Anno XL - 3° TrimesTre 2014 - iL noTiziArio deLLA sezione C.A.i. di

MantovaCai - Notiziario della Sezione CAI di Mantova - Direttore Responsabile: Antonio Cirigliano
Direzione e Redazione: Via Luzio 9 - 46100 Mantova - Tel. e fax 0376 328728 - segreteria@caimantova.it - www.caimantova.it
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L’abbonamento riservato ai Soci di € 2,50 viene assolto nella quota associativa. Segnalazioni di mancato ricevimento vanno indirizzate alla Sede CAI di Mantova
Anno XL - 3° Trimestre 2014 - Il Notiziario della Sezione C.A.I. di Mantova - Luglio 2014
SOMMARIO
4
Vita di Sezione
12
Sci di Fondo
- Notizie, fatti e consigli
9
16
Gruppo SenzaEtà
Alpinismo
- La sicurezza in montagna
- Diedro che passione ...
- Storia dell’Alpinismo (terza
parte)
storia, arte ... e amicizia.
24 -- Fra
Le pietre della memoria ...
- Da un balcone sul lago ...
Escursionismo
...
28 -- Camminare
Infometeo che disastro ...
Cultura
- Artù il più piccolo della tribù.
- ...brillanti e ginestre.
- Un facile burrone...
- Dai cuscini di cisto riarso...
Una catastrofe: “1914-1918 la Grande Guerra
36 -(seconda
parte)
Vegetazione Forestale
Settentrionale
40 -- Appennino
Gli arbusti e i cespugli: Erica arborea
(2° parte)
- Gli alberi guida: il Pino Silvestre
Stampa: Grafiche Stella, Via A.Meucci 12
- Legnago (VR)
Autorizzazione Tribunale di Mantova n° 6
del 8/10/1975
Tariffa R.O.C.n° 13657 del 11/02/2006 Poste Italiane S.p.A
La Redazione si riserva di pubblicare o
meno gli articoli pervenuti; si riserva inoltre di apportare le modifiche che riterrà
opportune senza alterare il senso del
testo. Gli articoli firmati impegnano solo
l’autore.
Chi vuole inviare un articolo per la pubblicazione può inviare il testo e le eventuali
immagini, al seguente indirizzo email:
stampasociale@caimantova.it
Questo numero è stato chiuso in Redazione il 25 luglio 2014.
- Le segnalazioni
- Il Racconto
- Storia dell’evoluzione dello Sci di Fondo in Italia
“Guardare in libertà” (per gentile concessione di Davide Berton - ONCN Sezione CAI di Camposampiero)
Direttore Responsabile: Antonio Cirigliano
Capo Redattore: Giovanni Margheritini
Comitato di Redazione: Alessandro Vezzani (Operatore Naturalistico), Luciano
Comini (Maestro Sci Fondo), Davide Martini (Direttore Scuola Alpinismo, Ingegnere), Matteo Mantovani (Geologo), Giada
Luppi (laureanda Agronoma), Renato
Gandolfi (Geologo), Francesca Golinelli (Ambietalista, Architetto), Carla Carpi
(Guardia Ecologica), Lucia Margheritini
(Ambientalista, ingegnere).
Hanno collaborato a questo numero:
- Alessandro Savoia
- Odino Marmiroli
- Stefano Sacchi
- Luigi Zamboni
- Francesco Tripolino
- Artù
- Rino Stocchero
- Alberto Balconi
- Andrea Carenza
per l’inserto dei ragazzi:
- Marta Bonatti
- Vittoria Scaglioni
- Maria Vittoria Previdi
- Sofia Sassi
BiblioCai & CineCai
La Storia della Terra
44 - La terra è una macchina termica
Flora Alpina
48 - Una sapienza senza confini ...
49
Fauna
- Lo scoiattolo
Le Avventure Continuano ...
50 -- innelLuglio/Agosto/Settembre
prossimo numero
Nel centro della rivista inserto staccabile “Il giornalino dei Ragazzi”
-3-
VITA DI SEZIONE
a cura della Redazione
Il Punto sul Tesseramento 2014
Al 23 giugno la situazione del Tesseramento 2014 è la seguente:
Mantova
Quistello
Suzzara
Totale
Ordinari
456
63
90
609
Familiari
Giovani
Totale
189
29
29
247
82
24
15
121
727
116
134
977
I nuovi iscritti sono n° 160, pertanto, a questa data, non hanno ancora complessivamente rinnovato l’iscrizione n° 186 Soci di cui n° 156 di Mantova, n° 14 di Quistello e n° 16 di Suzzara.
Si ricorda che il 31 marzo è scaduta la copertura assicurativa CAI per coloro che, a quella
data, non hanno rinnovato l’iscrizione. Per loro sarà possibile conservare l’anzianità di tessera
se rinnoveranno entro il 30 Ottobre.
-4-
VITA DI SEZIONE
Escursione
ALTA VIA
Escursione Dolomiti
Sasso della Croce
m
pl
dal 20 al 26 luglio
Quota individuale € 000,00
Iscrizioni entro il 30 aprile
Caparra € 100,00
Saldo pagamento entro 30 giugno
Co
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•
•
•
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et
o
Escursione Alta Via
Gran Paradiso
dal 02 al 03 agosto
Quota individuale € 00,00
Andata e Ritorno in Pullman
Pernottamento: Rifugio Fanes
Iscrizioni entro il 20 luglio
Caparra € 50,00
Posti totali 30
Affrettatevi!!!
Punto Base
Escursione
Escursione Vie Attrezzate
Gran Pilastro - Hochfeiler
•
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•
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dal 23 al 24 agosto
Quota individuale € 00,00
Andata e Ritorno in Auto
Pernottamento: Rifugio Gran Pilastro
Iscrizioni entro il 15 agosto
Caparra € 50,00
Posti totali 12
Variazioni Escursioni
Valle Aurina
Trekking, Nordik Walking,
mtb, Cultura e Natura
•
•
•
•
•
dal 27 al 31 agosto
Quota individuale € 110,00
Iscrizioni entro il 30 Maggio
Caparra € 50,00
Posti totali 24
Affrettatevi!!!
www.caimantova.it
Prendete nota che:
• Alpe Succiso prevista per giovedì
2 ottobre è spostata al giovedì 16
ottobre.
• Sentieri di Pace prevista al 16/17/18
ottobre è anticipata al 2/3/4 ottobre
-5-
Importante!
Ricordatevi di iscrivervi alle News sul
nuovo sito web della
Sezione.
Quando i giovani s’inna
a cura della Redazione
Non c’è premio che tenga. Quando tanti giovani s’impegnano a scrivere ciò che sentono per un
mondo che al massimo conoscono come turisti significa che questo mondo è contenuto nella loro
sfera dei potenziali interessi.
E’ quanto è successo con il concorso promosso dalle sorelle Carreri e dalla Sezione
di Mantova del Club Alpino Italiano. Se ricordate a novembre è stato bandito questo
concorso per volontà di Cecilia e Daniela
Carreri a ricordo del padre Cesare Carreri,
ingegnere, alpinista e ostigliense d’origine.
Lo scopo del concorso era quello di fare
nascere, anche tra i più giovani, la passione
per la montagna e per il suo ambiente quale
testimonianza dell’impegno del loro padre
per l’alpinismo e la natura.
Esperimento molto riuscito!
A questa prima edizione del concorso hanno partecipato le sette classi dell’Istituto
comprensivo “Luisa Levi” del quale oltre
all’Alberti fa parte anche Castelbelforte. Le
classi hanno prodotto una serie di elaborati
sul tema indicato: “La montagna ci aiuta, noi
aiutiamo la montagna” e una commissione mista, di otto membri tra insegnanti e menbri del Club
Alpino Italiano, ha scelto il migliore.
La mattina della premiazione è stata ricca d’emozioni. In aula c’erano tutte le classi, nessuna sapeva il risultato. Si poteva leggere sul volto delle ragazze e dei ragazzi l’ansia del momento. Dall’altra
parte alcuni membri della giuria, alcuni rappresentanti del Club Alpino Italiano con i Vice Presidenti
della Sezione di Mantova Alessandro Manzoli e Luigi Zamboni, le signore Cecilia e Daniela Carreri, il
dirigente scolastico Roberto Archi, il Presidente del Consiglio Comunale Giuliano Longfils e il grande
Fausto De Stefani la cui presenza è l’ennesima testimonianza del suo impegno di vita dedicato ai
ragazzi e alla loro educazione.
Ricordiamolo e cerchiamo di
dare una mano a Fausto e alle
sue scuole, lontane geograficamente, in Nepal ma pur sempre
“scuole a due passi dal cielo”
per non fare più rimanere “ultimi” tanti bambini poveri.
Quindi, come potete capire,
c’è interesse intorno a questo
premio, nato da un sentimento
profondo di due donne. Il Presidente del Consiglio Comunale
esprime compiacimento e auspica che alla prossima edizione il Comune di Mantova possa
partecipare attivamente. Fausto
De Stefani sprona i ragazzi alla
montagna, li avverte che si fa
fatica ma poi dice loro, come
fosse una intima confidenza,
che dopo, dentro si è diversi.
Parlano Cecilia e Daniela Carreri
-6-
morano della montagna
e le emozioni a volte prevalgono sui comportamenti, il ricordo del padre, delle sue gesta e soprattutto
quell’amore appassionato per la montagna quale
scuola di vita e cultura. Poi è la volta di Alessandro
Manzoli, Vice Presidente del CAI di Mantova. A lui
spetta rivelare chi ha vinto.
E’ la Terza D dell’Alberti.
Urrrraaaaaaaahhhhhhhhhh!!! è il grido unanime delle ragazze e dei ragazzi in aula. I “give me five” si
sprecano fra di loro. Si abbracciano. Si emozionano.
Tutti in piedi e gli applausi non mancano.
Alessandro, dopo il tripudio, continua a leggere le
motivazioni del premio che la giuria ha espresso.
Intanto i ragazzi e le ragazze si riuniscono intorno
al tavolo degli speakers.
Arriva anche la professoressa Anna Maria Andreuzzi che ha condotto
sapientemente la regia
facendo lavorare sodo
i ragazzi. Ora tutti insieme, in un abbraccio immaginario si godono un lungo applauso. Bravi!!!
E ora il premio. Viene loro comunicato che domenica 1 giugno alle 6,30
si parte per le Dolomiti dove raggiungeremo il Rifugio Roda di Vael nel
Gruppo del Catinaccio partendo dal Passo di Costalunga. Questo è il
premio: “una giornata tra le più belle montagne del mondo” insieme agli
Accompagnatori del Club Alpino Italiano. Leggetevi questa storia nelle
pagine del “Giornalino dei Ragazzi” al centro della rivista.
Bene, e ora pensiamo al Concorso e al Premio 2015!!!!
-7-
VITA DI SEZIONE
a cura di Caterina Moccia - Prefazione della Redazione
Fra le tante frenesie della società attuale, per fortuna, c’è ancora spazio per coltivare la memoria e
per aiutare a ricordare, indelebilmente, coloro che si sono sacrificati perchè noi avessimo questo
benessere. Caterina Moccia ci presenta un progetto, già in corso d’opera, per il quale ci propone
di collaborare fattivamente per la sua realizzazione. Quando siamo per monti facciamo attenzione,
troviamo e segnaliamo i segni della storia. Con un piccolo gesto, con una foto, con una email avremo
contribuito a non perdere una parte delle fondamenta della nostra libertà.
Il progetto nazionale Pietre della Me-
moria, messo a punto dal Comitato
regionale umbro dell’ANMIG (Associazione Nazionale fra Mutilati e Invalidi di Guerra e Fondazione), consiste
in primo luogo nel censimento di monumenti, lapidi, lastre commemorative, steli, cippi e memoriali presenti
nel territorio nazionale che ricordano
prima e seconda guerra mondiale e
guerra di Liberazione.
Il progetto, che ha come fine la conservazione della memoria storica del territorio, parte appunto
dalle pietre che ricordano eventi, luoghi, date, nomi di tutto ciò che è successo nelle regioni italiane
o riguarda i cittadini negli anni delle due guerre.
Tutto il materiale raccolto, catalogato e ordinato per schede omogenee, sarà pubblicato su questo
sito che vuole anche essere facile e utile strumento di consultazione per storici e studenti. Il progetto
pilota partito dall’Umbria è in fase di attuazione in tutta Italia in collaborazione, tra gli altri, con le
varie realtà associative, enti pubblici ed uffici scolastici regionali presenti nel territorio.
L’ANMIG ha predisposto una scheda tipo per catalogare e pubblicare i reperti censiti. Nella scheda
è specificata la tipologia del reperto (monumento, lapide, stele, cippo, etc..); il luogo di collocazione;
il testo delle iscrizioni completo con nomi; fotografie del reperto; il tipo di materiale utilizzato; lo stato
di conservazione; l’ente preposto alla conservazione.
Di particolare importanza è la segnalazione delle coordinate geografiche che attraverso il motore di
ricerca interno a questo sito permetteranno anche la localizzazione visiva sulla mappa consultabile
con un link.
Il progetto è aperto ad aggiornamenti continui essendo il sito interattivo, con la possibilità dei visitatori di inserire nuove schede e nuovi documenti.
Come partecipare
Il progetto Pietre della Memoria è aperto alla collaborazione di chiunque voglia partecipare al censimento, quindi alla localizzazione e schedatura della “pietre” disseminate nel territorio italiano che
ricordano fatti e nomi legati agli eventi della prima e seconda guerra mondiale.
Esploratori della Memoria per elezione sono gli studenti cui è dedicato un apposito ed esclusivo
concorso, ma ciascun cittadino può diventare Esploratore della Memoria individuando le pietre (monumento, lapide, cippo o stele), fotografandole e reperendo le notizie essenziali indicate secondo un
semplice ma preciso schema predisposto.
Una delle caratteristiche più innovative del censimento consiste nella possibilità di localizzare esattamente il reperto attraverso le coordinate geografiche (latitudine e longitudine facilmente individuabili con uno strumento dotato di gps come il navigatore per auto o telefoni mobili di ultima generazione) che saranno indicate nella schede.
Rendere pubblica attraverso il sito la mappa delle “pietre”, con le foto, le iscrizioni, i nomi, brevi notizie sul contesto storico e la localizzazione agevolerà anche l’indispensabile opera di conservazione
dei siti e dei reperti individuati.
www.pietredellamemoria.it
-8-
I libri che segnaliamo
a cura della Redazione
Perché la Pace
Questo libro è composto da quarantadue racconti che narrano le storie di un
uomo, socialista, sindaco, alpino e alpinista. Questi è Luigi Grigato e le storie
sono autografe.
I ricordi sono narrati con il linguaggio della sincerità di un uomo onesto che ha
creduto sempre nei suoi ideali e che ha dato molto di se stesso per il bene comune.
Nei racconti di montagna traspare la dolcezza struggente di un profondo amore
che lo porta a importanti scalate individuali ma anche al piacere della conquista
collettiva, con i suoi alpini, sul Dente del Gigante, con i suoi amici nel Vajolet.
Nei racconti dedicati alla guerra emerge la volontà di descrivere le vicende legate
alle persone, le vicende minute, quelle legate alla sopravvivenza con una prosa
degna di poesia piuttosto che accendere i toni.
Poi ci sono i racconti del suo agire per la gente, del suo socialismo umano e libero, della sua azione di sindaco.
In tutti questi racconti è evidente l’aspetto umano: la famiglia, la natura, i sentimenti, l’amicizia, espresso direttamente senza il bisogno di ricorrere a stravaganze comunicative.
Questi racconti lasciano un’impronta profonda. Personalmente non ho mai conosciuto Grigato, ma dopo aver letto questo libro sento dentro di me la presenza di
un nuovo amico a cui rivolgermi durante le mie riflessioni.
Sinai
Nemmeno in cima alle montagne più alte mi è passato per la testa di alzare le
braccia in segno di trionfo; semmai, accovacciata a terra, mi è sempre venuto
spontaneo un grazie.
Nives Meroi
Il Monte Sinai, da luogo storico o geografico, appare per quello che realmente
é, un luogo filosofico, teologico, spirituale: il luogo dove può nascere o morire la
libertà.
Vito Mancuso
Il fascino della montagna, il senso del viaggio e il mistero dell’esistenza in un
appassionante racconto a due voci.
Vito Mancuso, teologo italiano, ha insegnato presso l’Università San Raffaele di
Milano e l’Università di Padova. I suoi scritti, tradotti in più lingue, hanno suscitato notevole attenzione da parte del pubblico e sono oggetto di discussioni e
polemiche per le posizioni non sempre allineate con le gerarchie ecclesiastiche.
Nives Meroi ha scalato undici delle quattordici vette sopra gli ottomila, tutte raggiunte senza l’uso di ossigeno supplementare e di portatori d’alta quota. Straordinaria la conquista del K2 nel 2006 attraverso lo Sperone degli Abruzzi: in cinque
giorni, Nives Meroi e il suo compagno Romano Benet hanno salito e disceso la
montagna in completa solitudine.
-9-
BiblioCai
&
CineCai
BiblioCai
&
CineCai
I libri che segnaliamo
a cura della Redazione
Un viaggio lungo una fiaba
Quando una persona parla con l’entusiasmo e l’energia di Fausto, poco importa
se hai visto o conosciuto le persone e la realtà di cui racconta.
Fausto parla di montagna, di natura, di scuole, di maestri e di bambini, di povertà
e di solitudine, di cultura e di speranza.
Parla di un impegno concreto e costante negli anni, di viaggi in Nepal, del prezzo del ferro e del cemento, della fatica e della passione infinita che lo spinge a
lavorare per aiutare quei ragazzi che potranno frequentare una scuola in grado di
prepararli alla vita e al lavoro.
“Condividere un progetto di solidarietà rafforza il legame tra le persone e accorcia le distanze”.
Uno degli obiettivi dell’iniziativa di produrre e distribuire questo libro è la raccolta
di fondi necessari allo sviluppo del progetto Rarahil Memorial School.
Tasci-Montura
Questo libro ha un obiettivo importante, quello di sostenere un progetto difficile
che si occupa del futuro di tanti bambini. L’obiettivo sarà raggiunto perchè questo libro racconta di una storia di magia vissuta e sognata dal bambino Fausto De
Stefani. Leggetelo ed emozionatevi. Poi, se volete, correte ad acquistarne alcune
copie e regalatele ad amici e conoscenti. Così aiuterete i vostri amici e .... anche
il Progetto.
La natura dimenticata
Mario aveva perso l’uso della mano destra, non poteva più scrivere, e questo lo
struggeva profondamente, ma conservava ancora la forza della parola.
“L’umanità sta andando verso il baratro; non abbiamo ancora toccato il fondo,
ma ci arriveremo presto. Questa civiltà ha fallito ed è destinata a scomparire per
rinascere a cosa nuova, altra. L’uomo dovrà passare per una presa di coscienza
e consapevolezza, dovrà ritrovare l’antica saggezza, tornando a vivere con poco,
in armonia e pace con la natura, facendosi bastare, ritrovando il tempo per ascoltare ...”
Musicisti, alpinisti, scrittori, ambientalisti, registi, guardiacaccia, attori, uomini comuni che hanno sposato l’idea di unirsi per dare forma a “La natura dimenticata”.
Questo libro raccoglie trentuno scritti che, in maniera trasversale e frutto dell’esperienza diretta, testimoniano l’impegno e la volontà di fare qualcosa per preservare l’unico pianeta che abbiamo a disposizione.
Contributi di: Ario Sciolari, Mario Attombri Marioji, David Bellatalla, Davide Berton, Katia Bettiol, Mario Brunello, Enrico Camanni, Giuseppe Cederna, Elena
Corna, Spiro Dalla Porta Xydias, Erri De Luca, Vittorio De Savorgnani, Fausto
De Stefani, Bianca Di Beaco, Kurt Diemberger, Cesarino Fava, Giancarlo Ferron,
Cesare Lasen, Roberto Mantovani, Vittorino Mason, Michele Menegon, Franco
Michieli, Eugenio Nonini, Ermanno Olmi, Elio Orlandi, Carlo Alberto Pinelli, Maria Antonia Sironi, Mario Rigoni Stern, Giuseppe Tormen, Michele Zanetti, Padre
Alex Zanotelli, Andrea Zanzotto.
- 10 -
Racconti
a cura della Redazione
BiblioCai
&
CineCai
Una magia inutile
Una fata, ancora bambina, abitava su una stella e aveva le sue sorelle come
insegnanti. Un giorno una delle sorelle le disse: “ora dovrai andare sulla Terra in
cerca di qualcuno o qualcosa che abbia bisogno della tua
magia benevola”. La fata, che si chiamava Anna, rimase un
po’ stupita perché questo proprio non se lo aspettava. Partì
un po’ triste perché lasciava le sorelle, ma contenta perché
andava in un mondo che ancora non conosceva.
Arrivata sulla Terra trovò in città alberghi e locande tutti occupati, dovette quindi trovare dimora in montagna, in un paesino abitato da un centinaio di persone. Quando frequentava
le vie del paese, tutti la accoglievano allegramente. Lei era
contenta di vivere in quel posto. Ogni giorno faceva lunghe
passeggiate per il bosco di cui apprezzava la tranquillità, gli
abitanti (animali) e i colori. Era stupita nell’ammirare il colore
verde, soprattutto dei prati. In quel periodo, era primavera, i
fiori sbocciavano e l’erba brillava alla luce del sole. Dietro a
quel monte c’erano altre montagne e quindi si poteva contemplare un panorama fantastico. Anna era veramente contenta di essere venuta sulla Terra! Però mentre lei si divertiva
a giocare con scoiattoli, leprotti e caprioli, non trovava l’occasione di esercitare la sua magia benevola perché tutti erano felici e l’ambiente era perfetto. E intanto passava il tempo
e trascorrevano gli anni. Anna conobbe boscaioli, falegnami,
pastori e tante altre persone che lavoravano o abitavano su
quel monte.
Un bel giorno le sorelle la richiamarono sulla stella, per avere
il resoconto delle belle cose create con la sua magia. Anna,
tornata sulla stella, assicurò le sorelle che nel paese di montagna dove era stata, non c’era bisogno di magia perché era
già tutto bello, forse più invidiabile della loro stella. Incredule, pensarono che Anna stesse scherzando e le chiesere se
voleva deriderle. Lei, naturalmente, rispose di no. Le sorelle
pensarono che forse il viaggio fino alla stella era stato duro e
pesante e che Anna doveva essere molto stanca.
Dopo un secolo, passato velocemente, Anna decise di portare le sorelle a visitare il monte su cui era stata. Appena
arrivate sul posto lo trovarono rovinato: c’erano alberghi, residence, piste da sci,
strade, auto, addirittura un piccolo aeroporto. Del bosco non c’era quasi più traccia. Le sorelle suggerirono ad Anna di fare una magia. Anna accettò e in pochi
secondi la montagna tornò com’era prima. Gli abitanti però si lamentarono perchè perdendo il turismo dovevano di nuovo tornare a fare il boscaiolo, il pastore,
l’allevatore. Anna cercò di convincerli, mostrando loro le bellezze della natura,
che con la sua magia aveva ricreato. Essi, che preferivano invece il denaro, una
vita meno difficile, i divertimenti e le occasioni tipiche della città, le chiesero di riportare nel loro ambiente il traffico, le auto e tutte le strutture turistiche. La nostra
fatina, amareggiata e delusa, li accontetò e se ne tornò sulla su stella, conservando nel proprio cuore e nella propria fantasia il ricordo di un paesaggio che mai più
avrebbe trovato posto sulla Terra e nell’universo intero.
Nadia Gottardo (12 anni - Cai Mirano - Venezia)
- 11 -
Questo racconto è tratto dal libro “La Montagna Fantastica” edito
dalla Sezione Cai di Mirano - Venezia
Storia dell’evoluzione
Sci di
Fondo
a cura di Luciano Comini
Dopo aver parlato delle origini dello sci e della bella storia di Franco Nones sul
numero precedente della rivista, qui proseguimo per seguire l’evoluzione della
storia da quando lo sci nasce come sport vero e proprio.
Possiamo considerare il periodo attorno alla metà dell’Ottocento come l’epoca
della nascita dello sci di fondo come sport.
Iniziarono infatti le prime gare: la prima di cui si ha notizia risale al 1843, tenutasi
a Tromso.
Nel frattempo nel distretto norvegese di Telemark alcuni temerari abitanti delle montagne sperimentavano le discese con questi attrezzi (prima venivano utilizzati prevalentemente in piano). Fu così che nacque il
telemark come precursore dello sci alpino e iniziarono le prime sfide. Si
racconta che una di queste sfide consisteva nello scendere reggendo
un vassoio sul quale era appoggiato un bicchiere di birra, il quale naturalmente doveva rimanere pieno!
Iniziarono anche le prime sfide che consistevano nell’affrontare un salto con gli sci, dove non vinceva chi saltava più lontano, ma chi restava
in piedi! Quindi da queste esperienze “ludiche” nascono lo sci di fondo,
lo sci alpino e il salto con gli sci come sport.
Nel 1903 si tennero in Svezia i primi Giochi Nordici, precursori dei Giochi Olimpici Invernali, da tenersi ogni 4 anni. Nel 1924 nasce la Federazione Internazionale dello Sci.
Come abbiamo visto, dopo gli sci portati dal reverendo Francesco Negri, i primi sci arrivarono nel 1884 portati da Edoardo Mortinari, tornato
da un viaggio in Lapponia. Una data storica per lo sci italiano è però
il 1897, quando Adolfo Kind, di origine svizzera ma residente a Torino,
acquistò un paio di sci. Sciando nelle varie vallate alpine cominciò a far
conoscere questo attrezzo. Nel 1901 grazie a Kind nacque lo Ski Club
Torino e nel 1908 fu pubblicato il primo manuale tecnico: il Vademecum
dello Skiatore.
Fu durante la Prima Guerra Mondiale che lo sci si diffuse in modo capillare in tutto il Nord Italia: sia l’esercito italiano, sia quello austriaco
avevano corpi di soldati sciatori.
Nel 1933 fu istituita la Federazione Italiana Sport Invernali, con ben
sedicimila soci iscritti. Lo stesso anno iniziarono a operare i primi maestri e sorsero le prime scuole sci italiane a Sestriere e a Cortina. Fino
al 1970 esisteva però una unica figura sia per lo sci di fondo che per
la discesa. Solo da quell’anno, grazie soprattutto alla vittoria di Franco Nones alle Olimpiadi di Grenoble del 1968, questo sport ebbe una
grande diffusione, diventò di massa e rese necessaria l’istituzione della
doppia figura.
Nel 1971 prese il via la prima edizione della Marcialonga, la quale contribuì ulteriormente ad attirare nuovi appassionati verso lo sci di fondo.
Nel 1973 si tenne al Passo del Tonale il primo corso per allenatori al
quale partecipò anche il ceco Vladimir Pacl, colui che fece conoscere
lo sport dell’orienteering anche in Italia. Molti altri furono gli avvenimenti sportivi rilevanti per lo sci di fondo e per la sua diffusione in Italia.
Dagli anni Settanta del secolo scorso però fu l’evoluzione tecnica di
questo sport ad essere veramente interessante.
Evoluzione tecnica dagli anni Settanta del secolo scorso.
Fu dalla metà di questo decennio che si iniziò ad analizzare il gesto
tecnico nel movimento degli sciatori agonisti, cercando al contempo
di trovare innovazioni e impostazioni nuove per rendere la sciata il più
efficiente possibile.
Allo stesso tempo l’evoluzione tecnica ha introdotto materiali sempre migliori,
veloci e leggeri, scioline che rendevano gli sci sempre più scorrevoli, indumenti
più comodi con cui sciare.
- 12 -
dello Sci di Fondo
Sci di
Fondo
La tecnologia ha migliorato notevolmente anche le condizioni delle piste, ben
battute e più larghe rispetto a prima dell’introduzione dei mezzi battipista (gatto
delle nevi). In aiuto degli atleti sono giunti anche i primi programmi di allenamento, gli studi di pianificazione atletica e alimentazione, e la medicina sportiva in generale.
Nel 1975 viene introdotto il primo testo tecnico-metodico dello
sci di fondo in Italia e l’anno seguente vengono formati i primi
Istruttori nazionali.
Nel 1981 il finlandese Pauli Siitonen sperimentò per la prima
volta un passo che fu successivamente chiamato dai tecnici
“scivolata spinta pattinata”. Anziché mantenere entrambi gli sci
paralleli all’interno dei solchi chiamati binari, provò a tenere uno
sci all’interno e uno all’esterno divaricato, spingendo secondo
una sorta di pattinata. Ciò fu possibile perché i nuovi gatti delle
nevi battevano accanto al binario uno spazio sufficientemente
ampio per poter divaricare gli sci. Questa tecnica permetteva di
incrementare notevolmente la velocità. Già dall’anno successivo
lo statunitense Bill Koch completò il movimento introducendo la
pattinata con entrambi gli sci. Grazie a questa tecnica fu il primo americano ad aggiudicarsi la Coppa del Mondo. Ben presto
tutti gli atleti cominciarono a perfezionare questo nuovo modo di
sciare: nasceva la tecnica di pattinaggio.
I primi anni, gli atleti sceglievano in base alle caratteristiche del
tracciato quale passo utilizzare (passo alternato, passo spinta,
scivolata spinta o pattinata) e ben presto ci si accorse che la
pattinata o comunque questo nuovo “pattinaggio” sugli sci era
di gran lunga più efficace. Infatti, alle Olimpiadi di Sarajevo del
1984 e alle gare successive, le prime posizioni erano occupate
da chi aveva fatto largo uso della nuova tecnica (e l’italiano Maurizio De Zolt fu uno dei grandi pionieri del pattinaggio sugli sci).
L’anno successivo la tecnica libera, basata prevalentemente sul
passo di pattinaggio, eseguito in diversi modi e senza dover ricorrere alla sciolina di tenuta, ha soppiantato completamente
la tecnica classica il cui passo base è l’alternato: i Mondiali si
Seefeld del 1985 furono dominati dai pattinatori.
Terminati i mondiali però iniziò una accesa disputa tra i sostenitori della tecnica
classica e i pionieri sostenitori della tecnica libera. Al Congresso FIS di Vancouver si arrivò a un compromesso: da lì in avanti sia ai Campionati del Mondo, sia
in Coppa del Mondo, sia ai Giochi Olimpici la metà delle gare si sarebbe tenuta
in tecnica classica e metà in tecnica libera.
Questa separazione delle tecniche ha fatto sì che molti atleti si
specializzassero in una o nell’altra, anche se un fondista completo viene ora considerato chi
sa agevolmente passare dalla
tecnica classica alla tecnica di
pattinaggio (o skating) con gli
stessi risultati.
- 13 -
Bibliografia:
Enciclopedia dello
Sport - Zanichelli
Mondo Natura - Web
Hai già rinnovato l’iscrizione per il 2014?
Affrettati e porta anche un nuovo amico.
Vogliamo crescere!!
Club Alpino Italiano
Sezione di Mantova
- 15 -
Alpinismo
SciAlpinismo
Arrampicata
La sicurezza in montagna
a cura di Davide Martini
La volta scorsa abbiamo parlato di nodo “barcaiolo” che serve per bloccare la
corda e nodo “mezzo barcaiolo” che serve per frenare la corda. Abbiamo anche
visto e capito che questi sono due nodi fondamentali che devono essere sempre
eseguiti senza esitazione.
Il “mezzo barcaiolo” è un freno che una volta che ha svolto il suo compito, per
esempio arrestare una caduta, deve essere assolutamente bloccato per poter
lasciare le mani libere all’operatore. Il bloccaggio lo si fa attraverso un “asola di
bloccaggio” e una “ contro asola di sicurezza”.
Asola di bloccaggio e Contro Asola di sicurezza.
Questa asola si esegue sulla corda di cordata su freno e su cordini.
Blocca la corda e/o il cordino anche sotto carico. Ad esempio viene eseguito immediatamente dopo aver arrestato una caduta, qualora fosse necessario liberare
le mani di chi assicura per soccorso, altre manovre, ecc.
E’ semplice da realizzare, è utilizzata per bloccare e poi liberare facilmente corde
e cordini in tensione. L’asola se tirata sul capo libero si scioglie tornando alla
situazione iniziale.
Deve essere sempre bloccata con una “Contro Asola di sicurezza” che ne impedisce lo scioglimento accidentale.
Asola e Contro Asola devono essere eseguite con precisione, rapidamente e senza esitazione.
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Diedro che passione ...
a cura di Giovanni Margheritini
I diedri mi sono sempre piaciuti. Dagli allenamenti sul diedro tra la Torre Romana
e la Torre Barancio fino a quelli ben più difficili sulla via Rizzi alla est della Roda
di Vael, al diedro perfetto della Dulfer sulla ovest della Cima Grande di Lavaredo,
di diedri ne ho scalato parecchi. Come questo alla Cima del Lago nelle Dolomiti
di Fanes dove la vistosa Torre del Lago, che come un’enorme colonna delimita
la Forcella del Lago, è collegata alla poco vistosa Cima del Lago (2670 m) da
un diedro ampio e marcato, un classico “libro aperto”. La via raggiunge questo
bellissimo diedro soltanto su una cengia a circa un terzo dell’altezza della parete
per evitare un tetto traverso, situato a sinistra nella parte bassa della parete. La
parte inferiore si sviluppa su di una parete grigia dietritica adatta ad essere scalata senza percorso obligato, ma bisogna fare un po’ d’attenzione. Raggiunta la
cengia e guadagnato il diedro tutto si trasforma e l’arrampicata offre una difficoltà costante fino alla cima su una ottima roccia lavorata.
In questa avventura di inizio stagione eravamo in quattro: Brigitte, Federica, Helmut e il sottoscritto. Il sabato avevamo arrampicato parecchio alle Cinque Torri e
la sera eravamo andati a cenare e dormire al Rifugio Lagazuoi. “Allora domattina
cosa facciamo?” chiedo mentre termino una torta di grano saraceno “mit sahne”. Brigitte, che ha terminato il suo “capuccino” di fine cena, mi dice tranquilla
che faremo la Cima del Lago dove c’è un diedro che amerò molto. Con questa
notizia in testa vado a dormire. Partiamo presto e arriviamo al Lago Lagazuoi che
sono appena le otto. Ci fermiamo per una buona colazione, abbiamo un termos
di caffè ben caldo che ho preso al rifugio prima di partire. Bene ora possiamo
andare. Helmut decide di indossare le attrezzature e lasciare i sacchi nascosti
tra i salici in riva al laghetto. Tutti facciamo la stessa cosa, ma io porto il sacco
con le provviste e l’acqua per tutti. Ci organizziamo in
due cordate, io e Brigitte e Helmut con Federica. Non
c’è ancora nessuno, la giornata è meravigliosa con una
luminosità che espime tutta la bella stagione che sta
arrivando. L’aria è fresca, siamo a metà giugno e sui
versanti nord ci sono ancora tante lingue di neve. Siamo veloci, e rapidamente siamo all’attacco sulla parte
bassa della parete dove bisogna stare attenti a non tirarsi delle pietre in testa. Arrivati alla cengia, ci permettiamo ancora un po’ di caffè e poi su, ora siamo entrati
nel diedro. Fantastico, lavorato, mai banale. Belle clessidre per la sicurezza. Mi viene persino da cantare per
la felicità. Davanti Federica e Helmut si alternano e ho
modo di vedere come Federica in poco tempo abbia
veramente guadagnato tanta sicurezza. E’ brava e soprattutto caparbia. Alle undici siamo stravacati in cima
e ci godiamo il paesaggio verso le montagne di Fanes.
Intanto il traffico sulla via si è fatto intenso e allora decidiamo di scendere per poi fermarci al Laghetto per recuperare gli zaini. Raggiunto il punto di catata, uniamo
le corde e in una unica manovra raggiungiamo la base
e poi la Forcella del Lago. Poi giù per il canalone, dove
tutti insieme ci divertiamo come matti ad andare per
ghiaioni. Finalmente siamo al laghetto e io vado in cerca dei nostri zaini. Trovati li prendo e mi giro per ritornare al punto dove ho lasciato gli altri, ma non ci sono più.
Guardo in giro e vedo tre teste spuntare dall’acqua del
laghetto. Non mi ero accorto di nulla e ora non mi resta
che togliermi tutto e raggiungerli. Che figata!!!
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Alpinismo
SciAlpinismo
Arrampicata
CIMA DEL LAGO
Diedro Sud-Ovest
Via Dall’Oglio, Consiglio, Micarelli aperta il
2/8/1954.
Difficoltà: IV+ costante,
più facile nella parte bassa
Lunghezza: 400 metri, 12
lunghezze di corda
Tempo: circa 3-4 ore
Soste: pochi chiodi, cordini su clessidre
Discesa: dalla vetta per
tracce verso nord-est
fino a un punto di calata. Calata in doppia 1x15
e 1x20. Poi per tracce
verso Forcella del Lago.
Dalla forcella scendere il
canalone per sentiero fino
al Lago Lagazuoi in 1 ora.
Attrezzatura: NDA
Appoggio: Rifugio Scotoni - 1985 m
Carta riferimento:
Tabacco 03 - Cortina
Scala 1:25.000
La Storia
Alpinismo
SciAlpinismo
Arrampicata
a cura di Davide Martini
Emilio Comici, tra libera e artificiale.
Emilio Comici sulla
Nord di Lavaredo
Emilio Comici in una
acrobatica discesa
Quindi si ritorna sul concetto che inizialmente, quando si dice che si faceva ricorso a mezzi artificiali per la progressione, ci si riferisce ad un numero assai limitato
di chiodi, utilizzati per lo più come appigli, per passare solo il passaggio più duro
di un tiro. Fu solo poi col numero di ripetizioni che le vie vennero poi riempite di
chiodi e rese alla pari di esercizi da funambolo.
Tra i più grandi alpinisti di questo periodo c’è Emilio Comici, triestino iniziato
all’alpinismo dopo una prima fase speleologica nelle grotte del Carso. Addirittura
è il fondatore della prima scuola italiana di alpinismo, la “Scuola Val Rosandra”,
dal nome della zona vicina a Trieste in cui si sviluppò la prima palestra di arrampicata ed oggi ribattezzata “Scuola Emilio Comici”.
Comici è stato un personaggio chiave della storia dell’alpinismo, come Preuss e
Bonatti: fu un poco strumentalizzato dal regime che lo idealizzò a simbolo anche
se ne ottenne ben poco in termini economici. Una delle sue grandi aspirazioni
fu quella di scrivere un manuale di alpinismo che però non riuscì a portare a
termine; altra aspirazione era quella di innalzare l’alpinismo italiano in Dolomiti
sopra tutti gli altri. Sull’esempio degli austriaci e dei tedeschi aveva avviato la
pratica dell’allenamento in palestra di roccia; naturalmente la cosa suscitò ironia
e riprovazione negli ambienti occidentali, ma quando da queste strutture come
la Grigna, Val Rosandra e Fontainebleau usciranno alpinisti come Cassin, Comici ed Allain
i giudizi verranno rivisti e tutti passeranno alla
ricerca di strutture analoghe vicine alle città.
Aveva un fisico leggero che l’attività di atletica aveva reso molto potente: la ricerca
del passaggio, il gesto estetico dell’arrampicata, il passaggio difficile su roccia erano
aspetti fondamentali della sua
arrampicata. Ecco quindi che il
carattere di eleganza della salita prende corpo, l’ideale della
via a goccia d’acqua perfetta
e bellissima, raccoglierà il consenso delle future generazioni
di arrampicatori ed il favore dei
giovani ancora oggi. Quindi fu
indiscutibilmente un maestro,
con una serie non esagerata di
prime salite, ma tutte decisamente intense e stupefacenti. Diventò
guida a Misurina nonostante tutta la diffidenza e l’invidia dei montanari locali (era pur sempre un cittadino).
Le prime realizzazione sono sulle Alpi Giulie dove tra il 1925 ed 1929
esplora e risolve metodicamente gli ultimi problemi insoluti del tempo: le pareti delle Madri dei Camosci (2518 m), della Cima di Riofreddo (2507 m) e del Jôf del Montasio (2753 m). Nel 1929 compie
la prima grande impresa: la salita di VI° grado sulla Sorella di Mezzo
nel Gruppo del Sorapis con G. Fabjan. Poi è un susseguirsi di vie
nuove su tutta la zona dolomitica che finisce col capolavoro del 4-5
agosto del 1933 insieme a Giulio Benedetti sulla parete nord ovest
del Civetta parallelamente alla Solleder: supera numerose fasce
strapiombanti utilizzando nel complesso 35 chiodi per 1050 metri di sviluppo. Tra
il 12 ed il 13 agosto apre con Dimai la via che lo che reso famoso, sulla nord della
Grande di Lavaredo, usando sistematicamente i chiodi come mezzo di progressione su un itinerario veramente logico ed impegnativo. Ancora il 17-18 agosto
con Mary Vitale e Renato Zanutti apre la via sul fantastico Spigolo Giallo della
Cima Piccola di Lavaredo, tracciato ideale e perfetto.
Tra esaltazioni e depressioni continua l’attività fino al 1937, quando da solo ripete
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dell’Alpinismo (terza parte)
Alpinismo
SciAlpinismo
Arrampicata
la propria via sulla Cima Grande destando grande scalpore. La stampa lo definirà
quindi “l’uomo mosca” ed entrerà nella leggenda con varie esagerazioni e distorsioni tipiche del mondo dell’informazione; queste etichetteranno inevitabilmente
l’alpinismo con l’insegna del pericolo e dramma che caratterizzerà i successivi
anni della propria storia.
L’ultima impresa di Comici è sul Salame del Sassolungo nell’agosto del 1940,
dove apre una via splendida e difficile che rappresenta il trionfo dell’arrampicata
libera su quella artificiale. In ottobre, nella vicina Selva di Val Gardena dove si
era stabilito come Commissario Prefettizio, durante un’esercitazione con amici in
palestra di roccia, perisce per la rottura di un cordino.
Grandi protagonisti dell’arrampicata libera.
La Scuola agordina sotto l’impulso di Attilio Tissi e di Giovanni Andrich diede
una vera scossa all’alpinismo italiano.Il giovanissimo ed intrepido fratello minore
Alvise Andrich rappresentò il primo frutto di questo evento: a differenza di altri
alpinisti come Comici, che raggiunsero l’apice della forma in età più matura, Alvise aveva un talento naturale con l’arrampicata nel sangue come Dülfer e Preuss.
Nel 1934 a 19 anni stupisce i più esperti compagni Ernani Faè e Furio Bianchet
risolvendo il problema dello spigolo sud ovest della Torre Venezia. Nello stesso
anno con Ernani Faè realizza il suo capolavoro, salendo la gigantesca muraglia
di 800 m della parete nord ovest della Punta Civetta. Altre imprese lo videro sullo
spigolo ovest della Cima De Gasperi nel Civetta nel 1935 con Furio Bianchet e
Attilio Zancristoforo, e sulla direttissima del Cimon della Pala nel 1934 con Mary
Varale e Furio Bianchet. Tenterà anche lo spigolo sud est della Torre Trieste, che
invece sarà vinto più tardi dai lecchesi Cassin e Ratti, ma verrà, ma sarà chiamato alla guerra dove verrà decorato come aviatore al valore con tre medaglie
d’argento. Nel dopoguerra non arrampicherà più e perirà sull’Appennino durante
un’esercitazione aerea.
L’iniziativa lanciata da Comici nell’uso dei nuovi mezzi di progressione trovò molti
entusiasti, come Carlesso, Soldà e Cassin. Ci furono comunque i conservatori
che vollero utilizzare il chiodo solo come mezzo di assicurazione: oltre ad Andrich si fa notare il roveretano di origine friulane Celso Gilberti che in una breve ma
intensa carriera (muore a soli 23 anni) realizza ben 46 nuove vie di cui molte di
altissimo livello; per motivi di studio visse a Milano entrando in contatto con l’ambiente alpinistico locale ed in particolare con Ettore Castiglioni. Per questo, come
Gervasutti, è uno dei primi dolomitisti ad operare sulle Occidentali, trasferendovi tecniche e metodi con risultati eclatanti che dimostrarono la superiorità della
scuola orientale. Nel 1930 con Castiglioni e Vitale Bramani supera lo spigolo nord
della Presolana, poi nel 1931 con Castiglioni vince la parete nord della Busazza
(2894 m) nel Gruppo del Civetta, su difficoltà di V° e V° superiore con l’ausilio di
pochissimi chiodi. Nel 1932 con Oscar Soravito realizza la prima ascensione dello
spigolo nord dell’Agner alto 1600 metri superando difficoltà di VI° grado. Realizzerà molte prime ripetizioni importanti tra cui la famosa cresta sud dell’Aiguille
Noire de Peuterey allora definita come la più difficile salita nelle Occidentali.
Nel Gruppo di Brenta il grande protagonista è Bruno Detassis che estende la
propria azione anche a tutte le dolomiti. Nato a Trento nel 1910 è portatore a soli
23 anni e guida alpina a 25. Rappresenta l’esempio della guida che oltre all’impegno professionale prende l’iniziativa per aprire vie nuove di elevatissimo valore,
spesso in compagnia di altre guide o di cittadini come Ettore Castiglioni e Giorgio
Graffer. Nel 1934 vince con Ulisse Battistata ed Enrico Giordani la parete nord est
della Brenta Alta, una via definita difficile come la via di Carlesso alla Torre Trieste
o quella di Andrich sulla Punta Civetta. Nel 1935 ancora con Giordani realizza
la “via delle guide” sulla parete nord est del Crozzon di Brenta, capolavoro di
eleganza e di arrampicata libera. Nel 1937 con Giorgio Graffer, che morirà poi in
combattimento aereo durante la guerra, vince la via più difficile sulla parete est
della Cima Tosa: i primi centro metri sono tutti di VI° grado e la via è tutt’ oggi
molto temuta dagli arrampicatori. Tra gli alpinisti del Brenta, occorre ricordare anche il meno conosciuto ma bravissimo Matteo Armani che realizza una bellissima
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Gino Soldà
Raffaele Carlesso
Alpinismo
SciAlpinismo
Arrampicata
Bruno Detassis e
Ettore Castiglioni
La via sulla Ovest di
Lavaredo
via estrema sulla parete sud del Croz dell’Altissimo.
Nel 1912 nasce in Val Gardena il fortissimo Gian Battista Vinatzer
il cui valore verrà messo alla luce solo molti anni dopo la realizzazione delle sue vie. È probabilmente il migliore arrampicatore
su roccia del periodo, tanto che a soli 20 anni, riprende la via di
Solleder alla nord della Furchetta e dal diedro dove si era fermato Dülfer attacca la verticale gialla parete friabile, superando per
200 metri fino alla vetta difficoltà allucinanti. I pochi ripetitori della
via, diranno che è l’opera di un pazzo e di un irresponsabile! La
sua impresa capolavoro a giudizio unanime è però la salita del
2-3 settembre 1936 con Castiglioni sulla sud della Marmolada,
che rappresenta la via più difficile aperta in Dolomiti prima della
Seconda Guerra mondiale; specie nella prima metà, la via è un
concentrato di difficoltà superate tutte in arrampicata libera e viste le caratteristiche della roccia, con scarso utilizzo di chiodi.
Nel mondo dolomitico ci sono anche personaggi che hanno
adottato appieno al tecnica del chiodo per la progressione: tra questi abbiamo il
vicentino Raffaele Carlesso, che nel gruppo del Civetta realizza alcune imprese
che innalzano ulteriormente il livello tecnico raggiunto da Comici con la scalata
della nord della Grande. Nel 1934 con Bartolo Sandri (che morirà in un tentativo
sulla nord dell’Eiger insieme a Mario Menti) supera la bella e difficile parete sud
della Torre Trieste aprendo una via definita di VI° superiore. Nel 1936 con Sandri
e Menti vince la gialla e strapiombante parete nord ovest della Torre di Valgrande
nel Civetta in tre giorni di lotta durissima vincendo un tetto di 4 metri nel vuoto, impresa incredibile
pensando ai materiali di allora.
Riccardo Cassin, il risolutore.
Parlando di Comici, si è accennato ai progressi fatti
in seguito all’allenamento sulla falesia della Val Rosandra. Lo stesso beneficio lo ottennero un gruppo
di giovani operai lecchesi sulla Grigna alle porte di
Lecco. La loro condizione proletaria non permetteva frequenti e costosi viaggi sulle montagne più
blasonate del tempo; le piccole guglie slanciate
della vicina Grigna erano quindi il posto ideale
per sperimentare l’arrampicata e per ottenere
quella soddisfazione che la dura vita dell’operaio
e la povertà del periodo storico non garantivano.
Tra questi si citano Maurizio Dell’Oro (il “Boga”),
Gigi Vitali, Vittorio Ratti, Ercole Esposito (“Ruchin”), Vittorio Panzeri, Antonio Piloni, Augusto
Corti e sopratutto Riccardo Cassin. Trasferitosi
alla morte del padre da San Vito al Tagliamento
nel Friuli a Lecco per lavorare come manovale,
Riccardo diventa subito il trascinatore del gruppo (poverissimi si daranno dapprima il nome di
“Gruppo sempre al verde” che poi diventerà il
famoso “Gruppo Ragni di Lecco) cimentandosi nell’apertura di molte vie nuove. Nonostante il gruppo sia molto ardito, la tecnica alpinistica è lacunosa, in
particolare quella d’uso della corda e dei chiodi come mezzo di assicurazione.
Sarà Emilio Comici, invitato in Grigna da Mary Varale, a colmare questa lacuna tecnica che darà il via ad una serie impressionante di risultati. In quell’occasione, Comici apre una via nuova sul Corno del Nibbio; poche giorni dopo
Cassin ne apre una di analoghe difficoltà poco a lato dimostrando subito di
essere degno del maestro.
Durante un campeggio estivo il Dolomiti viene quindi salita con Vitale e Pozzi
la difficile parete sud est della Piccolissima di Lavaredo. Nel 1935 con Dell’Oro
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Alpinismo
SciAlpinismo
Arrampicata
ripete la via Comici sul Civetta con una variante che ne raddrizza la parte terminale. Nello stesso anno con Ratti, vince il bellissimo spigolo sud est della Torre
Trieste (700 metri) e passa all’attacco della parete più ambita del tempo: la nord
della Cima Ovest di Lavaredo. Ci sono due tedeschi, Joseph Meindl ed Hans
Hintermeier, che la presidiano alla base in una tenda, in attesa del momento migliore per attaccare; nella nebbiosa semioscurità del mattino, in silenzio Cassin
e Ratti si portano all’attacco e arrivano velocemente il punto più alto raggiunto
sulla parete: un minuscolo terrazzino su cui era giunto Comici; la nebbia si dirada
ed i tedeschi, sentiti i colpi di martello e visti gli italiani partono alla rincorsa, desistendo però quasi subito. A Riccardo occorrono sette ore di lotta per superare
i 30 metri della parete gialla e strapiombante che li sovrasta, volando tre volte
nel tentativo di piantare un chiodo. Dopo un primo bivacco, compiono il traverso
che esclude ogni possibilità di ritorno e passano la seconda notte come la prima,
sotto la pioggia, la grandine ed i fulmini; il terzo giorno sono in vetta ed è il delirio.
L’interesse alpinistico si era quindi spostato sulle Alpi centrali, dove il settore
Masino-Bregaglia-Bondasca offre meravigliose pareti di granito, levigate e compatte. Lo spigolo nord del Pizzo Badile (3308 m) era già stato vinto nel 1923
dalla cordata Zürcher – Risch (III° e IV°+), poi nel 1933 i tedeschi Simon e Weippert arrivarono a sfiorare il VI° grado con una via sullo spigolo nord ovest della
Sciora di Fuori (3169 m), Burgasser, Leiss e Noe sulla nord della Sciora di Dentro (3275 m) e ancora Burgasser e Uibrig sulla cresta nord del Pizzo Trubinasca
(2921 m). Come successo sulle Dolomiti, l’iniziativa passò nelle mani degli italiani
ed il grande problema era la nord est del Pizzo Badile. Nel luglio del 1937 Cassin
giunge alla base della parete (non ha mai arrampicato su granito) e con grinta e
determinazione parte all’attacco in cordata con Ratti ed Esposito. Al rifugio incontrano i comaschi Mario Molteni e Giuseppe
Valsecchi che vantano le stesse intenzioni. Dapprima partono per
itinerari diversi ma la sera si ritrovano a bivaccare insieme. Il giorno dopo Riccardo conduce le cordate vista l’evidente superiorità e le maggiori difficoltà della salita, superate prevalentemente
con l’uso dei chiodi. Poi un cambiamento del tempo scatena una
bufera di acqua e ghiaccio sulla parete e dopo una lotta durissima Cassin conduce gli alpinisti alla vetta nel pomeriggio del
terzo giorno. Purtroppo nella discesa in mezzo alla tormenta i
due comaschi muoiono per sfinimento tra le braccia disperate
dei compagni. A causa della tragedia la via venne considerata
per molto tempo come “estrema”, tanto che verrà ripresa solo nel
1948 da Rébuffat che ne confermerà la severità. La superiorità
degli alpinisti “dolomitici” viene confermata anche su granito; seguirono salite di analoghe difficoltà ad opera di Lehmann e Kaiser
sullo spigolo nord ovest del Cengalo (3370 m) e sulla nord ovest
del Pizzo Badile da Bramani e Castiglioni.
Ancora nel 1937 Mario Dell’Oro apriva una
via dura su Punta Allievi (3321 m) e Alfonso
Vinci sullo spigolo del Pizzo Cengalo (3370
m) una via forse ancora più dura.
Queste imprese ebbero un innegabile interesse per il regime del tempo che le sosteneva come esempio di forza. Ma per questi
ragazzi l’unico vero scopo era arrampicare,
senza interessi di sorta, tanto che lo stesso
Ratti morirà nelle lotte partigiane del 1944
per le strade di Lecco.
Di questo periodo storico fanno parte anche le più eclatanti
salite di Gino Soldà: nato a Valdagno (VI) nel 1907 si allena
sulle vicine Piccole Dolomiti e diventa subito un forte arrampicatore, tanto da superare Cassin. Apre numerosissime vie
Riccardo Cassin a 80 anni sul Pizzo Badile
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Maurizio Dell’Oro
Nord-Est del Pizzo
Badile
Alpinismo
SciAlpinismo
Arrampicata
Ettore Castiglioni
Pierre Allain
nuove, ma la prima grande impresa è quando supera i 1000 metri umidi e freddi
della nord del Sassolungo. Poi con Umberto Conforto nel 1936, la via che rimarrà
per molti anni come la “più difficile” delle Dolomiti, al pilastro di Punta Penia (3342
m) in Marmolada. Anche Soldà contribuì a far prevalere il potere alpinistico degli
italiani negli anni ‘30 rispetto ad austriaci e tedeschi.
Altro nome di rilievo è quello del milanese Ettore Castiglioni anche se nato a
Trento nel 1908. Sarà il tramite tra alpinisti orientali ed occidentali. Arrampicatore
eccellente e fuoriclasse, grazie alla propria condizione agiata riuscì a compiere
imprese su tutto l’arco alpino; superba fu la salita con Vitale Bramani (l’inventore
della suola Vibram) nel 1937 della parete nord ovest del Pizzo Badile e con Gabriele Boccalatte la nord del Monte Greuvetta nella zona del Bianco, via degna
della nord delle Grandes Jorasses. Di elevatissima cultura divenne famoso per la
compilazione delle Guide ai Monti d’Italia, meticolose e precisissime (percorreva tutte le vie descritte). Antifascista convinto, scappò più volte in Svizzera, ma
una volta preso al Passo del Maloja e privato di sci, scarpe e pantaloni per non
scappare, tentò comunque la sorte ma morì congelato sul Ghiacciaio del Forno.
Le Alpi occidentali tra le due guerre.
Al termine della prima guerra mondiale si riaccende l’interesse per l’alpinismo
sotto i diversi propositi e motivazioni: francesi ed italiani che risultano vincitori
nel conflitto si diversificano con un tipo di approccio alla montagna ancora oggi
sensibile. Mentre i primi partecipano nell’interesse comune alle attività (lavoro di
equipe) che si basa sulla famosa “grandeur“ francese che fa nascere l’elite del
gruppo GHM (“Group de Haute Montagne”), gli italiani si identificano per le attività “individuali” coi grandi nomi dell’alpinismo, legato ancora ai ceti medio bassi
della società, che portano in breve ad eguagliare e superare la prevalenza della
Scuola di Monaco. Ci sono ancora differenze sostanziali tra alpinismo tipico con
guida e quello “senza guida” che differenzia in Francia l’ambiente di Chamonix
da quello parigino, in Italia occidentalisti da orientalisti dolomitisti. Penseranno
rispettivamente Pierre Allain e Giusto Gervasutti a mettere fine alla questione
ribadendo come migliori le rispettive origini. In Francia compare la guida Armand
Charlet che probabilmente è la migliore di ogni tempo sul terreno misto. Le sue
imprese, fatte ancora con tecnica pura senza chiodi e mezzi artificiali, sono leggendarie come le 100 salite all’Aiguille Verte (4122 m) ed il tratto chiave sulla
cresta dell’Aiguille du Diable sul Mont Blanc du Tacul (4114 m).
Di questo periodo fa parte il valsesiano Francesco Ravelli che con i fratelli Gugliermina compie imprese memorabili nella parte meridionale del Bianco e molte alte realizzazioni con la guida di Courmayour Adolphe Rey e l’amico Alberto
Rivetti. Oltre alle innumerevoli ascensioni, come la cresta delle Hirondelles alle
Grandes Jorasses del 1927 (che fermò nomi come Mummery, Knubel, Young ed
il Duca degli Abruzzi) e la cresta nord del l’Aiguille del Leschaux sempre nel 1927,
la nord dell’Aiguille Noire de Petéurey nel 1928, Ravelli rappresenta l’innovazione
che stacca l’alpinismo dall’appannaggio di un solo ceto sociale. Con lui le guide
di Courmayeur vivono un’ultima giovinezza e con i fratelli Rey conquista il Grand
Capucin (3838 m) nel 1924.
L’interesse inglese alle alpi termina con T. Graham Brown che lega il suo nome
al versante del Bianco della Brenva con tre magnifiche ascensioni: nel 1927 con
F. S. Smythe supera lo Sperone della Sentinella Rossa, nel 1928 sempre con
Smythe lo Sperone della Major e nel 1933 con Alexander Graven ed Alfred Aufdenblatten lo sperone di sinistra (“la Poire”, la Pera). La sua azione dimostra
ancora una volta che non solo l’alpinismo senza guida ha raggiunto il loro livello
anche su ghiaccio e misto, ma che l’ha ampliamente superato.
Infine, l’azione dei tedeschi K. Brendel e H. Schaller della Scuola di Monaco,
pone fine ad ogni dubbio sulla superiorità dei senza guida orientali, con l’apertura
della via sulla cresta sud dell’Aigullle Noire di Peutérey, portando il VI° grado anche sulle alpi occidentali.
La sfida delle tre nord.
Le Alpi occidentali negli anni ’30 sono letteralmente prese d’assalto da cordate di
alpinisti “cittadini” e senza guida che risolvono i problemi del momento con nuo-
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Alpinismo
SciAlpinismo
Arrampicata
vo spirito ed entusiasmo. Le pareti più impervie vengono percorse una ad una,
anche sotto la spinta dei regimi politici del momento storico, che spronavano per
l’ardimento delle imprese quale simbolo di supremazia. Rimangono quindi tre
problemi di notevole interesse su terreno misto, che richiedono doti che solo la
Scuola Orientale ha saputo portare: la prima parete delle tre ad essere percorsa,
quella relativamente più semplice, è la nord del Cervino; questa è un insieme di
roccia detritica, instabile ed insidiosa, consolidata dal ghiaccio e dalla neve che
la ricopre e che rende molto precaria ogni forma di assicurazione. I fratelli Franz
e Toni Schmit di Monaco di Baviera, partiti con le biciclette si portano a Zermatt
ed al primo tentativo nel 1931 vincono la parete con un solo bivacco. L’impresa è
clamorosa, anche perché i due sono per lo più bravi rocciatori e solo Franz aveva
vinto con Hans Ertl la ripida nord dell’Ortles.
Altro grande problema che suscita quasi una competizione è la parete nord delle
Jorasses: questa è costituita da una cresta di cime (Walker, Whymper, Croz, Margherita, Elena, Young) separate da orridi canali ghiacciati e sostenute da immensi
speroni di granito rotti solo da esili fessure e cengette ghiacciate e nevose. L’attenzione è per la Walker ma la Croz sembra più abbordabile e subito si scatena
la corsa tra le cordate, con in testa a tutti il fortissimo Charlet, che però non conosce e non sostiene la tecnica orientale e quindi non passa dove le difficoltà su
roccia diventano preponderanti. Poi provano il torinese Gabriele Boccalatte con
il valdostano Cretier e Binel, quindi anche Gervasutti con Piero Zanetti nel 1931 e
Renato Chabod nel 1934, ma il fortissimo stenta ad aggiudicarsi la cima perché
inconsciamente ha rispetto e timore di Charlet che vede impacciato e preoccupato, senza probabilmente rendersi conto di esserne superiore. Nel ’34 Rudolf
Peters e Peter Haringer tentano la salita, sono raggiunti da Chabod e Gervasutti
e poi dalla cordata di Charlet con Fernand Bellin che arrivano più in alto fino a
3500 m, ma il maltempo costringe tutti alla ritirata che costa la vita ad Haringer.
Nel 1935 è ancora Peters in parete con Martin Meier che sfruttando l’esitazione
di Gervasutti e Chabod arriva sulla cima del Croz.
Questa esitazione ai nuovi metodi d’arrampicata da parte dei francesi avrà vita
breve: dalla città di Parigi e dalla palestra naturale di Fontainebleau si propone il
nome di Pierre Allain che rappresenta la pietra miliare dell’alpinismo francese e
che compie innumerevoli salite di prestigio con la nuova tecnica prima della seconda guerra mondiale. Grande arrampicatore e maestro, perfeziona e cura sia
la tecnica che i materiali alpinistici (sua è l’invenzione del moschettone in duralluminio). La sua impresa più grande è la salita della parte nord del Petit Dru (3754
m) in compagnia del compagno d’allenamenti Raimond Leininger nell’agosto del
1935, con una via ritenuta ancora più difficile di quella sulla cresta sud dell’Aigullle Noire di Peutérey. Intanto l’attenzione era passata sull’impervio sperone
Walker delle Jorasses. Proprio Allain con Edouard Frendo nel 1938 tenta la salita
ma a metà parete desiste perché ritiene la parte superiore in cattive condizioni e
sapendo di non aver rivali ritiene di poterla prendere con comodo. Nel rientro non
sa che sta scendendo dal Colle del Gigante Cassin con Tizzoni ed Esposito per
attaccare lo stesso sperone. Partono per un tracciato più difficile di quello segnato da Allain, ma poi in tre gironi raggiungono la cima e ottengono una vittoria che
segna la storia dell’alpinismo: la via di roccia e misto rimarrà indicata come la più
difficile delle Alpi fino agli anni ’60.
L’ultima grande sfida è la famosissima parete nord dell’Eiger (3970 m) nell’Oberland Bernese per la quale sono stati scritti fiumi d’inchiostro. La parete non è particolarmente difficile da un punto di vista tecnico, ma sono le condizioni oggettive
il vero rischio: la velocità e la determinazione nell’evitare questo tipo di pericoli,
insieme ad un adeguato allenamento fisico, hanno rappresentato la chiave per
vincerla. Senza contare tutti i tentativi e le innumerevoli tragedie per vincerla,
come quella degli unici italiani a provare Bartolo Sandri e Mario Menti, stimolati
specialmente dal regime del tempo (lo stesso Hitler aveva posto un compenso),
ricordiamo solo i nomi dei due austriaci Heinrich Harrer e Fritz Kasparek che raggiunti dai velocissimi e giovani tedeschi Anderl Heckmair e Ludwig Vorg cedono
il passo ed insieme vincono la cima nel 1938.
continua nel prossimo numero
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Renato Chabod
Fritz Kasparek
Anderl Heckmair
Gruppo
SenzaEtà
Fra storia, arte ... e amicizia.
a cura di Luigi Zamboni
A Bassano incontriamo gli amici Anna Maria e Carlo, seniores del CAI: ci faranno
da guida. Da Cavaso del Tomba, un paese con viuzze tra muretti a secco, ville
antiche e case dall’architettura caratteristica, camminiamo su stradine ex militari
e sentieri lungo la propaggine sud – orientale del Massiccio del Grappa, per raggiungere la cima del tristemente famoso Monte Tomba. È una splendida giornata,
non una nuvola, temperatura gradevole, l’ideale per una camminata. Nel bosco
orchidee e altri fiori, e profumi. In cielo volteggiano alcuni parapendio. Durante le
soste guardiamo la pianura, sotto di noi, attraversata dal Piave, e, in lontananza,
oltre i colli di Asolo, il mare della laguna di Venezia luccicare al sole. Sostiamo
davanti alla chiesetta, opera dell’architetto veneziano Carlo Scarpa, dedicata agli
eroi italiani e francesi che combatterono e morirono su questa montagna. Sulla
facciata, in un grande mosaico, è rappresentata la Vergine che con il velo copre
la parola guerra scritta col sangue nelle varie lingue. La cima del Tomba è poco
sopra. Una croce, resti di trincee e postazioni militari. Rimaniamo in silenzio,
quasi in raccoglimento. Tra i nostri soldati c’erano anche i bocia del ’99, ragazzi
di diciassette anni chiamati alle armi dopo il disastro di Caporetto. Tra loro il fante
Ignazio Buttitta, nato a Bagheria il 19 settembre 1899, poeta popolare; nella poesia Un seculu di storia, così scrisse:
“Accuso i Savoia – i primi e l’ultimo – re e imperatore, - fascista e italiano, - incoronato di medaglie – strappate con il sangue – dal cuore delle madri. – Un secolo
di guerra, - un secolo di stragi: - ci sono ossa di siciliani – sotterrate nei deserti –
nella neve, - c’è sangue di zolfatai, - di zappatori, - di madri scheletri – e bambini
uccisi – nelle piazze della Sicilia”. Un ragazzo del ‘99 era anche un americano
avventuroso e fiero, che faceva l’autista di ambulanza: Ernest Hemingway, il futuro premio Nobel per la letteratura. Pranziamo all’Osteria di Monfenèra, intorno
al crepitio del focolare; sulla brace costine, braciole, salamele e pancetta; le fette
di polenta, in posizione verticale, fanno da corona. È un momento di serenità e
di allegria, che si conclude con un brindisi all’amicizia con spumante dei Colli Morenici. La dorsale del Monte Tomba e della Monfenèra nel 1917 passò di
mano più volte; venne conquistata definitivamente il 30 dicembre dalla fanteria
francese, dopo un accurato fuoco delle artiglierie italiana e francese. Resistette
anche nella fase più violenta dell’ultimo anno della Grande Guerra, in quella che
Gabriele D’Annunzio chiamerà “La battaglia del Solstizio”, che segnò l’avvio della
disintegrazione dell’Impero austro – ungarico. Scrisse il maggiore Ferruccio Parri,
in servizio al comando supremo di Abano ( nel 1945 sarà il primo Presidente del
Consiglio dell’Italia liberata): “Una mattina Armando Diaz seguito dal codazzo di
generali e ufficiali superiori, fra i quali Badoglio, si avvicinò ad una grande carta
geografica militare del fronte e, inforcati gli occhiali, si mise a cercare una località senza riuscire a trovarla. Un po’ spazientito, voltosi ad un certo punto verso
Badoglio gli chiese in napoletano: “né, Bado’, addò sta sto cazz’e Vittorio?“ Fu
in questa maniera che venni a sapere quale sarebbe stato l’obiettivo principale
della nostra offensiva”. Il 26 ottobre 1918 ebbe inizio la Battaglia della Vittoria:
le truppe italiane riuscirono a sfondare il fronte sul Piave all’isola dei Morti. Il 31
l’esercito nemico crollò definitivamente. Torniamo a Cavaso per altro percorso. A
Possagno visitiamo la Gypsoteca che raccoglie i modelli originali delle sculture di
Antonio Canova – ma quanto ha lavorato! -. Davanti alla statua di Napoleone Bonaparte, rappresentato a grandezza naturale, nudo con la tunica sul braccio, una
signora commenta:”Ecco perché l’imperatore si arrabbiò quando la vide. Il Canova glielo aveva fatto piccolo”. Su un’altura sorge il Tempio che il grande scultore
e pittore volle regalare alla sua terra d’origine. È un’imponente costruzione di 36
metri di diametro che poggia su tre ampie gradinate e su un vasto acciottolato di
“cogoli” bianchi e nerastri, raccolti sul Piave. Nel Tempio si possono distinguere tre elementi architettonici: il colonnato, che richiama il Partendone di Atene;
il corpo centrale, simile al Pantheon di Roma; l’abside dell’altare centrale, con
evidente richiamo allo stile delle antiche basiliche cristiane. Siamo nei pressi di
Bassano, non possiamo non passare sul Ponte degli Alpini, costruito in legno su
progetto del Palladio. Per arrivarci percorriamo il viale dove, il 26 settembre 1944,
furono appesi agli alberi 31 giovani partigiani. Ora i vecchi platani, malati, sono
stati sostituiti con alberelli insignificanti. Bassano è medaglia d’oro della Resistenza. Ringraziamo e salutiamo i cari amici bassanesi, e …torniamo a Mantova.
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Le pietre della memoria ...
a cura di Caterina Moccia
Qui ospitiamo una esperienza diretta di Caterina Moccia in riferimento all’articolo
pubblicato a pag. 8 di questa rivista sull’argomento “Le pietre della memoria”.
Questo è un buon esempio come una qualunque escursione possa diventare
terreno di ricerca per salvaguardare la memoria di persone che hanno dato la loro
vita anche per noi. Ricordiamocelo.
Il 1° maggio ho voluto fare una cosa diversa
dal solito. Non volevo fare come tanti conoscenti che avrebbero acceso fuochi, arrostito
salamelle, bevuto litri di cose buone e star male
per l’esagerazione. Ho preso il vademecum e
mi sono iscritta, con la curiosità di cercare e
trovare qualche segno della storia. Sicuramente qualcosa avrei trovato, e anche con dovizia
di particolari, visto che il gruppo sarebbe stato
guidato dal mitico Luigi Zamboni.
Già in pulmann, ho potuto spiegare al microfono il perché della mia curiosità, della partecipazione al censimento di pietre e lapidi che
l’Associazione Mutilati ed Invalidi di Guerra ha
promosso e di cui faccio parte in quanto figlia
di Invalido di Guerra.
Posso dire che all’inizio il gruppo mi ha ascoltato con strani sguardi ma durante la salita (che
in pratica è stata una, unica, continua e perfida), tutti mi chiamavano per chiedere se quella
o questa pietra andava bene, se non andava
bene, se c’era scritto qualcosa, se non c’era
scritto qualcosa, e se si poteva inserire nell’elenco e fotografare, …
“mentre proteggeva la ritirata dei propri compagni, qui venne ucciso il 9/11/1943
il partigiano Zambo, un amico sudamericano che lottava per la libertà del nostro
popolo”
Anche in cima, alla punta Almana a m.1390, c’erano delle targhe, e queste ricordavano amici
della montagna.
E pure al rifugio Osteria Pastina, dove il gruppo si sarebbe ricomposto perché si era diviso
seguendo due diverse vie, sotto un diluvio universale, Luigi mi ha indicato un masso sul quale
vi era scritto:
“Gli amici di Pezzuolo a perenne ricordo ai caduti e dispersi. Russia
1941-43. Divisioni Tridentina – Pasubio – Julia
–Celere –Cuneense ”.
E poi giù quasi di corsa
dal freddo, allungando
un pochino il percorso
che, grazie a tre motocrossisti, abbiamo ritrovato.
All’arrivo, abbiamo pensato “casa, dolce casa…
anzi, “ casa, calda e asciutta casa” e ci ha accolto una
gran colazione al sacco che ci ha rifocillato a dovere.
Ma anche lo spirito è stato accontentato, nel porgere un
pensiero e nel ringraziare persone che hanno dato la vita
per avermi insegnato cosa vuol dire Libertà.
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Gruppo
SenzaEtà
Gruppo
SenzaEtà
Da un balcone sul lago ....
a cura di Ines Spagna
Nell’aria pungente del mattino che lasciava un po’
titubanti circa la tenuta del tempo, che invece è
volto al bello, dando atmosfera tersa, luminosa e
temperatura piacevole, abbiamo preso la strada
della Val Sabbia fino a Idro, e da lì a Capovalle e
Zumiè, che si trova a una quota di poco inferiore
a 1000 metri.
Dal parcheggio si vede subito la prima meta – un
complesso di antenne di ripetitori – che sbucano
dalle cime degli alberi, e trovo rincuorante vedere
in anticipo dove, più o meno, si deve arrivare.
Il sentiero, che inizia appena fuori dal borgo, attraversa radi boschi misti di latifoglie e conifere, dove
la luce penetra agevolmente e consente rigogliosa
vegetazione. Si sono visti, camminando, ellebori
dal colore virato al verde e l’erica già appassita,
ultimi doni di fine inverno, mentre era già abbondante la fioritura della primavera avanzata, con gli
arbusti di pero corvino e viburno, il bianco anterico,
gialli ranuncoli tora, bosso strisciante e gerani rosa. Il primo punto panoramico
sulla conca verdissima di Capovalle è alla croce di Sassello, un ex voto issato lì
nel 1832, la scritta ormai quasi illeggibile ed i donatori destinati all’oblio.
Il sentiero si inerpica ancora, ma senza difficoltà arriviamo ad una ampia spianata
sommitale, dove sono state costruite una chiesetta ed un nuovissimo rifugio-ristorante, pronto per l’inaugurazione.
Le panchine ed il sole caldo invitano a sostate, ma solo per poco, perché c’è da
salire ancora e raggiungere le trincee e le postazioni della guerra ’15-’18.
Si vede che qui la neve è rimasta fino a poco tempo fa, perché l’erba è ancora secca e coricata: è
quella vecchia, però punteggiata di genziane, che
spiccano nel giallo con il loro intenso blu.
Raggiungiamo le trincee, di cui è rimasta solamente la traccia scavata tra gli alberi; all’orizzonte,
a sud della catena innevata del Baldo luccica la
pianura, mentre dall’altra parte, a ovest c’è l’imponente gruppo dell’Adamello. Un altro breve tratto di sentiero e siamo al punto più interessante e
panoramico dominante il lago di Idro. In previsione
dell’arretramento della linea del fronte, lì era stato
costruito un fortino in galleria e piazzate batterie
di mitragliatrici e cannoni, che però non spararono
mai. Come si legge sulla lapide affissa all’ingresso
di una galleria “muti stavano i fanti – in attesa di
ordini allarmanti” e in quell’allarmanti sono sottintese tutta la trepidazione e l’angoscia vissute.
Dopo una pausa ristoratrice è iniziata la discesa…e qualche complicazione sul percorso. Il sentiero, stretto e ripido di suo, in alcuni punti si riduce
a traccia coperta dalle foglie secche dei faggi, ma l’ambiente è molto bello: latifoglie soprattutto, e alte rocce che bucano il bosco come in un quadro cinese, e
poi fioritura di cardamine e cuscini di azzurre globularie. Bello da percorrere, pur
con la dovuta attenzione.
Arrivati finalmente al punto di partenza, abbiamo potuto visitare il museo locale
che raccoglie una collezione di reperti delle guerre, grazie all’interessamento di
Luigi che arricchisce ogni escursione di notizie, curiosità e interessanti rimandi
storici.
E non poteva mancare la tradizionale merenda, e questa volta era una favolosa
autentica pastiera napoletana! Grazie a tutti!
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Escursionismo
Camminare ...
a cura di Odino Marmiroli
Ecco un intervento inconsueto su questo tema che ci aiuta ad ampliare le nostre
conoscenze e, soprattutto, a rivedere le nostre radicate convinzioni sul nostro
consueto gesto del camminare.
David Henry Thoreau è una delle figure più rappresentative della letteratura ame-
ricana della prima metà dell’800. Era esponente di quel trascendentalismo americano di cui Waldo Emerson fu il maggior rappresentante.
Utopista, anarchico per carattere e modo di pensare, precursore delle moderne
teorie ambientaliste, antischiavista, si battè per le proprie idee con grande vigore
come giornalista, conferenziere e scrittore. Oggi è noto soprattutto per due opere
di carattere diverso: “Disobbedienza Civile” e “Walden”. Scrisse la prima dopo
l’aggressione militare degli Stati Uniti contro il Messico nel 1846, manifestazione
della volontà imperialista e di dominio della neo-potenza nord-americana. Thoreau rifiutò di pagare le tasse al governo federale e subì un breve periodo di reclusione. “Walden” è il risultato di due anni trascorsi nei boschi intorno al piccolo
lago di Walden Pond, in una casetta da lui costruita, in totale immersione nella
natura, senza contatti col mondo civilizzato. E’ un’opera letteraria di grande rilievo per la chiarezza e precisione del linguaggio e per lo spirito che la anima.
Negli ultimi anni trascorsi a Concord (dove era nato nel 1817) dedicandosi allo
scrivere e a degli studi di storia naturale, scrisse un saggio intitolato “Walking”
(“Camminando” o “Camminare”) pubblicato poco prima della sua morte (1862).
A Concord Thoreau trascorreva gran parte della giornata camminando tra i boschi in un rapporto col mondo naturale che diventava quasi tensione mistica.
Camminare era un modo per scoprire il divino nella natura. “Walking” inizia così:
“ Vorrei spendere una parola in favore della Naturadell’assoluta libertà e dello
stato selvaggio, contrapposti a una libertà e a una cultura puramente civili; vorrei
considerare l’uomo come abitatore della Natura, come sua parte integrante, e
non come membro della società”. Quel che segue è un elogio della vita selvaggia
e una critica alla società costruita sulla distruzione dell’ambiente naturale per
far posto a quella Rivoluzione Industriale le cui conseguenze furono: estensione
dell’urbanizzazione, inquinamento dell’aria e dell’acqua, conflitti sociali, crescita
demografica incontrollata, riduzione della biodiversità ecc.
E’ facile essere in disaccordo con molte delle tesi sostenute da Thoreau, che
appare spesso un sognatore, a volte contradditorio e incoerente, che vagheggia
un mondo irreale, che fantastica di un’utopia improbabile, che non comprende
il movimento della storia, ma in “Walking” vi sono osservazioni acute con cui
bisogna fare i conti.
Voglio citare una curiosa pagina sul canto del gallo che induce a riflettere. Dice
Thoreau: “E’ una espressione della salute e della forza della Natura, un messaggio
d’orgoglio al resto del mondo, benessere che zampilla dalla sorgente…….Chi è in
grado di suscitare in noi una gioia mattutina così pura?”
Ci chiediamo oggi: “Chi ha più sentito il canto del gallo? I bambini di oggi hanno
mai visto un gallo vivo, ruspante? Conoscono forse gli abitanti della corte: anatre,
oche, pulcini, tacchini, che ci erano così familiari un tempo? E’ questo un ulteriore esempio del fatto che abbiamo perso il contatto con la natura.
E non si tratta solo di questo: l’Universo che ci circonda non è più oggetto di curiosità e di stupore. E’ solo oggetto di ricerche scientifiche , per lo più con finalità
pratiche, non sempre mirate al benessere dell’umanità (è il caso dei satelliti spia,
dagli evidenti scopi militari, in vista di una possibile guerra).
Chi, nato in una conurbazione (ma anche in una piccola città come Mantova),
alza più gli occhi al cielo nella notte per osservare le stelle e la luna? Ricordate
Leopardi? “Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea / tornare ancor per uso a contemplarvi…” Quanti sanno oggi che cos’è l’Orsa? Ricordate: “Che fai tu, luna, in
ciel? dimmi, che fai / silenziosa luna?” La luna è difficilmente visibile tra le quinte
dei grattacieli. La poesia della luna, celebrata da tanti poeti nel corso dei secoli,
è andata perduta.
Abbiamo sostituito la luna con la televisione. Ci abbiamo guadagnato?
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che
disastro ....
Giovani AInfometeo
lpinisti M
antovani
Anno
I -Carenza
Marzo 2014 - Il giornalino dei ragazzi
a cura di
Andrea
Crollano i miti, zoppicano gli ideali, ci sospingono i sogni.
Nell’era dell’infallibile e fulmineo “on line”, delle notizie incontrollabili, ma in tempo reale, si tende a credere acriticamente
a tutto.
Quando siti prestigiosi (ed autoreferenziali) ti dicono, confortati da immagini suggestive, che sicuramente pioverà ed il
cielo sarà, quanto meno, coperto, ti fidi. Poi scopri che non
piove, che il cielo, al momento giusto, si aprirà e che Luna,
stelle e pianeti si offriranno, splendidi e pazienti, all’occhio
del telescopio, per lo stupore di grandi e piccoli: piccolo dei
grandi e grande dei piccoli.
Astrologi, astronomi e astrofili, ovvero quelli che chiacchierano degli astri, senza neppure conoscerli, quelli serissimi, fisici
e matematici, che con gli astri ci studiano e lavorano e quelli
semplicemente “innamorati” che sanno ancora emozionarsi
osservando gli anelli di Saturno o la chioma di una
cometa. Astrofili, non c’è dubbio, quelli che ci hanno accolto e guidato
tra le stelle all’osservatorio di Novezzina, cresciuti, pareva, alla scuola di
Piero Angela e con la stessa capacità di coinvolgere ed interessare anche
i più piccoli.
Finalmente, mi son detto, siamo qui a vedere all’opera quelle romantiche figure di appassionati, con l’occhio appiccicato all’oculare del proprio
telescopio, nelle lunghe veglie notturne, sfidando forse lo sconforto delle consorti! Mica vero, l’arrembante tecnologia ci ha privato anche delle
“care” veglie notturne: cupola e “cannone” si muovevano, incuranti di noi,
orientati dagli impulsi inviati da lontano, dal computer di un operatore,
forse sprofondato nella comoda poltrona del suo salotto.
Cruda disillusione! Ah i bei tempi del pioniere Galileo!
Già, Galileo; non fu nemmeno lui ad inventare il telescopio, ci aveva già
pensato un occhialaio olandese che se ne serviva per osservazioni terrestri: i maligni sussurrano che se ne servisse per “osservare” l’avvenente
dirimpettaia…, mah. Il Galilei, invece, inciampando, per l’emozione, nel
treppiede mentre osservava la propria dirimpettaia, puntò inavvertitamente il cannocchiale verso il cielo notturno e… meraviglia: gli si aprì un universo sconosciuto ed affascinante! E con ciò si giocò la scomunica. La
storia ufficiale, però, la racconta in altro modo.
Gi ultimi dati europei (maggio2014) posizionano ancora l’Italia tra gli ultimi
in quanto utilizzo della rete. Eravamo gli ultimi, ma ora abbiamo superato,
di poco, la Turchia, ma restiamo molto lontani dai grandi paesi europei.
A ciò si contrappone il fatto che siamo, in assoluto, i primi per numero di
siti di meteorologia (sono più di trenta: tutti, da noi, hanno il sito meteo!!)
mentre negli altri grandi paesi ce ne sono pochissimi: uno, due cioè quelli
ufficiali.
Sarà che a tedeschi, francesi, inglesi, spagnoli, ecc. non interessano le
previsioni?? Ma certo che sì, al punto che tutti fanno riferimento alle sole
informazioni ufficiali. Non è così da noi, c’è ampia scelta e la differenza la
fa chi ha le icone (disegnini) più accattivanti. E allora leggi che in una certa
località ci sono almeno trenta previsioni, secondo chi le scrive in questi siti
commerciali (gli albergatori, piuttosto che i ristoratori, oppure le Pro Loco,
ecc.)
Un caloroso invito ai Soci della nostra Sezione CAI: utilizzate sempre e solo
i siti ufficiali, cioe quelli dell’ARPA REGIONALE più quelli delle Province
di Trento e Bolzano. In questi siti potete trovare le più precise previsioni
per ogni singola località, potete vedere costantemente gli aggiornamenti.
Purtroppo molti non hanno ancora accattivanti disegnini, quindi bisogna
leggere.
- 29 -
Escursionismo
FamilyCai
Escursionismo
Artù .. il più piccolo della tribù!
a cura di Artù
Sono Artù, un giovane intraprendente e curioso, domenica sono andato in montagna con il CAI di Mantova, mi
sono svegliato molto presto, l’emozione fa brutti scherzi!
ero tutto agitato, la mia prima volta in montagna.
In casa correvo avanti e in dietro fino quando sono salito in macchina, essendo molto giovane e non potendo
guidare mi sono fatto accompagnare dalla Sabrina, una
bella ragazza con la quale condivido l’appartamento e alla
quale sono molto legato, non mi piace molto l’auto ma
dovevo arrivare a Desenzano sul lago di Garda sono stato costretto, la, avrei conosciuto Alberto l’organizzatore
dell’escursione e tanti nuovi amici del CAI.
Ci siamo trovati nel parcheggio di un centro commerciale, dove cerano tanti ciclisti che avevano un numero sul
petto, forse dovevano fare una gara. Ciao! uee! ciao come
stai?? quanto temo che non ci vediamo, queste erano le
frasi, mi sono presentato e penso di aver fatto una buona
impressione, tutti mi facevano i complimenti, poi sono salito
in auto con Alberto, lui era con i pantaloncini corti e con la maglietta,
io avevo freddo, forse era l’emozione? abbiamo costeggiato il lago, la
giornata limpida e su in alto, sulle cime si vedeva un’altra cosa che non
avevo mai visto, tutta bianca, sembrava panna vegetale, quella che la
Sabrina mette sulle fragole, è neve!! dice Alberto, neve?? mi chiedevo,
ma cosa sarà?
Abbiamo fatto tanta strada, tante curve e tanta salita in mezzo al bosco
ma finalmente siamo arrivati, finalmente si parte!! sono felice, con la mia
amica Sabrina, con Marco, la Monica, Ferruccio la Carla, Stefano, Anna,
tanti nuovi amici che mi incoraggiavano, la salita era molto ripida facevo
fatica, ma volevo arrivare sulla cima, sarebbe stata la mia prima volta e
tutti mi dicevano che avrei visto un panorama diverso, come quello che
vedono gli uccelli che volano in cielo. Artù Artù, la Sabrina ogni tanto mi
chiamava e mi faceva delle foto, io mi sentivo come un divo del cinema
e mi piaceva, Tutù Tutù, Milù Milù, Pilù Pilù mi chiamava Stefano, io
rallentavo e li aspettavo.
Il paesaggio che mi circondava era stupendo, i fiori, gli insetti, tutto mi
piaceva. Verso la fine della salita, quando stavamo per raggiungere il Bivaco Due Aceri ero molto stanco, così ho bevuto e mangiato delle crocchette, mi sono ripreso e sono arrivato in cima, mi sembrava di volare, il
vento il sole le cime tutte bianche
di panna, il lago che visto da lassù era stupendo, che avventura,
quanti amici, è stata una grande
emozione, abbiamo fatto la foto
ricordo sulla cima del monte Pizzoccolo a 1582 m. grazie Ragazzi, grazie Sabrina ti vorrò sempre bene, il
tuo fedele Artù.
La redazione ringrazia Artù, una nuova e
valida risorsa al servizio della nostra rivista.
Artù aspettiamo presto tuoi nuovi reportage sulle tue escursioni insieme alle foto
dei tuoi fans e ..... di Sabrina.
- 30 -
... brillanti e ginestre.
a cura di Giovanni Margheritini
No, la banda del paese non c’era ad accoglierci a Tossignano, nell’imolese in
Romagna ma c’era la vice presidente della Pro Loco e l’assessore alla Cultura.
E allora vai di caffè, di pasticcini e ciambella, di scambio di doni e di gagliardetti.
E’ così che è iniziata la nostra escursione naturalistica alla Vena del Gesso romagnola, prima incontrando gli amici del CAI di Lugo di Romagna che si sono uniti
a noi, poi le formalità ufficiali!!
Che dire, è bello sentirsi coccolati!!
Poi inizia il nostro giro addentrandoci all’interno di questa campagna romagnola che proprio oggi si è vestita
a festa. Per noi! Colori, fiori, piante tutto in una armonia
perfetta, prevalente il giallo delle ginestre e il luccichio
dei cristalli di gesso incastonati nell’enorme bastionata
sopra di noi. Presi dall’entusiasmo avanti a passo sostenuto per arrivare in cima alla bastionata, ma poi, richiamati dal sottoscritto, tutti radunati intorno a Renato
per sentire una storia infinita, quella geologica della formazione di queste bastionate così uniche di gesso. E i
cristalli? Tutti a raccogliere pietre. Guarda questo come
luccica, questo è più completo. Arriva Antonella, la mia
collega di Lugo di Romagna, e mi mette in tasca una
piccola pietra, per ricordo mi dice. E’ un piccolo cristallo
brillante che ora giace nella mia raccolta personale di
rocce. Poi raggiungiamo la cima della bastionata e ora
per un sentiero sul filo della stessa inizia il saliscendi della frastagliata cresta. Non mancano
gli interventi sapienti di Renato, che come geologo qui si sente a casa, e allora ogni buco ha
una storia. Poi c’è Stefano: volete che non trovi
da dire sulle indicazioni CAI che qui conducono
alle “Latrine” e al “Casino”, se spalleggiato da
Francesco, Franco e Mauro!? Ma ci sono anche coloro che si stupiscono dell’ambiente e
della vegetazione abbastanza insolita per chi
frequenta solo l’alta montagna. Troviamo anche
gli inghiottitoi, caverne carsiche, dove Renato
prontamente s’infila. E noi dietro. Per tutto il
tempo un venticello piuttosto energico si è fatto sentire ma ora, dopo la sosta, sul sentiero a
settentrione che ci serve per fare il rientro siamo al riparo. In mezzo a un bel bosco incontriamo alcune rovine di insediamenti risalenti al XIX
secolo, quando qui c’era un’altra vita. Alberi secolari ne testimoniano le vestigia. Piano, piano
ritorniamo verso il pullman. Ma c’è chi approfitta delle ultime balze per salirci sopra per fotografare le bancate di gesso e il paesaggio dei
calanchi anche da nord. Rientrati al parcheggio
troviamo una novità: gli amici romagnoli del CAI
di Lugo ci invitano a una merenda presso una
piccola festa in centro del paese. E allora ecco
il Presidente del CAI di Lugo che mi consegna una bella monografia e io prontamente tiro fuori un gagliardetto del CAI di Mantova per ricambiare. Mentre
adempio a questi doveri di rappresentanza, i soliti ignoti (notissimi) si mangiano anche la piadina con salsiccia, mia e del Presidente CAI di Lugo.
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Escursionismo
Naturalistico
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Un facile burrone...
a cura di Aldo Sacchi - note della Redazione
Escursionismo
Vie Attrezzate
“Ciao Aldo, sono Alberto Minelli!”
“Ciao Alberto, dimmi!”
“Mi ha detto Stefano che ti sei iscritto per il 25 maggio al
Burrone Giovannelli?”
“Si, ho voglia di muovermi un po’, perché?”
“So che hai fatto ancora quel giro lì e visto che Rino ha dei
problemi ad una spalla chiedo se ti va di accompagnare i
partecipanti al trekking, io sono con il gruppo dei ciclisti.”
“Direi di si, da quello che ricordo è un percorso abbastanza
semplice. Quanti saremo?”…………………..
È servita qualche manovra impegnativa del bravo Franco per entrare al Bici Grill di Nomi con il pullman da 54
posti e il rimorchio portabiciclette per scaricare i ciclisti
con i loro mezzi. Li riprenderemo nel tardo pomeriggio
a Sarche. Dopo la colazione ci rimettiamo sul bus in 13
con gli scarponi già indossati visto che lo spazio a disposizione dell’articolato mezzo per fermarsi lungo la
Provinciale n°29 dove si stacca la stretta stradina che
porta l’attacco alla ferrata è ristretto e quindi non bisogna occupare la carreggiata per molto tempo. Passiamo per il centro di Mezzacorona così da verificare
con l’autista il punto di ritrovo nel pomeriggio. Ecco la segnaletica “Burrone Giovanelli 500mt”. ci incamminiamo tra i verdi vigneti, sulla destra una tabella indica
per il sentiero 505, mentre un bambino con la sua motoretta rumoreggia avanti e
indietro noi indossiamo il kit da ferrata.
Era il 1989 l’ultima volta che ero risalito per quella crepa che spacca la montagna
dietro il Paese di Mezzacorona, ricordavo solo che non era stato un percorso
impegnativo, era piuttosto facile , quello che non ricordavo era la suggestiva
bellezza del posto, del panorama, delle cascate, dei rivoli d’acqua che devi continuamente schivare, saltare e calpestare, delle rocce che ti si chiudono attorno
e sopra quasi a non volerti far passare, del cielo che si restringe in alto fino ad
una sottile striscia di azzurro, poi, poco a poco tutto si riapre e serve un ultimo
sforzo per ritrovarti in un bosco di faggi.
Tutti i partecipanti, anche i meno esperti hanno superato egregiamente le difficoltà del giorno raggiungendo il Baito dei Manzi in circa 2 ore e mezzo. Il dislivello
attrezzato supera i 400 mt più altri 250mt di sentiero.
Buona parte delle attrezzature sono state sostituite di recente e quindi in ottime
condizioni di sicurezza. Sono molte le persone che lo percorrono, accompagnano anche i ragazzini che si impegnano in
questo simpatico e divertente percorso. Solo
giunti al Baito a circa 900mt di quota ci siamo rifocillati e rinfrescati.
Tutti sono rimasti entusiasti della bellezza di
questo posto, basta vedere le foto pubblicate su Facebook da alcuni dei partecipanti per
rendersene conto. Mica male per un sentiero
attrezzato nel lontano 1906 e dedicato poi al
medico del paese. Giunti all’abitato di Monte
per il facile sen. 506 qualcuno voleva scendere con la funivia ma un po’ di orgoglio li ha
fatti desistere, così tutti giù per il meno felice
sentiero n°500. Il Sentiero è esposto a sud
e il sole delle 15 scalda a dovere, uno zigzag
spesso ricavato nella roccia e il susseguirsi
di gradinoni che sbocca nel piazzale della
funivia 700 mt più sotto. Una fresca e ben
studiata fontanella è posta alla fine del sentiero, nel piazzale della chiesa una gelateria e
poi si riparte per Sarche a riprendere i ciclisti,
quindi a Mantova.
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Importante:
Una via attrezzata,
per quanto ben equipaggiata,
richiede
sempre molta attenzione, la conoscenza delle manovre di
base dell’arrampicata
e la perfetta conoscenza dell’uso della
propria attrezzatura
di sucurezza.
Per esempio: nella
foto in basso si può
vedere l’ultimo della
fila, a destra, senza il
casco!!!! Ma pare non
fosse dei nostri.
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Da cuscini di cisto riarso ...
a cura di Ines Spagna
Nel mese di giugno, per l’attività “Mari e Monti” un nutrito gruppo di soci CAI ha
visitato le isole sarde di S.Antioco e S.Pietro. Ci hanno accolto l’ambiente sardo
e la sua gente, ricchi di fascino. La settimana è stata organizzata in modo da conoscerne vari aspetti: il litorale sabbioso, le falesie di roccia e le formazioni geologiche, le calette nascoste, gli scogli ed isolotti emergenti dalle acque trasparenti,
i campi coltivati e le distese di macchia mediterranea, lagune e saline dove poi si
son visti roteare, alti nel cielo, un gheppio ed una probabile aquila di Bonelli. E’
pure stato toccato l’aspetto storico di questa antica terra, con i suoi reperti che
spaziano dal neolitico dei villaggi nuragici alle chiese paleocristiane, passando
per necropoli fenicie, puniche e resti architettonici romani. Non è neppure mancato l’aspetto economico con la visita alla miniera di Carbonia, ad un’industria di
lavorazione del tonno e quello etno-antropologico, con l’intrigante sacerdotessa-maestra della raccolta e lavorazione del bisso.
Da dove cominciare? Dalla terra aspra abitata da agricoltori
e pastori, dove il nostro gregge, accompagnato dal pastore
Antonio, sempre sollecito nella cura delle pecore e di qualche capra scalciante e sotto lo sguardo del cagnone Chicco,
pronto a mettere in riga e radunare i ritardanti, si incamminava la mattina. Non abbiamo trovato cartelli o segnalazione di
sentieri, ma il fiuto di Chicco ci ha fatto superare confini di
proprietà, cespugli, roccette, tane di conigli fra i rovi. Se non è
stata una festa per i piedi lo è stata per gli altri sensi, eccome!
Ci hanno sempre accompagnato il profumo del cisto bruciato e dell’elicriso, i colori di oleandri, matricale, bougainville
e violacciocche. I cespugli azzurrini dell’elicriso non ancora
pienamente in fiore contrastavano con quelli verde cupo dei
mirti, copiosamente punteggiati di corolle bianchissime; c’era
qualche rossastra euforbia ed i lentischi avevano già le bacche rosse. E poi abbondanza di palme nane e ginepri anche
molto vecchi, ritti o prostrati, con le loro coccole verdi e nere a
colonizzare alte dune sulle spiagge sabbiose. Di interessante
perché inusuale, proprio vicino all’albergo, siepi del pungente
pomo di Sodoma, coi fiorellini violetti ed i piccoli pomi verdi e gialli. Come un
gabbiano si muoveva Alberto, controllando che l’organizzazione filasse e subito
pronto a tuffarsi in nuove iniziative, puntuale a capire le possibilità di adattare modifiche al programma, con il supporto del
fido autista Enrico, che come un fenicottero tranquillamente intento a procurarsi il pasto, ci guidava rassicurante. Non
ha però potuto portarci alla casa di Giulio pastore, cinghiale
sbuffante, perché la strada come arata, era percorribile solo
dal suo furgoncino e da pochi viandanti masochisti. Siamo
stati accolti dal suo rude calore e da cibi succulenti. Poi sono
venute la dolcezze del moscatello, della musica e del canto
del nipotino dalla bella voce. Canti importanti, voce morbida
e un’aria di agnellino sacrificale. Chissà se avrebbe preferito andare a giocare! Sul lungomare di Carloforte – carrugi,
case colorate e grandiosi ficus a ombreggiare le panchine in
piazza – abbiamo poi conosciuto l’intrecciatore di nasse, il
cui acuto occhio di falco splendente sotto i ricci bianchi ha
rapito alcune di noi, approfittandone per offrire appartamenti
per vacanze a buon prezzo. Resta da parlare dell’acqua del
mare….come dimenticare la sua trasparenza anche con fondali di sabbia, e la gamma dei blu del suo colore, oltre al verde,
al turchese, al violaceo, al rossastro nei meravigliosi tramonti che all’avanzare del
buio passa al cupo color del vino cantato da Omero. Era impossibile resistere al
suo richiamo: quanti bagni a mo’ di cormorano che allarga le ali per asciugarsi in
fretta e poi nuotate, chiacchierate, risate! E bloccato il tempo nell’aria immobile,
annusare…guardare…
“Da cuscini di cisto riarso/Svaporano aromi/E sul mare di piatto turchese/Indugia una vela”.
Ma non ho parlato di animali…o no?
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Trekking
Cultura
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Una catastrofe: “1914 -a cura di Luigi Zamboni
Inizio 1900. Camminando in un campo minato
L’Impero Turco
Otto von Bismarck, il cancelliere di ferro che aveva creato la Germania nel 1871,
pare abbia esclamato: “Un giorno chissà quale dannata sciocchezza nei Balcani
scatenerà la grande guerra europea”.
L’impero turco, che dominava nell’ Europa sudorientale, non aveva saputo tenere
il passo con i tempi: le demoralizzate forze del sultano andavano lentamente ma
inesorabilmente arretrando, incalzate dall’avanzata dei cristiani. L’esercito era infiltrato dai membri di una delle società segrete più sovversive di tutta la Turchia,
nota come il Partito dei Giovani turchi. Sui vasti territori si era scatenato l’istinto
predatorio degli imperi europei. L’Austria fu la più lesta ad arraffare annettendosi,
nel 1908, la Bosnia – Erzegovina.
La piccola indipendente Serbia reagì violentemente: considerava la Serbia – Erzegovina parte integrante del suo territorio. La Russia, da sempre protettrice degli slavi, decise che per contrastare la politica aggressiva ed espansionistica di
Vienna occorresse diffondere nei Balcani un sentimento antiaustriaco.
Francia e Germania fanno le loro mosse
Nel marzo 1911 truppe francesi intervennero in Marocco col pretesto di domare
una ribellione di tribù. La Germania, sospettando che i Francesi sarebbero rimasti
in Marocco, pensò di trarne vantaggio chiedendo il consenso ad occupare territori in Centro Africa. La richiesta tedesca non ebbe il sostegno di Gran Bretagna e
Russia, e nemmeno delle alleate Austria e Italia. E a Berlino si ebbe la sensazione
di essere isolati. Il Governo tedesco avvertì anche un altro pericolo: la vulnerabilità finanziaria. Venne così deciso di accumulare liquidità: a partire dal 1911, la
banca centrale chiese all’estero il pagamento dei propri crediti e prese denaro in
prestito dalle altre potenze europee. In seguito a queste decisioni la Germania si
ritroverà con una valanga di soldi, che utilizzerà per finanziare la guerra proprio
contro quei paesi che glieli avevano prestati.
L’Italia tenta di arraffare la Libia
Il tarlo dell’imperialismo intaccò anche un uomo di governo della statura di Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio. L’obiettivo fu la Libia, governata con mano
fiacca dall’indolente impero ottomano. Il 3 ottobre 1911, più di venti navi aprirono il fuoco sui vecchi forti di Tripoli. Dopo due giorni sbarcarono 34.000 uomini
con 72 cannoni. La costa fu rapidamente occupata, ma rimanemmo impantanati
all’interno del paese. A Sciara Sciat due compagnie di bersaglieri vennero accerchiate e completamente distrutte. Inutile arrendersi, gli arabi,
alleati dei turchi, non facevano prigionieri. Reagimmo con una
terrificante rappresaglia: 4.000 arabi uccisi per le vie di Tripoli;
impiccagioni collettive nella piazza del Pane; deportazioni nelle
isolette italiane. Il 18 ottobre 1912 Italia e Turchia firmarono il
trattato di pace, che lasciò all’Italia il possesso della Libia, di
Rodi e di altre isole del Dodecanneso. Ma l’interno della Libia
era ancora in mano dei ribelli arabi. Le violenze degli occupanti, la negazione alla popolazione di ogni diritto, non potevano
che portare alla ribellione generale. Nella notte del 28 novembre
1914, con l’attacco alla Gahra di Sebha ebbe inizio la grande
rivolta che ci ricacciò in mare in condizioni pietose. La ritirata segnò di 10.000 morti il deserto coloniale. Ed era, per noi, l’addio
al sogno di “Tripoli bel suol d’amore”.
Si agitano anche i Balcani
Il governo turco aveva accettato le condizioni di pace dell’Italia, pur di cessare
le ostilità in Libia, per potersi concentrare sui Balcani. Le popolazioni dell’Europa
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-- 1918 la Grande Guerra” (seconda parte)
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Cultura
sudorientale si odiavano reciprocamente, ma, nel 1912, agirono concertatamene per colpire la Turchia: prima il Montenegro, poi Bulgaria,
Serbia e Grecia le dichiararono guerra. Tra la sorpresa generale, gli ottomani vennero cacciati da quasi tutta quella che era la Turchia europea. Il
trattato di pace scontentò la Bulgaria, che si sentì defraudata da Serbia
e Grecia. E re Ferdinando reagì con un attacco contro i suoi ex alleati.
Aveva inizio la seconda guerra dei Balcani. Si concluse nel 1913 con la
sconfitta della Bulgaria. L’esito della guerra deluse l’ Austria che avrebbe
voluto la Serbia distrutta, invece gli slavi stavano avanzando.
Il Kaiser Guglielmo II di Germania, commentando l’esito delle guerre balcaniche, ebbe a dire: “i popoli slavi sono nati non per essere padroni, ma
servi”.
L’Europa si avvicina all’orlo del baratro
Tra il 1908 e il 1913 le spese in armamenti delle sei grandi potenze europee (Austria-Ungheria, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Russia) aumentarono del 50 %. La frenetica corsa al riarmo della Germania
aveva indotto gli altri paesi a mettersi al passo. La Germania con la sua
politica aveva finito per trasformare in realtà quello che era il suo incubo
peggiore: ritrovarsi accerchiata dal nemico. La paura veniva, soprattutto,
dalla Russia, che stava avendo una crescita impetuosa, generata dal
processo d’industrializzazione del paese, in parte sovvenzionato dalla
Francia. Per gli interessi tedeschi diventava d’importanza vitale la sopravvivenza dell’Austria come grande potenza. Ma nemmeno l’ Austria era tranquilla: Manifesto film rievoaveva una gran paura della Serbia, che aveva appena raddoppiato la sua esten- cativo della conquista
della Libia.
sione territoriale.
Cogliendo il clima di inquietudine che si era diffuso nei loro paesi, i capi di stato
maggiore Helmuth von Molke e Conrad von Holzendorf raccomandarono ai governi di lanciare una guerra preventiva: Germania contro Russia; Austria contro
Serbia.
L’assassinio di Sarajevo
Gli Asburgo d’Austria dominavano in Europa dai tempi di Carlo Magno
su una pletora di paesi spesso litigiosi. Per trattenere i magiari, nel
1867 l’imperatore Francesco Giuseppe aveva escogitato un trattato
d’unione tra Austria e Ungheria. Nessuna concessione venne fatta,
allora e in seguito, alle popolazioni slave, cioè al gruppo etnico più
numeroso del vasto impero. Nel 1914 Cecco Beppe aveva 84 anni, in
lui il senso del dovere e dedizione si accompagnavano ad una certa rigidità, una ritrosia o incapacità di dare, una scarsa flessibilità che sembrava caratterizzare l’imbolsito regime asburgico nel suo complesso.
Il primogenito dell’imperatore, Rodolfo, un uomo aperto al progresso,
era morto a Mayerling, nel 1889, in circostanze non chiare. La bella
moglie Elisabetta, che aveva ricevuto in dono dal virtuoso marito una
malattia venerea, era stata assassinata a Ginevra nel 1898. Erede al
trono era il nipote arciduca Francesco Ferdinando, un fervente cattolico, profondamente antitaliano.
L’erede intendeva ridare all’impero una posizione di prestigio in Europa, revocare all’Ungheria lo status di partner, concedere alle nazionalità slave un livello paritario di autonomia, ripristinare una struttura di
potere centralizzato. Era prevedibile che con la sua assunzione al trono
nell’impero ci sarebbero stati disordini.
Francesco Ferdinando aveva sposato Sofia con matrimonio morganatico, il che
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Famiglia Arciduca Ferdinando d’Asburgo
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Cultura
Gavrilo Princip
privò i figli del diritto di successione e la moglie del diritto di stargli accanto nelle
cerimonie ufficiali. L’imperatore aveva negato il consenso al matrimonio perché
la famiglia di Sofia, i conti Chotek, pur essendo di antico e nobile lignaggio, non
aveva sufficiente denaro per potere richiedere di essere inserita nell’elenco dei
nobili che avevano titolo a sposare reali.
Nella terra degli assassini
Allorché fu chiesto a Ferdinando di ispezionare le truppe in Bosnia durante le
manovre di fine giugno 1914, l’arciduca accettò di buon grado. Lontano da Vienna, avrebbe potuto tenere la moglie Sofia al suo fianco, e il 28 giugno era l’anniversario del loro matrimonio.
Per tutto il XIX e l’inizio del XX secolo, negli imperi della vecchia Europa presero a
tessersi vere e proprie reti di società segrete intente a corroderne le fondamenta.
I loro membri erano visionari, nazionalisti, ufficiali dell’esercito, romantici, patrioti,
idealisti, fanatici o pazzi. Tra questi emerse Gavrilo Princip,
un giovane bosniaco senza alcun talento particolare, ma
serio e posato che scelse di diventare un martire. Faceva
parte del movimento Giovane Bosnia, un’organizzazione
di giovani nazionalisti. Nato nel 1894 in un villaggio della
Bosnia occidentale, Gavrilo era un solitario, viveva più in
mezzo ai libri che tra la gente. Aspirava a essere un poeta
perché – diceva – sentiva le sofferenze altrui. Presentatosi volontario per arruolarsi nell’esercito serbo, si era visto
respinto da un ufficiale che gli disse “sei troppo piccolo e
magro”, e questo lo ferì moltissimo.
Quando Gavrilo seppe che l’erede al trono dell’impero sarebbe giunto in visita in Bosnia concepì l’idea di assassinarlo. Sognava di creare una federazione che unisse Croazia, Slovenia e altre popolazioni slave meridionali. Invitò
degli amici a partecipare al complotto. Uno di questi, Milan
Ciganovic, conosceva il maggiore Voja Tankosic, aiutante di Apis, il potente capo
dei servizi segreti militari serbi e leader della Mano nera, una società segreta
all’interno dell’esercito serbo, che fornì ai congiurati quattro pistole automatiche
Browning, sei piccole bombe a mano di manifattura serba, pasticche di cianuro.
A quel punto la cospirazione non era un segreto; i caffé dei Balcani rimbombavano di voci sul complotto, e
sappiamo che quegli stessi caffé
pullulavano di spie austriache.
I terroristi colpiscono
La mattina del 28 giugno 1914
l’arciduca Francesco Ferdinando e la contessa Sofia lasciarono l’albergo della località termale di Ilidze e presero il treno per
Sarajevo, distante 50 chilometri.
Scesa dal treno la coppia salì
sulla seconda delle quattro auto
cabriolet che componevano il
corteo. Si diressero verso il municipio percorrendo il lungofiume
Appel. Era una splendida mattina
di sole dopo le piogge dei giorni
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Commissione
Scientifica
Cultura
precedenti. Il profilo di Sarajevo appariva terso e luccicante, punteggiato da minareti. La città contava ben cento moschee e quasi altrettante chiese cristiane.
Sinagoghe testimoniavano anche una presenza ebraica. La popolazione poliglotta, multinazionale, religiosamente variegata, aveva imparato a vivere non solo in
reciproca armonia, ma anche sotto qualsiasi bandiera.
Quella mattina Gavrilo aveva piazzato cinque amici sul lungofiume, in tre punti
diversi. Il sesto, Ilic, il più anziano, aveva 23 anni, avrebbe fatto da coordinatore.
All’avvicinarsi del corteo il primo attentatore, Cabrinovic, chiese ad un poliziotto
quale fosse la vettura dell’arciduca, quindi tolse la sicura alla bomba e la lanciò.
L’ordigno colpì la cappotta arrotolata, rotolò sulla strada ed esplose contro la
ruota dell’auto che seguiva ferendo il colonnello von Merizzi ad un polso, un
funzionario e alcuni passanti. Il detonatore, sparato in aria dall’esplosione, ferì
leggermente di striscio al collo la contessa Sofia.
Il corteo di auto si fermò un attimo per indagare l’accaduto, poi proseguì verso il
municipio. Cabrinovic si lanciò dalla banchina nel letto del fiume inseguito dalla
polizia. Preso, ingoiò la pasticca di cianuro, che sortì il solo effetto di farlo vomitare. Gavrilo, che aveva udito l’esplosione, arrivò sul posto dove sembrava fosse
tutto finito. Degli altri quattro attentatori, uno era cosi stretto tra la folla da non
riuscire ad estrarre la bomba dalla tasca. Un secondo aveva un poliziotto vicino
e decise di non rischiare. Un terzo provò pietà per la contessa Sofia e decise di
non fare nulla. Un quarto, preso dalla paura, se ne sgattaiolò a casa.
In municipio l’arciduca decise di cancellare il programma stabilito, che prevedeva
di passare per tortuosi vicoli per recarsi al museo. Si sarebbe recato all’ospedale
per fare visita al colonnello Merizzi. L’autista della vettura di testa non fu informato di questa decisione: lasciò il lungofiume come da piano originario e svoltò
in una stradina laterale, diretto verso il museo. “Tornate indietro” gridò il generale Potoniek, seduto accanto all’autista
dell’auto dell’arciduca. Il corteo si fermò:
si doveva tornare, a marcia indietro, sul
lungofiume. Tutto ciò accadeva a circa un
metro e mezzo da Gavrilo, tranquillamente
seduto sui gradini di un’ abitazione, intento a mangiare un panino. Benché sorpreso
dagli eventi, Gavrilo fu lesto nel cogliere
l’occasione che gli si presentava. Prese la
bomba dalla tasca ma non poté lanciarla
perché troppo vicino all’auto. Estrasse allora la pistola Browning e sparò due colpi
a bruciapelo: uno colpì l’arciduca alla giugulare, l’altro la contessa all’addome.
Gavrilo Princip, quindi, si puntò la pistola contro, ma un passante gli si buttò addosso impedendogli di premere il grilletto.
Riuscì ad inghiottire la pillola di cianuro,
che anche in questo caso provocò solo un attacco di vomito. La folla accorsa
cominciò a picchiare il giovane, l’avrebbe linciato se la polizia non fosse riuscita
a strapparlo alle sue grinfie.
Nel frattempo la cabriolet con la coppia reale agonizzante corse verso la residenza del governatore, distante pochi minuti.
Sofia morì alle ore 10 45 minuti; Francesco Ferdinando alle ore 11.
continua nel prossimo numero
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La polizia sottrae
Gavrilo Princip al
linciaggio.
Appennino
Commissione
Scientifica
Vegetazione
a cura di Giovanni Margheritini
Per concludere la parte degli Appennini Settentrionali dobbiamo ancora parlare
delle Alpi Apuane e, come preannunciato nella puntata precedente, terminare
le peculiarità dell’Appennino tosco-romagnolo con la presentazione della prima
riserva naturale integrale creata nel nostro paese nel 1959: la riserva di “Sasso
Frattino”.
Alpi Apuane
Sono un gruppo montuoso a sé stante collocato tra l’Appennino tosco-emiliano e il Mar Ligure, con la sua massima elevazione nel Monte
Pisanino (1946 m). Sono definite Alpi per l’accidentata morfologia dei
rilievi, la catena è formata da rocce carbonatiche sedimentarie (calcari,
calcari selciferi e dolomie) e metamorfiche come i marmi conosciuti da
tutti. Sono presenti anche substrati acidi (arenarie, diaspri, porfiroidi e
quarziti) che affiorano raramente ma che costituiscono il basamento
roccioso delle bancate carbonatiche. La fase litogenetica iniziale risale
al Triassico Superiore (230 milioni di anni) mentre la trasformazione metamorfica risale a circa 35 miloni di anni fa. L’orogenesi si è avviata circa
25 milioni di anni fa e da allora è iniziata la fase morfogenetica che, con
l’influenza delle ultime glaciazioni, ha modellato la catana all’aspetto
odierno. Inoltre la morfologia ha contribuito alla creazione di una vasta
presenza di carsismo. Una ventina tra le cinquanta più interessanti grotte d’italia si trovano qui.
Nel versante marino, il clima è dolce e temperato in ogni stagione. L’altro versante interno, pur risentendo dell’influenza mediterranea, ha differenze stagionali più marcate. I venti occidentali favoriscono d’inverno
la formazione di “vetrato”, rendendo insidiose le attività alpinistiche su
questo versante, mentre nelle altre stagioni apportano aria satura di
umidità e quindi abbondanti piogge. Queste vengono assorbite dal terreno carsico e alimentano le sorgenti in buona parte dell’Appennino.
Seppure limitate aeralmente le Alpi Apuane , grazie alla loro collocazione geografica e altitudinale, rappresentano uno dei centri più importanti di endemismo delle montagne italiane, con una presenza di circa
3000 specie di fiori di cui almeno 20 sono esclusivi di questo territorio.
La fascia mediterranea, dalla pianura ai 400 metri, è caratterizzata da
isolati nuclei di lecceta. Estesi e frequenti i boschi a Pino marittimo con
arbusteti dominati da ginestre. Sul versante tirrenico la fascia collinare è
caratterizzata da boschi a Carpino nero, Orniello e Roverella che hanno
ricolonizzato aree disboscate nei secoli passati. Nello strato arbustivo predomina dall’Erica carnea e l’Erica arborea. Le intense precipitazioni favoriscono la lisciviazione del calcio e quindi anche il castagno,
abituato ai soli substrati acidi, può progredire. La vegetazione sul lato
dell’Appennino è la stessa della fascia collinare appenninica. La particolare conformazione morfologica a dato vita a profonde gole rocciose
e forre dove la felce e la Pinguicola la fanno da padrone. La fascia
montana sul versante nordorientale è caratterizzata da faggete che non
hanno la stessa estensione sul settore tirrenico. Sempre su questo settore si ha la presenza di vasti ambienti umidi (torbiere) con la tipica vegetazione di
pennacchi (Eriophorum latifolium). Anche la vegetazione rupicola trova una vasta
estensione sulle parti sommitali. Qui possiamo trovare il Ranno delle Apuane (endemismo), la Vedovella delle Apuane (endemismo) e il Salix crataegifalia sui lati
a settentrione. Nella fascia subalpina, in funzione del substrato abbiamo diverse
specie presenti: su rocce acide si trovano frammenti di brughiera a mirtilli. Nelle
vette carbonatiche, molto diffuse sono le praterie ricche di specie calcicole come
la Sesleria apennina e il Carice. Sulle rupi carbonatiche a sud troviamo comunità
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Settentrionale
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Vegetazione
di Artemisia e dell’endemica Silene lanuginosa. Abbondate anche la Saxifraga
callosa mentre in quelle a nord troviamo la Valeriana saxatilis, il Salice (Salix
crataegifalia) e alcune specie di saxifraga, la Falcetta fragile e l’Asplenio verde.
Riserva Integrale Naturale di Sasso Fratino
La Riserva di Sasso Fratino è la prima Riserva integrale istituita in Italia
secondo la classificazione dell’U.I.C.N. (Unione Internazionale Conservazione della Natura). La protezione della natura è quindi concepita nella sua totalità: specie vegetali e animali, rocce, suolo, acque, atmosfera
locale. Il 23 settembre 1985 la riserva di Sasso Fratino è stata insignita
del Diploma Europeo. Tale riconoscimento, secondo il vigente regolamento che ne stabilisce la validità per cinque anni, è stato già rinnovato
cinque volte.
Una riserva Integrale è una porzione di territorio ove non sono svolte
attività proprie dell’uomo, ad eccezione della ricerca scientifica. Non vi
sono quindi interventi di alcun genere, non attività di utilizzazione delle
risorse, non interventi di sistemazione o di tutela di versanti e pendici.
Una scelta del genere, per essere del tutto consapevole, deve avere
motivazioni ben precise. Quindi di fronte a Sasso Fratino, ancora prima di ammirare la suggestiva foresta, bisogna interrogasi sul significato
dell’aggettivo “Integrale”. Questo aggettivo evoca un che di compiuto,
di integro, di completo e quindi ben si presta a descrivere l’ambiente e
a rendere chiari i motivi della conservazione.
La Riserva fa parte del comprensorio delle Foreste casentinesi. La tormentata morfologia del territorio, ricco di fossi e torrenti profondamente
incisi, attraversato da affilati crinali secondari e da numerosi affioramenti rocciosi di matrice arenacea, ha da sempre limitato i tradizionali usi
del passato: raccolta di legna e legname, pascolo di bestiame domestico, dissodamento del suolo.
Flora
La zona è stata nei secoli scarsamente accessibile. Ciò ha consentito
la vita di una foresta che per molti versi possiamo chiamare “primigenia”, o molto prossima ad un bosco naturale, la cui evoluzione ha subito influssi esterni limitati. Non mancano tuttavia segni della presenza
dell’uomo, che, seppur di rado, ha raccolto i frutti di questa poderosa
foresta. A tratti si notano lembi di bosco puro di Abete bianco, artificialmente diffuso; ai bordi di antichi sentieri affiorano a volte reconditi muri
a secco, vestigia delle vie di pietra; in alcune zone si trovano ancora
oggi le tracce di vecchie aie carbonili, spiazzi costruiti con duro lavoro
di zappa per cuocere la legna fino ad ottenerne carbone.
Fauna:
La Riserva di Sasso Fratino condivide le altre 4 riserve naturali limitrofe
delle Foreste Casentinesi una delle faune forestali più ricche e meglio
conservate dell’intera penisola. Il regime di protezione garantito da decenni nella
zona ha consentito non solo il mantenimento di gran parte di quelle componenti
faunistiche altrove decimate dal progressivo sviluppo delle attività umane ma
anche il ritorno di animali che fino a pochi anni fa erano scomparsi come ad
esempio il lupo ormai nuovamente presente nel comprensorio da dove era sparito da molte decine d’anni.
Capire ciò che avviene in natura è oggi la consapevole base di partenza per
ricucire il rapporto dell’uomo con l’ambiente, per continuare nel mutamento che
è forse la ultima e più importante sfida: abbandonare il ruolo di sfruttatori per
assumere quello di utilizzatori.
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Bibliografia:
Ecosistemi delle Alpi e
Appennini - CSC - CAI
Riserva Integrale Sasso
Fratino - Corpo Forestale dello Stato
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Scientifica
Vegetazione
Famiglia:
Ericaceae
Nome scientifico:
Erica arborea
Fioritura:
Marzo - Maggio
Habitat elettivo:
Vegeta nei boschi sempreverdi, macchie, garighe su terreni acidi, vive
in aree con clima caldo-arido, ma si adatta
anche ai climi più freddi
ed umidi delle zone montane dove vegeta fino a
1.200 m s.l.m., nelle regioni settentrionali solo
fino a 600 m.
Gli arbusti e i cespugli
a cura di Andrea Carenza
Erica arborea
La pianta delle pipe.
La incontrammo su un sentiero ligure sotto
il sole di metà Aprile, alcuni anni fa: alta (anche troppo), con un vestito verde ornato di
delicate frange vellutate e col capo coperto
da grappoli di minuscole companule bianche. Erica, si chiamava, come quella sua parente bassotta, cespugliosa, frequentatrice
dei pendii sassosi dei nostri monti…
Il genere Erica è vastissimo, comprende
circa 650 specie, si estende dall’Europa atlantica e mediterranea ai monti tropicali africani, fino all’Africa meridionale dove assume
il massimo sviluppo. La distribuzione delle eriche intorno al Mediterraneo è ritenuta una sorta di relitto della vegetazione montana subtropicale dell’Oligocene
da 33,9 a 23,0 milioni di anni fa.
L’Erica arborea è anche conosciuta localmente con altri nomi: scopa, scopiglia,
scopa maschio, scopa da ciocco, scopa da fastella, scopa da bosco, scopone,
stipa maggiore, radica, ulice, brierroot, briar root, bruc boal,… tutti nomi che fanno riferimento all’uso che se ne faceva dei suoi rami o delle sue radici; infatti le
ramificazioni di eriche legate in fascina erano utilizzate per fare scope e con esse
si facevano le coperture e le pareti di abitazioni povere e capanni. Inoltre, dov’era
abbondante, se ne facevano lettiere per i bachi da seta, in modo che potessero
ancorarvi i bozzoli. L’erica arborea è un arbusto o piccolo albero, alto da 1 a 6 m,
sempreverde dal portamento eretto, con chioma densa e ramificata e rami con
disposizione opposta, di cui quelli giovani coperti da peluria e corteccia dei fusti
di colore rossastro. Le foglie sono aghiformi, di colore verde-scuro, con una riga
bianca nella parte inferiore. Fiorisce da marzo a maggio ed i fiori sono piccoli,
bianco-rosei, profumati, simili a campanelle e riuniti in grappoli sulla cima dei
rami; da essi sporge lo stilo rosa carico. I frutti sono capsule ovoidali contenenti numerosi piccoli semi. L’apparato radicale è costituito da poche diramazioni
piuttosto grosse e disposte a raggiera. Predilige i terreni silicei, quindi a reazione
acida ma si trova anche in terreni parzialmente calcarei. In passato il suo legno
era molto ricercato dai carbonai che lo trasformavano in un carbone in grado di
sviluppare molto calore e richiesto nelle officine dei fabbri per la forgiatura del ferro. Ma il legno dell’Erica Arborea e, soprattutto la parte tondeggiante che cresce
(simile ad una zucca) appena sotto il livello del terreno, è il materiale prediletto dai
fabbricanti di pipe. Il “ciocco” di radica, infatti, con il tempo, assume una varietà
di sali minerali, ossidi, acidi e tannini, che gli conferiscono un’ottima refrattarietà
al fuoco e lo rendono adatto a sopportare le alte temperature dei fornelli da pipa,
e gli donano le caratteristiche “fiammature”, ossia le striature rossicce, simili a
lingue di fuoco. Dai suoi fiori, soprattutto in Toscana, ma anche in Liguria, Umbria e Sardegna, le api producono un miele particolare, torbido, rossiccio e che
cristallizza rapidamente ma dalle caratteristiche organolettiche molto originali:
c’è chi lo paragona al gusto di caramella mou, tamarindo, crème caramel, legno
aromatico, liquerizia,… In cucina può essere abbinato a formaggi stagionati e
piccanti, e come miele “da tavola”.
Hanno detto di lei:
Le Fate dell’Erica sono attratte da esseri umani timidi. Lo Spirito di questi fiori
entra facilmente in sintonia con bambini ed adulti timidi ed introversi, facilitando
l’esteriorizzazione dei sentimenti di queste persone. Si tratta di un fiore di pace.
Gli esseri fatati che vivono indisturbati sull’Erica si dice che festeggino tra gli steli.
L’Erica ha anche fama di accendere le passioni delle Fate e di aprire i portali tra il
loro mondo ed il nostro. Fate un’offerta di Erica nella sera di Beltane (1 Maggio),
per attrarre buone Fate nel vostro giardino.
tratto dal Giardino delle Fate
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Riconoscere gli Alberi Guida
a cura di Giada Luppi - agronoma (laureanda)
Il Pino Silvestre
Il Re della Taiga
Commissione
Scientifica
Vegetazione
Famiglia:
Pinaceae
Nome scientifico:
Pinus sylvestris
Elegante conifera sempreverde a rapido accrescimento che, in certe condizioni edafi- Fioritura:
che ed ecologiche, può raggiungere altezMaggio - Giugno
ze di 20-30 metri fino a 40 metri; ha il fusto
dritto, slanciato, corteccia rossa brunastra Habitat elettivo:
fessurata con placche irregolari. La specie Il suo ambiente nelle
è abbastanza longeva potendo nelle migliori zone alpine sono le
condizioni raggiungere i 300 anni ma nor- valli aride ad elevata
malmente la sua utilizzazione avviene pri- continentalità. Ha cama del compimento del secolo. La chioma ratteristiche di specie
è leggera e non folta, inizialmente di forma xerofila, che sopporta
piramidale che diventa poi ovale con fo- bene le basse tempeglie aghiformi, sempreverdi, raggruppati in mazzetti di due aghi (raramente tre rature. La pineta a Pino
o quattro), lunghe circa 3-5 cm (talvolta fino a 10 cm), di colore verde glauco, silvestre si sviluppa su
ritorti e con guaine brunastre alla base. Il Pino silvestre è una specie dioica con tutte le Alpi tra i 500 e
infiorescenze maschili (microsporofili) o femminili (macrosporofili). I fiori maschili, 1600 m specialmencomposti da connetti di 6-7 mm posti alla base del germoglio, sono di forma al- te su suolo calcareo
lungata e quando maturi sono di colore giallo-rosato. L’infiorescenza femminile, mentre in Appennino
invece si trova all’apice, sono di forma ovale lunghi 7-10 mm e possono essere è limitato al solo tratto
riflessi , solitari o in gruppi fino a 5. Il Pino silvestre è naturalizzato al nord nella settentrionale
nostra Penisola, in Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Veneto, Friuli, Trentino,
Liguria e Emilia Romagna, tra 100 e 1800 metri. Eliofilo, si insedia sui versanti
meridionali in ambiente aperto, eventualmente anche degradato, comportandosi
da specie pioniera. Forma boschi puri oppure si associa a Larice, Pino rosso e
Pino nero, oppure a ginepri, roverella o ancora può essere presente in boscaglie
di ginestra e citiso. Vegeta al meglio in terreni leggeri, sabbiosi, molto ben drenati, a pH debolmente acido (non troppo altrimenti diventa clorotico) in pieno
sole o al massimo in leggera ombra. Terreni troppo pesanti possono abbreviarne
Strobili maturi
considerevolmente la vita, e quelli umidi ne rallentano moltissimo la crescita altrimenti piuttosto veloce, del resto si adatta abbastanza a condizioni non ottimali
del substrato. Tollera esposizioni marittime, venti forti, inquinamento atmosferico, e anche l’aridità quando è ben attecchito. Il legno del pino silvestre presenta
alburno chiaro e durame rossastro. E’ un legno leggero che presenta sempre un
certo contenuto di resina, per questo, produce molto fumo a causa dell’elevato
contenuto di resina. Il legname migliore lo si ottiene dalle piante adulte cresciute lentamente; uno dei legni migliori è quello del Pino di Svezia. I legni migliori
vengono utilizzati per la produzione di serramenti, di mobili e rivestimenti per interno. I legni di scarso valore vengono utilizzati per la fabbricazioni di imballaggi
Microsporofili
industriali.
Hanno detto di lui:
Il Pino ha chiesto al Creatore di essere preservato dalla vecchiaia, desiderio solo
in parte esaudito. Il Padreterno infatti non ha donato al Pino l’eterna giovinezza,
ma gli ha concesso la possibilità di vestirsi di un abito verde anche nella cruda
stagione. Ma lui non è arrogante e cattivo come l’agrifoglio e il suo vestito ha
un colore tranquillo e riposante. D’inverno, quando tutto dorme e la natura si
rinchiude in se stessa e i colori sfumano e si disperdono nella neve, il Pino è
sempre bello verde. Alle bianche distese innevate racconta la sua storia pacifica
e tranquilla. Per via dei suoi rami fitti e spioventi è diventato l’ombrello sempre
aperto, la tettoia sotto la quale ti rifugi quando scoppia il temporale. E’ naturale
cercare riparo sotto i suoi rami, perchè comunicano qualche cosa di affettuoso e protettivo e la pioggia non riesce a penetrarli. Se ti intrufoli sotto un Pino,
Macrosporofili
troverai anche una scorta di fiammiferi e un letto per riposare. Infatti egli depone
a terra e preserva dall’umidità una quantità notevole di rametti minuscoli e barbe
sottili, sempre secche e immediatamente pronte per essere accese. Quei fuscelli
consentono di fare fuoco nelle situazioni peggiori, anche nella neve, e di notte diventano un comodo
giaciglio. Quanti sogni fatti nei bivacchi sotto i pini quando andavo a caccia con mio padre!...
Mauro Corona - La voce del bosco
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La Terra è una
Commissione
Scientifica
Geologia
a cura di Matteo Mantovani - geologo
Nel capitolo precedente abbiamo terminato la parte della Terra primordiale dove
abbiamo capito su quali ipotesi si basano le conoscenze che abbiamo oggi di
quanto è successo allora. Poi abbiamo visto come la Terra vada considerata
come un sistema unico in quanto tutte le varie componenti interagiscono profondamente tra loro, tanto che qualsiasi mutamento intervenuto in una sua parte determina effetti e ripercussioni sulle altre. Ora qui iniziamo l’esame dei geosistemi
che operano su scala globale.
Il puzzle globale delle
placche litosferiche
Sezione della parte
più esterna della
Terra.
Sono molti i fenomeni che si manifestano sulla superfice terrestre che trovano origine all’interno della Terra e sono chiari indicatori dell’instabilità interna.
Nonostante non sia possibile un’esplorazione diretta delle profondità del nostro
pianetà, attraverso metodi geofisici integrati da dati di laboratorio si cerca di
costruire modelli di dettaglio di ciò che avviene. Secondo questi studi la Terra al
proprio interno è molto calda e disperde
continuamente calore attraverso la sua
superficie; un comportamento da gigantesca “macchina termica” con distribuzione di temperature al proprio interno
strettamente legata alla sua struttura,
composizione, stato dinamico ed evoluzione. L’elevata temperatura e l’instabilità termica producono forze in grado
di rimescolare e di spingere verso l’alto i
materiali interni e sono responsabili della attività geologica della parte superiore
del pianeta.
Tra il 1960 e 1970 è stata elaborata una
teoria generale in grado di spiegare in
modo unico tutti i grandi fenomeni geologici, tra cui l’origine e la distribuzione
dei vulcani, dei terremoti, dei fondi oceanici e delle catene montuose. Secondo
questa teorioa, che ha il nome di “tettonica delle placche”, la superfice della Terra è costituita dalla litosfera, un sottile guscio di 100-120 km in corrispondenza
dei continenti e 20-30 km sotto gli oceani (ricordiamo che il raggio equatoriale
terrestre è di 6.378 km) che, a sua volta , è suddivisa in un certo numero di elementi, le placche, incastrati tra di loro come in un grande puzzle. Le placche si
estendono verso il basso per 100-200 km fino a
una zona non ben definita dove le rocce sono sensibilmente più calde e meno resistenti della sovrastante più fredda e più rigida litosfera. Le placche
sono in continuo movimento tra loro con una velocità di spostamento dell’ordine di 2-15 cm all’anno. Il “motore” che fa muovere le placche va ricercato nei moti convettivi che rimescolano l’interno
della Terra. Si tratta di movimenti simili a quelli che
si formano in una pentola d’acqua che bolle, con
l’acqua calda che sale in superfice, si raffredda e
torna giù per riscaldarsi nuovamente. Mentre nella pentola l’acqua circola velocemente, all’interno
della Terra sono molto più lenti, perchè il materiale
coinvolto è molto viscoso, quasi allo stato solido. Questi movimenti sevono appunto per disperdere il grande calore immagazzinato all’interno della Terra fin
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macchina termica.
Commissione
Scientifica
Geologia
da quando il nostro pianeta era ancora una massa incandescente. Insomma, è
come se la Terra, al suo interno, fosse in
continua ebollizione. La parte superficiale
delle placche è costituita prevalentemente da materiale basaltico, cioè lava scura
e pesante che fuoriesce nel mezzo degli
oceani, in corrispondenza di lunghissimi
rilievi sottomarini costellati di vulcani, le
cosidette “dorsali oceaniche”. I continenti sono al contrario masse di materiali più
leggeri, essenzialmente di tipo granitico
e sono intrappolati in questa specie di
nastro trasportatore che sono le placche;
si spostano galleggiando, trascinati passivamente dal loro movimento.
Le placche, come abbiamo visto, si accrescono negli oceani a partire dalle
dorsali. Le dorsali sono imponenti zone
elevate sottomarine, al centro delle quali
è presente una profonda incisione chiamata rift valley. Qui le correnti convettive che rimescolano l’interno della Terra Morfologia sottomarina
arrivano in superficie. Ma se lungo le dorsali esce in continuazione materiale e
degli oceani
si genera nuova litosfera, è necessario che una corrispondente quantità venga inghiottita da qualche altra parte, altrimenti la Terra dovrebbe aumentare di
volume. E così non è, infatti non vi è nessuna evidenza che confermi tale fenomeno. Infatti la Terra è considerata un sistema termodinamicamente chiuso che
scambia con l’esterno energia, ma non materia e quindi conserva perciò la sua
massa. Sulla terra esistono perciò dei luoghi dove le placche si distruggono e
scompaiono. Questi posti si chiamano “fosse oceaniche” dove una placca s’immerge, sprofonda sotto un’altra e viene riassorbita all’interno della Terra;
questo processo di lenta discesa e penetrazione
di una placca è chiamato “subduzione”. Quando
le placche in movimento trascinano blocchi continentali incastonati al loro interno, questi, una volta
giunti in contatto tra loro nella zona di subduzione,
trovano notevole difficoltà ad infilarsi l’uno sotto
l’altro e a penetrare in profondità, all’interno della
Terra per il fatto di essere costituiti da materiale
granitico, che è sensibilmente più leggero delle
rocce che stanno al di sotto delle placche. Solitamente le placche si suddividono in base ai loro
margini che possono essere:
• a margini divergenti o in accrescimento: quando corrispondono alle dorsali oceaniche, dove
le placche si allontanano e si genera continuaSchema dorsali e fosse
mente nuova crosta oceanica.
oceaniche
• a margini convergenti o in consunzione: quando corrispondono alle fosse
oceaniche, dove le placche convergono e una di esse sprofonda all’interno,
consumandosi e perdendo la propria identità.
• a margini trasformi o conservativi: quando corrispondono a grandi fratture
oceaniche e continentali a scorrimento orizzontale lungo le quali le placche
scivolano una accanto all’altra in direzioni opposte.
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Scientifica
Geologia
Collissioni di continenti e nascita delle catene montuose
Sezione della schema di collisione tra
due continenti
In relazione alla moderna visione dinamica della Terra, i continenti trascinati passivamente dal movimento delle placche in cui sono inglobati, vagano sulla superficie terrestre come zattere alla deriva: essi possono spaccarsi in tronconi,
strisciare l’uno vicino all’altro oppure scontrarsi più o meno frontalmente.
Lo scontro fra due continenti, collisione, si verifica normalmente alla velocità
relativa di 5-10 cm l’anno e implica forzatamente la scomparsa dell’oceano che li
separava, intendendo come tale non solo la massa d’acqua, ma il fondo oceanico vero e proprio con le sue rocce e sedimenti. Se pensiamo alla scala dei tempi
geologici, i fondi oceanici sono effimeri in quanto
hanno breve durata: la crosta oceanica attuale,
che si crea continuamente in corrispondenza delle dorsali che stanno in mezzo agli oceani, viene
altrettanto continuamente inghiottita e distrutta in
corrispondenza delle fosse oceaniche.
La collisione tra due continenti porta a una intensa deformazione della zona, lunga e relativamente stretta. in cui avviene il loro accostamento e
la saldatura finale. Le rocce e i sedimenti dell’oceano interposto, come pure le rocce delle due
zone marginali dei continenti stessi, sono piegate,
rotte, innalzate, a volte anche profondamente trasformate dalle enormi pressioni e dalle alte temperature che si producono nella morsa dei due
blocchi continentali. Occorre ricordare che tutto
ciò avviene in tempi geologici, cioè lunghissimi.
Non ci sono cataclismi, sconvolgimenti terrestri,
catastrofi: tutto si svolge come avviene oggi nelle regioni in fase collisionale attiva: qualche terremoto, qualche vulcano che ogni tanto entra in
attività, mobilità e impercettibili sollevamenti delle
coste e poco più. Il risultato finale di un processo
collisionale è l’orogenesi, cioè la formazione di una catena montuosa.
I sedimenti marini, accumulatisi durante centinaia di milioni di anni nel mare interposto ai due blocchi continentali o sui margini dei continenti stessi, vengono
compressi, strizzati e poi sollevati a mano a mano che le due masse continentali
si avvicinano. Prima si formano isole e vulcani, poi quando avviene l’impatto
vero e proprio sorge un rilievo lungo
tutto il frontecollisionale e costituito
da rocce in larga parte di origine marina, metamorfosate, fratturate, piegate
e accavallate le une sulle altre. Questa
massa di rocce, mentre si solleva è attaccata dagli agenti atmosferici, dalle
acque superficiali, dai ghiacciai, dal
vento, che ne scolpiscono la morfologia e ne modellano il rilievo. Le parti che si sollevano più velocemente
vengono incise più profondamente, le
rocce più tenere sono erose e spianate facilmente e quelle più dure e resistenti restano rilevate e sporgenti: si formano
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Scientifica
Geologia
così pianure, valli, creste, guglie e altopiani. Così alla fine di una lunga successione di eventi, nasce una catena di montagne.
Le collisioni e l’orogenesi sono accompagnate da due fenomeni naturali tra i
più ecclatanti, che fin dall’antichità hanno suscitato nell’uomo timore e rispetto:
terremoti e vulcani. I terremoti sono strettamente legati ai movimenti delle placche e in particolare a quanto avviene ai loro margini. Dove le placche di scontrano, divergono e strisciano l’una accanto all’altra si registrano sforzi enormi
nelle masse rocciose coinvolte, le quali possono fratturarsi e subire spostamenti
liberando energia. Il terremoto è una vibrazione del terreno prodotta dalla rottura
di grandi masse di roccia situate nel sottosuolo.
Anche la maggior parte dei vulcani è legata alle placche e al loro movimento. I
vulcani attivi sulla Terra sono presenti in tutti i continenti e in tutti gli oceani, ma
non sono distribuiti in modo uniforme. La maggioranza si trova allineata in corrispondenza delle zone di subduzione o al centro degli oceani, lungo le dorsali
oceaniche.
Per concludere si può affermare che la mobilità delle placche è stato un importante processo che ha interessato molta parte della storia della Terra. Questa
mobilità e responsabile della creazione delle catene montuose, della distribuzione dei vulcani e dei terremoti, della forma dei continenti e dei grandi bacini
oceanici. La tettonica delle placche ha anche influenzato la formazione dell’atmosfera, lo sviluppo delle zone climatiche e l’evoluzione della vita.
La teoria della tettonica delle placche spiega chiaramente che:
• i continenti si sono spostati lateralmente sulla superficie terrestre per migliaia di chilometri e si stanno muovendo tuttora, molto lentamente di qualche
centimetro all’anno.
• i bacini oceanici, intesi come depressioni della crosta terrestre e non come
masse d’acqua, si sono formati per il progressivo allontanamento dei blocchi continentali e continua fuoriuscita di materiale proveniente dall’interno
della Terra.
• quando, nel loro lento movimento di deriva, due masse continentali si avvicinano fino a collidere frontalmente, i materiali interposti subiscono una intensa trasformazione che porta al sollevamento di tutta la zona compressa,
che diventa una catena di montagne.
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Schema orogenesi
montagne
Bibliografia:
La Terra dinamica di A.
Bosellini, Frammenti
di Geologia di Ugo
Scortegagna, Portale
Scintifico blogspot.it
Commissione
Scientifica
Flora
Una sapienza senza confini ...
Inizia qui una tematica che ci accompagnerà per diverso tempo
sulla nostra rivista: quella sulle piante officinali delle nostre
montagne. E’ questa, appunto
una sapienza tradizionale che
non ha confini e che trasforma
la montagna nella farmacia della
natura.
Per questa premessa abbiamo
preso in prestito uno stralcio di
un trattato dell’antropologa Marta Villa, che bene ci introduce
all’interno del contesto in cui resteremo a lungo.
a cura di Alessandro Vezzani
Nella saggezza popolare c’è la convinzione che le erbe nascondano il ri-
medio per ogni malattia dell’uomo, al quale tocca scoprire il segreto della
propria salute che sicuramente esiste nella varietà di piante che riempiono
la Terra. Così come si pensa che gli animali trovino soluzione ai loro malanni in erbe di cui si cibano opportunamente. L’esempio più lampante è
quello del gatto: ostinato carnivoro, sentendosi disturbato negli intestini,
mangia virgulti di gramigna riuscendo a curarsi da solo e riconoscendo
l’erba tra le mille altre che popolano l’orto.
Molti di noi si saranno curati l’insonnia con la valeriana o l’ansia con la
melissa, molti assumono l’iperico per combattere la depressione e a diversi pazienti cardiopatici vengono dati opercoli di aglio e biancospino. ...
Molte sono le leggende che hanno come protagonista una pianta, un
pomo, un fiore, non è opportuno dimenticare questo tipo di tradizione tramandata oralmente e che ritrova le sue radici nell’antichità: l’antropologia
fa uso anche di questo tipo di documenti che svelano il più delle volte un
sapere antico e alternativo. C’era una medicina spicciola di tutti i giorni,
ricavata dall’orto e dal bosco e c’era la vera sapienza delle erbe che debordava nella magia, nella stregoneria, nelle potenze infere.
Tratto da: “La medicina Tutte le erbe per l’uomo di un tempo avevano come caratteristica fondamentale
dei semplici” - Piante in sé caldo, freddo, umido e secco, relativamente ai quattro presocratici elemenofficinali delle montagne ti: terra, acqua, aria e fuoco. Assumendo un’erba, l’uomo non faceva che ristabiitaliane - Edizioni Duck
lire un equilibrio spezzato, in base al quale, secondo Ippocrate, il proprio corpo
aveva eccedenza o mancanza di tali qualità: era uscito dall’equazione che legava il proprio microcosmo, il corpo, con il macrocosmo, la natura.
C’è diversità tra la medicina antica e quella moderna: gli antichi
leggevano la malattia come mancanza di sintonia del corpo con la
naturae, ricorrendo anche ad aspetti magici, cercavano di restaurare questa comunicazione spezzata tra l’individuo e l’armonia
delle cose. Le erbe non erano che un mezzo per ritornare in questa sumpatheia (dal greco sentire insieme, all’unisono, concordi)
degli elementi con gli elementi. Solo con la rivoluzione scientifica
seicentesca e l’epoca moderna, viene abbandonato questo concetto di organismo per assumere una visione cartesiana meccanico-analitica: anche l’anima ha una sede corporea, la ghiandola
pineale (ipofisi) e tutto deve essere letto e ordinato attraverso la
matematica. Si analizza così non l’individuo in sé, ma la parte ammalata, perseguendo un rapporto di causa ed effetto, rischiando
spesso di mirare più al sintomo che alla genesi della malattia, sottovalutando gli effetti collaterali.
Papaveri
Le erbe hanno una zona oscura: portano salute o morte, solo il
sapiente può distinguere e dosare ritualmente le due proprietà.
La figura che opera con le erbe ha anch’essa zone d’ombra, e
di solito è la donna: fin dalla preistoria legata all’allevamento e
alla raccolta, è colei che da sempre, manipola somministrazione
e preparazione degli elettuari; streghe e fate sono le depositarie
di questa scienza misteriosa, di fatto le prime erboriste. La notte
è il momento più opportuno per raccogliere le erbe, meglio se
questa cade tra il 23 e 24 giugno; la luna insegna con le sue fasi
quali sono i momenti migliori per trovare quelle più rare, in loro si
condensano potenze e energie: non è l’erba che con un semplice
ed illuministico rapporto di causa-effetto opera la guarigione, ma
la congiunzione di forze della natura che in queste si annodano
più facilmente.
Il cristianesimo porta via alla donna, simulacro della religiosità ed
ideologia precedente legata alla Dea Madre e alla Terra, questa
specificità e coloro che tentano ancora di tramandare questa antiPrimula veris
ca saggezza vengono attanagliate e arse vive sui roghi.
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Lo scoiattolo
a cura di Alessandro Vezzani
E’ il campione della simpatia. Lo scoiattolo rosso , chiamato anche
scoiattolo comune europeo, è un piccolo roditore del peso di circa
250-450 g e una lunghezza totale di circa 38-42 cm, di cui quasi la
metà (18-20 cm) sono rappresentati dalla coda. In media vivono dai
5 agli 8 anni, l’appellativo rosso deriva dal colore del mantello dorsale
che può variare dal rosso vivo al grigio, al marrone fino al nero, mentre
il ventre è bianco.
In Italia esistono 3 sottospecie di scoiattolo comune: Sciurus vulgaris
fuscoater diffuso prevalentemente sull’arco alpino e prealpino, di colore rosso acceso che diventa più scuro negli esemplari presenti nei
boschi ad alta quota in modo da catturare più calore; Sciurus vulgaris
italicus presente nell’appennino settentrionale e centrale fino a Marche
e Umbria, generalmente più scuro del cugino alpino e con una striscia brizzolata sulla coda; infine a sud, fino all’Aspromonte troviamo
Sciurus vulgaris meridionalis con una colorazione nera.
E’ uno dei pochi mammiferi attivo durante il giorno, specialmente all’alba e al tramonto, per cui non è difficile vederne qualcuno durante una
passeggiata nel bosco. Lo scoiattolo vive in boschi sia di conifere che
di latifoglie, costruisce un nido alla biforcazione dei rami o all’occorrenza può utilizzare una cavità presente nel tronco come riparo. I nidi non
sono esclusivi, infatti un singolo scoiattolo può utilizzarne anche 3 o 4.
E’ un animale solitario, l’unico momento in cui è in compagnia è il periodo riproduttivo, ma sarà la femmina da sola ad occuparsi dei piccoli.
Il nostro piccolo amico ha un ruolo fondamentale nell’ecosistema forestale perché aiuta il bosco nei suoi processi di rinnovamento. Ma, in
che modo? Vi starete chiedendo. Bé è elementare... seminando nuovi
alberi! Infatti tra i “piatti preferiti” dello scoiattolo ci sono i semi, sopratutto di nocciolo, faggio, castagno, pino cembro, pino silvestre; nei
periodi di abbondanza una parte di quelli raccolti viene immagazzinata
in piccole buche scavate nel terreno per essere poi consumata nei
mesi di “magra” (inverno e primavera), se non ché una parte di questa
dispensa verrà dimenticata e potranno così germinare nuove piante.
I principali predatori dello scoiattolo sono il falco, il gatto selvatico, la
volpe, il gufo, i serpenti ma soprattutto la martora che, grazie alla sua
agilità e abilità nell’arrampicarsi, riesce a seguirlo fino al nido.
Tuttavia il maggiore nemico dello scoiattolo rosso è lo scoiattolo grigio
(Sciurus carolinensis) originario del Nord America e introdotto in Europa
alla fine dell’ottocento. La convivenza delle due specie non è possibile
avendo abitudini comuni e comportamenti molto simili, questo porta
ad una competizione che vede sempre vincitore lo scoiattolo grigio in
quanto più forte e aggressivo. Si stanno avviando progetti di contenimento dell’espansione dello scoiattolo grigio che altrimenti vedrebbe
come risultato l’estinzione del rosso oltre che il peggioramento dello
stato dei boschi a causa di un diverso sistema di immagazzinamento
di semi e funghi e all’abitudine di strappare parti di corteccia agli alberi.
Il modo migliore per riconoscere uno scoiattolo grigio da uno rosso
non è dal colore, in quanto entrambi posso avere colorazioni simili, ma
osservando la coda che nel grigio presenta un alone bianco.
E per finire alcune curiosità sugli scoiattoli rossi...
Scendono dagli alberi correndo a testa in giù; A differenza di altri mammiferi, non vanno in letargo in inverno; Le femmine possono avere da
uno a sei piccoli, che pesano 10-15 grammi alla nascita; Si pensa che
uno scoiattolo possa capire se una nocciola è buona oppure marcia!;
I gatti sono predatori di scoiattoli; Quando scappano dai predatori, gli
scoiattoli si arrampicano sul tronco degli alberi correndo tutto intorno,
a spirale!; E’ vietato per legge catturare, ferire o uccidere gli scoiattoli
rossi. E’ anche vietato distruggere i loro nidi.
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Commissione
Scientifica
Fauna
Le avventure continuano...
Attività di Luglio
Giovedì
03
Gruppo “SenzaEtà” - Parco Naturale della Lessinia
Ven/Dom 04/06 Gruppo GAM - Giochi tra le rocce di granito in Valle d’Aosta
Domenica
06
Cornone di Blumone - Gruppo Adamello
Sab/Dom 12/13 Traversata del Passo Zebrù - Rifugio Pizzini
Giovedì
17
Gruppo “SenzaEtà” - Monte Brento
Domenica
20
Monte Rite - Messner Museum Dolomites
Dom/Sab 20/26 Alta Via del Gran Paradiso
Sabato
26
Orto Botanico e Osservatorio Astronomico del Monte Baldo
Domenica
27
Il Giardino delle Rose di Re Laurino - Gruppo Catinaccio
Giovedì
31
Gruppo “SenzaEtà” - da Prada al Monte Baldo
Attività di Agosto
Sab/Dom
Sabato
02/03 Sasso della Croce - Dolomiti
16
Ferrata Piazzetta al Piz Boè - Gruppo Sella - Dolomiti
Sab/Dom
23/24 Gran Pilastro - Alpi Noriche
Mer/Dom
27/31 Punto Base in Valle Aurina
Sabato
30
Ferrata dei Finanzieri - Dolomiti
Attività di Settembre
Giovedì
04
Gruppo “SenzaEtà” - Valle di Scalve fino al Passo Campelli
Domenica
07
Gruppo GAM e FamilyCAI - Rifugio Val di Fumo - Gruppo Adamello
Domenica
14
Rifugio e Monte Mulaz - Gruppo Pale di San Martino
Mer/Gio
17/18 Gruppo “SenzaEtà” - Sentiero Glaciologico Val Martello e Waalwege
Domenica
21
Festa Sociale al Rifugio Cedron - Monte Baldo
Domenica
28
Bivacco Vigolana - Madonnina e Becco di Filadonna
... e nel prossimo numero
ancora: libri, storie, le avventure dei Soci, il magma e i vulcani, gli alberi, fiori, fauna,
ambiente e il quarto inserto dei ragazzi ...
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