora oggetto di studio. Per quanto riguarda la profilassi e la terapia dell’infezione HCV, prima essenzialmente basata sull’utilizzo di associazioni farmacologiche con interferone e ribavirina poco attive e scarsamente tollerate, si assisterà a breve dopo l’introduzione di farmaci specifici a base di sofosbuvir per os estremamente attivi a una regressione della malattia in oltre il 90% dei casi. Questi farmaci saranno pertanto in grado non solo di variare la storia naturale della malattia ma anche di debellare la recidiva della stessa dopo trapianto di fegato. La recidiva neoplastica Il ruolo del trapianto epatico nella terapia dell’epatocarcinoma è sempre stata oggetto di controversia per l’elevato rischio di recidiva della malattia neoplastica dopo l’intervento. Studi recenti, peraltro, sembrano confermare la superiorità del trapianto rispetto a ogni altra opzione terapeutica soprattutto nei casi di piccola neoplasia primitiva epatica non resecabile con risultati di sopravvivenza a lungo termine comparabili a quelli ottenuti in pazienti con sola malattia cirrotica. L’accurata selezione del paziente è pertanto cruciale per il successo dell’intervento. In base alle esperienze più consolidate possono essere indicati i seguenti criteri di trapiantabilità: nel caso di neoplasia singola, la lesione non deve superare il diametro massimo di 5 cm; nel caso di neoplasia multifocale il numero delle lesioni non dovrebbe essere superiore a 3 e il loro diametro massimo non superiore ai 3 cm. Tali criteri (criteri di Milano) usati a livello mondiale consentono la trapiantabilità dei pazienti affetti da neoplasie con risultati eccellenti e paragonabili alla patologia non neoplastica. Fattore limitante è la progressione della malattia neoplastica che se non contrastata con terapia radiologica (radiofrequenza o chemioembolizzazione) o chirurgica resettiva può condurre a una fuoriuscita del paziente dai criteri di trapiantabilità. Purtroppo altri fattori quali la considerazione del rischio della procedura trapianto, del suo elevato costo nonchè la consapevolezza della scarsa disponibiltà di donatori impongono delle scelte. Noi crediamo che soprattutto l’età del paziente e la gravità della sua cirrosi siano fondamentali elementi guida per l’inserimento in un programma di trapianto (4). Split liver e trapianto da vivente L’evoluzione della chirurgia epatica e soprattutto la necessità di implementare l’impiego degli organi disponibili ha consentito l’evoluzione della tecnica di split liver. Già da alcuni anni Henry Bismuth di Parigi preconizzava l’idea che il fegato al pari del rene fosse un organo doppio dotato di una parte destra e di una sinistra autonome e potenzialmente trapiantabili singolarmente. Ma quello che più ha portato allo sviluppo delle split-liver è la critica mancanza di donatori in età pediatrica soprattutto per bimbi di piccola massa corporea. L’impiego del 2° e 3° segmento epatico hanno rivoluzionato la concezione del trapianto pediatrico consentendo in pratica una riduzione della lista di attesa a poche settimane per piccoli pazienti in attesa di trapianto. Una evoluzione ulteriore è lo split liver per ricevente adulto in cui la divisione del fegato ottiene due parti pressoché simili per dimensioni e consente il trapianto di due pazienti adulti: questa tecnica è ovviamente più complessa di quella utilizzata nel trapianto pediatrico ed è utilizzabile solo in casi selezionati (5,6). Lo split liver per due adulti e il trapianto parziale di fegato da donatore vivente su ricevente adulto sembrano destinati ad acquisire una rilevanza sempre maggiore nonostante i rischi di mortalità e morbilità sul donatore vivente e i conflitti bioetici che quest’ultima procedura ha sollevato. Attualmente il trapianto di fegato da donatore vivente sia in Europa che nei Centri USA e asiatici può essere considerata la più importante risorsa terapeutica dopo il trapianto da donatore cadavere. D’altro canto tale opzione terapeutica è l’unica a disposizione in molti paesi ove il prelievo da donatore cadavere è vietato o, comunque, del tutto episodico per motivi storici, religiosi o socio-culturali. Dopo il 1° intervento eseguito con successo da Makuuchi a Tokio nel 1993 con trapianto di emifegato sinistro da vivente e da Tanaka che utilizzò l’emifegato destro, tale procedura si è rapidamente espansa negli Stati Uniti e in Europa (7,8,9). Bibliografia 1.Angelico M, Nardi A, Marianelli T, et al. Hepatitis B-core antibody positive donors in liver transplantation and their impact on graft survival: evidence from the Liver Match cohort study. Journal of Hepatology 58:71523, 2013 2.De Simone P, Nevens F, De Carlis L, et al. Everolimus with reduced Tacrolimus improves renal function in de novo liver transplant recipients: a randomized controlled trial. American Journal of Transplantation 12: 3008-20, 2012. 3.Saliba F, De Simone P, Nevens F, et al. Renal function at two years in liver transplant patients receiving everolimus: results of a randomized, multicenter, Study. American Journal of Transplantation 13: 1734-45, 2013. 4.Vitale A, Volk ML, De Feo T, et al. A method for establishing allocation equity among patients with and without hepatocellular carcinoma on a common liver transplant waiting list. 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Transplantation of liver grafts from living donors into adults: too much, too soon. N Engl J Med 344: 1633‑7, 2001. 24 Osservatorio / Un ruolo sempre più impegnativo L’importanza del medico di famiglia Dott. Aurelio Sessa Medico di Medicina Generale Presidente Lombardia Società Italiana di Medicina Generale (SIMG) Comitato Scientifico di Europa Uomo Italia Onlus Q ualcuno sostiene che gli uomini generalmente non sanno che cosa sia veramente la prostata fino a quando non comincia a “farsi sentire”. In effetti, non è un organo vitale ma è una specie di “centralino” dell’apparato urinario e riproduttivo maschile. La funzione principale di questa ghiandola è quella di produrre il liquido seminale quale ambiente idoneo al mantenimento degli spermatozoi durante l’eiaculazione. La prostata è attraversata dall’uretra che è un canale che trasporta l’urina e il liquido seminale. Durante il corso della vita la prostata può essere colpita da diverse malattie. Le più comuni sono quelle ipertrofiche (ipertrofia prostatica benigna o IBP), infiammatorie, solitamente di origine batterica (le prostatiti) e tumorali (adenocarcinoma prostatico). Mentre le prostatiti colpiscono più spesso in età giovanile, le altre due condizioni EUROPA UOMO maggio 2013 Fra gli uomini che si rivolgono al proprio medico per l’ipertrofia prostatica, sono sempre più quelli che chiedono di essere guidati nella valutazione dei fattori di rischio del tumore della prostata. Articolo tratto dalla Rivista “Europa Uomo” maggio 2013 – edita dell’Associazione “Europa Uomo Italia Onlus”- www.europauomo.it 25 sono più comuni mano a mano che l’età avanza. Questo è il motivo per cui l’uomo comincia ad accorgersi personalmente dell’esistenza della prostata dopo i 50 anni, proprio per una serie di disturbi che sempre più frequentemente si presentano con il passare degli anni. Questi disturbi prendono il nome di LUTS, un acronimo inglese che significa “Low Urinary Tract Symptom” ossia “Sintomi delle basse vie urinarie”. Sono questi i sintomi che portano il paziente, solitamente ultracinquantenne, dal proprio medico di famiglia riferendogli di alzarsi spesso di notte ad urinare e che il getto – specialmente alla mattina – è debole e che tutto ciò, da qualche tempo, rende la sua vita non gradevole… Ma quanti sono questi uomini? Dal database di HealthSearch (Unità di ricerca della Simg - Società Italiana di Medicina Generale), che raccoglie le cartelle cliniche di oltre 2 milioni di persone - da parte di circa 1000 medici di famiglia italiani -, emerge che, rapportando il dato alll’intera popolazione italiana, siano almeno 4 milioni gli uomini affetti da patologia prostatica. Come si evince dalla figura 1, la prevalenza incrementa continuamente sia perché aumenta costantemente la vita media dei maschi italiani e sia perché vengono poste più diagnosi. Infatti, i maschi ricorrono più frequentemente al proprio medico, riferendogli questi disturbi in maggior quantità rispetto agli anni precedenti. Tra l’altro, “l’epidemia” di IPB interessa praticamente quasi un maschio su 2 dopo i 65 anni e con una distribuzione geografica con una maggior prevalenza nel Sud Italia (fig. 2 e fig. 3). Compito del medico di famiglia è innanzitutto cercare di alleviare ai suoi pazienti questa sintomatologia fastidiosa in una gestione complementare con l’urologo e impo- Figura 1. Prevalenza (%) “lifetime” di ipertrofia prostatica benigna (2003-2011). Figura 2. Prevalenza “lifetime” di IPB per fasce d’età nel 2011. Figura 3. Prevalenza “lifetime” di IPB standardizzata per fasce di età: analisi regionale. EUROPA UOMO maggio 2013 26 Osservatorio stare una terapia farmacologica appropriata al fine di prevenire la progressione verso due eventi spiacevoli quali la ritenzione acuta d’urina e la terapia chirurgica. Orbene, i nostri pazienti, che definiamo “prostatici”, vogliono anche informazioni sul tumore della prostata, sia perché molti loro coetanei hanno vissuto questa esperienza e sia perché è una paura che, se anche non viene direttamente esplicitata, li accompagna. Talvolta il tutto parte con una richiesta di eseguire il dosaggio del PSA mentre vengono prescritti altri esami ematochimici, altre volte perché il nostro paziente l’ha letto su qualche rivista o ne ha sentito parlare in televisione oppure perché il medico di famiglia lo prescrive proprio a completamento di indagini diagnostiche nei pazienti con disturbi prostatici. Figura 4. Prevalenza (casi per 1000) di tumore della prostata dal 2003 al 2011. In assenza di un sospetto diagnostico o di fattori di rischio, è importante informare il paziente sui pro e i contro del dosaggio del PSA I dati epidemiologici ci dicono che in Italia ogni anno sono più di 40 mila gli uomini con una nuova diagnosi di tumore della prostata, il che significa che ogni medico di famiglia ha mediamente un nuovo paziente ogni anno con questa diagnosi, oltre ai pazienti ai quali è stata posta la diagnosi negli anni precedenti. Anche la prevalenza del tumore della prostata è cresciuto negli ultimi anni (fig. 4), in particolare dagli anni ’90, quando è stata dimostrata l’utilità del PSA nella diagnosi di tumore della prostata e da allora si è diffuso ampiamente l’uso clinico EUROPA UOMO maggio 2013 Figura 5. Percentuale di casi di tumore della prostata (in alto) in seguito alle prescrizioni di PSA nella popolazione maschile sopra i 50 anni (in basso). 27 Figura 6. Prevalenza (x 1000) di tumore della prostata: analisi per regione. del suo dosaggio. Ciò è dimostrabile anche in Italia perché laddove si richiede un maggior numero di dosaggi di PSA vi è un aumento della diagnosi di tumore della prostata (fig. 5), tanto che la distribuzione geografica mostra una maggior prevalenza nel Nord/ Nord-Est rispetto al Sud Italia con un rapporto quasi di due casi al Nord contro un caso al Sud (fig. 6). Siamo convinti che possano entrare in gioco in questa differenza sia una diversa alimentazione che fattori ambientali concomitanti, ma il dato più significativo è che al Sud vengono richieste meno determinazioni di PSA rispetto al Nord Italia. Ciò a conferma del fatto che l’uso del PSA nell’attività clinica ha determinato una importante anticipazione diagnostica ma anche un sovratrattamento di quelle forme neoplastiche che non si sarebbero mai rese clinicamente manifeste. Per questo motivo riteniamo, come società scientifica, di non supportare campagne che vogliano promuo- 40% 36% 35% 30% 25% 20% 15% 10% 5% 0% Nord vere lo screening di massa del PSA ma che sia importante discutere con il paziente l’opportunità di tale dosaggio, nel caso lo desideri, fornendo tutte le informazioni sui pro e i contro della determinazione del marcatore in assenza di un sospetto diagnostico o di fattori di rischio. Quindi, il ruolo del medico di famiglia è determinante del processo di cura del paziente, non solo nel momento della diagnosi, ma anche nei momenti successivi all’insorgenza della patologia anche per indirizzare e affidare il paziente alle migliori cure specialistiche. Oggi le cure possono variare dagli atteggiamenti osservazionali nel tempo, e cioè dal monitoraggio della “Sorveglianza Attiva” alla “Vigile Attesa”o “Watchful Waiting”, alla chirurgia oppure la radioterapia o la terapia ormonale, talora diversamente combinate. Ebbene, l’urologo potrà consigliare e valutare insieme con il paziente la terapia più adatta in relazione alle caratteristiche del tumore e alle aspettative del paziente stesso. Ogni trattamento può avere reazioni avverse o interferenze con terapie farmacologiche che il paziente assume perché portatore di altre patologie. Ecco che, nei tempi successivi, diventa ancora più importante il rapporto con il proprio medico di famiglia, che è depositario della continuità delle cure del paziente. L’alleanza con il paziente deve tradursi nei modi e nei tempi in cui l’aderenza alle terapie deve essere massima, così come la calendarizzazione dei controlli ematochimici e strumentali che devono essere valutati con l’urologo nella visione di una gestione integrata. Oggi, fortunatamente, grazie all’impegno della ricerca, dell’epidemiologia clinica, delle cure e di questa gestione interdisciplinare la sopravvivenza di questa neoplasia è tra le migliori in campo oncologico e contiamo, nel tempo, di migliorare sempre più questo percorso di cura. n 34% Centro 23% Sud-isole EUROPA UOMO maggio 2013 Lombardo Lucio Specialista in Gastroenterologia, Torino Disturbi addominali La dizione “disturbi addominali” è volutamente vaga e comprende sintomi diversi, dal senso di malessere indefinito, al dolore addominale di ogni intensità e caratteristica, al senso di gonfiore e tensione, che ogni singolo paziente può calibrare da insignificante a intollerabile. Solitamente tale dizione è fusa e confusa con il termine ancora più generico, ma più medicale, di dispepsia oppure con l’altro, non meno generico, di sindrome dell’intestino irritabile (IBS). L’obiettivo di questa flow-chart è di aiutare il medico pratico nella soluzione dei problemi clinici quotidiani, di fronte a situazioni cliniche che corrono il rischio di essere etichettate genericamente come dispepsia o IBS, ma che possono, e debbono, essere precisate dal punto di vista diagnostico e, conseguentemente, terapeutico. Escludere neoplasie degli organi addominali è il primo obiettivo. Aiuti importanti al raggiungimento di tale obiettivo ci vengono dall’anamnesi e dalla medicina basata sull’evidenza. L’anamnesi e l’esame obiettivo ci consentono di capire se sono presenti sintomi di allarme e fattori di rischio, che ci indirizzano correttamente (calo ponderale > 10%; anemizzazione, emorragia digestiva, inappetenza severa, masse addominali, versamento peritoneale; presenza di malattie infiammatorie croniche dell’intestino o IBD, poliposi familiare, familiarità per cancro, HNPCC, fumo, alcol, sovrappeso, dieta ricca in carni rosse e insaccati etc.). L’epidemiologia ci guida e orienta sulla maggiore o minore possibilità di neoplasie in una data fascia di età o di sesso in una data area geografica. Sappiamo per esempio che in Italia, in assenza di sintomi di allarme, sotto l’età di 45 anni, il tumore gastrico è virtualmente inesistente e che negli uomini è più frequente che nelle donne (con un’incidenza standardizzata rispettivamente del 19/105 e 8/105, mentre in Piemonte è discretamente più bassa: 16/105 e 6/105, rispettivamente) 1. Il cancro del colon retto nell’Italia settentrionale ha un’incidenza del 66,5/105 (M: 70/105; F:43/105) e l’età più colpita è quella oltre i 50 anni 1. Il cancro del pancreas ha un’incidenza nel nostro Paese del 9,2/105 , con un rapporto M:F = 1:1. In presenza di sintomi di allarme è necessario procedere a esami anche invasivi (EGDscopia, Colonscopia, TAC, RM etc), onde porre diagnosi di sicurezza e trattamento idoneo. Con questi dati in mente, tuttavia, in assenza di sintomi di allarme, si possono evitare, in una percentuale importante di casi, indagini invasive, socialmente e individualmente costose, e ottenere un inquadramento diagnostico e terapeutico corretto, con soddisfazione del paziente e del medico. Con l’aiuto di un’attenta anamnesi farmacologica è inoltre possibile individuare ulteriori utili informazioni. Alcuni farmaci, infatti, come gli inibitori della pompa protonica (IPP), gli antibiotici, l’allopurinolo, gli psicolettici, gli Inibitori selettivi del re-uptake della serotonina (citalopram, fluoxetina, paroxetina ETC) possono indurre sintomi variabili, da sfumati a molto severi, dal gonfiore, al dolore addominale, alle alterazioni dell’alvo, prevalentemente di tipo diarroico, fino alla malnutrizione, con modificazioni importanti dell’ecoflora intestinale 2 3. In particolare gli IPP possono causare sovraccescita batterica dell’intestino tenue (SIBO) con un’incidenza del 50% dopo 1 anno e del 75% dopo 5 anni di trattamento continuo a dose piena (Figg. 1, 2) 2. Pertanto, una volta escluse condizioni patologiche come la celiachia e l’intolleranza al lattosio (con un semplice esame del sangue, l’abtTG, e con il breath test al lattosio), percorsi mentalmente i passaggi logici della flow-chart sui disturbi addominali, considerando analiticamente e criticamente l’anamnesi farmacologica, il medico pratico si trova di fronte a una situazione clinica che possiamo definire “funzionale” e che spesso può essere inquadrata in un’alterazione della flora batterica intestinale e nella SIBO, in particolare. Può essere utile, a questo punto, confermare la diagnosi con un Breath test che può essere al glucosio, al lattulosio o al lattosio. Il breath test al glucosio è indicato per la diagnosi di SIBO “alta”, cioè localizzata nel tratto digestivo alto (duodeno e digiuno). Il breath test al lattulosio può essere utile nella diagnosi della SIBO “bassa”, cioè localizzata all’ileo, dove il glucosio, prontamente assorbibile, potrebbe Figura 1. Incidenza della SIBO nei pazienti trattati per 1 anno con inibitori della pompa protonica, a dose piena, (PPI) e rispettivamente nei pazienti con sindrome dell’intestino irritabile (IBS) e nei soggetti sani di controllo (HC) 2. Positività al glucosio-HBT 60 50 % 40 30 20 10 0 PPI IBS non arrivare per essere metabolizzato dai batteri in eccesso eventualmente presenti nell’ileo, mentre il lattulosio vi giunge facilmente. Il breath test al lattosio, disaccaride composto da glucosio e galattosio, oltre a darci una diagnosi di sicurezza di intolleranza al lattosio, consente di porre diagnosi di SIBO, nel caso di presenza di batteri in sovraccrescita nei tratti digestivi superiori, segnalan- HC do tale evenienza con un precoce picco di H2 o di CH4 nell’espirato raccolto. Ora è noto che la SIBO dà sintomi che si confondono con quelli della IBS. Viene valutato che, in realtà, l’IBS nasconde/simula una SIBO nel 20-40% dei casi, a seconda dell’area geografica e abitudini alimentari e farmacologiche della popolazione. Se si aggiungono i casi dei pazienti in trattamento con IPP per più di 1 anno, con un rischio Figura 2. Prevalenza della SIBO nei pazienti trattati con inibitori della pompa protonica in funzione della durata della terapia 2. 80 73 70 75 69 60 Bibliografia % 50 Incidence and mortality cancer trends of the Italian Network of cancer Registries (AIRTUM) 1998-2005. Epidemiologia & Prevenzione 2009;33:1926-50. 2 Lombardo L, Foti M, Ruggia O, et al. Increased incidence of small intestinal bacterial overgrowth during proton pump inhibitor therapy. Clin Gastroenterol & Hepatol 2010;8:504-8. 3 Pilotto A, Franceschi M, Vitale D, et al. For FIRI and SOFIA project. The prevalence of diarrhea and its association with drug use in elderly outpatients: a multicentre study. Am J Gastroenterol 2008;103:2816-23. 1 40 30 20 di contrarre la SIBO superiore al 50%, si evince facilmente che la percentuale di pazienti che possono ricevere una diagnosi e un trattamento corretto, pensando a questa possibilità, è tutt’altro che trascurabile. Mentre per un’alterazione lieve, qualitativo/ quantitativa, della flora batterica intestinale può essere sufficiente un trattamento standard con rifaximina (400 mg x 2/die per 1 settimana), seguito da un “condizionamento” con probiotici (bifidobatteri e/o lattobacilli, in particolare) per 1 settimana, per la SIBO la terapia deve essere più consistente e prolungata, se si vuole raggiungere un tasso di guarigione alto (> 90%). In quest’ultimo caso la posologia consolidata è di 400 mg x 3/die per 2 settimane, meglio se seguita da un periodo di trattamento con probiotici per 2 settimane. In caso di recidiva della SIBO, prevedibile se persiste la causa, è possibile un ri-trattamento con rifaximina alla stessa posologia e durata. Altri antibiotici (ciprofloxacina, levofloxacina, metronidazolo etc.) possono essere considerati, da soli o in associazione con rifaximina, nei casi più difficili. Gli antibiotici sistemici, tuttavia, possono avere un’incidenza di effetti collaterali superiore alla rifaximina, antibiotico ad azione topica, mirata, con una percentuale di assorbimento < 1%. L’augurio e l’obiettivo di questa impostazione di lavoro sono che con elementari indagini anamnestiche e misure diagnostiche semplificate sia possibile raggiungere una qualificata condotta diagnostico-terapeutica, con soddisfazione del paziente e del medico e risparmio della spesa economica individuale e sociale, per riduzione degli esami invasivi e del ricorso ripetuto alle strutture mediche del territorio e specialistiche. 22 15 10 0 2-6 7-12 13-36 37-60 Mesi di trattamento PPI > 61 Recensione Decidere in terapia Dialogo sul Metodo della cura Decidere in terapia? Si, molto interessante…io devo decidere tutti i giorni, cosa fare con quel paziente. Scorro l’indice: Terapie senza diagnosi? Molteplicità di terapie Logica e terapia Guarigione e cronicizzazione Pedagogia della guarigione Etica della prevenzione Etica della terapia Decidere in condizioni d’incertezza Etica dell’informazione al paziente Quando e come la “terapia etica” Il fenomeno dell’iperprescrizione Quando smettere? Temi rilevanti e quotidiani della pratica del medico di medicina generale: tutti i giorni decido, ma è vero che non rifletto sul metodo della decisione? allora perché decido di fare in un modo anziché in un altro? oramai lo do per scontato…all’Università nessuno me lo ha insegnato! E via via che scorro queste pagine e mi lascio trascinare dal dialogo fra Luciano e Giacomo, mi rendo conto che mi piace perché non si tratta solo di un dialogo fra due medici “esperti”, ma di un dialogo che trasferisce all’esterno e rende esplicito il dialogo interno del medico, che c’è in ogni atto medico, e avviene sempre per dare risposta alla domanda del paziente. Questo è tanto più vero per il medico di Medicina Generale, dove l’approccio bio-psico-sociale, la conoscenza nel tempo del paziente e della sua storia, dei suoi vissuti di malattia, rendono quasi automatico il passaggio dal dottore io ho…alla risposta “di cura” del medico… anche quando la cura non è sempre un farmaco, ma un consiglio, un esame, un nuovo appuntamento… per aggiungere a volte torna se non passa… Il nostro metodo sembra preferire il fare al sapere. A chi non fa la nostra professione il nostro agire può sembrare superficiale e generico, ma non lo è. In realtà c’è dietro non solo un allenamento decisionale, ma un saper essere e un saper fare specifico della nostra professione, che ci permette il passaggio dal “sapere”, al “saper fare” e al “fare”…anche quando la risposta è non fare…aspettare…far tornare… per capire la vera domanda del paziente… Quante domande fra il pensare, il dire e il fare! Si può aspettare?… La terapia è quella più adatta per quel paziente, al di là delle linee guida? Quale ricaduta avrà sulla sua qualità di vita? Quante volte ritornerà per lo stesso problema? Bisogna agire sempre con pochi strumenti tecnologici e molto ragionamento, prima- durante -dopo la cura. Oltre che per il medico come professionista, questo libro è un aiuto per i medici di Medicina Generale quando svolgono l’attività di Tutor e docenti: il dialogo fra Giacomo e Luciano è lo specchio di quanto succede quando noi, dialogando con il nostro tirocinante, diamo risposte sia a lui che a noi stessi, perché esplicitiamo il processo decisionale e il perché abbiamo deciso in un modo piuttosto che in un altro… Il dialogo che si svolge fra i due autori è una sorta di viaggio, con riflessioni, dubbi e risposte diverse e motivate, che stimolano domande e risposte nei lettori per conciliare scienza e arte della cura per la persona… è una guida al ragionamento terapeutico” metodologicamente corretto ed eticamente fondato” come lo definiscono gli autori. Il dialogo può così a volte veicolare insegnamenti, attraverso le risposte che un “maestro” dà a un “discepolo”, altre volte confutare argomenti, facendo dialogare polemicamente personaggi portatori di opinioni diverse; è un “passo a due” di danza, che si adatta bene alla fatica della scoperta del “perché si fa così”... (dalla prefazione di Cesare Scandellari, Fabrizio Consorti e Carlo Maganza) Buon viaggio allora per “decidere in terapia”. Maria Stella Padula
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