5/3/2015 - Studio Ducoli

QUADERN
/ GIOVEDÌ, 05 MARZO 2015
ILCASODELGIORNO
PRIMOPIANO
Deduzione IRAP
“potenziata” senza
dichiarazione
sostitutiva
Nuove Norme di comportamento
del collegio sindacale al via
/ Luca FORNERO
/ Maurizio MEOLI
L’Agenzia delle Entrate – ci segnalano alcuni lettori – talvolta recupera a tassazione la deduzione
“potenziata” IRAP per dipendenti a
tempo indeterminato impiegati
nelle aree svantaggiate (Abruzzo,
Basilicata, Calabria, Campania,
Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia),
qualora non sia stata presentata
la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (ex art. 47 del DPR
445/2000) secondo quanto previsto dall’art. 16-bis comma 11 della L. 11/2005.
Ad avviso dell’Amministrazione finanziaria, infatti, in assenza del
predetto invio, la deduzione forfetaria può competere soltanto negli importi base.
In proposito, si ricorda che, per i
dipendenti impiegati nelle suddette Regioni, è deducibile, nei limiti delle regole relative agli aiuti
“de minimis”, un importo forfetario pari a 15.000 [...]
Con un giorno d’anticipo rispetto alla data programmata, il CNDCEC ha pubblicato ieri sul
proprio sito la versione preliminare delle nuove
Norme di comportamento del collegio sindacale delle società non quotate.
Tali norme – che, si ricorda, sono di deontologia professionale e rivolte a tutti i professionisti iscritti nell’Albo dei Dottori commercialisti e
degli Esperti contabili – verranno ora poste in
pubblica consultazione. Fino al 21 aprile 2015,
quindi, l’intera professione, al pari delle Istituzioni e di tutti i soggetti interessati, sono invitati
a presentare osservazioni e commenti mediante
contributi da inviare alla Fondazione Nazionale
dei Commercialisti al seguente indirizzo mail:
consultazione@fncommercialisti.it. Al termine
della consultazione, tenuto conto delle osservazioni pervenute, il CNDCEC approverà il testo
definitivo.
Le principali novità sono, in taluni casi, caratterizzate dalla creazione di nuove norme e, in altri, da mere modifiche o integrazioni di norme
esistenti. In linea generale, peraltro, si sottolinea
come, alla luce delle modifiche legislative intervenute sull’assetto dei controlli delle srl, le Norme di comportamento siano applicabili all’orga-
Pubblicata dal CNDCEC la versione preliminare, in pubblica
consultazione fino al 21 aprile
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no di controllo sia nella composizione collegiale che nella composizione monocratica
(sindaco unico), in quanto compatibili. Nei
commenti delle singole Norme, comunque, si
dà evidenza delle soluzioni interpretative e
operative che si ritengono applicabili in caso
di nomina del sindaco unico.
Tra gli aspetti di maggiore interesse si segnala, innanzitutto, come la Norma di comportamento 1.5, dopo l’abrogazione delle tariffe
professionali, sottolinei che il sindaco, all’atto della nomina, sia tenuto a valutare se la misura del compenso proposto è idonea a remunerare professionalità, esperienza e impegno
con i quali deve svolgere l’incarico, tenendo
conto del rilievo pubblicistico della funzione
svolta.
Tale valutazione deve essere effettuata prendendo, tra l’altro, in considerazione: l’ampiezza e la complessità dell’incarico (in relazione a natura, dimensione, anche economica,
complessità, settore di attività, assetto organizzativo e altre caratteristiche della società);
il documento riassuntivo delle attività espletate che il precedente collegio sindacale è invitato ad elaborare e trasmettere [...]
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INEVIDENZA
FISCO
Curatore cessato, compenso definitivo solo con la
chiusura del fallimento
Sequestro preventivo per dichiarazione infedele solo
nei limiti di quanto evaso
Percentuali di ricarico
da applicare su un
paniere “ragionato” di
beni
/ Alfio CISSELLO
Imposta ipotecaria sulle annotazioni da calcolare sul
prezzo di aggiudicazione
Classificazione doganale dei prodotti sanitari legata
agli “elementi pertinenti”
ALTRENOTIZIE
Sovente l’Agenzia delle Entrate procede alla
determinazione di ricavi presunti applicando
le c.d. “percentuali di ricarico”, e ciò trova
fondamento normativo nell’art. 62-sexies del
DL 331/93.
La percentuale di ricarico è, in sostanza, la
maggiorazione che l’impresa applica al prezzo di acquisto al fine di determinare [...]
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ancora
IL CASO DEL GIORNO
Deduzione IRAP “potenziata” senza
dichiarazione sostitutiva
Si tratta di agevolazione fruibile nei limiti delle regole relative agli aiuti “de minimis”
/ Luca FORNERO
L’Agenzia delle Entrate – ci segnalano alcuni lettori – talvolta recupera a tassazione la deduzione “potenziata” IRAP
per dipendenti a tempo indeterminato impiegati nelle aree
svantaggiate (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia), qualora non sia stata presentata la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (ex
art. 47 del DPR 445/2000) secondo quanto previsto dall’art.
16-bis comma 11 della L. 11/2005.
Ad avviso dell’Amministrazione finanziaria, infatti, in assenza del predetto invio, la deduzione forfetaria può competere soltanto negli importi base.
In proposito, si ricorda che, per i dipendenti impiegati nelle
suddette Regioni, è deducibile, nei limiti delle regole relative agli aiuti “de minimis”, un importo forfetario pari a
15.000 euro (anziché quello base di 7.500 euro), su base annua, elevato a 21.000 euro (anziché quello base di 13.500
euro), sempre su base annua, per i lavoratori di età inferiore
a 35 anni o di sesso femminile (si veda “Dal 2014 deduzioni
IRAP più elevate” del 3 maggio 2014).
A nostro avviso, le motivazioni poste dall’Agenzia delle Entrate a base del proprio operato appaiono prive di fondamento.
Al riguardo, occorre riepilogare brevemente il quadro normativo di riferimento.
L’art. 61 comma 1 lett. b) della L. 234/2012 (in vigore dal
19 gennaio 2013) ha abrogato il citato art. 16-bis comma 11
della L. 11/2005, in base al quale i destinatari degli aiuti di
cui all’art. 87 del Trattato CE (c.d. “aiuti di Stato”) potevano avvalersi di tali misure agevolative solo se dichiaravano,
ai sensi dell’art. 47 del DPR 445/2000, di non rientrare fra
coloro che hanno ricevuto e, successivamente, non rimborsato o depositato in un conto bloccato gli aiuti che sono stati
individuati quali illegali o incompatibili dalla Commissione europea. Per effetto di tale soppressione, deve ritenersi
che abbia perso efficacia anche la relativa disposizione attuativa, vale a dire il DPCM 23 maggio 2007, che aveva definito le modalità di effettuazione della suddetta dichiarazione.
Attualmente, il riferimento normativo della disciplina in oggetto è l’art. 46 della stessa L. 234/2012, che, in sintesi:
- ha ribadito il divieto di beneficiare di aiuti di Stato per coloro che hanno ricevuto e, successivamente, non rimborsato
o depositato in un conto bloccato gli aiuti che lo Stato è tenuto a recuperare in esecuzione di una decisione di recupero
/ EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 MARZO 2015
di cui all’art. 14 del Regolamento CE 22 marzo 1999 n.
659/1999;
- ha posto in capo alle Amministrazioni che concedono aiuti di Stato l’obbligo di verificare che i beneficiari non rientrino tra coloro che hanno ricevuto e, successivamente, non
rimborsato o depositato in un conto bloccato aiuti che lo Stato è tenuto a recuperare, secondo quanto sopra precisato;
- qualora la suddetta verifica sia effettuata mediante l’acquisizione di dichiarazioni effettuate ai sensi dell’art. 47 del
DPR 445/2000, ha stabilito che le Amministrazioni concedenti svolgano i prescritti controlli a campione sulla veridicità delle dichiarazioni medesime.
Obbligo insussistente anche nella disciplina previgente
Peraltro, anche prima del 19 gennaio 2013 (data di entrata
in vigore della L. 234/2012), la Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Dipartimento per il coordinamento delle politiche
comunitarie, con la nota 11 dicembre 2007 prot. n. 0010737,
aveva affermato che la dichiarazione non doveva essere presentata in relazione ad aiuti di Stato che, in base alle relative leggi istitutive, possono essere fruiti nei limiti stabiliti
dai regolamenti CE disciplinanti i c.d. regimi “de minimis”
(qual è, appunto, la deduzione “potenziata” per le aree svantaggiate). Pertanto, anche nella vigenza della precedente normativa, la dichiarazione non doveva essere resa qualora ci si
fosse avvalsi della deduzione “potenziata” (si veda la ris.
Agenzia delle Entrate n. 375/2007, che, sul punto, ha
superato il contrario orientamento espresso dalla circ.
Agenzia delle Entrate n. 61/2007).
Alla luce delle considerazioni sopra formulate, qualsiasi atto di recupero della deduzione “potenziata” fruita, fondato
sulla mancata presentazione della suddetta dichiarazione
sostitutiva, non appare motivato:
- né qualora sia relativo ai periodi d’imposta fino al 2012,
per via della citata prassi dell’Agenzia che ha escluso l’obbligo di invio;
- né qualora sia relativo ai periodi d’imposta dal 2013 in
avanti, alla luce del mutato quadro normativo di riferimento
che ha posto in capo all’Amministrazione interessata l’onere
di dover verificare la regolarità della situazione dei
beneficiari degli aiuti di Stato concessi.
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ancora
PROFESSIONI
Nuove Norme di comportamento del collegio
sindacale al via
Pubblicata dal CNDCEC la versione preliminare, in pubblica consultazione fino al 21
aprile
/ Maurizio MEOLI
Con un giorno d’anticipo rispetto alla data programmata, il
CNDCEC ha pubblicato ieri sul proprio sito la versione preliminare delle nuove Norme di comportamento del collegio
sindacale delle società non quotate.
Tali norme – che, si ricorda, sono di deontologia professionale e rivolte a tutti i professionisti iscritti nell’Albo dei Dottori commercialisti e degli Esperti contabili – verranno ora
poste in pubblica consultazione. Fino al 21 aprile 2015,
quindi, l’intera professione, al pari delle Istituzioni e di tutti i
soggetti interessati, sono invitati a presentare osservazioni e
commenti mediante contributi da inviare alla Fondazione
Nazionale dei Commercialisti al seguente indirizzo mail:
consultazione@fncommercialisti.it. Al termine della consultazione, tenuto conto delle osservazioni pervenute, il CNDCEC approverà il testo definitivo.
Le principali novità sono, in taluni casi, caratterizzate dalla
creazione di nuove norme e, in altri, da mere modifiche o
integrazioni di norme esistenti. In linea generale, peraltro, si
sottolinea come, alla luce delle modifiche legislative intervenute sull’assetto dei controlli delle srl, le Norme di comportamento siano applicabili all’organo di controllo sia nella
composizione collegiale che nella composizione monocratica (sindaco unico), in quanto compatibili. Nei commenti
delle singole Norme, comunque, si dà evidenza delle
soluzioni interpretative e operative che si ritengono
applicabili in caso di nomina del sindaco unico.
Tra gli aspetti di maggiore interesse si segnala, innanzitutto,
come la Norma di comportamento 1.5, dopo l’abrogazione
delle tariffe professionali, sottolinei che il sindaco, all’atto
della nomina, sia tenuto a valutare se la misura del compenso proposto è idonea a remunerare professionalità, esperienza e impegno con i quali deve svolgere l’incarico, tenendo conto del rilievo pubblicistico della funzione svolta.
Tale valutazione deve essere effettuata prendendo, tra l’altro,
in considerazione: l’ampiezza e la complessità dell’incarico (in relazione a natura, dimensione, anche economica,
complessità, settore di attività, assetto organizzativo e altre
caratteristiche della società); il documento riassuntivo delle attività espletate che il precedente collegio sindacale è invitato ad elaborare e trasmettere alla società, rendendo così
più chiari l’impegno temporale richiesto per lo svolgimento
dell’incarico, nonché le competenze professionali e l’esperienza necessarie. È anche precisato che la delibera di nomina può prevedere modalità di adeguamento del compenso
in caso di modifica delle attività o di significativo
/ EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 MARZO 2015
ampliamento del perimetro aziendale.
La predisposizione del documento sopra ricordato non è
l’unico onere configurato in capo ai sindaci uscenti. Nei criteri applicativi della nuova Norma 1.7, dedicata al “passaggio di consegne”, infatti, si precisa che i nuovi sindaci – al
fine di scongiurare eventuali pregiudizi alla società e di poter procedere, nel contempo, alla corretta esecuzione dell’incarico – devono ricevere da quelli uscenti piena collaborazione sia a livello informativo, sia attraverso la messa a disposizione di tutta la documentazione atta alla migliore comprensione circa l’esistenza dei rischi inerenti, compresa la
pronta consegna del libro dei verbali del collegio sindacale.
La nuova Norma 1.7, invece, afferma che ai sindaci neonominati spetta il controllo della pregressa gestione solo nel
caso di palesi irregolarità rilevabili nel corso della
programmata attività di vigilanza.
In relazione ai rapporti con l’OdV ex DLgs. 231/2001, la
Norma 5.5 precisa che il collegio sindacale acquisisce informazioni dallo stesso in merito alle funzioni assegnategli
dalla legge. Il collegio sindacale, inoltre, verifica che il modello organizzativo 231 preveda termini e modalità dello
scambio informativo dell’OdV a favore dell’organo amministrativo e dello stesso collegio sindacale. Ove, poi, in conformità con quanto consentito dall’art. 6 comma 4-bis del
DLgs. 231/2001, via sia piena coincidenza tra OdV e collegio sindacale, le due funzioni rimangono distinte, pur se
coordinate fra loro, e delle attività svolte nell’espletamento
delle stesse dovrà essere fornita separata documentazione.
Nel commento alla Norma 6.3, in tema di denunzia al Tribunale, infine, si ricorda come sul riconoscimento di tale
potere anche in capo all’organo di controllo obbligatorio di
srl sussistano differenti ricostruzioni. La soluzione contraria, propugnata dalla Cassazione (cfr. Cass. n. 403/2010),
seguita da una parte della giurisprudenza di merito (Trib. Firenze 25 ottobre 2011 e Trib. Piacenza 27 giugno 2012), infatti, non è condivisa da sempre più numerosi giudici (tra le
altre, Trib. Milano 26 marzo 2010, Trib. Venezia 13 marzo
2013 e Trib. Bologna 4 febbraio 2015), nonché, almeno sembrerebbe, dalla Consulta (ordinanza n. 116/2014).
A fronte di ciò, è ritenuto preferibile che, emergendo il sospetto di gravi irregolarità gestionali, il collegio sindacale o
il sindaco unico di srl propongano cautelativamente ricorso ai sensi dell’art. 2409 c.c., lasciando all’organo
giurisdizionale ogni decisione circa l’accoglimento
dell’istanza.
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ancora
FISCO
Percentuali di ricarico da applicare su un
paniere “ragionato” di beni
La Cassazione sancisce che occorre vagliare quale attività esercita il contribuente
/ Alfio CISSELLO
Sovente l’Agenzia delle Entrate procede alla determinazione di ricavi presunti applicando le c.d. “percentuali di ricarico”, e ciò trova fondamento normativo nell’art. 62-sexies del DL 331/93.
La percentuale di ricarico è, in sostanza, la maggiorazione
che l’impresa applica al prezzo di acquisto al fine di determinare il prezzo di vendita.
Si capisce, quindi, come detta tipologia di accertamento si
profili complicata se effettuata nei confronti di imprese che
commercializzano prodotti merceologicamente diversi, o
nei confronti di imprese che operano con caratteri di stagionalità ed hanno periodi di saldi e di liquidazioni.
Talvolta, la percentuale viene determinata prendendo come
punto di riferimento le medie di settore, oppure quelle
utilizzate dallo stesso contribuente per anni antecedenti o
successivi a quello accertato.
È molto agevole comprendere che una siffatta metodologia
di accertamento, se non circondata da cautele, è potenzialmente idonea a sfociare in una rettifica contraria alla capacità contributiva. Quasi non esiste un soggetto commerciale
che acquista e vende un solo tipo di prodotto, il cui prezzo
non è influenzato da nessuna variabile: solo in presenza di
un siffatto contesto sarebbe ammissibile, ad esempio, prendere come base il ricarico applicato da un contribuente esercente la stessa attività, oppure, come affermato, riferirsi ai
ricarichi di diverse annualità d’imposta.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4312 depositata
ieri, ha enunciato postulati alquanto importanti su queste
modalità di accertamento.
Il principio di diritto a cui dovrà attenersi il giudice del rinvio è, tra l’altro, il seguente: la quantificazione induttiva dei
ricavi “deve avvenire adottando un criterio che sia coerente
/ EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 MARZO 2015
con la natura e le caratteristiche dei beni presi in esame, applicato ad un campione di beni scelti in modo appropriato
e fondato su una media aritmetica o ponderata, scelta in base alla composizione del campione dei beni”.
Principio valido anche nell’induttivo “puro”
Nel caso di specie, pare che i verificatori abbiano paragonato i prezzi di acquisto e quelli di vendita suggeriti dai listini dei fornitori, circostanza di per sè stucchevole, in quanto
il contribuente può discostarsi dai listini per innumerevoli
motivi.
Se ci sono merci eterogenee, non è possibile vagliare solo
alcuni prodotti commercializzati per poi applicare il ricarico
presunto su beni che, dal punto di vista merceologico, hanno
caratteristiche diverse.
Inoltre, mai si può prescindere dalla concreta attività del
contribuente; come evidenziato nel punto 4.2.4, se egli vende sia al dettaglio sia all’ingrosso, bisogna vagliare tale fatto, e non limitarsi ai dati che emergono dai listini di vendita.
Il raffronto tra il prezzo di acquisto e quello di vendita non
va eseguito su un inventario generale delle merci, in quanto
per supporre ricavi non dichiarati le presunzioni devono essere gravi, precise e concordanti.
Ma anche nell’accertamento induttivo-extracontabile (artt.
39 comma 2 del DPR 600/73 e 55 del DPR 633/72) non si
può giungere a conclusioni opposte. Vero è che in questa
evenienza bastano presunzioni “semplicissime” (anche non
gravi, precise e concordanti), ma la determinazione del
reddito non può mai prescindere dalla capacità contributiva,
per cui sarà sempre necessaria una motivazione sul perché e
sul come è stata utilizzata una certa percentuale di ricarico.
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ancora
IMPRESA
Curatore cessato, compenso definitivo solo
con la chiusura del fallimento
Prima della conclusione della procedura può essere attribuito esclusivamente un
acconto sul futuro onorario
/ Michele BANA
È illegittimo il provvedimento che dispone, nel corso del
fallimento, la liquidazione definitiva del compenso spettante al curatore che ha rinunciato all’incarico, la cui istanza
avrebbe dovuto, pertanto, essere dichiarata improponibile.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n.
4378 depositata ieri, accogliendo il ricorso presentato dal curatore cessato, avverso il decreto di liquidazione “a titolo di
compenso finale” per l’attività espletata nel corso di quasi
quattro anni di procedura.
È stata, quindi, ritenuta condivisibile la denuncia di violazione dell’art. 39 L. fall., nel testo vigente anteriormente
alla modifica di cui al DLgs. 5/2006: in particolare, è stato
osservato che il provvedimento impugnato è stato illegittimamente emesso nel corso della procedura di liquidazione
fallimentare, atteso che – salva la facoltà di liquidare acconti, nel caso di specie non esercitata – non è possibile provvedere, prima che il fallimento sia portato a termine, alla liquidazione definitiva del compenso del curatore cessato.
In altri termini, al provvedimento impugnato, risultando testualmente diretto alla liquidazione del compenso e non di
un mero acconto sull’onorario finale, è stata attribuita la natura decisoria e definitiva propria delle sentenze, con quanto ne consegue ai fini dell’applicabilità dell’art. 111, comma
7, Cost., come già affermato dalle Sezioni Unite della Corte
di Cassazione, con la sentenza n. 26730/2007. In tale sede, i
giudici di legittimità, con riferimento ad una fattispecie identica a quella in commento, avevano affermato, risolvendo un
precedente contrasto giurisprudenziale, il seguente principio
di diritto: al curatore cessato dalla carica prima della conclusione del fallimento, anche nel vigore del testo originario
dell’art. 39 L. fall., può essere attribuito un acconto sul futuro compenso, ma tale onorario non può, invece, essere liquidato in via definitiva prima che la procedura concorsuale sia giunta a compimento.
A tale conclusione, che il nuovo testo della predetta disposizione introdotto dal DLgs. 5/2006 afferma espressamente, si
deve pervenire, a parere della Corte di Cassazione, pure con
riguardo alle procedure iniziate prima di tale intervento legislativo, sulla base di un’interpretazione logico-sistematica
della normativa precedente: in virtù di questo orientamento,
si deve considerare principalmente la necessità di una valutazione unitaria dei fatti della procedura concorsuale rilevanti ai fini della liquidazione del compenso spettante agli
/ EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 MARZO 2015
organi del fallimento, poiché il contributo di ciascun curatore ai risultati della procedura si può valutare esclusivamente con le operazioni di chiusura della stessa.
Posizioni dei curatori susseguitisi da esaminare in
termini omogenei
In altre parole, neppure il criterio di commisurazione del
compenso all’attivo realizzato e al passivo accertato, secondo il DM 30/2012, è ritenuto decisivo per imputare ad ogni
curatore le rispettive quote individuate con esclusivo riferimento alla data di cessazione della carica, operando unicamente come parametro di valutazione e limite: le posizioni dei curatori susseguitisi nel corso della procedura devono
essere esaminate come concorrenti ed in termini omogenei,
presupponendo un allineamento temporale possibile soltanto
quando la procedura sia giunta al termine. Tale criterio non
implica, infatti, alcun automatismo nell’imputazione all’uno
o all’altro curatore della quota di compenso ad esso spettante: la realizzazione dell’attivo e l’accertamento del passivo costituiscono esclusivamente il punto terminale di attività ed adempimenti che si sono svolti in precedenza, e sono
destinati a concatenarsi con ulteriori incombenti da
assolvere in momenti successivi.
Questa circostanza è, pertanto, sufficiente a dimostrare come non possa costituire un criterio logico soddisfacente
quello che lega la liquidazione del compenso del curatore
cessato alla situazione dell’attivo e del passivo fallimentare
individuata, quasi in guisa di una statica fotografia,
nell’istante della propria cessazione dall’incarico, finendo
così col trascurare il carattere naturalmente dinamico della procedura e il legame delle molteplici attività in cui essa si
sviluppa. Conseguentemente, soltanto al momento della conclusione del fallimento è possibile stabilire, nell’ambito di
un compenso idealmente riferibile all’intera procedura, la
quota spettante a ciascuno dei curatori che hanno concorso
alla sua definizione: ne deriva, quindi, l’improponibilità
processuale, rilevabile d’ufficio, della domanda di liquidazione del compenso formulata dal cessato curatore prima
del termine del fallimento (Cass. n. 10455/2014), ferma restando la possibilità di attribuzione di un acconto sul futuro
onorario finale.
/ 05
ancora
IMPRESA
Sequestro preventivo per dichiarazione
infedele solo nei limiti di quanto evaso
Ciò è legittimo quando il reato di cui all’art. 4 del DLgs. 74/2000 può integrare i reati
presupposto di riciclaggio e di reimpiego
/ Maria Francesca ARTUSI
Il reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 del DLgs.
74/2000 può integrare il reato presupposto sia di riciclaggio (art. 648-bis c.p.) che di reimpiego (art. 648-ter c.p.),
rendendo legittimo il sequestro preventivo del profitto, anche per equivalente, ex art. 640-quater c.p., ma solo entro i
limiti dell’importo dell’imposta evasa. Sono queste le indicazioni che emergono dalla sentenza n. 9392 della Corte di
Cassazione, depositata ieri e attinente a un caso che oggi, in
esito all’introduzione della fattispecie di autoriciclaggio, appare di particolare attualità.
Al rappresentante legale di una società “familiare” veniva
contestato il delitto di dichiarazione infedele attraverso l’occultamento di una serie di operazioni, il cui importo veniva, dapprima, “sostituito” con assegni e vaglia circolari e,
poi, “reimpiegato” nella società a titolo di finanziamento
soci ascritto pro quota ai membri della famiglia. Da qui, la
contestazione altresì del reato di riciclaggio – in ragione della condotta di sostituzione – e di impiego di denaro, beni o
utilità di provenienza illecita. Il Tribunale del Riesame, tuttavia, escludeva la sussistenza di quest’ultima fattispecie
per il tramite dell’operatività della clausola di riserva e, in
relazione alle rimanenti, disponeva il sequestro preventivo
per equivalente parametrato al valore dell’imposta evasa.
Avverso tale provvedimento ricorreva per Cassazione il Pubblico Ministero, ritenendo necessario riferirsi non tanto
all’imposta evasa, quanto all’importo complessivo dei ricavi derivanti dal reato, trattandosi di una somma: avente certamente natura delittuosa; che veniva “riciclata” dagli indagati assurgendo a “prodotto” (confiscabile) del delitto di
cui all’art. 648-bis c.p.; ripulita e reimmessa nella società,
con un’attività da considerarsi “profitto” dell’operazione.
Si contestava, inoltre, la ritenuta insussistenza del fumus in
relazione alla fattispecie di reimpiego, dovendo ritenersi che
la clausola “fuori dai casi di concorso nel reato e dei casi di
cui agli artt. 648 e 648-bis c.p. ...” scrimini solo le condotte
di reimpiego direttamente poste in essere dall’autore della
stessa condotta generatrice della utilità delittuosa poi reimpiegata.
Diversamente, nel caso di specie, né il rappresentante legale della società aveva concorso nella commissione del “riciclaggio” – da intendersi quale reato presupposto del “reimpiego” –, né l’altro imputato aveva avuto alcun ruolo nel
delitto di dichiarazione infedele (presupposto del
riciclaggio commesso dal rappresentante legale).
La Cassazione, tuttavia, ha ritenuto infondate tali doglianze,
/ EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 MARZO 2015
provvedendo ad argomentare attraverso il richiamo alla nozione di profitto confiscabile nei reati tributari e attraverso
l’analisi dei rapporti tra riciclaggio (e reimpiego) e i reati
che ne sono presupposto.
Innanzitutto, viene precisato che il profitto del delitto tributario non va identificato con l’imponibile sottratto a tassazione, bensì nell’importo corrispondente all’imposta evasa.
Pertanto, correttamente il Tribunale avrebbe ritenuto sovrapponibile tale profitto rispetto a quello derivante dalla condotta di riciclaggio, per il quale rispondono sia gli imputati, sia
la società stessa in forza dell’art. 25-octies del DLgs.
231/2001.
L’elemento centrale da cui prende le mosse la presente sentenza riguarda la clausola di riserva contenuta nell’incipit
sia dell’art. 648-bis che dell’art. 648-ter, e in particolare la
domanda se il riciclaggio e il reimpiego di denaro posti in
essere dai partecipi dei delitti dai quali tali condotte provengono (nel caso di specie, i reati fiscali contestati) possano
determinare l’insorgere di una responsabilità ulteriore rispetto a quella che deriva secondo le norme generali del concorso di persone (art. 110 c.p.).
Molto complessa resta, infatti, la corretta interpretazione
del rapporto tra riciclaggio e reati presupposto, di cui si
sono recentemente occupate anche le Sezioni Unite (SS.UU.
n. 25191 del 13 giugno 2014).
Questione, tra l’altro, destinata a complicarsi ulteriormente a
fronte della recente introduzione del c.d. autoriciclaggio
(art. 648-ter.1 c.p.).
La ricostruzione dogmatica della clausola “fuori dei casi di
concorso...” ha visto fronteggiarsi le tesi del principio di
sussidiarietà e del principio dell’assorbimento o consunzione, chiamando in causa categorie quali quella del ne bis
in idem sostanziale e del post factum non punibile.
Tralasciando in questa sede il dibattito più strettamente penalistico, è interessante evidenziare che la pronuncia in commento, uniformandosi al principio affermato dalle citate Sezioni Unite, ritiene le disposizioni sul riciclaggio e il reimpiego una deroga al concorso di reati, che trova la sua ragion d’essere nella valutazione, tipizzata dal legislatore, di
ritenere l’intero disvalore dei fatti ricompresi nella punibilità del solo delitto presupposto.
Dunque, dal momento che la dichiarazione infedele del rappresentante legale funge, nel caso concreto, da reato presupposto per il riciclaggio, solo l’ammontare della somma
evasa può costituire oggetto del sequestro.
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ancora
FISCO
Imposta ipotecaria sulle annotazioni da
calcolare sul prezzo di aggiudicazione
L’Agenzia chiarisce i criteri per determinare la base imponibile per le annotazioni da
eseguire in caso di trasferimento di un bene espropriato
/ Anita MAURO
La base imponibile dell’imposta ipotecaria da applicare per
le annotazioni da eseguire in forza di decreto di trasferimento del bene espropriato è costituita dal minore valore tra
l’ammontare del credito garantito ed il prezzo di aggiudicazione degli immobili trasferiti, a prescindere dalla
circostanza che gli immobili liberati costituiscano l’intero
compendio oggetto dell’ipoteca. Queste sono le conclusioni
cui perviene l’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 8 di
ieri.
Nel documento di prassi viene esaminato il trattamento impositivo delle domande di annotazione nei registri immobiliari, presentate a seguito dell’ordine di cancellazione delle
trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie,
emesso dal giudice in sede di trasferimento del bene espropriato, con particolare riferimento al caso in cui il bene
trasferito sia il solo oggetto dell’ipoteca.
In particolare, all’Agenzia delle Entrate è stato chiesto se, in
tal caso, la base imponibile dell’imposta ipotecaria da applicare per l’annotazione nei registri immobiliari debba essere commisurata:
- all’ammontare del credito garantito, ai sensi dell’art. 3
comma 1 del DLgs. 347/90;
- ovvero, al minor valore tra quello del credito garantito e
quello dell’immobile liberato, determinato secondo le
disposizioni relative all’imposta di registro, ai sensi del
comma 3 dell’art. 3 citato.
In primo luogo, quindi, delineando i profili civilistici
dell’istituto, la circ. n. 8/2015 ricorda che, a norma dell’art.
586 c.p.c., nell’ambito dell’espropriazione immobiliare, il
decreto di trasferimento è l’atto esecutivo con il quale il giudice dell’esecuzione trasferisce il bene oggetto di espropriazione e ordina che questo sia liberato dalle formalità
pregiudizievoli su di esso gravanti, rispondendo, così,
all’interesse dell’aggiudicatario di ricevere il bene
espropriato privo da vincoli (atteso che questi ultimi hanno
esaurito la loro funzione a seguito della vendita forzata).
Ad avviso dell’Agenzia, il provvedimento emesso dal giudice dell’esecuzione in tale contesto risulta essere oggettivamente riferito al bene ovvero ai beni espropriati, atteggiandosi come una “cancellazione parziale”. Ma – aggiunge la
circolare, proseguendo il ragionamento – la “cancellazione
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parziale” della formalità ipotecaria, circoscritta ai beni indicati nel decreto di trasferimento, altro non è, sotto un profilo operativo, che un’annotazione di restrizione di ipoteca su
beni.
D’altro canto, poi, qualora la “cancellazione parziale” liberi
beni che costituiscono, di fatto, l’intero compendio, oggetto della trascrizione di pignoramento o della iscrizione ipotecaria da annotare, la stessa ha un effetto assimilabile a quello di una cancellazione totale: ciò in quanto produce, in
concreto, la liberazione di tutti gli immobili gravati dalla
formalità.
Da queste considerazioni di carattere civilistico, l’Amministrazione finanziaria desume il corretto trattamento fiscale
della fattispecie.
In particolare, l’assimilazione alla restrizione di ipoteca
comporta l’applicabilità dell’art. 3 comma 3 del DLgs.
347/90, secondo cui l’imposta ipotecaria dovuta sull’annotazione per restrizione di ipoteca è commisurata al minore tra:
- il valore del credito garantito;
- il valore degli immobili o parti di immobili liberati.
Il valore degli immobili espropriati, poi, va determinato
(per espresso rinvio alle norme concernenti l’imposta di registro), facendo applicazione dell’art. 44 del DPR 131/86, a
norma del quale la base imponibile dell’imposta di registro
per i beni acquistati in sede di espropriazione forzata va individuata nel prezzo di aggiudicazione.
Non si applica il prezzo valore
Tuttavia – aggiunge l’Agenzia – in relazione all’ipotesi di
restrizione di ipoteca a seguito di aggiudicazione dell’immobile espropriato, non può trovare applicazione il “prezzo
valore”.
Infatti, nonostante la pronuncia della Consulta n. 6/2014 abbia affermato l’incostituzionalità dell’art. 44 del DPR
131/86 ove non consente l’applicabilità del prezzo valore
agli acquisti all’asta, non si può ritenere che un’agevolazione, prevista per le “cessioni”, si trasmetta automaticamente
ad ogni formalità che rinviene il suo titolo nel decreto di
trasferimento.
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ancora
FISCO
Classificazione doganale dei prodotti
sanitari legata agli “elementi pertinenti”
Per la Corte di Giustizia, la nomenclatura combinata va interpretata tenendo conto di
una serie di fattori relativi a caratteristiche e proprietà oggettive
/ Vincenzo CRISTIANO
Con la sentenza 4 marzo 2015, relativa alla causa C-547/13,
la Corte di Giustizia ha stabilito che la nomenclatura combinata di cui all’allegato I del regolamento (CEE) n.
2658/87 del Consiglio, del 23 luglio 1987, così come ulteriormente modificata nelle versioni successive, dev’essere
interpretata nel senso che, per accertare se determinati prodotti debbano essere classificati quali strumenti o apparecchi per la medicina (voce 9018 n. c.) o quali apparecchi di
meccanoterapia (voce 9019 n. c.), piuttosto che quali apparecchi elettrici con una funzione specifica (voce 8543 n. c.),
si deve tenere conto di una pluralità di elementi, nella misura in cui siano relativi a caratteristiche e proprietà oggettive inerenti a tali prodotti.
In via preliminare, la Corte chiarisce che, quando è adita con
rinvio pregiudiziale in materia di classificazione doganale
come nel caso in controversia, la sua funzione consiste nel
chiarire al giudice nazionale “i criteri la cui attuazione gli
permetterà di classificare correttamente nella NC i prodotti di cui trattasi, piuttosto che nel procedere essa stessa a tale
classificazione, tanto più che non dispone necessariamente di
tutti gli elementi indispensabili al riguardo”. In effetti, il giudice nazionale appare, in ogni caso, collocato nella posizione più favorevole per procedere a tale operazione (cfr. sentenza 15 maggio 2014, Data I/O, causa C-297/13, punto 36 e
giurisprudenza ivi citata).
Tanto premesso, i giudici comunitari, chiamati a pronunciarsi in ordine alla corretta classificazione doganale di apparecchi destinati al trattamento di problemi dermovascolari e dermatologici nella NC e il cui funzionamento prevede
il ricorso alla tecnologia laser e a una tecnologia che utilizza
luce ad alta intensità, non si limitano a fornire una nozione di
genere, giacché segnalano la necessità di elementi pertinenti (cfr. sentenze 18 maggio 2011, Delphi Deutschland,
causa C-423/10, punto 23 e giurisprudenza citata e 18 luglio
2007, Olicom, causa C-142/06, punto 18).
In particolare, si devono valutare l’uso cui tali prodotti sono
destinati dal fabbricante, nonché le modalità e il luogo di
utilizzazione di questi ultimi. Sono proprio, a giudizio della
Corte, la destinazione dei prodotti al trattamento di una o di
diverse patologie e il fatto che tale trattamento debba essere
/ EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 MARZO 2015
eseguito in un centro sanitario autorizzato e sotto il controllo di un medico a costituire indizi idonei a stabilire che
detti prodotti sono destinati a fini medici.
Si ricorda che ricade sull’importatore, al momento dell’importazione stessa, l’onere della prova che detto prodotto è
destinato a fini medici.
Diversamente, il fatto che i prodotti siano semplicemente finalizzati a miglioramenti estetici e la loro possibile manipolazione al di fuori di un ambito sanitario (ad esempio in un
centro estetico e senza l’intervento di un medico) sarebbero
indizi idonei a escludere che detto prodotto sia destinato a
fini medici.
A tale riguardo, dal punto di vista tecnico, giova sottolineare
che per apparecchi meccanoterapici si intendono quegli
apparecchi utilizzati essenzialmente per la cura delle malattie delle articolazioni o dei muscoli di cui essi cercano di
riattivare meccanicamente i diversi movimenti. Poiché, come chiariscono i giudici, tale metodo di cura viene generalmente effettuato secondo le direttive o il controllo di un medico, ne consegue che “gli apparecchi della specie non devono essere confusi con quelli abitualmente usati per
l’educazione fisica propriamente detta o per la ginnastica
cosiddetta medica, usati in casa o in palestre specializzate”.
Come esattamente chiarito dalla Corte (cfr. punto 53 della
sentenza in commento), la circostanza che un prodotto sia
provvisto della certificazione CE attestante la conformità di
un dispositivo medico alle disposizioni della direttiva
93/42/CEE costituisce un elemento, tra gli altri, da esaminare.
Tuttavia, dal momento che la direttiva 93/42/CEE persegue
obiettivi diversi da quelli della nomenclatura combinata,
la circostanza che un prodotto sia provvisto della certificazione CE non può essere dirimente al fine di valutare se
quest’ultimo sia destinato a fini medici ai sensi della voce
9018 della nomenclatura combinata.
Il ragionamento della Corte, infine, non si fonda soltanto su
considerazioni di tipo qualitativo del prodotto in esame, ma
anche di tipo quantitativo. Si osserva, infatti, che le dimensioni, il peso e la tecnologia utilizzata non costituiscono elementi determinanti per la classificazione dei prodotti.
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ancora
PROFESSIONI
Possibili pesanti sanzioni per chi non
rispetta l’obbligo di POS
La “denuncia” arriva da UNAGRACO, con riferimento a un Ddl. in materia, presentato in
Senato il 22 gennaio ma non ancora assegnato
/ REDAZIONE
Agevolazioni fiscali per chi ottempera all’obbligo, a cui fanno da contraltare sanzioni via via più salate, fino alla sospensione, per gli inadempienti: in sintesi, sono queste le
misure contenute nel Ddl. n. 1747, contenente disposizioni
sull’obbligo, per i soggetti che effettuano l’attività di vendita di prodotti e di prestazione di servizi, anche professionali,
di dotarsi di adeguati strumenti di pagamento elettronici
per pagamenti superiori ai 30 euro. Il provvedimento è stato
presentato il 22 gennaio dai senatori di AP (NCD-UDC) Piero Aiello, Antonio Gentile, Giovanni Bilardi e Ulisse Di
Giacomo, ma non ancora assegnato. Dopo altre realtà professionali, ieri anche UNAGRACO si è soffermata sul Ddl.
Al riguardo, si ricorda che, in base all’art. 15 comma 4 del
DL n. 179/2012, come modificato dall’art. 9 comma 15-bis
del DL n. 150/2013, “dal 30 giugno 2014, i soggetti che effettuano l’attività di vendita di prodotti e di prestazione di
servizi, anche professionali, sono tenuti ad accettare anche
pagamenti effettuati attraverso carte di debito”. Sono in
ogni caso fatte salve le disposizioni del DLgs. 231/2007 (in
materia di obblighi antiriciclaggio). Per consentire i pagamenti con carte di debito occorre munirsi di un POS.
Inoltre, la disciplina si applica a tutti i pagamenti di importo
superiore a 30 euro, disposti a favore di imprese o
professionisti, per acquisto di prodotti o prestazione di
servizi (art. 2 comma 1 del DM 24 gennaio 2014).
Sulla questione, nei mesi scorsi, è stato aperto un tavolo al
Ministero dello Sviluppo economico (si veda “Avviato dal
Governo il confronto sull’obbligo di POS” del 17 luglio
2014). E, se il Governo, da un lato, si è impegnato ad accrescere la trasparenza e ridurre le commissioni (si veda “Il
Governo s’impegna ad abbattere i costi fissi del POS” del 28
novembre 2014) e, dall’altro, ha sottolineato che il tavolo
tecnico sta valutando diversi aspetti, tra cui quello delle sanzioni, oltre all’ipotesi di una norma agevolativa che potrebbe essere strutturata con il meccanismo del credito d’imposta (si veda “Non scontate le sanzioni per chi non si dota del
POS” del 7 novembre 2014), di “nero su bianco”, al momento, anche se non ha ancora iniziato l’iter parlamentare,
c’è il citato Ddl.
Nel dettaglio, il provvedimento – come spiega anche UNAGRACO nel comunicato – dispone, per i soggetti interessati
che si dotano di POS come previsto dalla legge, il diritto ad
Agevolazioni fiscali consistenti nella detrazione dall’imponibile reddituale del costo percentuale di ogni transazione
/ EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 MARZO 2015
eseguita tramite strumenti elettronici di pagamento.
Al contempo, però, ai soggetti sui quali grava l’obbligo di
dotarsi di adeguati strumenti per pagamenti superiori a 30
euro e che ancora non abbiano adempiuto, è irrogata una
sanzione amministrativa pecuniaria pari a 500 euro, con obbligo di adeguarsi alle previsioni normative entro 30 giorni
dalla notifica della sanzione.
L’irrogazione della sanzione ha luogo a seguito di segnalazione da parte del fruitore del servizio cui sia stata negata la
possibilità di pagare con strumenti elettronici importi superiori a 30 euro. A tal fine, l’utente del servizio deve segnalare la violazione ai competenti uffici della Guardia di Finanza, che provvedono alle opportune verifiche e a irrogare
la sanzione amministrativa, se la violazione è stata accertata.
I controlli sulla dotazione di adeguati strumenti di pagamento elettronici possono scattare anche su impulso della stessa
GdF.
Entro 60 giorni dalla notifica del provvedimento sanzionatorio, l’interessato deve comunicare all’ufficio l’avvenuto
adeguamento con le modalità indicate nella sanzione.
Ancora, in caso di mancata comunicazione o se il soggetto
non si dota di strumenti di pagamento elettronici secondo la
normativa vigente o a darne comunicazione, è irrogata a suo
carico una sanzione amministrativa pecuniaria pari a 1.000
euro, con ulteriori 30 giorni di tempo per conformarsi alle
previsioni normative.
Infine, se, trascorso quest’ultimo termine, l’interessato non
provvede a dotarsi di POS, le Fiamme Gialle possono disporre la sospensione dell’attività professionale e
commerciale fino al completo adeguamento.
“In questo momento di crisi generale in cui i professionisti
stentano a ricevere i compensi ordinari per carenza di liquidità e di totale stagnazione dell’economia, inserire l’obbligatorietà dell’istituzione del POS con sanzioni così elevate risulta essere anacronistica e addirittura dannosa” ha commentato il Presidente nazionale UNAGRACO Giuseppe Diretto –. Mi sembra doveroso evidenziare che noi commercialisti, da anni, rappresentiamo un fronte contro l’evasione”,
ragion per cui “non possiamo condividere questo ulteriore
strumento che il legislatore ha individuato per perseguire la
lotta al cosiddetto «nero». L’introduzione dei POS premia
solo gli istituti bancari, che, fra commissioni, costi di
installazione, costi di chiamata e canoni, diverranno soci dei
nostri studi”.
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ancora
FISCO
Pronta la causale contributo per il recupero
dell’addizionale CIG
Dovrà essere utilizzata per il versamento, tramite modello F24, delle somme dovute
/ REDAZIONE
Con la risoluzione n. 24, pubblicata ieri, 4 marzo 2015,
l’Agenzia delle Entrate ha istuito la causale contributo
“RCAD” per il versamento, mediante modello F24, delle
somme dovute a titolo di contributo addizionale Cassa integrazione guadagni (CIG) a seguito dell’attività di recupero.
Si ricorda che, con la convenzione del 18 giugno 2008 e
successivi rinnovi stipulata tra l’Agenzia delle Entrate e
l’Istituto nazionale previdenza sociale (INPS) è stato regolato il servizio di riscossione, mediante il modello F24, per il
versamento dei contributi di spettanza dell’Istituto, nonché
di quelli previsti dalla legge 4 giugno 1973 n. 311.
L’INPS aveva chiesto, per l’attività di recupero del contributo addizionale CIG (Cassa integrazione guadagni), disciplinato dalla legge 20 maggio 1975 n. 164, l’istituzione di
una nuova causale contributo.
Ai sensi dell’art. 12 della citata legge, tra i proventi che alimentano la CIG c’è il contributo addizionale a carico delle
imprese che si avvalgono degli interventi di integrazione
salariale nella misura dell’8% dell’integrazione salariale
corrisposta ai propri dipendenti, ridotta al 4% per le imprese fino a 50 dipendenti, che deve essere versato, in sede di
conguaglio, alla Cassa integrazione guadagni.
Il contributo addizionale non è dovuto, invece, quando
l’integrazione salariale è corrisposta per sospensione o riduzione dell’orario di lavoro determinante da eventi oggettivamente non evitabili.
Per consentire il versamento, tramite modello F24, delle
somme dovute per il recupero del contributo addizionale per
la Cassa integrazione guadagni, la ris. in commento ha istituito la causale contributo “RCAD”, denominata “Recupero
contributo addizionale CIG”.
Istruzioni per la compilazione del modello F24
Nella compilazione del modello F24, tale causale deve essere indicata nella sezione “INPS”, nel campo “causale contributo”, in corrispondenza, esclusivamente, delle somme indicate nella colonna “importi a debito versati”.
Devono, inoltre, essere inseriti:
- nel campo “codice sede”, il codice della sede INPS competente;
- nel campo “matricola INPS/codice INPS/filiale azienda”, la
matricola INPS dell’azienda;
- nel campo “periodo di riferimento”, nella colonna “da
mm/aaaa”, è indicato il mese e l’anno di riscossione del
contributo, nel formato “MM/AAAA; la colonna “a
mm/aaaa”, invece, non deve essere valorizzata.
Direttore Responsabile: Michela DAMASCO
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