anno 64 novembre 2014 11 Ebola, solidarietà globale Una proposta per il Reddito di inclusione sociale Comunità internazionale Ebola Mass-media Spending review Expo 2015 Lavoro dignitoso Inclusione sociale Discriminazione razziale aggiornamenti sociali Spending review: spendere meno o spendere meglio? aggiornamenti sociali ABBONAMENTI 2015 orientarsi nel mondo che cambia Carta Ordinario Ridotto Sostenitore Estero Digitale Web Tablet € 35 € 28 Minori di 25 anni e promozioni speciali € 65 € 55 € 28 Accesso ai soli pdf online, pagamenti solo con carta di credito sul sito € 25,99 Sottoscrizione e pagamento su edicola Apple e Ultima Kiosk www.aggiornamentisociali.it aggiornamenti sociali Aggiornamenti Sociali è una rivista dei gesuiti che da oltre sessant’anni affronta gli snodi cruciali della vita sociale, politica ed ecclesiale articolando fede cristiana e giustizia. Offre strumenti per orientarsi in un mondo in continuo cambiamento, con un approccio interdisciplinare e nel dialogo tra azione e riflessione sociale. È frutto del lavoro di una équipe redazionale composta da gesuiti e laici delle sedi di Milano e di Palermo e di un ampio gruppo di collaboratori qualificati. Aggiornamenti Sociali fa parte della rete delle riviste e dei Centri di ricerca e azione sociale dei gesuiti in Europa (Eurojess), e della Federazione «Jesuit Social Network-Italia Onlus». anno 65 / 11 novembre 2014 Direttore responsabile: Giacomo Costa SJ Direttore emerito: Bartolomeo Sorge SJ Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo, compresa stampa, copia fotostatica, microfilm e memorizzazione elettronica, se non espressamente autorizzata per iscritto. © Fondazione Culturale San Fedele IT ISSN 0002-094X Registrazione Tribunale di Milano 18-11-1960 n. 5442 La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 250. Chiuso in tipografia il: 20/10/2014. Il fascicolo precedente è stato consegnato alle poste di Milano (CMP Roserio) per la spedizione il 2/10/2014. Redazione: Stefano Bittasi SJ, Paolo Foglizzo, Chiara Tintori, Giuseppe Riggio SJ, Giuseppe Trotta SJ A Palermo: Emanuele Iula SJ, Giuseppe Notarstefano, Giuseppina Tumminelli Comitato di consulenza scientifica: Floriana Cerniglia, Chiara Giaccardi, Berardino Guarino, Antonio La Spina, Mauro Magatti, Giulio Parnofiello SJ, Antonietta Pedrinazzi, Luca R. Perfetti, Filippo Pizzolato, Massimo Reichlin, Giuseppe Verde, Tommaso Vitale Editing: Francesca Ceccotti Segreteria e layout: Cinzia Giovari Progetto grafico: Amelia Verga Editore: Fondazione Culturale San Fedele Piazza San Fedele 4, 20121 Milano www.sanfedele.net Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano editoriale novembre 2014 Giacomo Costa SJ Ebola, o le basi biologiche della solidarietà 709-716 I primi casi di Ebola registrati in Occidente hanno attirato l’attenzione su quello che era prima considerato un problema di Paesi remoti. L’approccio solidale, fondato sull’interdipendenza che lega tutti gli uomini, è l’unica via per attuare una protezione globale. mappe Africa | Governance globale | Medicina | Mercato | Organizzazione mondiale della sanità | Prevenzione delle malattie | Ricerca medica | Salute | Solidarietà oltre la notizia Alleanza contro la povertà in Italia Per un piano nazionale contro la povertà. La proposta del Reddito di inclusione sociale (REIS) 718-724 Il 14 ottobre 2014 l’Alleanza contro la povertà in Italia ha presentato una proposta per la progressiva introduzione di una misura universale di sostegno al reddito di quanti vivono in condizione di povertà assoluta. Acli | Caritas | Disuguaglianza sociale | Movimento sociale | Reddito | Povertà | Rete sociale | Vita sociale | Welfare italiana inclusione sociale di 725 scheda / reti L’Alleanza contro la povertà in Italia approfondimenti Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi Spending review all’italiana 726-736 L’espressione “spending review” non è sinonimo di generici tagli alla spesa pubblica, bensì un suo articolato processo di monitoraggio, valutazione e revisione. Ne presentiamo la storia e le applicazioni nel nostro Paese. Debito fiscale pubblico | Finanza | Spesa pubblica pubblica | Finanziamento dei partiti | Governo | Politica scheda / geo La spending review nel mondo Paolo Carelli I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni 737 738-748 La storia dello sviluppo della radio e della televisione nel mondo arabo aiuta a comprendere le dinamiche di una regione complessa, dove politica, comunicazione e opinione pubblica si intrecciano con modalità diverse. Egitto | Fiction | Informazione | Mezzi di comunicazione di massa | Panarabismo | Radio | Regime autoritario | Siria | Televisione | Tunisia scheda / media Il potere della satira 706 749 sommario cristiani e cittadini Francesco Pistocchini Un’agenda per il diritto al lavoro dignitoso 750-756 Chiesa cattolica e OIL si muovono in sintonia perché l’occupazione e i diritti sul lavoro siano considerati il percorso privilegiato nella lotta alla povertà e per una globalizzazione più giusta. Chiesa cattolica | Dignità umana | Diritti umani | Dottrina sociale della Chiesa | Lavoro | Obiettivi di sviluppo post-2015 | ONU | Organizzazione internazionale del lavoro | papa Francesco | Sviluppo voci del mondo Vincent D. Rougeau Verso la libertà. Gli USA a cinquant’anni dal Civil Rights Act 757-762 A cinquant’anni dal Civil Rights Act, che segnò la fine legale della segregazione razziale, la società americana può procedere nel superamento delle discriminazioni ancora presenti, anche nei confronti degli immigrati. Barack Obama | Diritti Stati Uniti civili | Discriminazione razziale | Integrazione dei migranti | documenti Pietro Parolin La responsabilità di proteggere della comunità internazionale 763-772 La Chiesa richiama la comunità internazionale al dovere di proteggere da ogni aggressione, quella terroristica come quella del sistema finanziario, non solo con la forza, ma con il dialogo tra le culture e il diritto internazionale. Chiesa cattolica | Dialogo | Diritto internazionale | Finanza internazionale | Guerra | Ingerenza umanitaria | Obiettivi di sviluppo post-2015 | ONU | Sviluppo | Terrorismo immagini bussola Sonia Frangi Finestre 2014: Berlino 773-774 bibbia aperta / Mura e muri di Giuseppe Trotta SJ 776-780 tools / Expo Milano 2015 di Claudio Urbano 781-785 recensione / Immigrazione irregolare e welfare invisibile di Sergio Villari 786-788 vetrina / Libri, film, eventi 789-792 707 contatti e informazioni Il 9 ottobre 2014 è mancato a Roma, nel suo 90° anno di età, il p. Angelo Macchi, direttore di Aggiornamenti Sociali dal 1981 al 1992. La Redazione ricorda con gratitudine la preziosa attività da lui svolta al servizio della Rivista e del Centro San Fedele. 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Tali dati sono trattati conformemente alla normativa vigente, non possono essere ceduti ad altri soggetti senza espresso consenso dell’interessato e sono utilizzati esclusivamente per l’invio della Rivista e iniziative connesse. editoriale Ebola, o le basi biologiche della solidarietà Giacomo Costa SJ direttore di Aggiornamenti Sociali <costa.g@aggiornamentisociali.it> U no spettro si aggira per il mondo: il virus Ebola, probabilmente trasmesso all’uomo dal contatto con animali selvatici infetti. Esso prende il nome da un fiume del nord della Repubblica Democratica del Congo, nella cui valle, nel 1976, scoppiò l’epidemia che portò all’isolamento del virus che oggi colpisce in modo particolare Guinea, Liberia e Sierra Leone e che si sta affacciando anche negli Stati Uniti e in Europa. Senza alcuna pretesa di ricostruire un quadro estremamente complesso e in rapidissimo mutamento, in particolare per quanto riguarda la diffusione dell’epidemia, la breve presentazione del virus che abbiamo scritto in apertura è sufficiente per rendersi conto di come Ebola sia un fenomeno estremamente locale e, al tempo stesso, completamente globale, poiché evidenzia e articola in sé alcune dinamiche tipiche del nostro mondo, con le sue potenzialità e contraddizioni, che riguardano molteplici ambiti tra loro connessi: scienza e medicina, geopolitica ed economia, cultura e media, politiche locali e globali. Persino elementi a prima vista estranei al problema di Ebola entrano in gioco nel tentativo di trovare una soluzione. È il caso, ad esempio, del ruolo della Cina, ormai diventata una potenza globale: in questa circostanza il colosso di Pechino è in competizione con l’Occidente per la ricerca di una cura. Un altro esempio è quello della sfaccettata questione degli OGM: negli Stati Uniti il farmaco sperimentale (Zmapp) somministrato a due malati poi guariti è ottenuto anche grazie al ricorso a una varietà di tabacco geneticamente modiAggiornamenti Sociali novembre 2014 (709-716) 709 ficata. Non solo, sia la cura cinese sia quella americana sono legate al settore militare, con tutte le contraddizioni che ciò può comportare: in Cina infatti la ricerca è condotta da un’impresa farmaceutica, la Sihuan Pharmaceutical Holdings Group, nata come costola dei laboratori dell’esercito cinese e tuttora ad esso legata, mentre negli Stati Uniti è finanziata parzialmente dal Ministero della Difesa. Nelle pagine che seguono proveremo allora a offrire una lettura dell’epidemia di Ebola che fa emergere l’interdipendenza dell’umanità e la conseguente necessità di ricorrere a forme di autorità di governance globale che, con efficacia e concretezza, possano contribuire a gestire l’emergenza. In questo, come vedremo, può aiutarci la riflessione su come in passato la solidarietà e il welfare gestiti a livello “centrale” siano riusciti a migliorare le condizioni di vita. Cure e disuguaglianze Jim Yong Kim, infettivologo statunitense di origine coreana e attuale presidente della Banca mondiale, riguardo a Ebola ha fatto notare come la comunità internazionale non abbia fornito infrastrutture e competenze alle popolazioni a basso reddito in Guinea, Liberia e Sierra Leone: «Come risultato, migliaia di persone in questi Paesi stanno ora morendo a causa della lotteria della vita, perché sono nate nel posto sbagliato». Pochi semplici dati ci mostrano il fondamento di queste affermazioni: in Liberia, prima dello scoppio dell’epidemia, c’era un medico ogni 100mila abitanti circa (in Italia ce ne sono 3.800); per di più, i medici liberiani sono stati più che dimezzati dall’infezione. Un discorso analogo vale per la disponibilità di infrastrutture, sanitarie e non solo: è chiaro che con risorse così scarse non è nemmeno lontanamente immaginabile far fronte a una epidemia come quella in corso, o anche solo pensare di contenerla. Lo stesso problema si registra ancora più a monte: lo scorso 12 agosto, Marie-Paule Kieney, vicedirettrice generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per l’innovazione, l’informazione, la raccolta di dati scientifici e la ricerca, affermava: «L’Ebola è una malattia tipica della gente povera nei Paesi poveri, dove non c’è mercato; per questo nessuno ha davvero interesse a studiare come combatterla». Secondo uno studio pubblicato dalla prestigiosissima rivista The Lancet, su 336 farmaci sviluppati tra il 2000 e il 2011 per affrontare patologie irrisolte, solo quattro erano per la cura delle cosiddette malattie “trascurate” (cioè presenti soprattutto nei Paesi a basso reddito ma con bassa o nulla incidenza in quelli sviluppati): tre per la malaria, una per le diarree tropicali. Dei 150mila test di laboratorio approvati nello stesso periodo, solo l’1% si occupava dei 710 Giacomo Costa SJ editoriale virus che non colpiscono i Paesi più ricchi. Nel 2012 sono stati spesi 3,2 miliardi di dollari su 130 totali per fare ricerca sulle malattie dei poveri, e di questi solo 527 milioni arrivano dall’industria, mentre il resto esce dalle tasche di enti pubblici o fondazioni private (cfr Pedrique B. et al., «The drug and vaccine landscape for neglected diseases [2000-2011]: a systematic assessment», in The Lancet Global Health, 6 [dicembre] 2013, e371-e379). Solo dopo il contagio dei primi quattro occidentali (due americani e due spagnoli), il quadro muta rapidamente: l’OMS riconosce l’epidemia di Ebola come un’emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale, annunciando l’approvazione di misure temporanee per contenerne la diffusione, tra cui l’autorizzazione alla somministrazione di trattamenti sperimentali ancora non testati sull’uomo. Questi sono stati utilizzati sui primi malati occidentali, due dei quali sono effettivamente guariti. Non sono mancate voci critiche a sottolineare la dimensione di discriminazione implicita in questo modo di procedere. Come già era accaduto nei casi della SARS o dell’influenza A/H1N1, solo quando la malattia arriva in Occidente scatta l’inondazione di fondi pubblici per sostenere le case farmaceutiche ritenute più vicine a trovare il vaccino o la cura, anche se ormai sappiamo bene che la prevenzione è tanto più efficace e tanto meno costosa quanto più è tempestiva. I virus non guardano il passaporto di coloro che colpiscono, mentre le decisioni di politica sanitaria evidentemente lo fanno, accettando anche il rischio, sulla spinta dell’onda emotiva, di spendere molto per qualcosa che poi resta inutilizzato (come i vaccini contro l’influenza A/H1N1), anziché spendere meno per agire prima, anche se lontano da casa. Ebola sbarca in Borsa Giungendo in Occidente, Ebola arriva anche in Borsa: né ci si poteva aspettare che tardasse a farlo, vista la pervasività della finanza nel mondo di oggi. L’annuncio dei primi casi di contagio in Occidente, in particolare negli USA, è stato immediatamente decodificato come l’apertura di un gigantesco mercato potenziale, nel senso che entrano in scena attori privati (i cittadini occidentali e le compagnie assicuratrici presso cui essi hanno stipulato polizze sanitarie) e pubblici (i servizi sanitari nazionali) con la disponibilità economica per finanziare la ricerca e, soprattutto, per acquistare i farmaci o i vaccini che grazie ad essa saranno messi a punto. Ad esempio, le azioni della Tekmira Pharmaceuticals, che ha sviluppato uno dei farmaci più promettenti tra quelli sperimentali di cui è stato autorizzato l’utilizzo, sono cresciute di oltre il 25% nel giro di un’ora Ebola, o le basi biologiche della solidarietà 711 dalla diffusione della notizia del primo caso diagnosticato su suolo americano all’ospedale di Dallas, il 30 settembre scorso. Dunque, non appena si profila la possibilità di fare affari, il mercato si mette in movimento. Di per sé non si tratta di una cattiva notizia, vista la sua capacità di attivare rapidamente e con efficienza le migliori risorse per raggiungere il proprio obiettivo: è più probabile arrivare a un vaccino e/o a una cura, ora che sono in molti a cercarli. Ma una volta che sarà stato trovato, si riproporrà in modo drammatico il problema dell’accesso per quanti – individui e Paesi – non dispongono di mezzi economici sufficienti. Pare tuttavia ingenuo accusare il mercato di cinismo per essersi mosso solo ora, visto che l’emergenza Ebola è nota da tempo. Per come funziona, esso non potrebbe agire diversamente: non percepisce infatti i bisogni, per quanto giganteschi, ma la domanda, cioè i bisogni associati a una capacità di spesa. Questo stato di cose dovrebbe piuttosto indurci a chiederci quanto spazio vogliamo lasciare al mercato nelle nostre società, anche nel settore della ricerca scientifica e farmacologica, e quanto vogliamo invece riservarne a istituzioni che funzionano con una logica differente. A questo riguardo risuonano di straordinaria attualità e profondità le parole dell’enciclica Caritas in veritate (2009) di Benedetto XVI: «L’attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile. [...] La vita economica ha senz’altro bisogno del contratto, per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti. Ma ha altresì bisogno di leggi giuste e di forme di ridistribuzione guidate dalla politica, e inoltre di opere che rechino impresso lo spirito del dono. L’economia globalizzata sembra privilegiare la prima logica, quella dello scambio contrattuale, ma direttamente o indirettamente dimostra di aver bisogno anche delle altre due, la logica politica e la logica del dono senza contropartita» (n. 36). In questa luce, ben più che il cinismo della logica del mercato, Ebola ci mostra un’insufficiente diffusione delle altre due. Il volto economico di Ebola Come sempre avviene sul mercato, ciò che per alcuni è un’opportunità, per altri è un rischio. Mentre le azioni delle case farmaceutiche salgono alle stelle, le compagnie aeree iniziano a subire contraccolpi. Anche se secondo l’OMS i collegamenti aerei non contribuiscono alla diffusione del virus, alcune compagnie hanno sospeso i voli verso i Paesi più colpiti e molti ritengono che sarebbe prudente cancellarli tutti: in ogni caso, la paura potrebbe comportare una contrazione del trasporto aereo. 712 Giacomo Costa SJ editoriale Ma non saranno certo le compagnie aeree le principali vittime economiche di Ebola, bensì i Paesi africani colpiti e le loro popolazioni, anche se in questo mondo a due velocità essi fanno assai meno notizia dell’andamento della Borsa (cfr Evangelii gaudium, n. 53). Un recentissimo studio della Banca mondiale, The economic impact of the 2014 Ebola epidemic: short and medium term estimates for West Africa, pubblicato l’8 ottobre, stima la riduzione del PIL dei Paesi colpiti per il 2014 e il 2015: nel caso della Liberia, ad esempio, essa è pari al 3,4% nel 2014 e nel peggiore degli scenari ipotizzati potrebbe toccare il 12% nel 2015. Sostanzialmente, è come se questi Paesi fossero sotto embargo. Una diffusione dell’epidemia agli altri Paesi dell’Africa occidentale potrebbe provocare una riduzione del PIL della regione superiore ai 30 miliardi di dollari tra 2014 e 2015 (sempre nel peggiore dei casi): semplicemente una catastrofe per quelli che sono già tra i Paesi più poveri del mondo! Così la FAO (Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura) ha avvertito che l’epidemia sta mettendo a rischio i raccolti in Africa occidentale, mentre il Fondo monetario internazionale ha chiesto un intervento globale a largo raggio per aiutare i Paesi colpiti. L’impatto sull’economia globale è stato finora molto ridotto perché l’epidemia coinvolge Stati del tutto marginali al suo interno, ma le cose cambierebbero drasticamente se il contagio dovesse estendersi, magari in aree diverse dall’Africa occidentale. Per questo, scrive il settimanale americano Time, «è chiaro che il contenimento dell’epidemia non è solo una necessità umanitaria, ma un imperativo economico». Informazione e conoscenza Un’altra dinamica cruciale del mondo contemporaneo che Ebola ci obbliga a prendere in considerazione è quella dell’informazione e della conoscenza. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un dualismo, almeno apparente. I Paesi africani, in particolare le aree più remote, soffrono di un deficit di conoscenze mediche e scientifiche. Permangono così pratiche tradizionali, relative al consumo di carni di animali selvatici o alla preparazione dei corpi delle vittime di Ebola per i funerali, che aumentano i rischi di contagio (che, ricordiamo, avviene per contatto con il sangue e i fluidi corporei dei soggetti infetti). La mancanza di medici e operatori sanitari professionali rende impossibile qualunque prevenzione, compresa la corretta gestione delle quarantene. In questo contesto, si diffondono facilmente voci prive di fondamento sulla vera natura e origine della malattia, o sulla sua fine improvvisa, che condizionano Ebola, o le basi biologiche della solidarietà 713 poi il comportamento della popolazione, tanto che i Governi dei Paesi colpiti hanno dovuto lanciare campagne di sensibilizzazione con lo slogan «Ebola è reale» («Ebola is real»). La situazione non è diversa da quella dell’Italia secentesca, epoca in cui sono ambientati I promessi sposi, quando si credeva che la peste fosse propagata dagli untori. L’Occidente sembra convinto del contrario: «Ebola è dappertutto» potrebbe essere il riassunto dei contenuti di molti media dopo la notizia dei primi contagi, pur avvenuti all’interno di reparti ospedalieri per il trattamento delle malattie infettive. Ugualmente, chiunque abbia la febbre e sia stato in Africa viene subito inserito nella lista dei casi sospetti. Il rischio è che la paura di Ebola finisca per avere conseguenze persino peggiori della stessa malattia, almeno in Occidente. Afferma ad esempio Ashish K. Jha, direttore del Global Health Institute dell’Università di Harvard (USA): «Sta arrivando la stagione dell’influenza: ogni malato di influenza diventerà un caso sospetto di Ebola? In questo caso sarà un incubo». Internet e social network aggiungono il loro potenziale a questa spirale, soprattutto perché al loro interno è estremamente difficile discriminare le informazioni attendibili da quelle infondate. Come nota ancora Time, c’è un costante flusso di post che affermano che Ebola si trasmette attraverso l’aria, l’acqua o il cibo, ma ciò è falso: «Cercare di arginare la diffusione di notizie false su Internet è molto simile a cercare di contenere un’epidemia nel mondo reale: internauti “infetti”, che hanno raccolto false informazioni da un reportage non accurato, da qualche altro utente dei social network o dal passaparola, diffondono “l’infezione” con tweet o post privi di fondamento». Da questo punto di vista, l’universo tecnologico di Internet, con il suo eccesso di informazioni, non è così radicalmente diverso dalla Lombardia del Seicento o dai villaggi più remoti dell’Africa occidentale. In ogni situazione, infatti, la combinazione di ignoranza e paura aumenta la probabilità di prendere decisioni sbagliate: bloccare i voli e isolare i Paesi colpiti, come molti suggeriscono di fare, sarebbe un errore, ha affermato Tom Frieden, direttore della rete dei CDC (Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie) negli USA. L’isolamento infatti renderebbe più difficile combattere la malattia nei Paesi in cui si sta sviluppando e paradossalmente questo aumenterebbe i rischi di contagio per i Paesi vicini e, a cascata, anche per quelli lontani. «In un mondo ideale – è l’opinione di Ashish K. Jha – al posto della paura ci sarebbe la determinazione a sradicare [Ebola] dall’Africa occidentale». 714 Giacomo Costa SJ editoriale Interdipendenza e solidarietà I massimi esperti mondiali ci dicono dunque che il miglior modo di proteggerci da Ebola è proteggere tutti gli abitanti del mondo, i ricchi come i poveri, gli africani come gli occidentali. Procedere divisi contro un nemico comune non è una buona strategia. A questo proposito, vanno certamente evidenziati il lodevole impegno e tutte le attività di molte ONG, ma è cruciale fare un passo ulteriore in questa logica della solidarietà. In questo senso, ci fanno riflettere le parole di Giovanni Paolo II sull’interdipendenza, «sentita come sistema determinante di relazioni nel mondo contemporaneo, nelle sue componenti economica, culturale, politica e religiosa, e assunta come categoria morale. Quando l’interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale, come “virtù”, è la solidarietà. Questa, dunque, non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (enciclica Sollicitudo rei socialis, 1987, n. 38). Superando le affermazioni del Papa, Ebola ci mette davanti al fatto che la solidarietà ha addirittura una base biologica. Su scala mondiale, siamo di fronte alla stessa dinamica che nel XIX secolo portò alla nascita dei sistemi di welfare e dei servizi sanitari universalistici: le malattie non si possono arginare ed è interesse di tutti debellarle, ponendo questo sforzo, in una società indubbiamente improntata al liberalismo, a carico non dei singoli malati (anche allora esisteva la sanità privata), ma della fiscalità generale. Lo scopo del Public Health Act del 1875 in Gran Bretagna era combattere le insalubri condizioni di vita nelle città, fonti di minacce alla salute pubblica, come la diffusione di malattie quali il colera e il tifo, che si propagavano anche fuori dai quartieri poveri. Per questo venne istituita la figura del medico pubblico, con il compito di «ispezionare e relazionare periodicamente sulle condizioni sanitarie della città, accertare l’esistenza di malattie, e in particolare di epidemie [...], indicare inoltre le modalità per controllare e prevenire la diffusione di tali malattie». Medici pubblici con questo compito e le risorse per portarlo a termine sono esattamente quello che manca in Liberia, Sierra Leone e Guinea, una mancanza che diventa minaccia globale. Combattere Ebola richiede di estendere quella logica a tutto il mondo, andando oltre i confini nazionali. Lo afferma il prof. Stefano Vella, direttore del Dipartimento del farmaco dell’Istituto superiore di sanità: «Come nel caso del global warming, occorre un Ebola, o le basi biologiche della solidarietà 715 approccio dello stesso segno in campo sanitario. Serve concepire la salute come global health perché non si può più lasciare intere popolazioni ad occuparsi dei loro problemi». Come l’ambiente, il clima o i mercati finanziari, anche la sanità ci mostra che il mondo ha bisogno di forme e strutture di governance globale per risolvere i propri problemi più acuti. Gli Stati nazionali o il mercato da soli non sono in grado di farlo, e nemmeno le ONG o la società civile globale. Serve una qualche forma di “mano pubblica” globale. Iniziative sanitarie globali non sono fantascienza, anzi, la storia della medicina ci insegna che ne sono già state attuate: a poco più di due anni dalla diagnosi dell’ultimo caso (in Somalia), nel 1980 l’OMS ha solennemente sancito la definitiva scomparsa del vaiolo, dopo che per secoli questa malattia aveva devastato l’umanità e – detto per inciso – portato alla scoperta del meccanismo della vaccinazione. Questo risultato è stato ottenuto grazie all’adozione, nel 1959 (anno in cui il vaiolo faceva ancora 2 milioni di vittime nel mondo), di una iniziativa globale imperniata sul contenimento dei focolai e sulle vaccinazioni di massa, sotto il coordinamento e con le risorse dell’OMS: dunque con l’azione di quella che possiamo ritenere una forma di autorità o uno strumento di governance globale, che è il modo per dare attuazione, anche sul piano istituzionale, all’imperativo della solidarietà. 716 Giacomo Costa SJ approfondimenti Gli snodi del vivere in comune attraverso lo studio degli esperti cristiani e cittadini Alla riscoperta dell’insegnamento sociale della Chiesa voci del mondo La realtà di altri Paesi raccontata da chi la vive documenti Testi di riferimento da leggere con cura immagini Icone della società di oggi mappe oltre la notizia Una lettura critica dell’attualità Per un piano nazionale contro la povertà oltre la notizia La proposta del Reddito di inclusione sociale (REIS) Alleanza contro la povertà in Italia Il 14 ottobre scorso, presso la sede del CNEL (Consiglio nazionale economia e lavoro) a Roma, l’Alleanza contro la povertà in Italia, di cui Aggiornamenti Sociali fa parte tramite la rete del JSN – Jesuit Social Network Italia, ha presentato al Paese e al Governo la propria ambiziosa proposta per la progressiva introduzione di una misura universale di sostegno al reddito di quanti vivono in condizione di povertà assoluta (Reddito di inclusione sociale, REIS). Riproduciamo il Documento politico dell’Alleanza (spostandone la presentazione nella scheda a p. 725), a cui segue un profilo sintetico del REIS, rinviando al sito <www.redditoinclusione.it> per i dettagli e gli approfondimenti. 1. Il Documento politico a) La povertà in Italia Nell’Italia di oggi non mancano i motivi per occuparsi della povertà. Il 9,9% delle persone residenti nel nostro Paese, infatti, vive in povertà assoluta 1, mentre nel 2007 erano il 4,1% 2. Il bombardamento quotidiano di dati sulla crisi al quale siamo tutti sottoposti rischia di lasciare in secondo piano la rilevanza di 1 2 718 Cfr ISTAT, La povertà in Italia, anno 2013, 14 luglio 2014, in <www.istat.it>. Cfr ISTAT, La povertà in Italia, anno 2010, 15 luglio 2011, in <www.istat.it>. Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (718-724) oltre la notizia questo 9,9%. Non ci si riferisce, infatti, al fenomeno dell’impoverimento che tocca una parte ben più ampia della popolazione, costringendola a rinunciare ad alcuni consumi che desidererebbe potersi permettere (come qualche apparecchio tecnologico o la possibilità di andare fuori città in estate), senza però impedire la fruizione dei beni e dei servizi essenziali. Si tratta, piuttosto, di chi non raggiunge uno «standard di vita minimamente accettabile» calcolato dall’ISTAT e legato a un’alimentazione adeguata, a una situazione abitativa decente e ad altre spese basilari come quelle per la salute, i vestiti e i trasporti. Anche dopo la fine della crisi, l’Italia resterà più povera di prima. La ripresa potrà ridurre l’attuale percentuale di povertà assoluta, ma non di molto, dato che la sua maggiore presenza è un fenomeno strutturale, così come il suo nuovo profilo. Non si concentra più, infatti, esclusivamente nel Meridione e tra le famiglie numerose (con almeno tre figli), anche se queste rimangono le realtà dove risulta maggiormente presente. Gli ultimi anni, infatti, ne hanno visto l’incremento galoppante in segmenti della popolazione prima ritenuti immuni: il Nord – dove le persone in povertà assoluta sono aumentate dal 3,3% (2007) al 7,3% (2013) – e le famiglie con due figli minori (dal 3,8% al 13,4%). Mentre raggiunge nuovi soggetti, la povertà non abbandona quelli che già da tempo affligge su larga scala, a partire da bambini e minori. Che cosa possono fare, oggi, le persone in povertà assoluta? Chiedere aiuto ai Comuni, che hanno limitate possibilità di risposta dati i ripetuti tagli, oppure alle tante realtà non profit impegnate nel territorio, a conoscenti o ad altri. I grandi numeri della povertà di oggi fanno sì che, nella maggior parte dei casi, chi sperimenta questa condizione se la debba cavare da solo. Ciò accade perché l’Italia rimane l’unico Paese dell’UE, insieme alla Grecia, privo di una misura nazionale a sostegno di chi si trova in condizione di bisogno. Pur nelle differenze, i tratti di fondo sono ovunque gli stessi: un contributo economico per affrontare le spese primarie accompagnato da servizi alla persona (sociali, educativi, per l’impiego) che servono a organizzare diversamente la propria vita e a cercare di uscire dalla povertà. Alla base c’è il patto di cittadinanza tra lo Stato e il cittadino in difficoltà: chi è in povertà assoluta ha diritto al sostegno pubblico e il dovere di impegnarsi a compiere ogni azione utile a superare tale situazione. A fronte di questa situazione, un intervento da parte del Governo si rende necessario, partendo dalla considerazione che le risposte attualmente in campo contro la povertà assoluta sono del tutto inadeguate. Per un piano nazionale contro la povertà 719 b) Il Piano nazionale contro la povertà Per questo gli aderenti all’Alleanza hanno svolto insieme un lavoro di approfondimento, tenendo conto delle proposte già elaborate, che ha prodotto una proposta organica di riforma a regime ampiamente condivisa da tutti i soggetti che la compongono. Sulla base degli indicatori socioeconomici, delle conoscenze e delle esperienze maturate, l’Alleanza ritiene che si debba fare del 2015 il primo anno del Piano nazionale contro la povertà: è questa la prima richiesta dell’Alleanza al Governo italiano per il 2015. Il nostro Paese ne ha evidente bisogno e la sua attuazione si declina nei punti che seguono. 1. Far partire il Piano nazionale contro la povertà: l’Alleanza chiede al Governo italiano di avviare nel 2015 un Piano nazionale contro la povertà di durata pluriennale. Il Piano deve contenere le indicazioni concrete affinché venga gradualmente introdotta una misura nazionale, rivolta a tutte le persone e le famiglie in povertà assoluta nel nostro Paese, che si basi su una logica non meramente assistenziale, ma che sostenga un atteggiamento attivo dei soggetti beneficiari dell’intervento. Pertanto è necessario impegnare da subito risorse adeguate a far partire il Piano nazionale e non limitarsi a risorse destinate a strumenti che rispondono a logiche emergenziali, senza definire un quadro organico di interventi. 2. Gradualismo in un orizzonte definito: bisognerà prevedere che a partire dal primo anno riceva la misura un numero significativo di persone (cfr punto 3), con una crescita graduale in ogni annualità successiva. Nella stesura del Piano, il legislatore deve assumere precisi impegni riguardanti le tappe intermedie e il punto di arrivo. L’ultimo anno corrisponderà al primo della misura a regime, a partire dal quale tutte le famiglie in povertà assoluta riceveranno la misura. Occorrerà inoltre specificare l’ampliamento dell’utenza e il relativo finanziamento, previsto per ogni precedente annualità. Senza una simile prospettiva pluriennale, infatti, risulterebbe poco realistico immaginare la costruzione di un sistema locale di servizi adeguato alla lotta contro l’esclusione sociale. Questa costruzione richiede investimenti, sviluppo di competenze e programmazione: gli enti locali, il Terzo settore e le organizzazioni sindacali impegnate nel territorio potranno realizzarla solo se riceveranno un’adeguata stima economica e previsionale. 3. Prima i più deboli: in ogni anno della transizione l’utenza si deve allargare rispetto al precedente. L’ordine di fruizione della misura viene definito esclusivamente in base alla condizione eco- 720 Alleanza contro la povertà in Italia oltre la notizia nomica: nell’ambito delle famiglie che sono in povertà assoluta, si comincia da coloro che versano in condizioni economiche più critiche e progressivamente si copre anche chi sta “un po’ meno peggio”, sino a fornire la misura, a partire dall’ultimo anno della transizione, a tutti i nuclei in povertà assoluta. 4. Cominciare subito con i servizi: sin dall’inizio, dal 2015, la misura deve assumere alcuni tratti fondamentali. Deve costituire il diritto a una prestazione monetaria accompagnato dall’erogazione dei servizi necessari ad acquisire nuove competenze e/o organizzare diversamente la propria vita (servizi per l’impiego, contro il disagio psicologico e/o sociale per esigenze di cura e altro). Una particolare attenzione deve essere rivolta ai servizi alla persona, elemento orientato a favorire l’inclusione sociale e valorizzare l’atteggiamento attivo da parte dei soggetti beneficiari dell’intervento. 5. Assicurare continuità: le prestazioni nazionali sperimentali o una tantum già esistenti contro la povertà assoluta devono confluire progressivamente nella misura. Per la precedenza a ricevere la nuova misura durante la transizione, al principio di “dare prima a chi sta peggio” si affiancherà quello di garantire la continuità. Pertanto, alle persone in povertà assoluta che non riceveranno le prestazioni fino ad oggi in vigore sarà garantita la nuova misura senza interruzioni del sostegno pubblico. L’Alleanza ritiene come principio fondamentale che per sostenere un piano di lotta alla povertà non si debbano sottrarre né spostare risorse destinate e vincolate al sociale. Le prestazioni a oggi erogate dal sistema assistenziale non devono subire modifiche peggiorative per i fruitori. 6. No a guerre tra poveri: la prossima legge di stabilità non deve prevedere la messa in discussione delle altre misure per il welfare sociale a rischio, a partire dai fondi nazionali (innanzitutto Fondo nazionale politiche sociali e Fondo per la non autosufficienza), oggetto negli anni recenti di tagli radicali, che ne hanno già messo in discussione la sopravvivenza. L’investimento sulla lotta alla povertà assoluta non può considerarsi in alcun modo sostitutivo del necessario rifinanziamento di questi Fondi. Allo stesso modo, le risorse necessarie per finanziare la misura contro la povertà assoluta non dovranno essere recuperate togliendole ad altre fasce deboli o a rischio di fragilità della popolazione. 7. Uno strumento di politica sociale e non di politica del lavoro: tradizionalmente in Italia tutta l’attenzione è stata concentrata sulle politiche del lavoro, a scapito delle politiche sociali. Il nostro obiettivo è quello di valorizzare l’importanza di quest’ultime, ed è ad esse che appartiene la nostra proposta. Per un piano nazionale contro la povertà 721 8. Il finanziamento deve essere assicurato dallo Stato: a regime la misura dovrà costituire un livello essenziale delle prestazioni sociali e, dunque, essere interamente finanziata dallo Stato. Eventuali finanziamenti con Fondi europei o altro, una volta verificatane la legittimità, potrebbero essere utilizzati parzialmente durante la transizione, ma solo in presenza di un chiaro impegno dello Stato per la situazione a regime. Il possibile contributo finanziario di donatori privati svolgerà un ruolo di rilievo, con funzione complementare rispetto al necessario finanziamento statale del livello essenziale. Siamo persuasi che la proposta del REIS (Reddito di inclusione sociale) è compatibile con le capacità finanziarie dello Stato, il quale dovrà comunque tenere conto di vincoli finanziari sostenibili. Evidenziare la necessità del finanziamento statale non significa assolutamente svilire tutto quello che è già stato realizzato nel territorio contro la povertà, che, al contrario, dovrà essere valorizzato e confluire nella riforma. Da una parte, le risorse attualmente impiegate nella lotta alla povertà a livello regionale e territoriale dovranno rimanere comunque destinate alla spesa sociale per le famiglie in condizione disagiata. Allo stesso modo, tutto il patrimonio di esperienze maturate a livello territoriale, da parte di enti locali, Terzo settore e organizzazioni sindacali confederali, dovrà essere valorizzato nella costruzione della riforma e confluire in essa. La proposta del REIS prevede, quindi, una cornice di obiettivi strategici e di risorse per il loro perseguimento, definita dallo Stato, e la traduzione operativa delle misure ad opera delle istituzioni locali. 9. Valorizzare la partecipazione sociale: l’efficacia della nuova proposta di riforma è commisurata al pieno coinvolgimento delle organizzazioni sindacali e del Terzo settore con le istituzioni interessate, sia nella programmazione sia nella progettazione e gestione degli interventi. 2. La proposta: il Reddito d’inclusione sociale (REIS) I principi appena enunciati trovano attuazione nella proposta di adozione di una misura specifica di politica sociale: il REIS. Esso assicura a chiunque sia caduto in povertà un insieme di risorse adeguate a raggiungere una condizione materiale decente e, dove possibile e/o necessario, a progettare percorsi di inserimento sociale o lavorativo. La sua introduzione permetterebbe di dare al nostro Paese quella politica contro la povertà sinora mancante, capace, allo stesso tempo, di assicurare a tutti una vita dignitosa e di offrire strumenti per cambiarla (vigilando che ciò accada) a chi è in grado di farlo. 722 Alleanza contro la povertà in Italia oltre la notizia Una volta a regime, cioè a partire dal quarto anno del Piano nazionale contro la povertà (il 2018, se il Piano partirà nel 2015), il profilo del REIS avrà le seguenti caratteristiche. 1. Destinatari: il REIS si rivolge a tutte le famiglie in povertà assoluta. È destinato ai cittadini, di qualsiasi nazionalità, in possesso di un valido titolo di legittimazione alla presenza sul territorio italiano e ivi presenti in forma regolare da almeno 12 mesi. Il principio guida è l’universalismo: una misura per tutte le famiglie in povertà. 2. Importo: ogni nucleo riceve mensilmente una somma pari alla differenza tra la soglia di povertà 3 e il proprio reddito. Il principio guida è l’adeguatezza: nessuno è più privo delle risorse necessarie a raggiungere un livello di vita “minimamente accettabile”. 3. Servizi alla persona: quando consono e necessario, insieme al contributo monetario i beneficiari del REIS ricevono servizi sociali, sociosanitari, socioeducativi o educativi. Possono essere servizi contro il disagio psicologico e/o sociale, di istruzione, riferiti a bisogni di cura, per l’autonomia o di altra natura. Si intende così fornire nuove competenze agli utenti e/o aiutarli a organizzare diversamente la propria esistenza. Il principio guida risiede nell’inserimento sociale: dare alle persone l’opportunità di costruire percorsi che, nei limiti del possibile, permettano di uscire dalla condizione di marginalità. 4. Welfare mix: il REIS viene gestito a livello locale grazie a un impegno condiviso, innanzi tutto, da Comuni e Terzo settore. I Comuni (in forma associata nell’Ambito) hanno la responsabilità della regia complessiva e il Terzo settore coprogetta insieme a loro, esprimendo le proprie competenze in tutte le fasi dell’intervento; anche altri soggetti svolgono un ruolo centrale, a partire da quelli dedicati a formazione e lavoro. Il principio guida consiste nella partnership: solo un’alleanza tra attori pubblici e privati a livello locale permette di affrontare con successo il nodo povertà. 5. Lavoro: tutti i membri della famiglia tra 18 e 65 anni ritenuti abili al lavoro devono attivarsi nella ricerca di un impiego, dare disponibilità a iniziare un’occupazione offerta dai Centri per l’impiego e a frequentare attività di formazione o riqualificazione professionale. Il principio guida consiste nell’inserimento occupazionale: chi può, rafforza le proprie competenze professionali e deve compiere ogni sforzo per trovare un’attività lavorativa. 3 La soglia di povertà a cui fa riferimento la proposta del REIS varia in funzione di vari parametri, quali la numerosità del nucleo familiare, la presenza di minori e l’ammontare dell’eventuale canone di locazione dell’appartamento. La soglia base per i nuclei unipersonali è di 400 euro al mese, più il 75% del canone di locazione eventualmente pagato. Per un piano nazionale contro la povertà 723 6. Livelli essenziali: il REIS costituisce un livello essenziale delle prestazioni, il primo tra gli interventi di politiche sociali a diventarlo. Viene così introdotto un diritto che assicura una tutela a chiunque cada in povertà assoluta. Il principio guida è quello di cittadinanza, secondo il quale viene garantito a tutti il diritto di essere protetti contro il rischio di povertà. Il REIS viene introdotto gradualmente, ampliando progressivamente la platea dei beneficiari, sulla base di quanto previsto dal Piano nazionale contro la povertà, fino a raggiungere, il quarto anno, tutti i nuclei familiari in condizione di povertà assoluta. A regime la misura richiede un investimento pubblico di circa 7,1 miliardi di euro. In ogni anno del Piano, le risorse stanziate sono superiori rispetto al precedente: i percorsi che si possono seguire nel loro progressivo incremento sono vari. A sostenere l’attuazione del REIS è l’infrastruttura nazionale per il welfare locale, cioè un insieme di strumenti che lo Stato, in collaborazione con le Regioni, fornisce ai soggetti del territorio per porli in condizione di operare al meglio. Vengono definiti criteri di accesso validi per tutto il Paese e sono trasferite ai territori le risorse economiche necessarie ad assicurare le relative risposte. Si impianta anche un solido sistema di monitoraggio e valutazione, capace di comprendere ciò che accade nelle varie realtà locali, di esaminarlo e trarne indicazioni utili al miglioramento, nella prospettiva di apprendere dall’esperienza. Inoltre, i territori vengono affiancati con iniziative di formazione, occasioni di confronto tra operatori di diverse realtà, scambio di esperienze, linee guida. Infine, laddove la riforma sia inattuata o presenti forti criticità, lo Stato interviene direttamente, ricorrendo a propri poteri sostitutivi. Trattandosi di un’innovazione ambiziosa per il nostro sistema di welfare, che lo spinge a un robusto sviluppo sul piano organizzativo, procedere per gradi e fornire allo stesso tempo tutti gli strumenti necessari al livello locale paiono condizioni non rinunciabili per il suo successo. 724 Alleanza contro la povertà in Italia A ll’inizio del 2014 è nata l’Alleanza contro la povertà in Italia, un insieme di soggetti sociali che decidono di unirsi per contribuire alla costruzione di adeguate politiche pubbliche contro la povertà assoluta nel nostro Paese. Nel perseguire questo obiettivo, l’Alleanza ha condotto un insieme di varie attività, tra loro collegate: ha svolto un lavoro di sensibilizzazione dell’opinione pubblica; ha promosso un dibattito basato sull’evidenza empirica concernente gli interventi esistenti e quelli proposti; si è confrontata con le forze politiche e continua a esercitare pressione su di esse affinché compiano scelte favorevoli alla lotta contro la povertà; ha elaborato una propria dettagliata proposta di riforma. Una simile Alleanza non era mai stata costruita in Italia. È la prima volta, infatti, che un numero così ampio di soggetti sociali dà vita a un sodalizio per promuovere adeguate politiche contro la povertà. La sua nascita costituisce un segno dell’urgenza di rispondere al diffondersi di questo grave fenomeno e dell’accresciuta consapevolezza, in tutti i proponenti, che solo unendo le forze si può provare a cambiare qualcosa. Sono soggetti fondatori dell’Alleanza: ACLI, Action Aid, ANCI, Azione cattolica italiana, Caritas italiana, CGIL, CISL, UIL, CNCA, Comunità di Sant’Egidio, Confcooperative, Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Federazione nazionale Società di san Vincenzo de Paoli, Fio-PSD, Fondazione Banco Alimentare, Forum nazionale del Terzo settore, JSN – Jesuit Social Network, Legautonomie, Save the Children, Umanità Nuova-Movimento dei Focolari. Sono soggetti aderenti dell’Alleanza: ADICONSUM, Associazione Professione in Famiglia, ATD Quarto Mondo, Banco Farmaceutico, CILAP EAPN Italia, CSVnet – Coordinamento Nazionale dei Centri di Servizio per il Volontariato, Federazione SCS/CNOS – Salesiani per il sociale, Fondazione Banco delle Opere di Carità, Fondazione ÉBBENE, Piccola Opera della Divina Provvidenza del Don Orione, UNITALSI. L’Alleanza contro la povertà in Italia nasce da un’idea del prof. Cristiano Gori dell’Università Cattolica di Milano, è promossa dalle ACLI e realizzata grazie al contributo delle Segreterie confederali di CGIL, CISL e UIL e degli altri aderenti. Alle ACLI è affidato il coordinamento politico-organizzativo, mentre il prof. Gori coordina le attività del gruppo tecnico. La partecipazione all’Alleanza è aperta a tutti i soggetti sociali interessati alla lotta contro la povertà assoluta in Italia. L’ampiezza della sfida è tale da rendere necessaria la massima condivisione delle esperienze, delle competenze e della creatività di ognuno. Per maggiori informazioni si rinvia al sito <www.redditoinclusione.it>. scheda / reti L’Alleanza contro la povertà in Italia 725 approfondimenti Spending review all’italiana Maria Flavia Ambrosanio Professore di Scienza delle Finanze, Università Cattolica di Milano, <maria.ambrosanio@unicatt.it> Paolo Balduzzi Ricercatore di Scienza delle Finanze, Università Cattolica di Milano, <paolo.balduzzi@unicatt.it> L’espressione spending review è ormai entrata nel lessico quotidiano, ma non è sinonimo di generici tagli alla spesa pubblica. Che cosa significa esattamente, anche in base alle numerose esperienze internazionali di revisione della spesa? Lungo quali linee e con quali esiti si è mossa la spending review nel nostro Paese? Possiamo attenderci novità significative in materia di gestione della spesa pubblica? L a spending review consiste in un processo di monitoraggio, valutazione e revisione della spesa pubblica, al quale è affidato l’obiettivo di migliorarne l’efficienza (taglio degli sprechi), l’efficacia (indicazione delle priorità) e la trasparenza (come vengono spesi i soldi pubblici). Va pertanto subito chiarito che l’espressione spending review non è necessariamente sinonimo di tagli alla spesa, come invece viene comunemente interpretata nella gran parte del dibattito politico e non. Se tuttavia l’obiettivo è quello di ridurre la spesa, la spending review ha il pregio di fondarsi su un approccio di tipo selettivo, che si contrappone a quello dei tagli lineari o dei tetti alla crescita della spesa uguali per tutti i settori, che risultano più semplici e immediati da attuare e producono senza dubbio una minore conflittualità politica. In Italia, la revisione della spesa non è argomento nuovo, ma in passato non è mai stata oggetto di tutta l’attenzione ricevuta a partire dal 2012, tanto che l’espressione è entrata a far parte del linguaggio comune. 726 Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (726-736) approfondimenti Le pagine che seguono sono dedicate, in primo luogo, a fornire un inquadramento generale del tema, anche con riferimento ad alcune esperienze internazionali; in secondo luogo presentano alcuni elementi essenziali della dinamica della spesa pubblica in Italia, che giustificano un profondo processo di revisione; infine, offrono una panoramica delle principali misure adottate dal legislatore italiano, con particolare enfasi su quelle più recenti. Lo sguardo adottato ha dunque una certa ampiezza e profondità, senza alcuna ambizione di dare una valutazione puntuale dell’operato del commissario straordinario per la revisione della spesa, Carlo Cottarelli, che a fine ottobre ha lasciato l’incarico, o delle difficoltà da lui incontrate nello svolgimento del proprio compito. Che cos’è la spending review? Come si è accennato, l’essenza di un processo di spending review consiste nella valutazione della spesa pubblica, per stabilire se le finalità ottenute dalle diverse tipologie di spesa corrispondono effettivamente agli obiettivi originari del legislatore (efficacia), se tali obiettivi sono raggiunti al minor costo possibile o se invece esistono sprechi che possono essere ridotti o eliminati (efficienza), e quindi al fine di conoscere (e saper comunicare al pubblico) come vengono impiegate le risorse pubbliche raccolte tramite il prelievo fiscale e tributario (trasparenza). La revisione della spesa ha dunque l’obiettivo principale di superare il tradizionale approccio incrementale nelle decisioni di bilancio: la tendenza a concentrarsi sulle nuove iniziative di spesa, sulle risorse (aggiuntive) da destinare ai programmi di spesa già in atto, piuttosto che sulle analisi di efficienza, efficacia e congruità con gli obiettivi della spesa in essere. I processi di spending review possono assumere connotazioni anche profondamente diverse, come mostrano le esperienze a livello internazionale. La differenza principale riguarda gli specifici obiettivi assegnati alla revisione della spesa. Un primo obiettivo, realizzabile anche nel breve-medio termine, è quello di verificare se e come i programmi di spesa esistenti possano essere attuati con l’impiego di minori risorse (si fa in questo caso riferimento alla functional spending review 1), o attraverso la mera eliminazione degli sprechi o attraverso innovazioni nell’organizzazione dei processi produttivi 1 A livello internazionale, tra gli esempi di functional spending review si possono citare i casi di Finlandia (2005-2015) e Grecia (2010-2011), mentre Australia (2007), Canada (1994 e 2009), Paesi Bassi (1982 e 2009) e Regno Unito (dal 1998) costituiscono esempi di strategic spending review; a riguardo di alcuni di questi programmi cfr la scheda a p. 737. Spending review all’italiana 727 dei beni e servizi pubblici. Un secondo obiettivo, realizzabile solo nel lungo periodo, è invece quello di ridefinire le aree e i settori di intervento dell’operatore pubblico, ovvero ciò che la pubblica amministrazione (PA) dovrebbe o non dovrebbe fare (si parla in questo caso di strategic spending review). È un obiettivo di portata ben più vasta, che potrebbe implicare anche il ridimensionamento del peso del settore pubblico o la sua uscita da alcune aree di intervento, o, al contrario, l’ampliamento del suo ruolo nel sistema economico. Altre differenze concernono invece le modalità di attuazione, e in particolare: periodicità (regolare o una tantum, con misure puntuali finalizzate alla rapida diminuzione della spesa); soggetti responsabili della gestione, normalmente espressione del ramo esecutivo delle istituzioni (Primo Ministro, Ministero delle Finanze, altri Ministeri con portafoglio, Commissari ad acta, appositi comitati interministeriali); ambito di applicazione (generale, cioè rivolto all’intero settore pubblico, oppure limitato a determinate funzioni o a un determinato livello di governo); definizione delle possibilità di risparmio, che possono essere espresse in termini di obiettivi fisici (riduzione del personale, degli immobili pubblici, delle auto blu) oppure monetari. È pertanto evidente che i processi di revisione della spesa sono molto complessi e richiedono elevate competenze, anche sotto il profilo tecnico. Perché la spending review? Attualmente molti Paesi sono impegnati in qualche processo di revisione della spesa, in quanto la crescita del rapporto tra spesa pubblica e PIL (Prodotto interno lordo) riguarda la maggior parte dei Paesi sviluppati, in modo particolare in Europa. Senza entrare nel merito di una letteratura vastissima, sono varie e differenziate le tesi che contribuiscono a ricostruire il puzzle delle ragioni della crescita della spesa nei sistemi economici moderni. Il primo riferimento è la cosiddetta legge di Wagner, che, sulla base di studi empirici, collega la crescita del settore pubblico allo sviluppo economico di un Paese. Quando un sistema economico si sviluppa e sono ormai soddisfatti i bisogni primari, aumenta la domanda di beni e servizi pubblici per soddisfare quelli secondari, dal quadro legislativo e di regolazione necessario per lo svolgimento dell’attività produttiva, allo sviluppo del sistema bancario e finanziario, alla costruzione del sistema di welfare. È dunque la collettività che esprime una domanda di intervento pubblico e non c’è ragione per non assecondarla, se la stessa collettività è disposta a finanziarla con aumenti della pressione tributaria. 728 Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi approfondimenti All’opposto si trovano le spiegazioni che considerano invece il lato dell’offerta (i cosiddetti modelli politici): indipendentemente dalla domanda del settore privato, è insita nel DNA dei Governi una spinta alla crescita della spesa, derivante dall’utilizzo di risorse pubbliche per massimizzare le rendite politiche. La spesa pubblica diventa strumento per ottenere consenso elettorale (come nel caso delle leggi finanziarie pre-elettorali). Di natura ancora diversa sono le spiegazioni che fanno riferimento alle caratteristiche tecniche dei processi di produzione di beni e servizi pubblici, per lo più ad elevata intensità di lavoro e a basso contenuto di progresso tecnico (si pensi all’istruzione): è quindi difficile realizzare aumenti di produttività. Se il costo del lavoro aumenta – come è accaduto – in assenza di aumenti di produttività, ne consegue un aumento del costo di produzione di beni e servizi pubblici e, a parità di domanda, un aumento della spesa pubblica (è la cosiddetta “malattia di Baumol”). Ma perché preoccupa la crescita della spesa pubblica, per cui diventano necessarie azioni come la spending review per arrestarla? Il problema principale riguarda il suo finanziamento, che richiede un crescente carico tributario, spostando risorse sempre maggiori dal settore privato a quello pubblico, con tutte le inefficienze associate a un’eccessiva pressione tributaria, oppure – come si è verificato nella maggior parte dei Paesi – un finanziamento in deficit, con ricorso all’indebitamento e il conseguente accumulo di debito pubblico, i cui problemi sono ben noti al nostro Paese. Alcune peculiarità della spesa pubblica italiana Prima di entrare nel merito della spending review all’italiana, è opportuno richiamare alcune caratteristiche della dinamica di lungo periodo della spesa pubblica nel nostro Paese, in modo da trarre indicazioni sugli spazi di manovra esistenti. A questo scopo, la Tab. 1 presenta la ripartizione della spesa pubblica per funzioni (in percentuale sul totale della spesa e sul PIL) nel 1990 e nel 2010. La spesa per interessi, generata dall’accumulo di debito pubblico, è di ammontare assai più elevato che nella maggior parte degli altri Paesi europei: nel 1990 il debito rappresentava poco meno del 20% della spesa pubblica complessiva e assorbiva l’11,5% del PIL ed è solo a partire dalla fine degli anni ’90 che inizia un sentiero discendente, frutto delle politiche di contenimento del disavanzo pubblico e della discesa dei tassi d’interesse a seguito dell’ingresso nell’Unione monetaria (cioè nell’euro). Il secondo aspetto che differenzia l’Italia è l’elevata spesa per la protezione sociale (in particolare per la spesa pensionistica), che ha continuato ad Spending review all’italiana 729 Evoluzione della spesa pubblica italiana Funzioni di spesa % della spesa pubblica totale 2010 1990 2010 Servizi generali 6,0 8,0 3,2 4,1 Difesa 3,1 3,0 1,6 1,5 Ordine pubblico e sicurezza 4,0 3,9 2,1 2,0 11,1 8,6 5,9 4,4 Protezione dell’ambiente 0,9 1,1 0,5 0,6 Abitazioni e assetto del territorio 2,5 1,6 1,3 0,8 11,7 14,8 6,2 7,6 1,5 1,6 0,8 0,8 Affari economici Sanità Attività ricreative, culturali, culto tabella 1 % del PIL 1990 Istruzione 10,1 8,6 5,3 4,4 Protezione sociale 30,3 39,9 16,0 20,4 18,9 8,8 10,0 4,5 100,0 100,0 53,0 51,0 Interessi Totale aumentare a ritmi sostenuti negli ultimi 25 anni: dal 30% circa della spesa totale nel 1990 al 40% nel 2010, quando ha raggiunto il 20,4% del PIL. Anche la spesa per la sanità ha continuato a crescere, raggiungendo nel 2010 circa il 15% della spesa complessiva e il 7,6% del PIL. Meno sostenuta la crescita della spesa per servizi generali, collegata al funzionamento delle istituzioni pubbliche. Dal 1990 a oggi si è dunque verificata una ricomposizione della spesa pubblica: previdenza e sanità hanno assorbito risorse crescenti a scapito di quasi tutte le altre funzioni, in particolare dell’istruzione, la cui quota sul totale della spesa pubblica si è gradualmente ridotta dal 10,1% all’8,6% e oggi vale solo il 4,4% del PIL. Queste dinamiche sono state accompagnate dalla compressione delle spese di investimento, che tra il 1990 e il 2010 si sono ridotte dal 6% al 4% della spesa pubblica complessiva e dal 3,2% al 2,1% del PIL, fenomeno che ha accomunato quasi tutti i Paesi europei. Considerando che lavoro e acquisti di beni e servizi assorbono circa il 40% della spesa corrente al netto degli interessi, un ultimo aspetto importante riguarda i costi della produzione di beni e servizi pubblici: in Italia sono cresciuti di quasi un terzo in più dei costi di produzione dei beni di consumo privati, generando un aumento delle imposte e delle tariffe pagate dai cittadini. Se si prescinde dalla spesa per interessi, il cui ammontare dipende solo in parte dalle politiche pubbliche, questi dati indicano in qualche misura le priorità di spesa dei Governi: più sanità e pensioni e meno istruzione, più spesa corrente e meno investimenti, scarsa attenzione al controllo dei costi di produzione. Questi dati indicano anche che circa il 50% della spesa pubblica, 730 Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi approfondimenti destinata alle prestazioni sociali e al pagamento degli interessi, è poco comprimibile almeno nel breve e medio periodo, in quanto riguarda obbligazioni e diritti acquisiti che devono essere onorati. È in questo contesto che si sono inseriti diversi tentativi di spending review, soprattutto a partire dalla fine degli anni 2000. La spending review in Italia: la storia Il primo esperimento di spending review si deve al ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa nel 2007, con la costituzione della Commissione tecnica per la finanza pubblica, che produce il Libro verde sulla spesa pubblica. Spendere meglio: alcune prime indicazioni; con la Legge finanziaria per il 2008 (L. n. 244/2007), il programma di analisi e valutazione della spesa diventa permanente, con riferimento alle missioni e ai programmi in cui si articola il bilancio dello Stato; viene ulteriormente potenziato nel 2009 dalla nuova Legge di contabilità e finanza pubblica (L. n. 196/2009), che ne prevede l’istituzionalizzazione e la graduale estensione a tutte le PA 2. Nel corso del 2011 arrivano altre norme (D.Lgs . n. 123, D.L. nn. 98, 138 e 149), tra le quali merita particolare attenzione quella che estende alle amministrazioni centrali il metodo dei fabbisogni e dei costi standard – utilizzato per gli enti territoriali, sulla base della L. n. 42/2009 di attuazione del federalismo fiscale 3 –, al fine di individuare le eventuali criticità nella produzione ed erogazione dei servizi pubblici e le strategie di miglioramento dei risultati ottenibili con le risorse disponibili 4. 2 In particolare, prende avvio la collaborazione tra Ministero dell’Economia e amministrazioni centrali dello Stato, nell’ambito dei Nuclei di analisi e valutazione della spesa (NAVS), finalizzata a garantire il supporto per la verifica dei risultati programmatici rispetto agli obiettivi di finanza pubblica e per il monitoraggio dell’efficacia delle misure disposte per incrementare il livello di efficienza delle amministrazioni. I NAVS si sono insediati a metà del 2011 e hanno predisposto le Relazioni annuali sui Ministeri, confluite nel Rapporto triennale sulla spesa delle amministrazioni dello Stato, presentato alle Camere nell’agosto 2012. 3 Il riferimento è al D.Lgs. n. 216/2010 per i fabbisogni standard di Province e Comuni e al D.Lgs. n. 68/2011 per i costi standard per la sanità nelle Regioni, da utilizzare per la distribuzione delle risorse tra gli enti territoriali. 4 Il D.L. n. 138/2011 aveva attribuito al Ministro dell’Economia il compito di presentare, entro il 30 novembre 2011, un programma per la riorganizzazione della spesa pubblica, contenente le linee guida per l’integrazione delle agenzie fiscali, la razionalizzazione e la concentrazione in un ufficio unitario a livello provinciale di tutte le strutture periferiche dell’amministrazione dello Stato; il coordinamento delle attività delle forze dell’ordine; l’accorpamento degli enti di previdenza pubblica; la razionalizzazione dell’organizzazione giudiziaria civile, penale, amministrativa, militare e tributaria a rete; la riorganizzazione della rete consolare e diplomatica. Questo programma non è stato presentato alle Camere, anche se alcune misure, come l’accorpamento degli enti previdenziali, sono state realizzate dal D.L. n. 201/2011 (c.d. “Salva Italia”). Spending review all’italiana 731 Il successivo Governo Monti introduce nuovi provvedimenti inerenti la spending review. Il primo è una direttiva sulla revisione della spesa delle amministrazioni centrali, in modo da realizzare già nel 2012 risparmi per 4,2 miliardi di euro, attraverso la riduzione della spesa per acquisto di beni e servizi, il ridimensionamento delle strutture dirigenziali, la riduzione delle società pubbliche, la ricognizione degli immobili pubblici al fine di possibili dismissioni, la riduzione della spesa per locazioni e di quella per rappresentanza e convegni. Il secondo atto è il D.L. n. 52/2012, Disposizioni urgenti per la razionalizzazione della spesa pubblica, che istituisce un Comitato interministeriale per la revisione della spesa pubblica, nomina il Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per acquisti di beni e servizi delle PA, introduce norme dirette a rendere più stringente il ricorso a procedure di acquisto centralizzato di beni e servizi (attraverso CONSIP 5), riduce i tempi per l’applicazione dei costi e fabbisogni standard per gli enti locali. Il terzo atto è il D.L. n. 95/2012, Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario, che rafforza i contenuti del decreto precedente. Infine, il 4 ottobre 2013 il Governo Letta nomina commissario straordinario per la revisione della spesa Carlo Cottarelli 6, che il 19 novembre presenta il proprio Programma di lavoro, fondato sull’idea che la revisione della spesa diventi parte integrante del processo di preparazione del bilancio di tutte le PA, allo scopo di modernizzarne procedure e modalità di spesa in modo da fornire servizi pubblici di alta qualità al più basso costo possibile. Il Programma esplicita innanzitutto gli obiettivi quantitativi, che consistono in risparmi minimi pari a 3,6 miliardi nel 2015, 8,3 nel 2016 e 11,3 a decorrere dal 2017, sulla base dei contenuti della Legge di stabilità per il 2014; in secondo luogo, fissa degli obiettivi qualitativi lungo due direzioni: da un lato, focalizzare la spending review sui guadagni di efficienza, cioè sulla minimizzazione dei costi di produzione dei servizi correnti (riduzione degli sprechi, functional spending review); dall’altro individuare i programmi di spesa a bassa 5 Alla CONSIP (Concessionaria Servizi Informativi Pubblici), nata nel 1997 come strumento di cambiamento della gestione delle tecnologie dell’informazione nell’allora Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica, nel 1999 viene affidata anche l’attuazione del Programma per la razionalizzazione degli acquisti nella PA. 6 Il D.L. n. 69/2013 istituisce e disciplina il ruolo del commissario: la durata dell’incarico è fissata in tre anni, in modo da configurare una struttura stabile, dotata di poteri d’ispezione e ampia capacità di proposta e intervento nei confronti delle amministrazioni centrali e periferiche (cfr <http://revisionedellaspesa.gov.it>). 732 Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi approfondimenti priorità, i cui benefici non giustifichino il costo per il contribuente (strategic spending review); in terzo luogo, fornisce una specifica indicazione delle scadenze, in modo da dare avvio alle prime iniziative già nell’estate del 2014. Almeno dal punto di vista del quadro legislativo, sono stati approntati tutti gli strumenti necessari per attuare un serio processo di revisione della spesa. Ma a che punto siamo? Come è stata tradotta in pratica l’idea della spending review? La spending review in Italia: i contenuti La risposta può arrivare dall’analisi dei provvedimenti più importanti dal punto di vista quantitativo, vale a dire le manovre che si sono succedute a partire dal 2011: i due decreti Tremonti (DD.LL. nn. 98/2011 e 138/2011), il decreto “Salva Italia” (D.L. n. 201/2011) e la legge di stabilità per il 2014 del Governo Letta (L. n. 147/2013). Il D.L. 98/2011 prevedeva interventi in diversi settori, tra i quali il tetto alla crescita del finanziamento del Servizio sanitario nazionale e, a partire dal 2013, della spesa per l’acquisto di dispositivi medici; l’ennesima riforma del Patto di stabilità interno, accompagnata dal taglio lineare dei trasferimenti a Regioni ed enti locali; la proroga di norme già esistenti sui limiti alle assunzioni e all’aumento delle retribuzioni nel pubblico impiego; qualche intervento marginale sul sistema pensionistico; l’accorpamento degli istituti scolastici, con conseguente riduzione del numero di istituzioni e di personale; l’inizio di un processo di spending review per le amministrazioni centrali e interventi di riduzione dei costi della politica (sul tema el finanziamento ai partiti cfr il riquadro alla p. seguente). Con la sola eccezione delle ultime voci, si è quindi trattato di tradizionali interventi di contenimento della spesa attraverso misure uniformi per tutti i settori. La cruda realtà è che, al solito, anche tale manovra si è basata quasi esclusivamente sull’aumento delle entrate tributarie: accise, IRAP per banche e assicurazioni, bollo sui depositi titoli. Anche la seconda manovra Tremonti (D.L. n. 138/2011) non è stata molto diversa: ha previsto riduzioni di risorse più consistenti ai Ministeri, l’armonizzazione delle regole di decorrenza del pensionamento del settore della scuola e degli altri settori produttivi, l’allungamento dei tempi per l’erogazione del trattamento di fine rapporto nel pubblico impiego, l’anticipazione dal 2020 al 2014 dell’inizio del percorso di innalzamento da 60 a 65 anni dell’età per il pensionamento delle lavoratrici del settore privato. Ma la parte essenziale della manovra è stata ancora una volta l’aumento del gettito tributario: aumento dell’aliquota ordinaria dell’IVA dal 20% al 21%, introduzione di un’aliquota unica del 20% sui redditi Spending review all’italiana 733 da capitale e sui redditi diversi (fatta eccezione per i titoli di Stato), introduzione di un’imposta di bollo sui trasferimenti di denaro all’estero, aumento della cosiddetta “Robin Tax” a carico delle società del settore energetico. A confermare che l’impostazione del legislatore rispetto al taglio della spesa è indipendente dal colore politico dei Governi, il decreto “Salva Italia” varato dal Governo Monti (D.L. n. 201/2011) mantiene l’approccio dei tagli lineari e dell’aumento delle imposte, anche se i risparmi di spesa più consistenti (seppur principalmente nel medio periodo) sono associati alla riforma delle pensioni, soprattutto attraverso l’estensione del metodo contributivo a tutti i lavoratori e al progressivo innalzamento dell’età pensionabile. Ancora una volta, infatti, le risorse più consistenti derivano dall’inasprimento della pressione fiscale, realizzato attraverso la riforma della fiscalità sugli immobili (anticipazione e riforma dell’IMU, estesa anche alle prime case, e creazione della TARES, Tassa rifiuti e servizi) e La spending review del finanziamento ai partiti Per ragioni sia di cassa (dal 2003 al 2013 le risorse elargite sotto forma di rimborsi elettorali sono state di circa due miliardi di euro) sia etiche (legate ai numerosi scandali), si è ritenuto che il processo di spending review dovesse affrontare anche il tema del finanziamento ai partiti. Se ne è occupato il Gruppo di lavoro sui costi della politica, coordinato dal prof. Bordignon e di cui Paolo Balduzzi ha fatto parte. Inoltre, a inizio 2014, è stato convertito il D.L. n. 149/2013, con cui il Governo Letta aveva affrontato la materia. Il Gruppo di lavoro ha avuto così la possibilità di sottoporre le proprie raccomandazioni direttamente al legislatore nella fase di conversione del decreto, ma solo alcune di esse sono state accettate. Il D.L. n. 149/2013 prevedeva inizialmente l’abolizione del finanziamento pubblico diretto all’attività dei partiti e l’introduzione di forme di finanziamento “privato”, generosamente incentivate da sconti fiscali (detraibilità dall’IRPEF e dall’IRES delle erogazioni liberali a favore dei partiti, in percentuale differenziata a seconda della loro entità; detraibilità delle spese di iscrizione a scuole politiche di partito, nella misura 734 Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi del 75% fino a un massimo di 750 euro; introduzione della possibilità per i contribuenti di destinare il 2 per mille dell’IRPEF al finanziamento di un partito). Per come sono congegnati, anche i nuovi strumenti di finanziamento “privato” sono in realtà in parte a carico del bilancio pubblico: è privata la scelta di finanziare i partiti, ma è pubblica una parte del costo. Gli emendamenti del gruppo di lavoro proponevano di ridurre la fase di transizione al nuovo regime da quattro a tre anni, con un risparmio annuo medio stimato in 15 milioni (proposta non accolta); di abolire la detraibilità delle spese sostenute per l’iscrizione a scuole politiche di partito, in quanto misura dal significato davvero ignoto (proposta accolta, con un risparmio stimato di almeno 1,5 milioni l’anno); di diminuire l’aliquota media di detrazione per le erogazioni liberali ai partiti, fissata a un livello superiore che in precedenza e ben più in alto di quella prevista per le erogazioni liberali ad altri soggetti (con una evidente sperequazione). La proposta è stata parzialmente accolta, con un risparmio stimato in 10 milioni di euro all’anno, che avrebbe potuto essere maggiore in caso di accoglimento integrale. approfondimenti l’aumento dallo 0,9% all’1,23% dell’aliquota base dell’addizionale regionale all’IRPEF (Imposta sul reddito delle persone fisiche). Neanche il Governo Letta, che pure aveva dato maggiore slancio alla spending review, si è mosso in una direzione diversa. Nonostante le numerose misure introdotte, l’effetto sui conti pubblici e sulla crescita economica è stato praticamente nullo 7. È vero che la L. n. 147/2013 ha disposto riduzioni di imposte per circa 6 miliardi di euro, ma sono state compensate da aumenti di altre imposte per 8 miliardi di euro. Inoltre sono previste ancora una volta maggiori spese, sia in conto capitale – il che non sarebbe un male, di per sé – sia correnti. E la spending review? Le cronache estive e gli ultimi avvenimenti fanno presagire che probabilmente le cose non cambieranno, nonostante i lavori del commissario Cottarelli, che peraltro con il 1° novembre passa all’incarico di Direttore esecutivo per l’Italia presso il Fondo monetario internazionale: sin dall’inizio la sua posizione è apparsa in netto contrasto con quella del Governo, molto più ottimista sulla possibilità di recuperare risorse. Il passato insegna che le risorse sono quasi sempre arrivate dall’aumento delle imposte, magari attraverso le clausole di salvaguardia, con le quali si trasformano in maggiori entrate i mancati risparmi di spesa 8. Ne contiene una anche la legge di stabilità per il 2014: la versione originaria prevedeva che, in caso di mancati risparmi derivanti dalla revisione delle detrazioni per oneri personali, si sarebbe dovuto procedere con un taglio lineare, vale a dire con la riduzione dell’aliquota di detrazione dal 19% al 18% per le spese sostenute nel 2013 e al 17% per quelle sostenute nel 2014. In un secondo tempo, però, il Governo è di nuovo intervenuto correggendosi e stabilendo che quelle risorse si sarebbero dovute recuperare dalla spending review in atto. Meglio tardi che mai? Spending review per la crescita Se il passato non ha mostrato grandi risultati sul fronte della revisione della spesa, che cosa è lecito aspettarsi nel presente e nel futuro? L’esperienza di Carlo Cottarelli alla guida della Commissio7 Cfr Ambrosanio M. F. – Balduzzi P., «Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese”», in Aggiornamenti Sociali, 3 (2014) 200-213. 8 È quanto accaduto con i risparmi previsti dalla prima manovra Tremonti (4 miliardi di euro nel 2013 e 20 nel 2014) a seguito dell’attuazione della delega fiscale, con il conseguente riordino della spesa sociale e la revisione delle agevolazioni fiscali. Poiché la delega non fu esercitata dal Governo, scattò la clausola di salvaguardia, non nella forma originaria (riduzione lineare dei regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale), ma in quella riscritta dal Governo Monti, che sostituisce il taglio delle agevolazioni con l’aumento delle imposte indirette (soprattutto dell’IVA); il Governo Letta ne ha preso atto. Il risultato finale è un aumento delle imposte per l’intera collettività. Spending review all’italiana 735 ne, cominciata con grande ottimismo e forse con poco realismo, si è ormai conclusa, ma il programma di lavoro è rimasto sostanzialmente “lettera morta”. L’aspetto cruciale della vicenda è il mutamento dello scenario politico. Il passaggio dal Governo Letta al Governo Renzi sembra implicare, almeno sulla carta, un approccio diverso alla gestione dei conti pubblici, probabilmente non in pieno condiviso dal Commissario alla spending review. In ogni caso, il problema che il Governo in carica deve affrontare è il recupero delle risorse consistenti già contabilizzate per il 2015 e il 2016 dall’Esecutivo precedente. Ad aggravare il quadro sta il fatto che non si registrano segnali di ripresa, anzi, l’Italia è tornata in recessione e le stime indicano per il 2014 una ulteriore contrazione del PIL, pur minima. Questo genera un peggioramento dei saldi di finanza pubblica e del rapporto tra debito pubblico e PIL. Ma il Paese non può essere schiacciato da un’ulteriore manovra correttiva, che sarebbe l’antitesi delle politiche per la crescita: ci sarebbe infatti bisogno di una politica di bilancio espansiva, che richiederebbe, da manuale, riduzioni di imposte e/o aumenti di spesa pubblica. La revisione della spesa dovrebbe quindi avere come obiettivo principale non i tagli tout court, ma il recupero selettivo di risorse da utilizzare per promuovere la crescita. Che cosa farà il Governo Renzi? Almeno fino al momento della stesura di questo articolo, i segnali sono apparsi contraddittori: il Governo ribadisce di voler mantenere gli impegni presi (nuova riduzione delle imposte sul lavoro, riordino degli ammortizzatori sociali, stabilizzazione dei precari della scuola), ma non è ancora chiaro come saranno realizzati i risparmi di spesa necessari alla loro copertura. Il Presidente del Consiglio ha chiesto ai Ministeri riduzioni del 3%: come saranno attuate? Saranno ispirate alle proposte del Commissario Cottarelli o saranno ancora una volta tagli lineari? In conclusione non si può non ribadire che all’obiettivo della crescita dovrebbe anche rispondere l’attesa riforma del sistema fiscale. In questo caso, occorrerebbe una tax review: nell’impossibilità di una riduzione generalizzata della pressione tributaria, si potrebbe operare una redistribuzione del carico fiscale a vantaggio dei soggetti più deboli. Se ne parla da anni. Ci riuscirà questo Governo? Il giudizio resta per il momento sospeso. 736 Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi I n alcuni Paesi, i processi di spending review fanno parte da anni del sistema di controllo dei conti pubblici e in alcuni casi hanno permesso anche di raggiungere risultati considerevoli. Gli esempi più interessanti sono quelli di Australia, Canada e Regno Unito. In Australia, la revisione della spesa pubblica è stata finora condotta secondo tre modalità differenti: Comprehensive expenditure reviews, revisioni della spesa di natura straordinaria (l’ultima risale al 2007), con l’obiettivo specifico di realizzare risparmi; Strategic reviews, che costituiscono parte integrante del ciclo di bilancio annuale; Programme evaluations, condotte a livello di singole agenzie governative con l’obiettivo di valutare se le spese effettuate hanno risposto ai requisiti di efficacia ed efficienza. L’ultima Comprehensive expenditure review ha permesso di realizzare risparmi pari a circa 4 miliardi di euro nel 2007 e nel 2008 e di programmarne altri pari a circa 2,2 miliardi a partire dal 2009. Per quanto riguarda invece le Strategic reviews, dal 2008 ne sono state condotte circa dodici, in ambiti che vanno dai programmi sui cambiamenti climatici ai programmi di trasferimenti. Ogni Strategic review dura 4-6 mesi, sotto la supervisione del Ministero delle Finanze, che individua le voci di spesa da esaminare, con successiva conferma da parte dell’intero Governo; i ministeri direttamente coinvolti dalla revisione partecipano ai lavori, ma non possono influenzare né i contenuti delle analisi né tanto meno le raccomandazioni. A partire dal 1994, anche il Canada ha introdotto un sistema di revisione della spesa al fine di ridurre il deficit di bilancio, con ottimi risultati, tanto che i conti pubblici hanno registrato avanzi fino al 2007-2008 (scoppio della crisi internazionale). In questo caso la spending review ha comportato un forte ridimensionamento del settore pubblico, con un taglio dei trasferimenti agli individui (pensioni) e agli enti decentrati, e del numero di dipendenti pubblici. È opinione condivisa che il successo sia dovuto principalmente alle scelte organizzative e di funzionamento dell’operazione. La responsabilità di pianificazione e attuazione del sistema è affidata direttamente a ministri e viceministri, che devono formulare le proposte di rimodulazione della propria spesa, secondo le particolari necessità settoriali; poiché le proposte arrivano dagli stessi soggetti che le devono poi attuare, i comportamenti elusivi sono molto limitati. Infine, nell’esperienza del Regno Unito, l’analisi della spesa è un’attività fondamentale all’interno dell’intero processo di programmazione e formazione del bilancio, con l’obiettivo di stabilire quante risorse spettino a ciascun Ministero, che poi ha la piena responsabilità della loro gestione. Il programma di revisione globale della spesa è stato introdotto nel 1998 e da quell’anno è stato ripetuto con grande frequenza e regolarità. Il primo ciclo di revisione (dal 2004 al 20072008) ha prodotto risultati superiori alle aspettative, con risparmi pari ad oltre 23 miliardi di sterline, contro i 20 programmati. L’ultimo ciclo di spending review (2010) ha previsto tagli alla spesa pubblica per oltre 80 miliardi di sterline entro il 2015, realizzati principalmente attraverso tagli ai ministeri, alle spese per il welfare (incluse le agevolazioni fiscali), ai trasferimenti agli enti locali e al numero dei dipendenti pubblici. scheda / geo La spending review nel mondo 737 approfondimenti I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni Paolo Carelli Dottore di ricerca in Culture della comunicazione, Università Cattolica di Milano, <paolo.carelli@unicatt.it> I mass-media hanno giocato, a partire dalla metà del secolo scorso, un ruolo fondamentale nella Regione araba, contribuendo a formarne l’identità transnazionale. La storia dello sviluppo della radio e della televisione, che rimane il mezzo di comunicazione prevalente nel mondo arabo, aiuta a comprendere le dinamiche di un’area complessa, dove politica, comunicazione e pubblico si intrecciano in modalità diverse. L’ ondata di rivolgimenti sociali che negli ultimi anni ha interessato diverse nazioni del mondo arabo ha messo in evidenza il ruolo dei media e della comunicazione, il loro rapporto con il potere autoritario e il relativo funzionamento all’interno di società ancora distanti da compiuti processi di democratizzazione. I mezzi d’informazione sono stati in grado di influenzare, favorire, talvolta rallentare, eventi che hanno modificato in maniera dirompente il quadro politico e istituzionale di un’intera area del mondo. Per comprendere a fondo il ruolo della comunicazione nel mondo arabo, è necessario tracciare alcune coordinate storiche e ricostruire l’evoluzione dei media in relazione ai contesti sociali e culturali all’interno dei quali si sono sviluppati, evidenziando come specifiche differenze e peculiarità nazionali abbiano di fatto influenzato le diverse tradizioni giornalistiche che si sono formate nei singoli Paesi. L’articolo affronta, da un lato, il rapporto tra i 738 Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (738-748) approfondimenti mass-media e la costruzione del cosiddetto “panarabismo”, sogno e progetto di un’unica voce omogenea del mondo arabo che ha caratterizzato le ambizioni di diversi Paesi e leader politici, ripercorrendo i differenti modelli d’informazione che si sono sedimentati nelle singole nazioni e le tappe salienti dei tentativi di realizzazione di mezzi di comunicazione transnazionali; dall’altro, ci soffermeremo sulle emittenti, i generi e i temi distintivi del sistema televisivo arabo, con particolare attenzione all’esperienza paradigmatica di Al Jazeera, alle nuove frontiere della fiction e della serialità e dei loro rapporti con il potere politico. 1. I media e il “panarabismo” a) I diversi modelli d’informazione Secondo la classica suddivisione operata dallo studioso statunitense di mass-media nei Paesi arabi William Rugh (2004), è possibile individuare almeno quattro differenti modelli che hanno contraddistinto il sistema dell’informazione del mondo arabo nel periodo post-coloniale, costruiti sulla base di alcuni criteri generali d’osservazione che interessano la questione della proprietà dei mezzi, la cultura professionale degli operatori, gli orientamenti culturali sottesi, i generi prevalenti: il modello “della mobilitazione”, quello “della fedeltà”, quello “della transizione” e, infine, il modello “della diversità”. –– Il modello della mobilitazione è stato adottato da quei Paesi in cui regimi militari si sono imposti al potere attraverso la forza e con metodi violenti. Si tratta di quei casi dove il rovesciamento dell’ordine precedente è avvenuto per mano di partiti rivoluzionari i quali si sono serviti della stampa – e più in generale dei mezzi di comunicazione di massa disponibili – per attivare la popolazione e per orientare il consenso a supporto delle riforme proposte. Per quanto riguarda l’elemento della proprietà, il regime è detentore unico delle testate e si registra un forte legame di giornalisti e operatori dell’informazione con il partito unico al potere. Rientrano in questo modello la Siria, il Sudan, la Libia durante il regime di Gheddafi e l’Iraq sotto la dittatura di Saddam Hussein fino alla sua deposizione nel 2003. –– Il modello della fedeltà si è diffuso in Stati guidati da emiri per i quali i principali interessi consistono nel mantenimento della stabilità e dello status quo. Nella maggior parte dei casi, le testate non appartengono direttamente agli apparati governativi, ma a personalità o a facoltosi gruppi privati e vicini e contigui al potere. Sono ammessi e circolano regolarmente anche media d’opposizione I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni 739 i quali, tuttavia, non svolgono una vera e propria attività di controllo e di critica come nella tradizione del giornalismo watch-dog (“cane da guardia” del potere), limitandosi a una copertura di generi d’intrattenimento. L’assenza di una cultura professionale orientata a indipendenza e imparzialità, unita a una censura e a un sistema legislativo restrittivo e repressivo nei confronti dei media, ha prodotto quel meccanismo di fedeltà al potere da parte della stampa con cui Rugh identifica questo secondo gruppo. Alcuni esempi di Paesi dove si registra tale modello d’informazione sono l’Arabia Saudita e i piccoli emirati e sultanati come l’Oman, il Bahrein, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti. –– Il modello della transizione si fonda sulla commistione tra il controllo esercitato dal potere politico e una relativa libertà d’espressione e autonomia dei media. Tuttavia i sistemi mediatici appartenenti a questo modello presentano un elevato grado di adattamento, aggiornamento e capacità di costante evoluzione e mutamento. La proprietà dei mezzi d’informazione è riconducibile sia al Governo (le TV di Stato) sia alle forze politiche e a gruppi industriali privati; ciò garantisce l’esistenza di una pluralità di voci e di orientamenti politico-culturali, sebbene le leggi di settore siano sempre state particolarmente restrittive. Alcuni Paesi storicamente rientranti sotto questo modello sono l’Egitto, la Tunisia, la Giordania, l’Algeria. I rivolgimenti sociali che hanno interessato alcuni di questi territori negli ultimi anni hanno modificato ulteriormente la natura di tali sistemi mediatici confermandone, non a caso, la definizione di media in transizione. –– Il modello della diversità rappresenta un’alternativa radicale rispetto a quelli ora illustrati: la scarsa libertà e autonomia consentite agli operatori dell’informazione nella gran parte dei Paesi arabi hanno portato diversi professionisti del settore a spostarsi verso quelle che Augusto Valeriani, esperto di sociologia dei processi culturali e comunicativi (2005), ha chiamato «oasi di libertà», spazi in cui si è sviluppato un sistema dell’informazione ampiamente slegato e relativamente poco influenzato dal potere politico e religioso. L’esempio più efficace di questo modello è quello del Libano, almeno fino alla guerra civile del 1975: sin dagli anni ’50, infatti, si era radicato un sistema democratico e pluralista che aveva consentito a questo Paese di rimanere pressoché estraneo ai conflitti che avrebbero insanguinato l’area nel corso dei decenni successivi e, soprattutto, di diventare un punto di riferimento per esuli e dissidenti politici i quali contribuirono al fermento culturale ed editoriale che caratterizzò il Paese. Anche in Kuwait si è sviluppato un sistema dei media libero, aperto e democratico: fino all’invasione dell’Iraq e allo scoppio della prima Guerra 740 Paolo Carelli approfondimenti del Golfo nel 1990, il piccolo emirato mediorientale si era ritagliato uno spazio di primo piano nel panorama mediale dell’intera regione grazie all’esplosione di un sistema della stampa diversificato e particolarmente attento agli aspetti commerciali. È qui che, nel corso degli anni ’80, ha avuto grande diffusione il quotidiano Al Watan, punto di riferimento per l’intera area del Golfo (cfr Valeriani 2005, 23). b) Una vocazione transnazionale Un elemento caratterizzante dei media arabi è la loro vocazione transnazionale, cioè la propensione a pensarsi naturalmente in un’ottica che trascende i confini nazionali e a porsi come strumenti di rappresentazione di una composita area regionale. L’intero sistema della comunicazione del mondo arabo si è fondato su questa tendenza a sviluppare percorsi che fossero in grado di unire comunità differenti accomunate dall’appartenenza geografica e culturale, oltre che, in taluni casi, linguistica, storica e religiosa. Tra i leader politici che per primi intuirono e rafforzarono la dimensione sovranazionale del mondo arabo, vi è sicuramente Gamal Abdel Nasser, presidente egiziano dal 1956 al 1970; in lui albergava la convinzione che l’Egitto potesse e dovesse svolgere una funzione di guida per l’intera regione, esercitando influenza politica ed economica sulle nazioni confinanti e limitrofe. A supporto di questo progetto, Nasser tentò di sfruttare i mezzi di comunicazione esistenti, concentrando i suoi sforzi e le sue attenzioni soprattutto sul mondo della radio, che aveva fatto il suo ingresso nella regione araba già nei decenni precedenti, grazie all’iniziativa di Governi occidentali intenzionati a espandere l’esercizio della propria influenza sull’area. Nel 1938, infatti, il servizio pubblico britannico aveva iniziato le trasmissioni di BBC Arabic Service, mentre a partire dal 1950 veniva trasmesso Voice of America, con lo scopo di esercitare un’azione di controllo mediatico dell’area a supporto della propria politica espansionistica. c) Dalla radio alla televisione Nasser intuì le potenzialità della radio come strumento per un’azione politica e culturale di visione regionale e transnazionale e per il contrasto alle mire imperialiste dell’Occidente nei confronti del mondo arabo (cfr Valeriani 2005, 35). La radio doveva svolgere funzioni essenzialmente di propaganda, sostenendo il potere politico nel perseguimento del panarabismo; il presidente egiziano cercò di sfruttare, in questo senso, le potenzialità di Voice of the Arabs (Sawt al Arab), un’emittente radiofonica creata qualche anno prima della sua ascesa al potere, che ebbe un ruolo decisivo (e contraddittorio) nella copertura della Guerra dei sei giorni del 1967. L’eI mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni 741 sperienza di Voice of the Arabs può considerarsi paradigmatica del rapporto tra sistema dei media e sistema politico nel mondo arabo; in primo luogo perché la sua funzione non consisteva tanto nell’informare, ma nel supportare un progetto politico, da cui emerge evidente il richiamo ad alcuni dei modelli mediatici descritti all’inizio di questo articolo. In secondo luogo, il network concepiva un ampio ricorso alla retorica in una chiave di accrescimento della sacralità del leader, attraverso linguaggi che troveranno piena compiutezza con lo sviluppo della televisione. Infine, l’esperienza di Voice of the Arabs s’inseriva nella tradizione sovranazionale dello sviluppo dei media arabi, realizzando prodotti mediali rivolti a un pubblico regionale e non solamente circoscritto entro i confini nazionali. Con l’avvento della televisione, i tentativi di costituire un’organizzazione mediale pienamente ancorata a una dimensione sovranazionale divennero sempre più intensi e strutturati: già negli anni ’60 fu creata l’ASBU (Arab State Broadcast Union), il primo network radiotelevisivo “regionale”, che oggi conta decine di emittenti affiliate, sia pubbliche sia private e provenienti non solo dai Paesi arabi. Due nazioni hanno giocato un ruolo predominante nel favorire aggregazioni mediali su una scala non legata esclusivamente ai confini amministrativi: Egitto e Arabia Saudita. Per diversi decenni, almeno fino agli anni ’90, i due Paesi si sono contesi la leadership della comunicazione nel mondo arabo, nella prospettiva di esercitare un’influenza politica, culturale ed economica sull’intera area (Chiba 2012). Il sogno del “panarabismo” passò anche attraverso la sperimentazione di tecnologie particolarmente innovative come quella che nel 1978 diede vita ad ArabVision, un sistema di condivisione delle informazioni che, tuttavia, si scontrò proprio con «la difficoltà di proporre un’informazione sulla base di valori arabi» (Valeriani 2005, 40) e con il timore dei Governi e dei regimi verso una circolazione di notizie non più controllabile. Con lo scoppio della prima Guerra del Golfo, nel 1990-1991, la prima epopea dell’informazione panaraba subisce una drastica battuta d’arresto: la copertura mediatica del conflitto è ampiamente garantita da network globali, come la CNN, che producono nel pubblico arabo la percezione di uno scarto notevole in termini di professionalità e imparzialità, smascherando i limiti dei media panarabi e abituando progressivamente gli spettatori a un tipo d’informazione modellata su canoni tipicamente occidentali (Kennedy 1993). d) Un mercato regionale La crescita di mezzi di comunicazione disancorati rispetto alla cornice nazionale, ma pensati e organizzati in chiave transnazionale, 742 Paolo Carelli approfondimenti ha contribuito a strutturare un vero e proprio mercato panarabo dei media, divenuto sempre più influente nelle dinamiche politiche e commerciali a livello globale. L’americano Jon B. Alterman, esperto in questioni mediorientali (1999), ha indagato questo mercato regionale evidenziandone i tratti più significativi e le ragioni che lo rendono particolarmente interessante e centrale all’interno del panorama mediatico mondiale. In primo luogo, sostiene l’autore, l’esplosione di media commerciali, avvenuta a partire dagli anni ’90, ha contribuito a indebolire l’informazione tradizionale orientata prevalentemente a soddisfare le esigenze dei Governi, dei regimi o delle élite religiose e finanziarie dei diversi Paesi; il ricorso a generi come le news o l’intrattenimento ha avuto il pregio di ampliare il pubblico e creare forme di ricezione attiva. In secondo luogo, si tratta di mercati realmente regionali, nel senso che spesso gli stessi prodotti e programmi vengono distribuiti e possono essere fruiti in tutta l’area rafforzando il legame tra le diverse comunità. Infine, l’esistenza di emittenti sovranazionali su base regionale ha dato origine a macchine organizzative regionali consentendo l’emergere di un’informazione quanto più possibile indipendente e imparziale, poiché sganciata da vincoli statuali e costantemente alla ricerca di un pubblico che trascenda i confini nazionali. 2. Emittenti, generi, temi a) Al Jazeera, la voce del mondo arabo Intorno alla metà degli anni ’90, il sistema arabo dei media è pronto per sperimentare il lancio di un canale satellitare transnazionale in grado di diventare la voce dell’intera regione nel mondo politico e informativo globale. La svolta ha origine in Qatar, grazie all’ambizione dell’emiro Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, salito al potere nel 1995; nel febbraio dell’anno successivo, Al Thani abolisce per decreto il Ministero dell’Informazione (l’organo di controllo e di censura sui media e i contenuti informativi) e promuove la nascita di un canale satellitare indipendente, sancendo di fatto l’atto di creazione ufficiale di Al Jazeera. In quegli anni, la rivalità mediatica tra Egitto e Arabia Saudita si era trasferita alle televisioni satellitari; il settore era imperniato sulla competizione tra l’Egyptian Space Channel, che trasmetteva dal 1990 rivolto principalmente agli egiziani sparsi nel mondo e più in generale con l’intenzione di diffondere i valori della cultura nazionale in tutta la regione, e almeno tre grandi network riconducibili a proprietà saudite con sedi e centri di trasmissione situati in Europa: MBC (Middle East Broadcasting) con base a Londra dal 1991, Orbit, con I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni 743 sede a Roma dal 1994, e ART (Arab Radio and Television), lanciato sempre nel 1994 ad Avezzano, in Abruzzo. Sarà proprio Orbit ad aprire involontariamente la strada all’ascesa incontrastata di Al Jazeera: all’inizio del 1996, infatti, un accordo siglato pochi mesi prima tra il canale saudita e la divisione araba del servizio pubblico britannico (BBC Arabic Tv Division) naufragò, facendo fallire il primo tentativo di realizzazione di una TV panaraba interamente all news orientata a valori e modelli produttivi e professionali tipicamente occidentali. In quel vuoto, s’inserì il progetto dell’emiro del Qatar: la nascente Al Jazeera divenne rifugio per oltre un centinaio di giornalisti e professionisti formatisi alla scuola della BBC e rimasti senza lavoro (cfr Della Ratta 2005, 121). Tra i fattori che determinarono il successo di Al Jazeera vi erano senza dubbio una struttura organizzativa e una strategia commerciale orientate verso caratteristiche occidentali; lo slogan che accompagnò la nascita dell’emittente recitava: «The opinion and the other opinion» (L’opinione e l’altra opinione), rivelando una ricerca di valori quali l’imparzialità e l’obiettività che la ponevano al centro dei meccanismi competitivi e culturali dei grandi network occidentali e transnazionali. In questo senso, il pieno accreditamento globale di Al Jazeera si compì pochi anni dopo: alla fine degli anni ’90, infatti, il canale ottenne un notevole successo di pubblico grazie alla copertura giornalistica di eventi come l’operazione militare Desert Fox (1998) degli Stati Uniti e del Regno Unito in Iraq e la cosiddetta “seconda intifada”, che segnò una ripresa della rivolta della popolazione palestinese contro il governo israeliano (2000). La tempestività e l’obiettività dell’informazione garantite rappresentarono un punto di svolta sia per il successo dell’emittente, sia per la crescita complessiva della qualità della comunicazione mediale dell’intero mondo arabo. b) Al Arabiya e la concorrenza Un ulteriore momento di rottura nell’evoluzione del sistema mediatico del mondo arabo si verificò nel 2003 con la nascita dell’emittente televisiva Al Arabiya: il progetto prese piede grazie all’iniziativa di un gruppo di facoltosi investitori provenienti da differenti Paesi della regione accomunati da un’avversione nei confronti di Al Jazeera. Il progetto editoriale e culturale di Al Arabiya, infatti, consisteva principalmente nel replicare e contenere le critiche che Al Jazeera riservava stabilmente ai regimi arabi. Con l’acquisizione di giornalisti, operatori e professionisti formatisi proprio alla scuola di Al Jazeera, la nuova emittente intendeva spostare la contesa sul terreno della concorrenza e della qualità del prodotto secondo canoni tipicamente occidentali: la logica della competizione entrava dunque in maniera 744 Paolo Carelli approfondimenti dirompente e stabile all’interno del mondo arabo trasformando, di fatto, la stessa cultura professionale e i valori dell’informazione tradizionalmente radicati nelle società della regione. Strutturare un sistema intorno alla logica concorrenziale aveva in primo luogo l’obiettivo di innalzare la qualità della proposta e la capacità critica del pubblico, oltre che di favorire un pluralismo degli orientamenti politici e culturali; proprio a partire dall’inizio del primo decennio del Duemila, in effetti, l’offerta televisiva del palinsesto arabo subì una profonda trasformazione, facendo registrare un incremento della TV d’intrattenimento, articolata in una varietà di generi – dai quiz alla musica, dallo sport alle soap opera – distanti dai contenuti delle origini. Oggi, l’universo Al Jazeera è sempre più complesso e composito a dimostrazione di come la lezione della globalizzazione abbia attecchito e sia stata pienamente compresa all’interno del mondo arabo. Nel corso degli ultimi anni, il network nato nel piccolo Stato del Qatar si è espanso organizzativamente, linguisticamente e tematicamente, dando vita a decine di canali sparsi in tutto il mondo: nel 2003, nasce Al Jazeera Sports (ora beIN Sports Arabia, con derivazioni in Francia, Russia, Indonesia, Nord America), seguito da Al Jazeera Children Channel (minori) e Al Jazeera Mubasher (argomenti politici e istituzionali), mentre dal 2011 è attivo Al Jazeera Balkans (trasmette da Sarajevo in serbo, croato e bosniaco), dal 2013 Al Jazeera America, e nel 2014 stanno nascendo Al Jazeera Türk (Turchia e Paesi limitrofi) e Al Jazeera Kiswahili (Africa Orientale). c) La fiction nel mondo arabo Nel suo libro Arab Television Today, l’esperta di comunicazione e media arabi britannica Naomi Sakr (2007) sottolineava come uno dei punti di forza del mercato dei media arabi, che avrebbe aperto notevoli prospettive di crescita, era rappresentato dal fatto che quella vasta zona del mondo condividesse una sola lingua capace di connettere le differenti nazioni e culture presenti. In particolare, l’unificazione linguistica consentiva un potenziale allargamento del mercato che in nessun’altra area del pianeta di tali dimensioni, ad eccezione degli Stati Uniti e – almeno in parte – dell’America Latina, poteva dispiegarsi in maniera così ampia; l’autrice dimostrava, inoltre, quanto la combinazione tra l’ingresso delle logiche competitive e le dimensioni del mercato fosse in grado di «stimolare la creatività locale nella programmazione di intrattenimento arabo» (Sakr 2007, 111). Tale consapevolezza spinse investitori e produttori a puntare sulla creazione di format panarabi, seppure in gran parte frutto dell’influenza occidentale, come talent e reality-show; la diffusione della digitalizzazione, poi, ha fatto il I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni 745 resto moltiplicando canali tematici dedicati a temi specifici e rivolti a target sempre più omogeneamente definiti. Recentemente ha attirato l’attenzione degli studiosi di media arabi un nuovo oggetto d’analisi, che ha registrato un grande successo: le cosiddette musalsalat, ovvero fiction, soap opera e narrazioni seriali, che per la maggior parte sono mandate in onda durante il periodo del Ramadan e hanno una durata di trenta giorni, pari al tempo in cui si consuma il momento di preghiera più importante della religione musulmana; in particolare, vengono trasmesse nell’orario del cosiddetto post-iftar, ovvero al termine del pasto quotidiano di rottura del digiuno che si consuma al tramonto, corrispondente di fatto alla fascia televisiva del prime-time. Quello del rapporto tra fiction e religione è un fenomeno che s’inserisce nella tradizione televisiva di nazioni che, più e prima di altre, hanno sperimentato periodi di laicità e modernizzazione; già negli anni ’80, ad esempio, sulle TV egiziane si trasmetteva la soap opera Al-Aylah (La famiglia), una critica dell’Islam radicale e dell’estremismo religioso, lascito inequivocabile dell’ideologia laica propagata nel Paese durante il periodo nasseriano. L’Egitto rimane il principale produttore di fiction, anche se durante il periodo del governo dei Fratelli Musulmani di Mohamed Morsi (deposto il 3 luglio 2013) il loro numero è calato drasticamente; oggi commedie e melodrammi, esportati anche sui principali canali satellitari del mondo arabo, hanno soppiantato sia le fiction celebrative della primavera del 2011 che quelle più marcatamente anti-religiose e anti-conservatrici. Del resto, la serialità televisiva ha sempre rappresentato un terreno fertile dentro cui i regimi del mondo arabo tracciavano i confini della discussione pubblica su temi sensibili come il sesso, la religione e il terrorismo, che non trovavano spazio nelle news e nell’informazione; quindi, le fiction riflettono molto più di altri prodotti mediali i mutamenti delle società arabe e la loro percezione presso l’opinione pubblica. In questo senso, una conferma arriva osservando l’evoluzione della fiction televisiva in una nazione come la Siria, che rappresenta il secondo produttore di opere e racconti appartenenti al genere. Come sottolinea la studiosa Donatella Della Ratta (2014a), la narrazione televisiva seriale è uno degli strumenti culturali maggiormente utilizzato dal regime di Bashar al Assad nella formazione ed educazione della popolazione; le fiction siriane affrontano temi come l’estremismo, il dialogo interreligioso, la libertà della donna e altri argomenti certamente di non facile trattazione all’interno del mondo arabo. Una di queste, Ma malakat Aymanukum (tradotta in italiano Tre donne e trasmessa per un certo periodo sulla rete satellitare Babel), affronta nodi spinosi come la libertà sessuale e l’e746 Paolo Carelli approfondimenti mancipazione femminile in contrasto con l’aderenza ai principi della religione islamica. Tuttavia, proprio il conflitto siriano e la guerra civile scatenata nel Paese da parte del regime di Assad hanno avuto effetti profondi sulla produzione e distribuzione delle fiction arabe; mentre alcuni registi hanno deciso di rimanere in patria girando prodotti che affrontano gli avvenimenti degli ultimi anni con titoli emblematici come Taht sama’a al-Watan (Sotto il cielo della nazione) o Sa na’ud ba’ada qalil (Torniamo fra poco), l’emigrazione di artisti, sceneggiatori e produttori verso altri Paesi ha contribuito a gettare le basi per la riorganizzazione del mercato televisivo arabo. Alcuni dei successi dell’ultima stagione di musalsalat andate in onda durante il periodo del Ramadan, come per esempio Al-Ikhwah (Fratelli) o Halawat al-ruh (La dolcezza dell’anima), sono il risultato della collaborazione produttiva e autoriale di professionisti provenienti da Egitto, Siria, Libano, Paesi dell’Africa settentrionale e altre zone della regione; questa inedita «alleanza panaraba di mercato [rappresenta] il vero trend del Ramadan 2014» (Della Ratta 2014b) e dimostra di poter competere sul mercato mediatico e geopolitico con Paesi come Iran e Turchia, entrambi con una notevole tradizione di produzione seriale alle spalle. 3. Un panorama composito Secondo i dati riportati dall’Arab Station Broadcasting Union, alla fine del 2010 esistevano 470 network televisivi arabi, di cui 26 di proprietà statale o governativa e 444 di natura privata, per un totale di 733 canali (124 governativi e 609 commerciali, di carattere sia generalista che specializzato). Si tratta di un’esplosione che nell’ultimo anno ha fatto registrare un ulteriore incremento, con una preferenza per la TV via satellite, che rappresenta il vero carattere distintivo dei consumi televisivi nel mondo arabo. Daniela Conte, esperta in sistemi politici (2013), ha sottolineato – riportando stime del Fondo Monetario Internazionale – come il mercato dei media panarabo sia compatto intorno a tre soli Paesi: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, che da soli raccolgono circa il 70% degli interi investimenti pubblicitari; inoltre, l’81% di questo traffico è rivolto alle TV satellitari panarabe (guardate dal 90% del pubblico televisivo complessivo), lasciando poco o nulla alle piccole emittenti via etere che trasmettono su base nazionale e locale. Tuttavia, siamo in presenza di un mercato molto frammentato, che riduce notevolmente le possibilità di ottenere investimenti, insieme ad alcuni divieti editoriali frutto delle motivazioni politiche e ideologiche che spesso sono alla base di alcune emittenti nate con intenti esclusivamente religiosi e di contrasto alla laicizzazione dei costumi. I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni 747 risorse L’analisi dell’evoluzione del sistema dei media nel contesto panarabo ha messo in luce la centralità della televisione, che rimane il mezzo principale in cui si giocano sia le contese di carattere politico per il dominio dell’intera regione, sia i cambiamenti culturali che stanno accompagnando le società arabe. Con l’incremento quasi parallelo – seppure con dimensioni diverse – delle televisioni satellitari (soprattutto di carattere tematico) da un lato, e del web dall’altro, sarà interessante in futuro osservare le interazioni tra i diversi mezzi, sia in termini di consumo e produzione di contenuti, sia nelle modalità differenti con cui le TV governative controllate dai regimi e i network globali si approcceranno alle più recenti forme di comunicazione e mobilitazione on line. Alcuni segnali si sono avuti proprio in occasione degli avvenimenti delle cosiddette “primavere arabe”, come ad esempio in Tunisia, dove il rapporto tra vecchi e nuovi media si è caricato di complessità e ambiguità; se da un lato – ha osservato puntualmente il giornalista Colin Delany (2011) – emittenti come Al Jazeera hanno rilanciato in maniera massiccia i video “postati” sulle piattaforme web da parte di attivisti e manifestanti, sganciando la protesta dalla sua dimensione più prettamente generazionale e raggiungendo un pubblico più vasto ed eterogeneo, dall’altro il regime di Ben Ali ha utilizzato le TV di Stato come strumento per depotenziare le rivolte, dando vita a una competizione tutta televisiva avente per terreno di contesa le nuove forme di comunicazione in rete. A lterman J. B. (1999), «Transnational Media and Social Change in the Arab World», in Transnational Broadcasting Studies, 2, <http://tbsjournal.arabmediasociety.com/Archives/Spring99/Articles/Alterman/alterman. html>. Della Ratta, D. (2005), Al Jazeera. Media e società arab nel nuovo millennio, Bruno Mondadori, Milano. Chiba Y. (2012), «A Comparative Study on the Pan-Arab Media Strategies: The Cases of Egypt and Saudi Arabia», in Kyoto Bulletin of Islamic Area Studies, 5, 1-2, pp. 47-60. — (2014b), «Ramadan 2014: un’alleanza panaraba per fare fiction», in Arab Media Report, 17 luglio 2014, <http://arabmediareport.it/ fiction-arabe-ramadan-2014/>. Conte D. (2013), «Televisioni arabe: un mercato ancora da scoprire», in Arab Media Report, 18 settembre 2013, <http://arabmediareport. it/televisioni-arabe-un-mercato-ancora-dascoprire/>. Kennedy S. (1993), «Satelliti e comunità araba in Inghilterra», in Robins K. - Torchi A. (edd.), Geografia dei media. Globalismo, localizzazione e identità culturale, Baskerville, Bologna. Delany C. (2011), «How Social Media Accelerated Tunisia’s Revolution: An Inside View», in E-politics.com, 10 febbraio 2011, <http:// www.epolitics.com/2011/02/10/how-socialmedia-accelerated-tunisias-revolution-an-inside-view/>. 748 Paolo Carelli — (2014a), La fiction siriana. Mercato e politica della televisione nell’era degli Asad, Reset, Roma. Rugh W. A. (2004), Arab Mass Media. News Paper, Radio and Television in Arab Politics, Praeger, Westport. Sakr N. (2007), Arab Television Today, I.B. Tauris, London-New York. Valeriani A. (2005), Il giornalismo arabo, Carocci, Roma. I l ricorso al dileggio umoristico nei confronti del potere e delle autorità non è una pratica nuova nel mondo arabo, ma la tradizione della fumettistica e della satira ha vissuto una vera e propria fase di rinascita nel corso dei rivolgimenti sociali che hanno interessato gran parte dei Paesi arabi negli ultimi anni: l’uso dell’umorismo come strumento di indebolimento dei regimi al potere rappresenta un fenomeno «politicamente secondario ma sociologicamente e antropologicamente significativo» (B. De Poli, «Dal dissenso alla rivoluzione: satira e potere nel mondo arabo contemporaneo», in Diacronie. Studi di storia contemporanea, 11 [2012] 3, <www.studistorici.com/2012/10/29/depoli_numero_11/>). Il contagio rivoluzionario che ha scatenato e accelerato il processo delle rivolte ha avuto nell’ironia collettiva un detonatore importante, mentre la circolazione di video, immagini e vignette sulle diverse piattaforme digitali ha contribuito ad alimentare il dissenso nei confronti del potere costituito. L’incontro tra la scuola umoristica e satirica araba e i social network ha moltiplicato il flusso dei messaggi e rafforzato la conflittualità rispetto al potere, generando un forte inasprimento delle misure repressive, in particolare in Siria o Tunisia. Inoltre, un’analisi più approfondita dei linguaggi e degli effetti che hanno caratterizzato l’esplosione di vignette satiriche sulle piattaforme web mette in evidenza almeno due fenomeni correlati; da un lato, come testimoniato da una pagina Facebook che ha fatto registrare un notevole successo (Comic4Syria), un forte ricorso a simboli e icone della cultura popolare e di massa occidentale (ad esempio vignette che denunciano l’abbraccio tra il dittatore siriano Assad e il presidente russo Vladimir Putin ritratti nelle locandine di film come Via col vento o Titanic); dall’altro l’incapacità dei media tradizionali di cogliere la portata critica della satira e delle vignette, in quanto fenomeno giovanile, dinamico e digitale. La saldatura tra creatività umoristica e social network ha svolto anche una funzione di mobilitazione contro le repressioni attuate dai Governi verso alcuni autori e disegnatori; la nascita di network digitali di artisti e vignettisti ha contribuito a rafforzare le capacità e le possibilità di negoziazione con i regimi e offerto visibilità e solidarietà ad alcuni casi eclatanti di censura. Ricordiamo il progetto «100 dessins pour Jabeur», un sito attraverso il quale artisti di tutto il mondo arabo hanno chiesto la liberazione del collega Jabeur el Mejri detenuto dal marzo 2012 (ottenuta il 19 febbraio 2014), mettendo a disposizione della rete le proprie opere di denuncia nei confronti dei regimi; oppure il caso più sfortunato di Akram Raslan, vignettista siriano oppositore di Assad arrestato nell’ottobre 2012 e giustiziato un anno dopo, per la liberazione del quale fu creata una pagina Facebook (Freedom for the Syrian caricaturist | Akram Raslan) con messaggi e disegni di artisti di tutto il mondo. Paolo Carelli scheda / media Il potere della satira 749 cristiani e cittadini Un’agenda per il diritto al lavoro dignitoso Francesco Pistocchini Redazione di Popoli Chiesa cattolica e Organizzazione internazionale del lavoro si muovono da lungo tempo in sintonia perché l’occupazione e i diritti sul lavoro siano considerati dalla comunità internazionale come il percorso privilegiato nella lotta alla povertà e per una globalizzazione più giusta. Per questo collaborano nel promuoverli, mentre alle Nazioni Unite si definiscono gli Obiettivi di sviluppo per il post-2015. L’ espressione decent work, che in inglese assume un’accezione più estesa di “lavoro dignitoso” perché sottolinea la dignità intrinseca di ogni persona, sta entrando con forza nel dibattito pubblico internazionale. L’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), la più antica agenzia specializzata dell’ONU, ne fornisce una definizione che è sintesi delle aspirazioni delle persone nella propria vita lavorativa. Decent work significa svolgere un lavoro produttivo e che garantisca un equo compenso, sicurezza sul posto di lavoro e protezione sociale per le famiglie, migliori prospettive di crescita personale e integrazione sociale, libertà di esprimersi, organizzare, partecipare a discussioni che riguardano la propria vita, pari opportunità per donne e uomini; una tematica che sta a cuore anche alla Chiesa, che ne ha fatto un argomento centrale della sua dottrina sociale, come vedremo in questo contributo. Il concetto di decent work unisce in sé il diritto al lavoro e i diritti sul lavoro, definiti in otto Convenzioni dell’OIL approvate dalla 750 Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (750-756) cristiani e cittadini stragrande maggioranza degli Stati: sull’organizzazione dei lavoratori (1948), la contrattazione collettiva (1949), contro il lavoro forzato (1930, 1957), contro le discriminazioni (1951, 1958) e contro il lavoro minorile (1973, 1999). Nel 1998 la Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali del lavoro ha riassunto questo cammino. Dalla fine degli anni ’90 il riconoscimento della dignità del lavoro è diventato una priorità per l’OIL. Nel mondo del lavoro le crescenti disuguaglianze scaturite dalla globalizzazione hanno avuto effetti dirompenti, provocando, da un lato, il declino del lavoro dipendente formale e, dall’altro, un aumento degli impieghi informali nel Nord del mondo e di posti di lavoro a basso costo (e limitate tutele) nelle nuove economie emergenti orientate all’esportazione: aumento delle ore di lavoro, riduzione dei salari ed erosione del sistema previdenziale si sono manifestati in molti Paesi, non solo in Italia. Nell’era della globalizzazione l’OIL ha riaffermato i propri principi con la Dichiarazione sulla giustizia sociale e per una globalizzazione giusta del 2008, in cui ribadisce che occupazione, protezione sociale, dialogo sociale e diritti nel lavoro sono obiettivi strategici tra loro interconnessi, e che i Paesi sono tenuti a perseguire. È l’Agenda per il decent work, che assume, visto il gran numero di Stati firmatari, un valore universale. Il contributo delle Nazioni Unite Nel 2015 le Nazioni Unite valuteranno i risultati degli otto Obiettivi del Millennio fissati nel 2000, mentre tra i Paesi membri e gli organismi internazionali è in corso da due anni la riflessione sui nuovi obiettivi per il periodo 2015-2030. Una vasta indagine globale condotta dall’ONU sulle future priorità ha mostrato che la creazione di posti di lavoro si colloca fra le prime tre della lista per i consensi raccolti (cfr <http://vote.myworld2015.org>). Secondo l’OIL ci sono globalmente più di 200 milioni di disoccupati, di cui 73 milioni giovani. L’attenzione però dovrebbe rivolgersi non solo al numero di lavoratori, ma anche alla qualità dell’impiego, poiché la crisi economico-finanziaria ha messo ancora più in luce fenomeni di crescita senza equità, mentre si diffonde la richiesta di sicurezza sociale in un contesto di crescita del lavoro informale e milioni di lavoratori con le loro famiglie restano intrappolati sotto la soglia di reddito di 2 dollari al giorno. Se, come affermano alcune stime, occorre creare 470 milioni di posti di lavoro nei prossimi quindici anni per stare al passo con la crescita della popolazione attiva, quale sarà la qualità di questo lavoro? Quali reali opportunità esisteranno per emergere da condizioni di indigenza? La risposta richiede di affrontare i problemi della precarietà e delle disuguaglianze di reddito che stanno indebolendo le protezioni Un’agenda per il diritto al lavoro dignitoso 751 sociali costruite nei decenni scorsi in Occidente e che non ne favoriscono lo sviluppo nel resto del mondo. L’OIL si è dunque impegnata perché il lavoro sia in cima all’agenda internazionale per lo sviluppo. Il decent work come impegno per i Governi, catalizzatore di politiche di giustizia e promozione umana, diventa allora un termine ampio per indicare buona qualità dell’impiego e protezione sociale. Per l’OIL occorre integrarlo in un quadro strategico socioeconomico più ampio possibile, per prevenire il declino, stimolando la crescita e dando forma a una globalizzazione equa. Un Gruppo di lavoro aperto sullo sviluppo sostenibile (Open Working Group on Sustainable Development Goals, OWG-SDG) sta preparando le proposte, attualmente formulate in una “Bozza zero” (Zero draft), dove è indicato un lungo elenco di 17 obiettivi che hanno come orizzonte temporale il 2030. Alcuni si pongono sulla scia degli otto in scadenza, altri sono nuovi e rispecchiano le nuove priorità globali. L’OIL insiste per l’adozione dell’ottavo, relativo al decent work: «Promote sustained, inclusive and sustainable economic growth, full and productive employment and decent work for all» («Promuovere una crescita economica sostenuta, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva e lavoro dignitoso per tutti»). Solo tre degli otto Obiettivi del Millennio fissati nel 2000 sono stati pienamente raggiunti e altri in modo parziale, ma l’esperienza dimostra che laloro stessa definizione, comune a tutti i Paesi, offre una cornice in cui mettere a fuoco gli sforzi per lo sviluppo. Le priorità danno forza. Il processo di definizione dei prossimi obiettivi di sviluppo, nonostante il peso preponderante dei Governi, è aperto e partecipativo e molti soggetti si sono mossi attivamente. Leader sindacali di ogni parte del mondo, coordinati dall’OIL, hanno definito in giugno proposte concrete per l’OWG. Lo stesso vale per l’Organizzazione internazionale degli imprenditori (IOE) e l’Alleanza internazionale delle cooperative (ICA). Nel 2007 la campagna «Decent Work, Decent Life» fu lanciata dalla Confederazione sindacale internazionale (ITUC) e dall’anno successivo il 7 ottobre è diventato la Giornata mondiale dedicata al decent work. In questo spazio di partecipazione della società civile si inseriscono le Chiese – quella cattolica, in primis – la cui voce, anche per conto di chi non ha voce, ricerca nuovi canali di ascolto, a partire dai messaggi del Papa. Il 9 maggio, in Vaticano, di fronte all’influente Comitato esecutivo di alto livello che coordina il sistema delle Nazioni Unite, papa Francesco ha ricordato che lo sguardo, spesso silenzioso, di quella parte della famiglia umana che è messa da parte, deve portare a decisioni coraggiose con risultati immediati. 752 Francesco Pistocchini cristiani e cittadini Chiesa e OIL: una collaborazione di lunga data La Chiesa cattolica è direttamente impegnata per un accordo globale su un’agenda che accresca numero e qualità dei posti di lavoro, per stimolare i Paesi a concentrare l’attenzione politica e le risorse su aspetti cruciali che non sono stati affrontati in modo adeguato dagli Obiettivi del periodo 2000-2015. Tale impegno si colloca sulla scia di una collaborazione tra la Santa Sede e l’OIL che non ha equivalenti con altre agenzie dell’ONU. Fondata a Ginevra nel 1919, nel quadro della Società delle Nazioni, l’OIL già negli anni ’20 aprì canali di collaborazione con la Santa Sede, stabilendo contemporaneamente rapporti anche con il mondo protestante, attraverso il Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC) che ha sede nella città svizzera, e allargò lo spazio di collaborazione con gli organismi religiosi. Con la decolonizzazione, nel secondo dopoguerra, l’OIL fu capace di mettersi in relazione anche con i non cristiani, trovando specialmente nel mondo islamico, ebraico e buddhista interlocutori sempre più interessati a cercare nei valori fondanti dell’Organizzazione orizzonti comuni tra persone di diverse fedi. Negli ultimi anni seminari organizzati in diverse città del mondo dall’OIL e dal CEC hanno studiato le prospettive spirituali e di fede legate al decent work e approfondito il confronto interreligioso sulla giustizia sociale, ma è nella Chiesa cattolica che l’Organizzazione trova un interlocutore fondamentale. Lo ha ricordato papa Francesco in un messaggio all’ultima assemblea dell’OIL: «L’insegnamento della Chiesa si pone a sostegno delle iniziative dell’OIL che intendono promuovere la dignità della persona umana e la nobiltà del lavoro». L’opposizione all’idea che il lavoro sia una merce, espressa nella Dichiarazione di Filadelfia del 1944 dell’OIL, fa eco a quanto Pio XI aveva ribadito nel 1931 nella Quadragesimo anno (n. 84). La riflessione strutturata della dottrina sociale della Chiesa sul lavoro, antica più di un secolo, proseguita da Giovanni XXIII nella Mater et magistra (1961) e da Giovanni Paolo II nella Laborem exercens (1981), ha nutrito nel tempo l’opera dell’OIL. Proprio nella Laborem exercens il Papa insisteva su un dato etico fondamentale: «Il lavoro […] è non solo un bene “utile” o “da fruire”, ma un bene “degno”, cioè corrispondente alla dignità dell’uomo, un bene che esprime questa dignità e la accresce». «Il lavoro – specifica il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa (CDSC, n. 287), esplicitando la tradizione personalista che pone l’uomo al centro della creazione – ha tutta la dignità di un ambito in cui deve trovare realizzazione la vocazione naturale e soprannaturale della persona». Nel corso degli anni i documenti papali hanno anche intrecciato i tradizionali temi del lavoro con quelli dello sviluppo umano, in una dinamica di reciproco scambio. Un’agenda per il diritto al lavoro dignitoso 753 Nel 2000, invitato da Giovanni Paolo II, l’allora direttore generale dell’OIL, Juan Somavía, parlò davanti a 250mila persone riunite per il Giubileo dei lavoratori e illustrò l’Agenda per il decent work nel XXI secolo. Cinque anni dopo, presentando all’Università Lateranense il rapporto The challenge of a fair globalization, frutto di tre anni di lavoro di un’importante commissione dell’OIL, Somavía (2005) ribadiva la necessità di rendere il decent work un obiettivo globale. «Mentre nel corso degli anni la Chiesa cattolica ha arricchito il suo insegnamento sociale, abbiamo sviluppato la cornice del diritto internazionale per una società migliore, costruita, attraverso il dialogo tripartito, sull’ideale del lavoro che diventi sempre più dignitoso e disponibile per tutti». Tale incoraggiamento da parte della Santa Sede all’indirizzo dell’OIL è ben presente a Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate, laddove spiega che cosa significhi la parola «decente» applicata al lavoro (CV, n. 63). Rilancio cattolico «Desideriamo però ancora di più, il nostro sogno vola più alto – scrive papa Francesco nella Evangelii gaudium nel novembre 2013 –. Non parliamo solamente di assicurare a tutti il cibo, o un “decoroso sostentamento”, ma che possano avere “prosperità nei suoi molteplici aspetti”. Questo implica educazione, accesso all’assistenza sanitaria, e specialmente lavoro, perché nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita» (EG, n. 192). Da Cagliari, nel settembre 2013, dove ha definito il lavoro sorgente di dignità, a Terni, di fronte agli operai delle acciaierie, dove ha parlato di solidarietà umana che assicura a tutti la possibilità di svolgere un’attività lavorativa dignitosa, papa Francesco ha costantemente invitato tutte le forze sociali alla collaborazione per il bene comune. La lotta alla povertà, che nelle parole e nei gesti di questo Papa ha avuto richiami così espliciti, trova un nuovo slancio in tante realtà cristiane. La percezione che il decent work possa realmente catalizzare l’impegno multiforme per la giustizia e la difesa degli emarginati ha portato una trentina di organizzazioni internazionali di ispirazione cattolica a sottoscrivere, nel giugno 2013, la Dichiarazione per il lavoro dignitoso e l’agenda per lo sviluppo dopo il 2015, che individua nell’occupazione giovanile e nel lavoro dei migranti due ambiti prioritari di attenzione e sostiene l’OIL nel suo sforzo per inserire il decent work nel quadro di riferimento post-2015. In prima linea per questo rilancio è il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace che il 29 e 30 aprile scorsi a Roma ha organizzato insieme all’OIL un seminario di 754 Francesco Pistocchini cristiani e cittadini studi sul decent work, nella convinzione che esso sia «la chiave essenziale di tutta la questione sociale». Il seminario ha riunito una cinquantina di delegati di 22 Paesi, membri di UNIAPAC (imprenditori cattolici), IYCW (giovani lavoratori cristiani), MMTC (Movimento mondiale dei lavoratori cristiani), IMCSC (studenti cattolici), ICMC (Commissione per le migrazioni), Pax Romana, Kolping internazionale, Caritas e altre realtà impegnate su più fronti con le persone vulnerabili. L’incontro è stato un’occasione di conoscenza e di scambio di buone pratiche nate da innumerevoli esperienze sul campo, mettendo a confronto organismi impegnati su temi che si intersecano: giovani lavoratori, migranti irregolari, sfollati interni, categorie vulnerabili come i lavoratori marittimi o quelli dediti all’assistenza domiciliare. Una moltitudine di soggetti colpiti da forme di sfruttamento, con cui tante associazioni cattoliche vengono a contatto in ogni Paese: 5,7 milioni di minori sono vittime di lavoro coatto, servitù domestica, matrimoni forzati e forme di asservimento basate sulle caste. «Sono forme più sottili di schiavitù – ha denunciato il 9 settembre scorso al Consiglio per i Diritti umani di Ginevra il rappresentante vaticano mons. Silvano Tomasi – e meritano un’attenzione specifica». L’insegnamento sociale della Chiesa, come ha ribadito il card. Peter Turkson, che presiede il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, è pertinente rispetto agli obiettivi per il post-2015. Da questa consapevolezza è scaturita una strategia per spingere il decent work in cima all’agenda per lo sviluppo dell’ONU. Secondo questa road map approvata a Roma, non possono restare senza risposta le sofferenze che derivano dalle strutture ingiuste, da forme di lavoro precario e scarsamente remunerato, dal traffico di esseri umani e dal lavoro forzato, dalle diffuse forme di disoccupazione tra i giovani e dalle migrazioni non volontarie. L’obiettivo è dunque quello di portare queste istanze presso i rappresentanti dei Paesi che negoziano il nuovo quadro, perché l’accordo tra Governi nel definire le priorità nella cooperazione multilaterale orienterà scelte politiche e finanziamenti e avrà influenza su milioni di persone. La 69ª Assemblea generale dell’ONU, che si è conclusa il 1º ottobre, ha dibattuto i temi del post-2015 in vista della dichiarazione universale prevista per settembre del prossimo anno. Tuttavia, come riferisce Joseph C. Donnelly, delegato permanente di Caritas Internationalis presso le Nazioni Unite, il tema del decent work in questa occasione, anche se non è stato ignorato, non ha trovato ancora un’attenzione adeguata. «Molte organizzazioni della società civile – spiega – si fanno portavoce di questa realtà, di un bisogno disperato e diffuso di lavoro, ma non hanno ancora forza sufficiente per essere Un’agenda per il diritto al lavoro dignitoso 755 risorse ascoltate e le risposte alle richieste dei giovani disoccupati sembrano ancora insufficienti». Le parole forti che papa Francesco ha rivolto in maggio al Comitato esecutivo dell’ONU sono risuonate il 26 settembre nel discorso del Segretario di Stato, card. Pietro Parolin, all’Università di Fordham, l’ateneo dei gesuiti di New York: promuovere tutti insieme una vera mobilitazione etica mondiale che, al di là di ogni differenza di credo o di opinione politica, diffonda e applichi un ideale comune di fraternità e di solidarietà, specialmente verso i più poveri e gli esclusi. Il percorso attraverso il decent work è delineato. Resta ancora un anno per influenzare chi decide gli indirizzi dello sviluppo globale. Magistero CV = Benedetto XVI, enciclica Caritas in veritate, 2009 EG = Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium, 2013. LE = Giovanni Paolo II, enciclica Laborem exercens, 1981. MM = Giovanni XXIII, enciclica Mater et magistra, 1961. QA = Pio XI, enciclica Quadragesimo anno, 1931. Pallottino M. (2013), «Un’agenda per lo sviluppo: la cooperazione dopo gli Obiettivi del Millennio», in Aggiornamenti Sociali, 6-7, 475486. Papa Francesco (2014a), Discorso ai dirigenti e agli operai delle acciaierie di Terni e ai fedeli della diocesi di Terni-Narni-Amelia, 20 marzo, in <www.vatican.va>. RN = Leone XIII, lettera enciclica Rerum novarum, 1891. — (2014b), Discorso ai membri del Consiglio dei capi esecutivi per il coordinamento delle Nazioni Unite, 9 maggio, in <www.vatican.va>. CDSC (2004) = Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano. — (2013), Visita pastorale a Cagliari. Incontro con il mondo del lavoro, 22 settembre, in <www. vatican.va>. Testi Dichiarazioni dell’OIL: <www.ilo.org/public/en glish/bureau/leg/declarations.htm>. Bhowmik S. K. (2013) (ed.), The State of Labour. The Global Financial Crisis and Its Impact, Routledge India, London-New York-New Delhi. Bureau International du Travail (2012), Convergences: travail décent et justice sociale dans les traditions religieuses, OIT, Genève. Open Working Group on Sustainable Development Goals (2014), Zero Draft, in <http:// sustainabledevelopment.un.org/owg.html>. Organizzazioni internazionali di ispirazione cattolica (2014), «Il lavoro dignitoso e l’agen756 da per lo sviluppo dopo il 2015», in Aggiornamenti Sociali, 1, 54-60. Francesco Pistocchini Parolin P. (2014), Address at Fordham University, New York, 26 settembre, <www.centesimu sannus.org/media/2inuu1412320318.pdf>. Peccoud D. (2005) (ed.), Philosophical and spiritual perspectives on Decent work, ILO Publications, Geneva. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (2002), Work as Key to the Social Question. The Great Social and Economic Transformations and the Subjective Dimension of Work, Libreria Editrice Vaticana, Roma. Somavía J. (2005), The Challenge of a Fair Globalization, Roma, <www.ilo.org/public/english/bu reau/dgo/speeches/somavia/2005/rome.pdf>. Tomasi S. (2014), Statement at the 27th Session of the Human Rights Council, 9 settembre, in <http://holyseemissiongeneva.org>. Verso la libertà Vincent D. Rougeau Preside della Law School del Boston College di Newton Centre, Massachussetts (USA) voci del mondo Gli USA a cinquant’anni dal Civil Rights Act Sono passati cinquant’anni dall’approvazione negli Stati Uniti del Civil Rights Act, che ha segnato la fine legale di discriminazione e segregazione razziale, sebbene il pregiudizio nei confronti delle persone di colore abbia continuato a segnare la storia di una delle maggiori potenze mondiali. Negli ultimi anni, tuttavia, sembra davvero che la società americana stia andando oltre la dicotomia bianchi/neri. Riusciranno gli USA a fare tesoro della loro storia e a mettere in atto una politica migratoria giusta ed equa, superando le loro paure e creando una società più inclusiva e partecipativa? N on molti Paesi in epoca moderna sono stati più impegnati degli Stati Uniti nell’intrecciare l’elemento razziale nel tessuto sociale. Il perpetuarsi di una schiavitù a base razziale in una nazione fondata su nozioni radicali di libertà individuale alimentò un dualismo riguardo ai concetti di “bianco” e “nero” che, seppur semplicistica, durò a lungo sia nel diritto, sia nella cultura americani. Sebbene un’atroce guerra civile abbia posto fine all’istituzione legalmente riconosciuta della schiavitù (1861-1865), ciò non bastò a impedire che le persone di “provata” origine africana fossero, allora come oggi, politicamente e socialmente emarginate. La nostra ossessione per le razze è stata all’origine di alcuni tra i più riprovevoli eventi della nostra storia, ma ha anche dato adito ad alcuni dei nostri più grandi trionfi. Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (757-762) 757 Tra questi eventi da celebrare, ce ne fu uno il cui cinquantesimo anniversario è ricorso quest’estate: l’approvazione del Civil Rights Act da parte del Parlamento degli Stati Uniti nel 1964. Pur pensato in una prospettiva più ampia della sola discriminazione razziale, esso è considerato come un grande trionfo del movimento per i diritti civili e dello sforzo di porre fine alla discriminazione nei confronti dei neri negli Stati Uniti e contribuì a completare la trasformazione degli Stati Uniti da nazione provinciale di ristrette vedute a potenza globale. Affrontando la discriminazione Cinquant’anni sono un lungo periodo nella vita di una persona (nel mio caso sono una vita intera), ed è perciò sempre più difficile per la gente di oggi immaginare come fossero gli Stati Uniti prima del 1964. Per chi se ne ricorda, i cambiamenti scatenati dal Civil Rights Act furono straordinari e parte di un periodo di stridente cambiamento culturale e legale. Prima del 1964, la discriminazione e la segregazione razziali erano abituali e parte integrante nella vita della maggior parte degli americani. Nonostante la Corte Suprema degli Stati Uniti avesse bandito la segregazione razziale dalle scuole pubbliche nel 1954, all’inizio degli anni ’60 e per molti anni a venire sia nel Nord sia nel Sud del Paese si continuò a opporre una diffusa resistenza a questa regola. La segregazione era ancora la norma, implicita ed esplicita, in quasi tutto il resto della vita quotidiana. A metà degli anni ’50 mio nonno e i suoi fratelli emigrarono dalle province rurali verso le città del petrolio nella Louisiana del Sud, rispondendo alla crescente domanda di manovalanza di basso e medio livello. Nel giorno di paga erano soliti avviarsi verso la raffineria per riscuotere il salario. Qualche volta venivano pagati subito. Altre volte passavano tutto il giorno a guardare mentre tutti i bianchi della fabbrica venivano chiamati nell’ufficio per essere pagati; questo spesso comportava che loro non ricevessero i soldi se non alla fine della giornata. Tali comportamenti facevano parte degli affronti quotidiani nei riguardi di chi era nero negli Stati Uniti e non erano nemmeno considerati degni di nota da parte di molti che ne erano vittime, nonostante il disagio e l’umiliazione che causavano, e non sono dissimili da certi affronti spesso subiti oggi dagli immigrati irregolari. L’emarginazione e la debolezza rendono facili prede di occasionali atti di crudeltà, piccola e grande. Già dai primi anni ’60 era chiaro che l’opinione degli americani circa la questione della razza stava mutando, ma il vero cambiamento era ancora lontano a venire. Nel 1961 il padre di mia moglie di758 Vincent D. Rougeau voci del mondo venne uno dei primi ingegneri neri impiegati dai Bell Labs. Fin dal primo giorno fu tormentato senza tregua: dalla spazzatura rovesciata sulla sua sedia, ai pupazzi che venivano regolarmente impiccati alla lampada sulla sua scrivania. Nel frattempo, lui e la moglie non riuscivano a trovare una casa decente dove andare a vivere, finché mia suocera non prese direttamente in mano la situazione. Cercando casa da sola, con la sua pelle olivastra e i lunghi capelli castani, si presentava bene come inquilina per appartamenti nella cittadina benestante di Summit (New Jersey), dove infine si stabilirono e dove mia moglie visse durante l’infanzia. Tuttavia, acquistare casa lì si rivelò molto difficile (mia suocera non aveva i mezzi per farlo da sola) e così finirono per stabilirsi in una città limitrofa più multietnica ma sempre più segregata e decadente. Come a tanti altri professionisti neri del loro tempo, se volevano vivere in una comunità che in qualche modo li accettasse, si vedevano negata l’opportunità di accumulare ricchezza investendo in una casa di loro proprietà, poiché queste spesso si svalutavano nel tempo con l’aumentare della segregazione nei quartieri dove risiedevano. Il Civil Rights Act dette il via a una cascata di leggi stilate con l’intento di promuovere l’uguaglianza tra le razze e tra i sessi, una politica equa della casa e dei salari, ma considerando gli eventi degli ultimi cinquant’anni è particolarmente evidente il fatto che ci volle molto tempo affinché si consolidasse un vero cambiamento, e che esso fu spesso dovuto a fattori esterni, quali il cambiamento economico, l’immigrazione e il semplice passare del tempo. Altrettanto impressionante è ciò che si staglia all’orizzonte. Potrebbe essere prematuro chiamare gli Stati Uniti una nazione post-razziale, ma è chiaro che il processo che porterà a quel tipo di società è già ben avviato. Una storia eccezionale Nonostante l’onnipresenza della razza come elemento strutturante della nostra storia, gli americani sono molto a disagio quando si tratta di accettarla e farla propria come parte integrante di una identità condivisa. Molti spesso si affannano per fingere di non vedere il fattore razziale nella vita quotidiana (quante volte si descrive qualcuno nei minimi particolari, prima di arrivare a dire che è nero!), si accettano senza alcun problema gli effetti corrosivi del razzismo tuttora presenti nelle istituzioni e nella struttura sociale. Altri tendono a insistere sul fatto che il razzismo americano fu semplicemente una sfortunata aberrazione della gloriosa storia degli inizi della nazione. Molti sostengono che la razza non conta più e si oppongono anche agli sforzi più modesti di riparare al passato razzista dell’America. Verso la libertà 759 Ed è un peccato, poiché ci sono state anche delle vittorie sui nostri demoni della razza che vale la pena festeggiare, e quei momenti della nostra storia segnano dei successi peculiari dell’esperimento americano. Gli Stati Uniti non furono i soli a creare e mantenere una classe inferiore, ma non molti altri Paesi sono altrettanto veloci nell’assegnare a sé stessi uno status di eccezionalità che suggerisca il contrario. Non molto tempo fa, durante il discorso inaugurale all’Accademia militare di West Point, il presidente Obama dichiarò di credere «con tutte le fibre del suo essere» nell’eccezionalità americana e che gli Stati Uniti rimangano l’unica nazione «indispensabile». Il Civil Rights Act fu sicuramente un momento di eccezionale presa di coscienza ed è quasi impossibile immaginare che al giorno d’oggi si possa varare un insieme di leggi così rivoluzionario. Ma gli Stati Uniti dimostrarono anche un forte attaccamento all’istituzione della schiavitù, molto tempo dopo che la maggior parte delle altre società vi aveva posto fine, e ci volle una guerra civile di brutalità scioccante per abolirla. Dopo la guerra, abbiamo mantenuto per un altro secolo un sistema altamente efficace di segregazione razziale con mezzi legali e non. Tutto ciò rende gli Stati Uniti eccezionali (e forse non così indispensabili), ma non nel modo che che noi di solito vogliamo far intendere. Nell’ultima decina d’anni tuttavia si è diffusa sempre di più in molti americani la sensazione che qualcosa di fondamentale sia cambiato nell’intendere la questione razziale. Abbiamo un Presidente afroamericano con una madre bianca e un padre keniota. La categoria razziale con la crescita più rapida nel censimento statunitense è attualmente quella della “razza mista” e improvvisamente la polarità neri/bianchi, che era una parte così integrante della coscienza americana, comincia a suonare sorpassata e anacronistica. Nelle aree urbane di Boston, dove abito, la popolazione nera sta crescendo rapidamente grazie all’immigrazione dall’Africa, dai Caraibi e dall’America Latina. Molti di questi immigrati rifiutano la dicotomia americana bianco/nero e non vogliono avere nulla a che fare con il termine “afroamericano”. Nella mia stessa famiglia, la maggior parte dei cugini primi dei miei figli appartiene a famiglie multirazziali, e prevedo che la cosa continuerà quando osservo i miei figli uscire con i loro rispettivi fidanzati e fidanzate, preparandosi a scegliere i loro compagni di vita. La prossima battaglia Benché sia importante onorare il passato mentre si festeggia il cinquantesimo del Civil Rights Act, è essenziale prendere in conside760 Vincent D. Rougeau voci del mondo razione il futuro. Come verranno interpretati la razza e la discriminazione razziale in un’America sempre più multiculturale? I discendenti degli schiavi negli Stati Uniti figurano ancora in modo sproporzionato nelle statistiche negative relative a indigenza, istruzione, famiglie monoparentali, creazione di ricchezza e speranza di vita. La discriminazione e il razzismo si fanno ancora regolarmente vedere. Il Presidente è stato vittima di uno sforzo clamoroso da parte del Partito repubblicano di rendergli quasi impossibile governare e si sentono ripetutamente dichiarazioni da parte di parlamentari repubblicani tali da non lasciare dubbi sul fatto che essi preferirebbero il blocco dell’azione di governo piuttosto che lavorare con Barack Obama. Abbiamo dovuto assistere all’umiliazione scioccante di un Presidente fischiato da un membro del Parlamento durante l’annuale discorso sullo stato dell’Unione. Sì, penso che una bella fetta del problema sia la razza, ma quanto a lungo costoro – in gran parte uomini bianchi arrabbiati eletti in collegi blindati – potranno continuare a ignorare la realtà multirazziale dell’America e la sfida a lungo termine che essa presenta alla politica nella nostra democrazia? Parlando come persona che ha visto l’orizzonte delle possibilità della propria vita allargarsi grazie al Civil Rights Act, sono profondamente grato agli uomini e alle donne del movimento dei diritti civili e del governo che ebbero il coraggio e l’ispirazione di renderlo realtà. Ma guardando al futuro, darò il benvenuto a un’America che non sia più divisa tra bianchi e neri. Mi danno speranza i giovani che incontro e che vengono da posti come Ghana, Nigeria, Repubblica Dominicana, Haiti e Brasile, che hanno spinto gli americani verso una consapevolezza più ricca e globale di che cosa significhi essere nero. Benedico l’immigrazione dall’America Latina, dall’Asia e altrove, che è stata un fattore chiave nel rendere le nostre città più cosmopolite, vivaci e aperte. Sotto molti aspetti, il modo in cui trattiamo gli immigrati si sta rivelando come un nuovo problema di diritti civili, e solleva preoccupazioni circa esclusione, inclusione e partecipazione in una società democratica, le stesse che caratterizzarono anche il movimento dei diritti civili alla metà del XX secolo. Questi problemi dovrebbero avere un peso particolare per i cattolici, poiché i nostri insegnamenti in campo sociale si schierano in maniera molto forte a favore dell’inclusione sociale dei poveri e degli stranieri. Mentre il Parlamento divora risorse in termini di tempo e denaro per realizzare ben poco che sia duraturo in relazione all’immigrazione, la sua indifferenza e inerzia dovrebbero sottolineare l’opportunità per noi di agire in modi che facciano onore al retaggio del Civil Rights Act. Verso la libertà 761 L’immigrazione non rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti più di quanto non lo fosse il permettere ai neri di accedere ai posti di lavoro in posizione di parità o di comprare casa dove volessero. Trattare le persone con dignità a prescindere dal colore della pelle, dal sesso, dall’orientamento sessuale o dal Paese di origine richiede di liberarsi di pregiudizi di vecchia data e impone un cambiamento. Accogliere le possibilità e le opportunità che si presenteranno con un sistema più umano di immigrazione in questo Paese ci consentirà di riconoscere la realtà di un cambiamento che è già in atto e che offre ai nostri figli e nipoti la speranza che l’America multiculturale che sta emergendo intorno a loro sarà un luogo pieno di aspettative, opportunità e vigore, invece che una roccaforte di rabbia e paura. Nel 1964 serpeggiava molta paura e il superamento di secoli di discriminazione razziale in questo Paese è ancora in fase di completamento, ma come società ci esprimiamo al meglio quando ci apriamo alle possibilità di molti e quando riusciamo a guardare oltre noi stessi per vedere Dio nel volto dell’altro. Festeggiare il Civil Rights Act ci permette di ricordare un periodo molto difficile nella nostra storia comune e ci ricorda quanto abbiamo progredito. Ci ricorda anche la saggezza e la dignità di chi ci ha preceduto e ha creduto che questa nazione potesse essere migliore. Lo sviluppo di una politica migratoria giusta e umana sarebbe un ulteriore passo verso tale meta e un modo degno di onorare il retaggio del Civil Rights Act in una nazione che sta velocemente superando la contrapposizione tra bianchi e neri. Titolo originale «Freedom Bound. The Legacy and Ongoing Challenge of the Civil Rights Act», apparso su America, 7-14 luglio 2014, pp. 15-17. Traduzione di Maria McKenna. Neretti a cura della Redazione. 762 Vincent D. Rougeau documenti La responsabilità di proteggere della comunità internazionale Pietro Parolin Segretario di Stato della Santa Sede Il 29 settembre 2014, il card. Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, è intervenuto alla 69a Sessione dell’Assemblea generale dell’ONU, a New York. Riproponiamo qui il testo del suo discorso, in quanto presenta autorevolmente la posizione ufficiale della Chiesa rispetto all’attuale delicatissima situazione internazionale: arrestare ogni aggressione attraverso l’azione multilaterale e un uso proporzionato della forza è sia lecito sia urgente. Alla comunità internazionale spetta la responsabilità di identificare i mezzi per raggiungere questo obiettivo, che non possono limitarsi al ricorso alle armi, ma devono includere il dialogo tra le culture e una nuova comprensione del diritto internazionale. Il card. Parolin offre poi il contributo della Santa Sede all’elaborazione dei nuovi obiettivi di sviluppo che dovranno entrare in vigore dopo il 2015 e afferma che la responsabilità di proteggere si estende a ogni forma di aggressione, anche quella che viene da un sistema finanziario dominato dalla speculazione. S ignor Presidente, nell’estenderle le congratulazioni della Santa Sede per la sua elezione alla presidenza della 69ª Sessione dell’Assemblea Generale, desidero trasmettere i cordiali saluti di Sua Santità Papa Francesco a lei e a tutte le delegazioni partecipanti. Egli vi assicura della sua vicinanza e delle sue preghiere per Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (763-772) 763 il lavoro di questa sessione dell’Assemblea Generale, nella speranza che si possa svolgere in un clima di collaborazione produttiva, per la costruzione di mondo più fraterno e unito, individuando modi per risolvere i gravi problemi che oggi affliggono l’intera famiglia umana. In continuità con i suoi predecessori, di recente Papa Francesco ha ribadito la stima e l’apprezzamento della Santa Sede per le Nazioni Unite quale mezzo indispensabile per costruire un’autentica famiglia di popoli. La Santa Sede apprezza gli sforzi di questa illustre istituzione, «realizzati a favore della pace mondiale e del rispetto della dignità umana, della protezione della persona, specialmente dei più poveri o più deboli, e dello sviluppo economico e sociale armonioso» 1. Su questa linea, e in numerose occasioni, Sua Santità ha incoraggiato gli uomini e le donne di buona volontà a mettere le loro capacità efficacemente al servizio di tutti lavorando insieme, in collaborazione con la comunità politica e ogni settore della società civile 2. Il rischio dell’indifferenza e dell’apatia Pur ricordando i doni e le capacità della persona umana, Papa Francesco osserva che oggi esiste il pericolo di una diffusa indifferenza. Nella misura in cui questa indifferenza riguarda il campo della politica, colpisce anche i settori economico e sociale, «visto che una parte importante dell’umanità continua ad essere esclusa dai benefici del progresso e, di fatto, relegata a esseri umani di seconda categoria» 3. Talvolta tale apatia è sinonimo di irresponsabilità. È questo il caso oggi, quando un’unione di Stati, creata con l’obiettivo fondamentale di salvare le generazioni dall’orrore della guerra che porta dolore indicibile all’umanità 4, resta passiva dinanzi alle ostilità subite da popolazioni indifese. Desidero ricordare le parole che Sua Santità ha rivolto al Segretario Generale all’inizio d’agosto: «È con il cuore carico e angosciato che ho seguito i drammatici eventi di questi ultimi giorni nel nord Iraq», pensando alle «lacrime, le sofferenze e le grida accorate di disperazione dei cristiani e di altre minoranze religiose dell’amata terra dell’Iraq». Nella stessa lettera il Papa ha rinnovato il suo appello urgente alla comunità internazionale «ad intervenire per 1 Papa Francesco, Discorso ai membri del Consiglio dei Capi esecutivi per il coordinamento delle Nazioni Unite, 9 maggio 2014 (disponibile, come tutti i documenti pontifici citati, in <www.vatican.va>). 2 Cfr Id., Messaggio al World Economic Forum, 17 gennaio 2014. 3 Id., Discorso ai membri del Consiglio dei Capi esecutivi, cit. 4 Cfr Preambolo della Carta delle Nazioni Unite. 764 Pietro Parolin documenti porre fine alla tragedia umanitaria in corso». Ha inoltre incoraggiato «tutti gli organi competenti delle Nazioni Unite, in particolare quelli responsabili per la sicurezza, la pace, il diritto umanitario e l’assistenza ai rifugiati, a continuare i loro sforzi in conformità con il Preambolo e gli Articoli pertinenti della Carta delle Nazioni Unite» 5. Una risposta unificata alla sfida terroristica Oggi sono costretto a ripetere il sentito appello di Sua Santità e a proporre all’Assemblea Generale, come anche agli altri organi competenti delle Nazioni Unite, che questo organismo approfondisca la sua comprensione del momento difficile e complesso che stiamo vivendo. Con la drammatica situazione nel nord dell’Iraq e in alcune parti della Siria, constatiamo un fenomeno totalmente nuovo: l’esistenza di un’organizzazione terrorista che minaccia tutti gli Stati promettendo di scioglierli e di sostituirli con un governo mondiale pseudoreligioso. Purtroppo, come il Santo Padre ha detto di recente, anche oggi c’è chi pretende di esercitare il potere forzando le coscienze e togliendo vite, perseguitando e assassinando nel nome di Dio 6. Queste azioni feriscono interi gruppi etnici, popolazioni e culture antiche. Occorre ricordare che questa violenza nasce dal disprezzo di Dio e falsifica la «religione stessa, la quale, invece, mira a riconciliare l’uomo con Dio, a illuminare e purificare le coscienze e a rendere chiaro che ogni uomo è immagine del Creatore» 7. In un mondo di comunicazioni globali, questo nuovo fenomeno ha trovato proseliti in molti luoghi ed è riuscito ad attrarre giovani da tutto il mondo, spesso disillusi da una diffusa indifferenza e dalla mancanza di valori nelle società opulente. Questa sfida, in tutti i suoi aspetti tragici, dovrebbe spingere la comunità internazionale a promuovere una risposta unificata, basata su solidi criteri giuridici e sulla volontà collettiva di cooperare per il bene comune. A tal fine, la Santa Sede ritiene utile concentrare l’attenzione su due ambiti importanti. Il primo è quello di affrontare le origini culturali e politiche delle sfide contemporanee, riconoscendo il bisogno di strategie innovative per far fronte a questi problemi internazionali in cui i fattori culturali svolgono un ruolo fondamentale. Il secondo 5 Papa Francesco, Lettera al Segretario generale dell’ONU circa la situazione nel Nord dell’Iraq, 9 agosto 2014. 6 Cfr L’Osservatore Romano, 3 maggio 2014. 7 Benedetto XVI, Discorso ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 7 gennaio 2013. La responsabilità di proteggere della comunità internazionale 765 ambito su cui riflettere è un ulteriore studio dell’adeguatezza del diritto internazionale oggi, vale a dire l’efficacia della sua attuazione da parte dei meccanismi utilizzati dalle Nazioni Unite per prevenire la guerra, fermare gli aggressori, proteggere le popolazioni e aiutare le vittime. Promozione del dialogo e diritto internazionale Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, quando il mondo si risvegliò alla realtà di una nuova forma di terrorismo, alcuni media e centri di pensiero hanno eccessivamente semplificato quel tragico momento interpretando tutte le situazioni susseguenti e problematiche in termini di scontro di civiltà. Tale visione non teneva conto delle antiche e profonde esperienze di buone relazioni tra culture, gruppi etnici e religioni, e interpretava attraverso questa lente altre situazioni complesse quale la questione mediorientale e i conflitti civili attualmente in corso altrove. Similmente, ci sono stati dei tentativi per trovare cosiddetti rimedi legali per contrastare e prevenire la crescita di questa nuova forma di terrorismo. Talvolta sono state preferite soluzioni unilaterali a quelle fondate sul diritto internazionale. Anche i metodi adottati non hanno sempre rispettato l’ordine costituito o le particolari circostanze culturali di popoli che spesso si sono trovati involontariamente al centro di questa nuova forma di conflitto globale. Questi errori, e il fatto che siano stati approvati almeno tacitamente, ci dovrebbero portare a un serio e profondo esame di coscienza. Le sfide che pongono le nuove forme di terrorismo non devono farci soccombere a visioni esagerate e a estrapolazioni culturali. Il riduzionismo dell’interpretare situazioni in termini di uno scontro di culture, giocando sulle paure e i pregiudizi esistenti, porta solo a reazioni di natura xenofoba che, paradossalmente, servono a rafforzare proprio quei sentimenti che stanno al centro del terrorismo stesso. Le sfide che ci si pongono devono spronare a un rinnovato appello al dialogo religioso e interculturale e a nuovi sviluppi nel diritto internazionale, al fine di promuovere iniziative di pace giuste e coraggiose. Quali sono, dunque, i cammini che possiamo seguire? Prima di tutto, c’è il cammino della promozione del dialogo e della comprensione tra culture, che è già implicitamente contenuto nel Preambolo e nel primo articolo della Carta delle Nazioni Unite. Questo cammino deve diventare un obiettivo sempre più esplicito della comunità internazionale e dei Governi se davvero siamo impegnati per la pace nel mondo. Allo stesso tempo dobbiamo ricordare che non spetta alle organizzazioni internazionali o agli Stati inventare la cultura, né è possibile farlo. Similmente, non compete ai Go766 Pietro Parolin documenti verni affermarsi come portavoce di culture, né essere gli attori principali responsabili del dialogo culturale e interreligioso. La crescita naturale e l’arricchimento della cultura sono, piuttosto, frutto di tutte le componenti della società civile che lavorano insieme. Le organizzazioni internazionali e gli Stati hanno sì il compito di promuovere e sostenere, in modo decisivo e con i necessari mezzi finanziari, quelle iniziative e quei movimenti che promuovono il dialogo e la comprensione tra culture, religioni e popoli. La pace, dopo tutto, non è il frutto di un equilibrio di poteri, ma piuttosto l’esito della giustizia a ogni livello e, cosa più importante, responsabilità condivisa degli individui, delle istituzioni civili e dei Governi. In effetti, ciò significa comprendersi reciprocamente e apprezzare la cultura e le circostanze dell’altro. Implica anche preoccuparsi gli uni degli altri condividendo i patrimoni spirituali e culturali e offrendo opportunità per l’arricchimento umano. E tuttavia, non affrontiamo le sfide del terrorismo e della violenza solo con l’apertura culturale. Abbiamo a disposizione anche l’importante via del diritto internazionale. La situazione attuale esige una comprensione più incisiva di questo diritto, prestando particolare attenzione alla «responsabilità di proteggere». Di fatto, una delle caratteristiche del recente fenomeno terrorista è che ignora l’esistenza dello Stato e, di fatto, dell’intero ordine internazionale. Il terrorismo non mira solo a portare cambiamenti ai Governi, a danneggiare le strutture economiche o a commettere semplicemente dei crimini. Cerca di controllare direttamente aree all’interno di uno o più Paesi, di imporre le proprie leggi, che sono distinte e opposte rispetto a quelle dello Stato sovrano. Inoltre mina e rifiuta ogni sistema giuridico esistente, cercando di imporre il dominio sulle coscienze e il controllo completo sulle persone. Un rinnovato ruolo delle Nazioni Unite La natura globale di questo fenomeno, che non conosce confini, è esattamente la ragione per cui il quadro del diritto internazionale offre l’unica via percorribile per affrontare questa sfida urgente. Questa realtà esige Nazioni Unite rinnovate, che s’impegnino a promuovere e a preservare la pace. Attualmente, i partecipanti attivi e passivi di un tale sistema sono tutti gli Stati, i quali si pongono sotto l’autorità del Consiglio di Sicurezza e si impegnano a non intraprendere atti di guerra senza l’approvazione di questo stesso Consiglio. In tale quadro, l’azione militare svolta da uno Stato in risposta a un altro Stato è possibile solo nel caso di autodifesa quando si è sotto attacco armato diretto, e solo fino a quando il Consiglio di Sicurezza riesce a prendere con successo le misure necessarie per La responsabilità di proteggere della comunità internazionale 767 ripristinare la pace e la sicurezza internazionale 8. Le nuove forme di terrorismo compiono azioni militari su vasta scala. Non riescono ad essere contenute da un solo Stato, e intendono esplicitamente dichiarare guerra alla comunità internazionale. In tal senso, abbiamo a che fare con un comportamento criminale non previsto dalla configurazione giuridica della Carta delle Nazioni Unite. Ciononostante, bisogna riconoscere che le norme vigenti per la prevenzione della guerra e l’intervento del Consiglio di Sicurezza sono ugualmente applicabili, su basi diverse, nel caso di una guerra provocata da un “attore non statale”. È così, in primo luogo, perché l’obiettivo fondamentale della Carta è di evitare la piaga della guerra alle generazioni future. La struttura giuridica del Consiglio di Sicurezza, pur con tutti i suoi limiti e difetti, è stata stabilita proprio per questa ragione. Inoltre, l’art. 39 della Carta delle Nazioni Unite attribuisce al Consiglio di Sicurezza il compito di determinare le minacce o le aggressioni alla pace internazionale, senza specificare il tipo di attori che compiono queste minacce o aggressioni. Infine, gli Stati stessi, in virtù della loro adesione alle Nazioni Unite, hanno rinunciato a qualsiasi uso della forza che sia incoerente con i fini delle Nazioni Unite 9. Considerato che le nuove forme di terrorismo sono “transnazionali”, esse non rientrano più nelle competenze delle forze di sicurezza di un solo Stato: riguardano i territori di diversi Stati. Pertanto, saranno necessarie le forze combinate di diverse nazioni per garantire la difesa di cittadini disarmati. Poiché non esiste norma giuridica che giustifichi azioni di polizia unilaterali oltre i propri confini, non c’è alcun dubbio che si tratti di un ambito di competenza del Consiglio di Sicurezza. Ciò perché, senza il consenso e la supervisione dello Stato nel quale viene esercitato l’uso della forza, questa forza si tradurrebbe in una instabilità regionale o internazionale, e pertanto rientrerebbe negli scenari previsti dalla Carta delle Nazioni Unite. Fermare ogni aggressione La mia Delegazione desidera ricordare che è sia lecito sia urgente arrestare l’aggressione attraverso l’azione multilaterale e un uso proporzionato della forza. Come soggetto rappresentante una comunità religiosa mondiale che abbraccia diverse nazioni, culture ed etnicità, la Santa Sede spera seriamente che la comunità internazionale si assuma la responsabilità riflettendo sui mezzi 8 9 768 Pietro Parolin Cfr Carta delle Nazioni Unite, art. 51. Cfr ivi, art. 2, 4. documenti migliori per fermare ogni aggressione ed evitare il perpetrarsi di ingiustizie nuove e ancor più gravi. La situazione presente, pertanto, pur essendo di fatto molto seria, è un’occasione perché gli Stati membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite onorino lo spirito stesso della Carta delle Nazioni Unite parlando apertamente dei tragici conflitti che stanno lacerando interi popoli e nazioni. È deludente che finora la comunità internazionale sia stata caratterizzata da voci contraddittorie e perfino dal silenzio riguardo ai conflitti in Siria, in Medio Oriente e in Ucraina. È importantissimo che ci sia unità d’azione per il bene comune, evitando il fuoco incrociato di veti. Come Sua Santità ha scritto lo scorso 9 agosto al Segretario Generale, «la più elementare comprensione della dignità umana, costringe la comunità internazionale, in particolare attraverso le norme ed i meccanismi del diritto internazionale, a fare tutto ciò che le è possibile per fermare e prevenire ulteriori violenze sistematiche contro le minoranze etniche e religiose». Pur essendo il concetto di «responsabilità di proteggere» implicito nei principi costituzionali della Carta delle Nazioni Unite e del diritto umanitario, non favorisce in modo specifico il ricorso alle armi. Piuttosto, afferma la responsabilità dell’intera comunità internazionale, in spirito di solidarietà, di combattere crimini odiosi come il genocidio, la pulizia etnica e la persecuzione per motivi religiosi. Qui con voi, oggi, non posso non menzionare i molti cristiani e le minoranze etniche che negli ultimi mesi hanno subito persecuzioni e sofferenze atroci in Iraq e in Siria. Il loro sangue esige da tutti noi un fermo impegno a rispettare e a promuovere la dignità di ogni singola persona in quanto voluta e creata da Dio. Ciò significa anche rispetto della libertà religiosa, che la Santa Sede considera un diritto fondamentale, poiché nessuno può essere costretto «ad agire contro la sua coscienza» e ognuno «ha il dovere e quindi il diritto di cercare la verità in materia religiosa» 10. In sintesi, la promozione di una cultura di pace esige sforzi rinnovati a favore del dialogo, dell’apprezzamento culturale e della cooperazione, nel rispetto della varietà delle sensibilità. Quel che occorre è un approccio politico lungimirante che non imponga rigidamente modelli politici a priori che sottovalutano le sensibilità dei singoli popoli. Infine deve esserci una disponibilità autentica ad applicare scrupolosamente gli attuali meccanismi del diritto, restando allo stesso tempo aperti alle implicazioni di questo momento cruciale. Ciò assicurerà un approccio multilaterale 10 Concilio Vaticano II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 7 dicembre 1965, n. 3. La responsabilità di proteggere della comunità internazionale 769 che servirà meglio la dignità umana e proteggerà e promuoverà lo sviluppo umano integrale in tutto il mondo. Questa disponibilità, laddove viene espressa in modo concreto attraverso nuove formulazioni giuridiche, certamente porterà una rinnovata vitalità alle Nazioni Unite. Aiuterà anche a risolvere conflitti gravi, siano essi in atto o latenti, che ancora colpiscono alcune parti dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia, e la cui risoluzione definitiva richiede l’impegno di tutti. L’agenda dello sviluppo dopo il 2015 Signor Presidente, Con la Risoluzione a/68/6 della 68ª Sessione dell’Assemblea Generale è stato deciso che la presente Sessione avrebbe discusso l’Agenda di sviluppo post-2015, perché fosse poi formalmente adottata durante la 70ª Sessione a settembre 2015. Lei stesso, Signor Presidente, ha opportunamente scelto il tema della presente Sessione: «Delivering and Implementing a Transformative Post-2015 Development Agenda» 11. Durante il suo recente incontro con tutti i capi esecutivi delle agenzie, dei fondi e dei programmi delle Nazioni Unite, Sua Santità ha chiesto che i futuri obiettivi per uno sviluppo sostenibile fossero formulati «con generosità e coraggio, affinché arrivino effettivamente a incidere sulle cause strutturali della povertà e della fame, a conseguire ulteriori risultati sostanziali a favore della preservazione dell’ambiente, a garantire un lavoro decente per tutti e a dare una protezione adeguata alla famiglia, elemento essenziale di qualsiasi sviluppo economico e sociale sostenibile. Si tratta, in particolare, di sfidare tutte le forme di ingiustizia, opponendosi alla “economia dell’esclusione”, alla “cultura dello scarto” e alla “cultura della morte”» 12. Papa Francesco ha incoraggiato i capi esecutivi a promuovere «una vera mobilitazione etica mondiale che, al di là di ogni differenza di credo o di opinione politica, diffonda e applichi un ideale comune di fraternità e di solidarietà, specialmente verso i più poveri e gli esclusi» 13. A tale riguardo, la Santa Sede apprezza i diciassette «Obiettivi di Sviluppo Sostenibile» proposti dal gruppo di lavoro (Gruppo aperto di lavoro sugli obiettivi di sviluppo sostenibile), che cercano di affrontare le cause strutturali della povertà promovendo un lavoro dignitoso per tutti. Allo stesso modo, la Santa Sede apprezza che la 11 «Elaborare e attuare un programma per lo sviluppo post-2015 capace di generare trasformazione» [N.d.R.] 12 Papa Francesco, Discorso ai membri del Consiglio dei Capi esecutivi, cit. 13 Ivi. 770 Pietro Parolin documenti maggior parte degli obiettivi e dei mezzi non rifletta i timori delle popolazioni ricche riguardo alla crescita demografica nei Paesi più poveri. Apprezza anche il fatto che gli obiettivi e i mezzi non impongano agli Stati più poveri stili di vita che di solito sono associati alle economie avanzate e che tendono a mostrare disprezzo per la dignità umana. Inoltre, per quanto riguarda l’Agenda di sviluppo post-2015, l’incorporazione dei risultati del Gruppo aperto di lavoro sugli obiettivi di sviluppo sostenibile, insieme con le indicazioni date dal Rapporto del comitato intergovernativo di esperti sul finanziamento dello sviluppo sostenibile e quelle che emergono dalle consultazioni tra le agenzie, appare indispensabile per la realizzazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile e dell’Agenda di sviluppo post-2015. Proteggere i poveri dalla speculazione Tuttavia, e malgrado gli sforzi delle Nazioni Unite e di tante persone di buona volontà, il numero dei poveri e degli esclusi sta crescendo non soltanto nei Paesi in via di sviluppo, ma anche in quelli sviluppati. La «responsabilità di proteggere», come affermato prima, si riferisce alle aggressioni estreme contro i diritti umani, ai casi di grave spregio del diritto umanitario o alle catastrofi naturali gravi. In modo analogo, c’è l’esigenza di prendere provvedimenti giuridici per proteggere le persone da altre forme di aggressione, che sono meno evidenti ma altrettanto gravi e reali. Per esempio, un sistema finanziario governato solo dalla speculazione e dalla massimizzazione dei profitti, o in cui le singole persone sono considerate come oggetti usa e getta in una cultura dello spreco, potrebbe equivalere, in alcune circostanze, a una offesa contro la dignità umana. Ne consegue, pertanto, che le Nazioni Unite e i suoi Stati membri hanno un’urgente e grave responsabilità verso i poveri e gli esclusi, ricordando sempre che la giustizia sociale ed economica è una condizione essenziale per la pace. Imparare dalla storia Signor Presidente, ogni giorno della 69ª Sessione dell’Assemblea generale, e di fatto anche delle prossime quattro Sessioni, fino a novembre 2018, recherà con sé il triste e doloroso ricordo della futile e disumana tragedia della prima guerra mondiale – una «inutile strage», come l’ha definita Papa Benedetto XV –, con i suoi milioni di vittime e l’indicibile distruzione. Ricordando il centenario dell’inizio del conflitto, Sua Santità Papa Francesco ha formulato l’auspicio che «non si ripetano gli sbagli del passato, ma si tengano presenti le lezioni della storia, facendo sempre prevalere le ragioLa responsabilità di proteggere della comunità internazionale 771 ni della pace mediante un dialogo paziente e coraggioso» 14. In quell’occasione, il pensiero di Sua Santità si è concentrato in modo particolare su tre aree di crisi: il Medio Oriente, l’Iraq, l’Ucraina. Ha esortato tutti i cristiani e le persone di fede a pregare il Signore perché «conceda alle popolazioni e alle Autorità di quelle zone la saggezza e la forza necessarie per portare avanti con determinazione il cammino della pace, affrontando ogni diatriba con la tenacia del dialogo e del negoziato e con la forza della riconciliazione. Al centro di ogni decisione non si pongano gli interessi particolari, ma il bene comune e il rispetto di ogni persona. Ricordiamo che tutto si perde con la guerra e nulla si perde con la pace» 15. Signor Presidente, facendo miei i sentimenti del Santo Padre, spero fervidamente che possano essere condivisi da tutti i presenti. Porgo a tutti voi i miei migliori auguri per il vostro lavoro, fiducioso che questa Sessione non lesinerà sforzi per porre fine al fragore delle armi che caratterizza i conflitti in corso e che continuerà a promuovere lo sviluppo dell’intera razza umana, e in particolare dei più poveri tra noi. Grazie, Signor Presidente. 14 Id., 15 Ivi. Angelus, 27 luglio 2014. Il testo originale inglese e la traduzione in italiano, che qui riprendiamo, sono disponibili in <www. vatican.va>, come tutti i documenti pontifici in esso citati. Titolo generale, suddivisione in paragrafi e relativi titoli a cura della nostra Redazione. 772 Pietro Parolin © sonia frangi immagini Sonia Frangi Finestre 2014: Berlino Apriamo la nostra finestra alla Bellezza. “Bello”, “bellezza”, “arte” sono parole che usiamo quotidianamente, per definire un sentire di meraviglia inspiegabile che si desta quando soffermiamo lo sguardo su un quadro, leggiamo una poesia, contempliamo un’opera architettonica. Un sentire universale, di cui tutti dovrebbero poter fruire, grazie anche alla politica, alla scuola, alla famiglia. Come dice Peppino Impastato nel film I cento passi, «Bisognerebbe ricordare alla gente cos’è la bellezza. Insegnargli a riconoscerla. A difenderla», affinché rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore sul mondo. 774 tools Strumenti per capire e pensare la nostra società recensione Dalla biblioteca di Aggiornamenti Sociali, un libro da leggere vetrina Libri, film, eventi segnalati dalla Redazione bussola bibbia aperta Elementi di riflessione sociale a partire da testi biblici bibbia aperta Mura e muri di Giuseppe Trotta SJ Redazione di Aggiornamenti Sociali Q uando, venticinque anni fa, crollò il muro di Berlino, il cammino dell’umanità verso una pace più diffusa e una maggiore cooperazione fra i popoli sembrava ricevere un nuovo slancio, grazie al superamento della contrapposizione tra i blocchi Est-Ovest che era all’origine della cosiddetta “guerra fredda”. A distanza di pochi anni, invece, un altro crollo, quello delle Torri gemelle di New York, sembra aver bloccato questo processo, assumendo una valenza simbolica che legittima, per motivi di sicurezza, il mantenimento dei muri già eretti in varie parti del mondo sull’esempio di quello costruito a Berlino nel 1961, nonché l’erezione di nuovi. Osservando da questo punto di vista gli sviluppi della storia recente si potrebbe constatare, come Qoelet, in modo un po’ cinico e sconsolato: Niente di nuovo sotto il sole! (cfr Ecclesiaste 1,9). Fin dall’antichità, infatti, le mura fortificate erano impiegate per difendersi dagli attacchi dei nemici e manifestavano anche l’importanza della città e la potenza di chi la governava. Così l’immaginario popolare ne ha fatto il simbolo 776 Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (776-780) della sicurezza, associandole alla divinità, garante ultima del tutto. Ad esempio, nel mito greco, Laomedonte, uno dei re di Troia, chiese a Zeus di rendere inespugnabile la città facendo edificare le sue mura dagli dèi. Gli autori biblici non fanno eccezione: Circondate Sion, giratele intorno, contate le sue torri. Osservate le sue mura, passate in rassegna le sue fortezze, per narrare alla generazione futura: Questo è il Signore, nostro Dio in eterno (cfr Salmo 48); sanno, però, anche cogliere l’ambivalenza di ogni realizzazione umana, nel cui significato simbolico leggono una modalità di relazione fra gli uomini e con Dio. In particolare, sono i profeti a interpretare così la realtà delle mura e dei muri in genere, aprendo in essi una breccia per guardare oltre. Le mura come Alleanza Comunemente si intende per profezia la capacità di prevedere il futuro e vaticinarlo. Nella Bibbia, invece, si tratta piuttosto dell’abilità di interpretare l’accaduto alla luce della fede nel Dio della storia e di mettersi in sintonia con lo Spirito bibbia aperta per vedere dove passa la sua via qui e ora e dove conduce. Infatti, molte profezie bibliche sono state scritte post eventum, cioè dopo aver visto le conseguenze degli avvenimenti. In alcuni testi particolari, noti come “apocalissi” (ovvero “rivelazioni”), la profezia si evolve andando oltre i singoli eventi contingenti e i loro sviluppi e fondando l’interpretazione della storia sul suo compimento finale: il giudizio di Dio, il giorno del Signore, quando Lui stesso interviene a instaurare il suo Regno sulla terra. Il libro del profeta Isaia contiene un testo del genere, la cosiddetta Apocalisse di Isaia (Isaia 24-27), in cui alcuni avvenimenti sono letti alla luce del futuro escatologico (dal greco éschatos, che vuol dire “ultimo”), il traguardo a cui la storia tende come sua realtà definitiva. Nei versetti 25,10b-26,3 (cfr riquadro), il profeta accosta un’antica battaglia fra gli ebrei e i moabiti risalente al tempo dell’Esodo (XIII sec. a.C.) – di cui, però, non abbiamo traccia – e il momento del ritorno dall’esilio in Babilonia (VI sec. a. C.). Entrambi gli eventi hanno la loro cifra significativa nelle mura della città, abbattute nel primo caso, rese salde nel secondo. Gli ebrei fuoriusciti dall’Egitto entrarono nella Terra promessa passando da oriente. Pertanto, a un certo punto dovettero attraversare il territorio di Moab, situato a est del Mar Morto, ma i suoi abitanti cercarono di ostacolarli, chiamando un veggente, Balaam, per maledirli. Il Signore, però, non lo permise e Israele poté passare indenne. Così nacque un’ostilità insanabile fra i due popoli, tanto che il Deuteronomio comanda perentoriamente: L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore; non vi entreranno mai perché non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino quando uscivate dall’Egitto e perché hanno assoldato contro di te Balaam, figlio di Beor, da Petor nel paese dei due fiumi, perché ti maledicesse (Deuteronomio 23,4-5). L’episodio assume, agli occhi del profeta Isaia, un senso apocalittico, cioè rivelativo dell’agire del Dio di Israele nella storia: chi si oppone al suo piano viene sbaragliato, nonostante la grandezza delle opere delle sue mani. Infatti, quando il Signore interviene, in quel giorno, neanche le mura più alte e spesse costruite dall’uomo possono opporsi e restare in piedi, come un nuotatore, per quanto abile, non può rimanere a galla nel letame. Al contrario, invece, la città del popolo eletto è resa inespugnabile proprio dalle sue mura, erette da Dio stesso, al punto da assumere il nome – che ne esprime l’intima realtà secondo la mentalità biblica – di Isaia 25,10b-26,3 salvezza: Non si sentirà 25, 10 Moab sarà calpestato al suolo, come si pesta la paglia più parlare di violenza nel nel letamaio. 11 Là esso stenderà le mani, come le distende tuo paese, di devastazione e il nuotatore per nuotare; ma il Signore abbasserà la sua di distruzione entro i tuoi 12 superbia, nonostante gli sforzi delle sue mani. L’eccelsa confini. Tu chiamerai salfortezza delle tue mura egli abbatterà e demolirà, la raderà vezza le tue mura e gloria al suolo. 26,1 In quel giorno si canterà questo canto nel paele tue porte (Isaia 60,18). se di Giuda: Abbiamo una città forte; egli ha eretto a nostra Per i moabiti, quinsalvezza mura e baluardo. 2 Aprite le porte: entri il popolo di, le fortificazioni sono giusto che mantiene la fedeltà. 3 Il suo animo è saldo; tu gli assicurerai la pace, pace perché in te ha fiducia. un segno di superbia, un Mura e muri 777 ostacolo posto davanti al corso inesorabi- dalla fedeltà all’alleanza e in questo conle degli eventi guidati da Dio verso il loro siste l’essere giusti. compimento escatologico in un tentativo Pertanto, come il Signore protegge illusorio di salvarsi con le proprie mani, Israele e non permette a Moab di fermarper gli ebrei rientrati dall’esilio, invece, lo con una maledizione in vista del bene sono l’immagine visibile della protezione, universale, così non risparmia di corregdel porto sicuro al quale il Signore con- gerlo quando, con il suo comportamento, duce il suo popolo. ostacola il compimento della sua opera Questo genere di testi va sempre letto nella storia. Secondo gli storici ebrei che nel contesto più ampio dell’intero mes- hanno narrato quell’evento nella Bibbia saggio biblico, per non perdere di vista (cfr 2 Cronache 36) la caduta stessa di la volontà universale di salvezza espressa Gerusalemme nel 587 a.C., con la distruda Dio mediante l’elezione di un popolo zione delle sue mura e la deportazione in particolare e per non scambiare questo Babilonia, va proprio attribuita all’infesuo modo di agire per un arbitrio ingiu- deltà all’alleanza. stificato. Infatti, lo stesso Isaia poco priDel resto, lo stesso profeta Isaia rima aveva affermato: Preparerà il Signore legge nella sconfitta dei moabiti quanto degli eserciti per tutti i popoli, su questo Israele aveva già vissuto in prima permonte, un banchetto di grasse vivande, un sona nella vicenda dell’esilio, da lui debanchetto di vini eccellenti, di cibi succu- scritto nel Canto della vigna (cfr Isaia lenti, di vini raffinati (Isaia 25,6). 5,1-7) con una metafora poetica imperCosì anche le mura non vengono ab- niata proprio sull’abbattimento del mubattute o tenute in piedi perché erette ro con cui venivano recintate le vigne dagli uni o dagli altri, ma in virtù della per proteggerle dagli animali e dai ladri loro relazione con questo progetto sal- (cfr riquadro). vifico del Signore della storia: l’alleanza Pertanto, a partire dall’esperienza in termini biblici. Quelle della città di di Israele, tutti i popoli possono vedere Moab sono rase al suolo in quanto sim- come non è possibile garantire pace e bolo dell’opposizione a ciò che Dio vuo- sicurezza, di cui le mura erette da Dio le realizzare mediante il popolo scelto da sono simbolo, a prescindere dalla giustiLui, mentre quelle della città di Giuda zia attesa dal Signore come manifestaziorestano salde perché rappresentano la concretizIsaia 5,4-8 zazione storica dell’alle4 Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non anza. Infatti – il profeta lo dice chiaramente – le abbia fatto? Perché, mentre 5attendevo che producesse uva, porte delle sue mura si essa ha fatto uva selvatica? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si aprono al passaggio del trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà popolo giusto che mantie- calpestata. 6 La renderò un deserto, non sarà potata né ne la fedeltà a quel piano vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò divino. Non c’è un diritto di non mandarvi la pioggia. 7 Ebbene, la vigna del Signore acquisito in base al quale degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda la rivendicare il primato agli sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco occhi di Dio, ma la pace spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida e la sicurezza – di cui le di oppressi. 8 Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite mura diventano un sim- campo a campo, finché non vi sia più spazio, e così restate bolo – vengono assicurate soli ad abitare nel paese. 778 Giuseppe Trotta SJ bibbia aperta ne visibile della sua alleanza. Se il muro comporta oppressione o esclusione, prima o poi sarà abbattuto, chiunque sia il suo costruttore, Moab o Israele: non si può recintare e occupare tutto lo spazio e restate soli ad abitare nel paese! La fine del muro La rilettura profetica e quella apocalittica della storia, quindi, mostrano come l’opera di Dio consista nell’abbattere ogni genere di realtà umana che possa fare da ostacolo all’alleanza, sia i muri e le mura reali, costruiti con pietre e mattoni, sia quelli virtuali, come addirittura la legge. Lo testimonia la stessa storia biblica: nonostante il divieto del Deuteronomio, infatti, proprio una donna moabita, Rut, diventa la bisnonna del re Davide (cfr Rut 4,13-22). È un caso paradossale, ma emblematico, in cui un evento salvifico, quindi voluto da Dio, sembra contraddire la Legge, anch’essa proveniente da Lui. Rut, rimasta vedova e senza figli, si rifiuta di lasciare la suocera ebrea, Noemi, a sua volta vedova, senza figli e in più anziana, e la segue quando lei decide di rientrare nel suo paese natio, Betlemme, per assisterla, accettando di condividere tutto con lei: dove andrai tu andrò anch’ io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio (cfr Rut 1,16). Lì Rut lavora per sostenere Noemi e accetta di sposare un suo parente, Booz, per darle una discendenza. Gli anziani, da parte loro, riconoscono la validità del matrimonio dicendo al marito: Il Signore renda la donna, che entra in casa tua, come Rachele e Lia, le due donne che fondarono la casa d’Israele (cfr Rut 4,11) Con questo gesto di pietà e di amore filiale Rut dimostra di essere entrata pienamente nell’alleanza, andando ben oltre le strettoie di un’interpretazione legalistica dell’appartenenza al popolo e diventando a pieno titolo parte di Israele. L’ingresso di una moabita nella comunità del Signore, allora, non è considerata una violazione della Legge, anzi, ne rivela lo spirito e fa di Rut una degna antenata anche di Gesù (cfr la genealogia di Matteo 1,1-16). Il quale, da parte sua, mostra una grande avversione per i muri. Quando un discepolo gli indica l’imponenza e la ricchezza delle mura del tempio di Gerusalemme, egli non si lascia impressionare, ma con lucida chiaroveggenza esclama: «Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra, che non sia distrutta» (Marco 13,2). Questa predizione di quanto poi effettivamente faranno i Romani nel 70 d.C. è la parola che interpreta quel fatto in una prospettiva più ampia: a più riprese, infatti, Gesù aveva insegnato che le realtà religiose, se diventano segno di autoaffermazione e autoreferenzialità, non sono conformi alla volontà del Padre e saranno rimosse (cfr la parabola dei vignaioli ribelli, Marco 12,1-12). Gesù, del resto, realizza in se stesso l’alleanza fra l’uomo e Dio in una forma unica e irripetibile, che l’autore della lettera agli Efesini interpreta proprio come distruzione di un muro di separazione: Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’ inimicizia, per mezzo della sua carne (Efesini 2,14). L’inimicizia di cui si parla è sia quella fra l’uomo e Dio, generata dal peccato e annullata da Gesù tramite l’incarnazione e la passione, sia quella fra i vari popoli, in particolare tra ebrei e pagani, chiamati a formare un’unica comunità di credenti. In questo senso, il non meglio specificato muro di separazione può forse rimandare alla balaustra che separava la zona del tempio a cui potevano accedere i pagani, il cortile dei Mura e muri 779 gentili, da quella riservata agli ebrei: alta un metro e mezzo, essa recava iscrizioni con minacce di morte a quei pagani che avessero osato oltrepassarla. Per altri si tratta della legge giudaica, annullata da Gesù, o di un uso puramente metaforico del termine, senza connotazione religiosa (cfr Best E., Lettera agli Efesini, Paideia, Brescia 2001, pp. 304-311). Al di là delle possibili interpretazioni, il senso è chiaro: con la sua vita, morte e resurrezione Gesù ha distrutto ogni tipo di barriere, segno di inimici- 780 Giuseppe Trotta SJ zia, e, con esse, ogni genere di spazio recintato, riservato ad alcuni e precluso ad altri. I muri – reali e virtuali – ancora eretti in diversi luoghi del mondo segnano la distanza della nostra storia dal compimento della redenzione e rendono ancora più attuale e urgente l’opera profetica di una comunità del Signore aperta e accogliente, costituita, come il profeta Geremia, sopra i popoli e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare (cfr Geremia 1,10). tools Expo Milano 2015 di Claudio Urbano Giornalista pubblicista «N utrire il pianeta, energia per la vita» è il titolo dell’Esposizione universale che si svolgerà a Milano dal 1° maggio al 31 ottobre 2015. A sei mesi dall’inaugurazione, ci chiediamo cosa sia un’Esposizione universale, quali siano le peculiarità dell’edizione italiana circa i contenuti e la struttura dell’evento, ma soprattutto quali ricadute possa avere per il territorio che la ospita. Che cos’è un’Esposizione universale Un’Esposizione universale (generalmente abbreviata in Expo, dal termine francese Exposition) «ha come principale proposito l’educazione del pubblico. Si possono esporre i mezzi a disposizione dell’umanità per soddisfare i bisogni della civilizzazione, mostrare i progressi raggiunti in uno o più campi dell’attività umana, o le prospettive per il futuro». Questa la ragion d’essere dell’evento, enunciata dalla convenzione sottoscritta a Parigi nel 1928 dagli Stati aderenti al Bureau International des Expositions (BIE), ente internazionale che organizza le manifestazioni. Le esposizioni universali iniziarono però già nel 1851, con la «Grande esposizione delle opere dell’industria di tutte le nazioni» organizzata dalla Gran Bretagna. Pensate con lo scopo di mostrare i risultati dello sviluppo scientifico e tecnologico, in un mondo globalizzato e caratterizzato da forme di innovazione sempre più immateriali nel tempo hanno proposto, più che novità tecniche, visioni di possibili forme di sviluppo nei diversi ambiti dell’azione umana, sottolineandone il tema della sostenibilità. Un orientamento che si è imposto soprattutto a partire dall’edizione di Hannover del 2000 col titolo «Humanity, nature, and technology», passando per l’edizione di Shanghai del 2010 («Better city, better life»), per arrivare al prossimo appuntamento di Milano «Nutrire il pianeta, energia per la vita», e proseguire con dubai (Emirati Arabi Uniti) 2020, «Connecting Minds, Creating the Future». Fiere tematiche universali con gli Stati a fare da protagonisti, le esposizioni sono diventate per i Paesi soprattutto un’occasione di public diplomacy, ovvero di comunicazione diretta della propria immagine su scala globale ai cittadinivisitatori, portando alcune eccellenze Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (781-785) 781 nazionali o illustrando obiettivi di largo respiro che si intendono perseguire. Seguendo una sensibilità sempre maggiore a livello mondiale, alle Esposizioni hanno partecipato in modo crescente anche le organizzazioni non governative; la prossima edizione di Milano 2015 è stata inoltre aperta anche alle imprese private. Pur essendo basato sulla partecipazione degli Stati, il modello di Expo non prevede confronti istituzionali o obiettivi politici da perseguire; gli organizzatori istituzionali si rivolgono a un pubblico generalista, fattore che determina lo stile dell’evento, in particolare per la forma e lo scopo con cui vengono presentati i temi scelti come filo conduttore. Tema e novità di Expo Milano 2015 La domanda guida della prossima Expo è se sia «possibile assicurare a tutta l’umanità un’alimentazione sufficiente, buona, sana e sostenibile». Le priorità da affrontare sono indicate nella food safety, cioè la capacità di assicurare cibo e acqua sani e salubri, e nella food security, ovvero l’accesso sicuro a cibo e acqua sufficienti per tutta la popolazione del pianeta. Ci si richiama dunque a uno spettro molto ampio di istanze legate all’alimentazione, probabilmente non tutte della medesima urgenza o che è possibile porre su scale di priorità differenti. Ad esempio, l’esigenza di un Paese in via di sviluppo di assicurare ai propri cittadini l’accesso a una dieta completa può comportare sforzi differenti rispetto a quelli di economie sviluppate, come diversa può essere la sensibilità dell’opinione pubblica occidentale sui vari aspetti connessi al cibo. Più nel dettaglio, durante l’Esposizione verranno illustrate nuove modalità di produzione e commercio del cibo che ne garantiscano la qualità e la piena disponibilità, soluzioni per un utilizzo sostenibile delle risorse naturali e innovative nel trattamento del cibo anche rispetto ai 782 Claudio Urbano gusti dei consumatori. Dal punto di vista socioculturale si guarderà alla promozione dell’educazione alimentare da parte di scuole e famiglie, si rifletterà sul rapporto tra cibo e salute, si racconteranno le tradizioni alimentari come parte fondante delle diverse culture e come ponte di dialogo tra esse; infine, si guarderà alle possibili forme di cooperazione internazionale per favorire risposte alla povertà alimentare. Nonostante l’importanza e l’urgenza delle questioni in gioco, gli organizzatori di Expo hanno manifestato l’intento di affrontarle con lo spirito di positiva fiducia nel progresso umano tipico delle esposizioni universali e rappresentando l’energia vitale che il cibo da sempre porta con sé. Ogni Stato partecipante – 144, rappresentanti il 94% della popolazione mondiale –, presenterà le proprie eccellenze dal punto di vista della produzione o trasformazione alimentare, oppure i propri passi avanti rispetto alla sicurezza alimentare della popolazione, avvalendosi anche delle forme architettoniche originali dei padiglioni stessi, oppure attraverso processi di produzione degli alimenti raccontati nel dettaglio, o ancora grazie alla varietà di prodotti tipici che si troverà negli spazi dei singoli Paesi. L’edizione italiana di Expo prevede alcune novità riguardo alla disposizione di Paesi e organizzazioni partecipanti nel sito espositivo, volta a favorire una buona visibilità per tutti e dunque, idealmente, una posizione di parità agli occhi dei visitatori. Concretamente ciò avverrà o mediante la costruzione autonoma del proprio sito espositivo (padiglioni self-built) oppure grazie alla scelta di un proprio spazio all’interno di uno dei nove cluster tematici, ovvero sei padiglioni collettivi dedicati a filiere alimentari (riso, cacao, caffè, frutta e legumi, spezie, cereali e tuberi) e tre ad aree climatiche comuni (bio mediterraneo, isole mare e cibo, zone tools aride). In tal modo si eviterà di ospitare gli Stati più piccoli, come accadeva in passato, in padiglioni di “secondo piano”. Anche lo Stato della Santa Sede prenderà parte a Expo con un proprio padiglione – in cui saranno attive anche la Conferenza Episcopale Italiana e la Diocesi di Milano – ispirato al versetto evangelico «Non di solo pane», nell’intento di proporre una riflessione sugli aspetti della condivisione, della solidarietà e della tutela delle risorse della Terra, ma anche alla dimensione del nutrimento interiore e spirituale dell’uomo. Molte delle Organizzazioni non governative presenti alla manifestazione – riunite in un unico soggetto, la Fondazione Triulza, a cui per ora hanno aderito più di sessanta realtà – gestiranno per la prima volta un proprio padiglione, la Cascina Triulza, una antica costruzione rurale già presente all’interno del sito espositivo. Nell’intenzione della Fondazione questo spazio dovrà essere l’occasione per far sì che le iniziative delle singole associazioni si traducano in visioni e proposte capaci di raggiungere nel modo più ampio possibile l’attenzione dei visitatori e dell’opinione pubblica. Segnaliamo inoltre che la Caritas, ai suoi differenti livelli e mediante 164 Caritas del mondo, sarà presente a Expo attraverso una serie di iniziative diffuse. Con Caritas e altri partner anche Aggiornamenti Sociali arricchirà di contenuti il pre e durante Expo, con una serie di seminari, una tavola rotonda e cineforum per riflettere e dialogare su cibo, ambiente e stili di vita, diritto al cibo e rapporto tra cibo, culture e religioni. Sfida e occasione Dati l’ampiezza del tema, il numero e la diversità dei partecipanti, la risposta alla domanda iniziale sulla garanzia di un’alimentazione sana e sicura per tutti sarà inevitabilmente declinata con svaria- te modalità mentre i visitatori potranno costruirsi liberamente una propria mappa di riferimento sui temi trattati. I padiglioni, pensati soprattutto per un pubblico di famiglie, offriranno occasioni di riflessione e conoscenza, anche se punteranno più sull’aspetto della suggestione e del coinvolgimento che non su quello strettamente didascalico. Uno dei fattori di maggiore attrattiva sarà la possibilità di fare una sorta di giro del mondo dei sapori, assaggiando quanto propongono i ristoranti dei diversi padiglioni. Per chi si fermerà più di un giorno a Milano o in Italia, l’appuntamento sarà poi un’occasione di visita al territorio, considerato che gran parte degli eventi organizzati nel corso dei sei mesi di Expo saranno all’esterno del sito espositivo. I risultati della manifestazione saranno quindi da valutare al di là di quanto si vedrà nei padiglioni. Come ricordato in principio, Expo è innanzitutto un evento di public diplomacy, dove ciò che conta è l’immagine che gli Stati – in primo luogo l’Italia – e gli altri partecipanti trasmetteranno al pubblico. Tuttavia altrettanto importanti sono le occasioni di scambio che Expo consente di rafforzare. Alle attività di coordinamento dell’Italia coi Paesi partecipanti si affiancano infatti occasioni di rapporti diplomatico-commerciali sia tra gli stessi Paesi sia con le istituzioni italiane e con le imprese, che possono presentarsi sui mercati sfruttando l’appuntamento di Expo come catalizzatore d’attenzione. Per il settore agroalimentare italiano, in particolare, Expo potrà essere l’occasione per proporre la sua agenda su una serie di priorità: contrasto alla povertà alimentare a partire dall’Europa, riduzione degli sprechi alimentari, modelli di produzione agricola orientati alla biodiversità e lotta alla contraffazione alimentare. Nonostante l’evento non preveda esplicitamente occasioni di confronto Expo Milano 2015 783 istituzionale tra Stati, il Governo italiano ha annunciato la possibilità di alcuni di questi momenti, nei quali presentare gli impegni delle Nazioni Unite per il contrasto alla povertà dopo il 2015, anno fissato per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo del millennio, o quelli dell’Unione Europea in occasione dell’anno europeo della cooperazione (2015). Le aspettative per il territorio diversi poteri di deroga alle norme sugli appalti per quelli legati ad Expo, cosa che ha rafforzato le obiezioni di chi considera la manifestazione soprattutto una ghiotta occasione di arricchimento per alcune imprese e un terreno fertile per l’illegalità. In effetti purtroppo si deve constatare che Expo non è stata immune dalle inchieste giudiziarie, tuttora in corso, per presunta corruzione nell’appalto della cosiddetta “piastra”, della Via d’acqua Sud e in altri lavori sul sito espositivo. Mentre nessuna delle opere essenziali desta gravi preoccupazioni rispetto ai tempi, alcune domande sono destinate a rimanere aperte: sarà un evento realmente accessibile a tutti? Cosa resterà L’appuntamento del 2015 è stato da subito presentato come un’importante occasione di rilancio internazionale di Milano e dell’Italia, da cogliere a maggior ragione nell’attuale contesto di crisi economica. I contrasti tra le istituzioni iniziati all’indomani Expo 2015: il sito dell’aggiudicazione italiana della manifestazione La cosiddetta “Piastra” è l’infrastruttura più importante del (31 marzo 2008) e consu- Sito espositivo. Si tratta della sua ossatura e consiste in tre matisi soprattutto sul peso elementi principali. da esercitare e sul ruolo da 1. Le Opere idriche. Il Canale d’acqua che si sviluppa ricoprire durante la prepa- lungo tutto il perimetro dell’area Expo; la grande piazza razione dell’evento, hanno d’acqua circolare (Lake Arena), alimentata dal Canale, rallentato fin dall’inizio i che sarà teatro di spettacoli e giochi d’acqua; le vasche lavori, tanto che, solo per di fitodepurazione, per depurare le acque piovane grazie fare alcuni esempi, i ter- all’azione di piante idrofite. Il Canale d’acqua perimetrale verrà alimentato grazie a un collegamento col canale Vilreni privati dove sorgerà loresi (Via d’acqua Nord), mentre l’acqua in uscita verrà l’esposizione sono stati ac- convogliata fino alla Darsena di Milano (Via d’acqua Sud). quisiti dagli organizzatori Il progetto di quest’ultimo tratto prevedeva la realizzazione solamente nel giugno 2011 di un nuovo canale attraverso i parchi delle zone ovest di e la nomina governativa Milano, ma è stato via via ridimensionato a causa delle del commissario unico proteste di cittadini e residenti, che ritengono l’opera tropper Expo, Giuseppe Sala po invasiva. L’acqua in uscita dall’area Expo sarà dunque (a capo anche della socie- portata fino alla Darsena tramite una condotta quasi intetà pubblica organizzatrice, ramente interrata. A causa di queste modifiche l’opera non Expo 2015 spa), con cui si sarà terminata entro l’inizio di Expo. sono definitivamente su- 2. I Percorsi. I principali sono costituiti dai due grandi assi perati i contrasti e le so- ortogonali che attraversano il sito richiamando la struttura delle città romane: il “Decumano”, battezzato World Avevrapposizioni di ruoli tra nue, e il “Cardo”. Essenziali alla circolazione sono poi tutti istituzioni, è del maggio i percorsi secondari che si diramano dal “Decumano”, le 2013. piazze, le passeggiate lungo il bordo del Canale e i ponti L’inevitabile rincorsa sullo stesso. per recuperare il tempo 3. Gli Impianti tecnologici. Includono gli impianti di diperduto ha portato tra stribuzione dell’energia elettrica, delle telecomunicazioni, l’altro alla concessione di delle acque. 784 Claudio Urbano tools Bureau International des Exposition, <www.bieparis.org>. Expo Milano 2015, <www.expo2015.org>. Fondazione Triulza, <www.fondazionetriulza.org>. Open Expo (dove vengono aggiornati i dati sull’avanzamento delle opere, sui costi e sugli appalti di Expo), <http://dati.openexpo2015.it/>. Ambrosianeum Fondazione Culturale (2014), Rapporto sulla città. Milano 2014. Expo, laboratorio metropolitano cantiere per un mondo nuovo, a cura di R. Lodigiani, FrancoAngeli, Milano. di Milano, che in uno studio del dicembre 2013 (Dell’Acqua, Morri e Quaini 2013) hanno calcolato in 10 miliardi di euro l’impatto positivo che Expo porterà al PIL italiano da qui al 2020. La stessa ricerca stima in 191mila i posti di lavoro prodotti nel periodo 2013-2020, di cui 67mila durante l’Expo e 89mila dopo la manifestazione, dopo i 35mila del biennio 2013-2014. I posti di lavoro stabili generati grazie all’impatto dell’indotto di Expo sono calcolati invece in 12.400. Ad oggi, però, almeno il dato sulle assunzioni precedenti all’evento sembra sovrastimato, visto che, secondo quanto rilevato dall’Osservatorio sul Mercato del Lavoro della Provincia di Milano al 30 giugno 2014, le assunzioni operate da imprese di Milano e provincia direttamente impegnate nella preparazione di Expo sono state solo 3.700. Quali che siano le ricadute sociali ed economiche di Expo, l’auspicio è che il lascito sui temi dell’alimentazione possa avere una certa rilevanza nella misura in cui ad esso seguiranno politiche nazionali e internazionali capaci di interpretare le vere priorità messe in luce da tutti gli attori in gioco durante la manifestazione. Dell’Acqua A. – Morri G. – Quaini E. (2013), L’indotto di Expo. Analisi di impatto economico, Milano, 20 dicembre, <www.mi.camcom.it/documents/10157/1934307/intervento-ImpattoExpoleggero.pdf>. risorse in eredità ai cittadini e al territorio milanesi che avranno ospitato l’Expo? La storia insegna che dopo i grandi eventi mondiali vi sono difficoltà ricorrenti: dall’integrazione tra le grandi opere e il contesto urbano al riuso di attrezzature e infrastrutture appositamente realizzate, dall’incremento del consumo di suolo alle emissioni inquinanti. Dal punto di vista sociale e istituzionale, si stanno mettendo in campo grandi sforzi per rendere l’evento Expo (sito espositivo, servizi, trasporti) realmente accessibile al più ampio numero di persone. Sul versante economico, sebbene sia prematuro offrire considerazioni definitive, si può segnalare come l’interesse per l’evento, anche a livello internazionale, sia in costante crescita, tanto che gli organizzatori puntano a vendere la metà dei venti milioni di biglietti previsti prima dell’inizio della manifestazione. Secondo le stime di Expo SPA i costi di preparazione diretti (circa 2,5 miliardi di euro) dovrebbero essere bilanciati dagli investimenti dei Paesi partecipanti e dai ricavi dell’evento. Una stima più generale è invece stata fatta dall’Università Bocconi e dalla Camera di Commercio Provincia di Milano – Osservatorio Mercato del Lavoro (2014), Tracciatura avviamenti EXPO. Monitoraggio dell’impatto occupazionale, 30 giugno, <http://lavoro1.provincia.milano.it/oml/ upload/UpdViewer.aspx?id=46&tbl=tbl_immagini>. Expo Milano 2015 785 Maurizio Ambrosini Immigrazione irregolare e welfare invisibile Il lavoro di cura attraverso le frontiere recensione il Mulino Bologna 2013 pp. 296, € 27 di Sergio Villari Dottore di ricerca in Sociologia interculturale C he relazione sussiste nel mondo contemporaneo tra alti livelli di immigrazione irregolare e diffusione nei Paesi ricchi di un sistema di welfare in gran parte informale, governato dalle famiglie, basato sul lavoro di immigrati (soprattutto donne) spesso privi dei documenti necessari a risiedere e/o lavorare «legalmente» e tollerato, o addirittura sussidiato, dal settore pubblico? Da questa domanda trae spunto la riflessione sviluppata nel nuovo libro di Maurizio Ambrosini, sociologo tra i più attenti studiosi in Italia delle migrazioni. Nell’indagare il fenomeno dell’immigrazione irregolare, egli adotta un approccio dinamico e multicausale, che cerca di cogliere le interazioni tra il livello macro e quello microsociale, e in cui i risultati di numerose ricerche empiriche vengono interpretati alla luce di alcune delle più interessanti teorie prodotte negli ultimi anni dal dibattito internazionale in quel settore della sociologia denominato Migration studies. Indagare le cause della diffusione dell’immigrazione irregolare in Italia e in tutto il Nord del mondo spinge l’A. ad 786 Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (786-788) analizzare quelle caratteristiche assunte dalle economie e dai sistemi sociali dei Paesi riceventi che rendono i migranti una risorsa indispensabile per il funzionamento delle nostre società (c. I). Se, infatti, i Governi utilizzano la lotta all’immigrazione irregolare per riaffermare la propria legittimità minata dai processi di globalizzazione, da ampi settori delle società riceventi emergono vari interessi, tra cui quelli delle famiglie, che spingono in direzione di una maggiore apertura delle frontiere. È da queste contraddizioni tra politiche restrittive e bisogni economici e sociali che trae origine l’immigrazione irregolare (cfr pp. 45-53). Tuttavia l’A. rifiuta una visione dei migranti come vittime passive di condizionamenti esterni, di natura politica ed economica, che li sovrastano. Se l’immagine prevalente degli immigrati irregolari è quella stereotipata di malfattori, di vittime o eroi (cfr pp. 27-30), egli preferisce considerarli attori sociali dotati di autonomia e capacità d’iniziativa (agency). In particolare, ricollegandosi all’innovativo filone degli “studi sul benessere”, sottolinea l’importanza delle pratiche recensione quotidiane messe in atto dai migranti: «il riferimento alle pratiche sottintende che le capacità strategiche degli immigrati non autorizzati incontrano dei limiti, ma non di meno che attraverso la tenace concatenazione delle varie azioni della vita quotidiana e la ricerca di risposte alle difficoltà che incontrano, essi perseguono propositi di inserimento lavorativo, indipendenza economica, sollecitudine per i familiari, emersione alla legalità, radicamento nel territorio» (p. 135). La partecipazione alla vita della comunità locale, attraverso il lavoro o la scuola dei figli, consente agli immigrati non autorizzati di acquisire forme di riconoscimento sociale e così di accedere a istituzioni e opportunità. Ne deriva che, come ha mostrato la sociologa statunitense Saskia Sassen, la cittadinanza non è soltanto un insieme di diritti concessi dallo Stato, ma un processo che può originarsi dal basso, attraverso le pratiche messe quotidianamente in atto (cfr p. 137). L’ambito privilegiato scelto per cogliere l’interazione tra fattori strutturali e agency dei migranti è il lavoro domestico e assistenziale, che viene dapprima analizzato a livello macrosociale (c. II), ricercando le cause all’origine di una nuova domanda di lavoro espressa dalle famiglie occidentali, per lo più di classe media, ma anche di condizione più modesta, orientate a reperire sul mercato la fornitura di servizi di cura. L’incremento della popolazione anziana che necessita assistenza e la maggiore partecipazione delle donne al lavoro extradomestico hanno infatti ridotto la capacità delle famiglie di assolvere a quei compiti di cura che sono loro tradizionalmente assegnati. Ma a fronte di questi mutamenti non vi è stato né un adeguato sviluppo dei servizi pubblici, né una più equa redistribuzione dei compiti all’interno delle famiglie, che pertanto si rivolgono al mercato (cfr pp. 81-87). Così avviene l’incontro con l’offerta di lavoro da parte degli immigrati, principalmente donne, spesso in condizione irregolare, alle quali continua a essere affidata la cura di anziani, bambini e malati. Il lavoro domestico e assistenziale, specie se in coabitazione, offre loro la possibilità di soddisfare alcuni bisogni: fornisce un tetto e un salario, permette di risparmiare e inviare rimesse, le protegge nei confronti delle autorità (cfr p. 105). Ha così preso corpo, in modo più evidente nell’Europa meridionale – sebbene ormai il modello si diffonda in tutto il Nord del mondo – un sistema di welfare informale, parallelo a quello ufficiale, gestito direttamente dalle famiglie al di fuori degli schemi di regolazione pubblica. Dopo aver inquadrato il fenomeno a livello macrosociale, lo sguardo si sposta su quello micro (c. III). Qui l’A. svolge un’analisi dell’esperienza vissuta dalle migranti impiegate nella fornitura di sevizi di cura, e, in particolare, nell’assistenza a domicilio di persone anziane, definite nel linguaggio comune «badanti», termine svalutante che riflette la tendenza a sminuire la pesantezza e la delicatezza dei compiti loro affidati (p. 89). La vita delle care workers viene indagata richiamando i risultati di una serie di ricerche svolte nell’ultimo decennio in varie Province d’Italia, con l’intento di svelare le risorse e le pratiche che consentono a queste lavoratrici, così come ad altri immigrati privi di documenti, di sopravvivere, di integrarsi nel tessuto socioeconomico e, in alcuni casi, di porre le basi per l’emersione dall’irregolarità. Al centro c’è ovviamente il lavoro, definito come l’architrave delle strategie di insediamento dei migranti non autorizzati (cfr p. 146). La sua importanza va al di là del reddito che procura, perché si connota come l’unica fonte di legittimazione per i nuovi arrivati in Paesi in cui la presenza dei migranti viene giustificata Immigrazione irregolare e welfare invisibile 787 solo in proporzione a quanto sia ritenuta funzionale alle economie delle società riceventi. Nel caso delle care workers, a ciò si aggiunge l’utilità sociale del loro lavoro, aspetto che le aiuta a sopportare le dure condizioni di vita cui sono sottoposte e la svalutazione culturale nei confronti di un’occupazione giudicata servile (p. 152). Ancor più decisive appaiono quelle risorse che scaturiscono dalle relazioni sociali in cui sono coinvolti gli immigrati. Per le lavoratrici occupate in attività di cura, particolarmente rilevante appare quella che l’A. definisce «familiarizzazione», ossia il coinvolgimento in relazioni parafamiliari con le famiglie italiane datrici di lavoro (pp. 170-171). Viene così analizzato il complesso intreccio di rapporti con la persona assistita e i suoi cari, tra cui spicca la care manager, una nuova figura espressione dei mutamenti negli assetti familiari della società postindustriale. Si tratta di un familiare dell’anziano, spesso una figlia, che svolge un ruolo di regia del lavoro di cura, assumendosi la responsabilità delle questioni burocratiche, economiche e di relazione con l’esterno. Dalle interviste emerge un quadro carico di ambivalenze, in cui relazioni di lavoro e dimensioni affettive si sovrappongono e che può vedere le lavoratrici vittime di invadenze nella propria sfera privata, ma anche beneficiarie dei vantaggi derivanti dalla disponibilità delle famiglie a fornire aiuti oltre gli obblighi contrattuali (pp. 171-183). Problematiche appaiono anche le relazioni che legano l’immigrata al proprio Paese natio, in particolare ai figli rimasti in patria e ai care takers sostitutivi – spesso la madre o la sorella – con cui le madri migranti formano un «triangolo dell’accudimento». Ai problemi della maternità attraverso i confini nazionali l’A. dedica una particolare attenzione (cap. IV), mostrando le differenze interne alle famiglie transazionali. Non emigrano più soltanto 788 Sergio Villari giovani madri provenienti da Paesi lontani che lasciano a casa figli ancora piccoli, ma anche donne in età matura, che spesso si fanno carico delle esigenze di più generazioni, non interessate a ricongiungere i figli (cfr pp. 204-215). D’altra parte, la strada dei ricongiungimenti è spesso impervia, specialmente quando avvengono dopo lunghe separazioni che hanno inevitabilmente modificato abitudini, mentalità e stili di vita dei componenti della famiglia, obbligandoli a un difficile riadattamento alla vita in comune, per di più in un ambiente non sempre ospitale e dovendo fronteggiare problemi nuovi, fonte di stress e delusioni (cfr pp. 226235). Queste considerazioni spingono l’A. ad affrontare la spinosa questione del drenaggio di risorse di cura nei confronti delle società di provenienza (care drain). Se i Paesi ricchi importano dal Sud del mondo risorse di accudimento per fronteggiare le nuove sfide poste dai mutamenti demografici e culturali, ciò provoca un depauperamento dei sistemi di protezione sociale delle famiglie d’origine (cfr pp. 235-245). Ma quanto è sostenibile nel lungo periodo un sistema nel quale il Nord del mondo ricava «beni comuni socioemozionali» dai Paesi poveri, scaricando interamente su quest’ultimi i costi umani che tale privazione comporta? Come afferma l’A., «le società profittatrici dei beni comuni del Sud del mondo cercano di mantenere una posizione di privilegio, importando le madri e ostacolando il ricongiungimento dei figli. Ma a un certo punto, sotto regimi democratici, questo equilibrio asimmetrico diventa insostenibile. I vincoli affettivi delle madri migranti irrompono sulla scena, chiedendo alle società riceventi di includerli nello spazio sociale legittimo» (p. 258). Il Nord del mondo dovrà prendere atto di tale asimmetria e farsi carico dei legami familiari negati delle madri migranti. vetrina Enzo Bianchi Essere presbiteri oggi Edizioni Qiqajon, Magnano (Bi) 2014, pp. 154, € 9 I mpegnato ormai da tempo a riflettere «sulla figura del presbitero, sulla sua identità e sul ministero da lui svolto» (p. 9), Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, ritorna nuovamente su questi temi toccando alcuni aspetti che ritiene «più decisivi da un punto di vista spirituale» e sui quali pensa «di poter dare, come monaco, un contributo specifico» (p. 8). Si tratta, in effetti, di tre grandi capitoli della vita di un prete: la preghiera, il celibato e il cammino personale di santificazione. Ciascuno di questi temi è affrontato dapprima con una prospettiva ampia. L’A. intende innanzi tutto mettere in luce il senso e la rilevanza di queste pratiche per la vita di ogni cristiano, piuttosto che andare immediatamente a considerarne i riflessi nella vita di un prete. In questo modo le sue riflessioni, che molto si fondano sulla Bibbia e la patristica, si rilevano interessanti per qualunque credente, come quando tocca il tema della «fatica della preghiera» (p. 17). Un quarto tema, preso in considerazione anche dall’esortazione apostolica Evangelii gaudium di papa Francesco, attiene invece più strettamente al ministero presbiterale ed è quello della predicazione. Al riguardo Bianchi ricorda che «nonostante il rinnovamento innescato dal Concilio Vaticano II, l’omelia continua a essere il punto su cui si fa fuoco da più parti» (p. 110). Tra le diverse suggestioni contenute nel libro è di certo centrale il richiamo biblico alla predicazione di Gesù in Luca 4,21. Le «parole di Gesù nella sinagoga di Nazaret contengono i tre elementi costitutivi di ogni omelia: la Scrittura, proclamata nell’oggi a una precisa assemblea» (p. 141). La fedeltà a questi elementi è allora considerata una via perché l’omelia posso assolvere al compito proprio di annunciare la buona notizia e proporre la conversione di vita. Giuseppe Riggio SJ Giovanni Cucci Abitare lo spazio della fragilità Oltre la cultura dell’homo infirmus Ancora-La Civiltà Cattolica, Milano 2014, pp. 159, € 16 A prendo il suo libro con il ritratto del protagonista ossessionato dalle malattie e per questo incapace di vivere del film Hannah e le sue sorelle di Woody Allen, Giovanni Cucci ci introduce a un aspetto che caratterizza sempre più le società occidentali negli ultimi decenni: la ricerca spasmodica del benessere psicofisico e la crescita delle patologie, in particolare quelle psichiche (ricordiamo che negli ultimi 40 anni sono triplicati i disturbi censiti dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali). Il libro non intende criticare la medicina, la psicologia o la psichiatria (tra l’altro l’autore è uno psicologo a sua volta), ma è una presa di distanza 789 da una proposta culturale sempre più diffusa, definita “cultura terapeutica”. Con questa espressione si intende «la tendenza a esasperare l’aspetto malato delle persone» (p. 7) accompagnata dal messaggio, trasmesso fin dalla più tenera età, «che siamo troppo fragili per affrontare le difficoltà della vita e che è possibile al massimo limitare i danni, facendosi curare» (p. 32). Si delinea così una nuova figura di uomo, strutturalmente malato e privo del gusto di vivere (l’homo infirmus), che prende il posto di quello capace di trasformare il mondo (homo faber). L’A. non si limita a registrare l’emergere di questa tendenza e a segnalarne le criticità, ma elabora una visione alternativa che si propone di ridare pregnanza all’esistenza umana, attribuendo un ruolo centrale all’educazione e sottolineando l’importanza che vi sia «un orizzonte di valori capaci di superare la dimensione puntuale del qui e ora» (p. 124). Una strada necessaria da percorrere perché «quando non trova un significato per la propria vita l’uomo, anche se in buona salute, finisce per scegliere volontariamente la morte» (p. 128). Giuseppe Riggio SJ Sonia Scarpante La scrittura terapeutica Pubblicato a cura dell’Autrice, pp. 228, € 18 S pesso è difficile, a volte anche molto doloroso, ma alla fine sempre liberatorio e, per questo, terapeutico. Stiamo parlando dello scrivere di sé, del mettersi a nudo nero su bianco, del tradurre in parole emozioni ed esperienze di vita. In questo consiste la pratica della scrittura terapeutica, di cui ci parla l’A. nell’omonimo volume, testimonianza diretta di come la malattia può diventare occasione per riscoprirsi, ma anche strumento indiretto che dà voce alle tante persone che hanno sperimentato questa via di guarigione “spirituale”, prima ancora che fisica. I numerosi scritti riportati dall’A., che si alternano per tutta la lunghezza del libro alle sue riflessioni su modi e i tempi in cui la scrittura terapeutica è diventata parte integrante del suo percorso di vita, hanno alcuni tratti in comune. Trasmettono tutti la fatica del raccontare 790 di ciò che più intimamente riguarda la nostra vita, illuminando con coraggio anche gli angoli più bui e abbandonandoci esclusivamente alla sincerità, ma lasciano trasparire anche il sollievo profondo che segue alla fatica fatta: ogni scritto sembra brillare della luce che rincuora e rassicura quando si giunge all’uscita da un tunnel. Scrivere di sé è dunque un esercizio duro ma irrinunciabile per trovare la propria strada, comprendere la propria storia, rileggere il proprio passato con gli occhiali giusti per valorizzare il presente e inquadrare meglio il futuro. Un esercizio, sembra voler dire Sonia Scarpante, che non è appannaggio esclusivo delle persone malate, conforto e occasione per chi si trova volente o nolente nella sofferenza fisica, una sorta di salvagente nell’emergenza. Scrivere è terapeutico, perché non si finisce mai di conoscersi, che si sia sani o malati. E, forse, è questo il conforto più grande. Francesca Garré vetrina Angela Biscaldi Etnografia della responsabilità educativa Archetipolibri, Bologna 2013, pp. 260, € 21 I l volume presenta i frutti di una ricerca sul concetto di responsabilità nelle relazioni familiari, frutto di un progetto interuniversitario e cofinanziata dal MIUR e durata sul campo dal 2010 al 2012. Angela Biscaldi, docente di Antropologia culturale, ne presenta i risultati in modo agile, evitando di dilungarsi in spiegazioni fumose e teoriche ma lasciando che siano le parole di genitori ed educatori a far emergere come il concetto di responsabilità negli ultimi decenni sia mutato in Italia in modo radicale. Un concetto che oggi sembra «a stento sopportabile da un adulto e da cui un bambino deve essere protetto il più a lungo possibile», arrivando così a generare una sorta di «disaffezione sociale al concetto di responsabilità in campo educativo» (p. 8). La ricerca muove proprio da questa “istantanea” della società, dalla convinzione che non è possibile perdere l’uso della parola “responsabilità”, pena perderne il significato, e che la pratica della responsabilità non può essere accantonata. Il volume articola non solo le voci di genitori ed educatori, ma cerca anche di fornire una risposta alla domanda su quale sia la responsabilità di un bambino e offre uno sguardo su come le famiglie migranti vivono il rapporto con la responsabilità. Una lettura agile, profonda, rigorosa, per riflettere su un concetto sempre più a rischio di estinzione. Francesca Ceccotti Appuntamenti Padova, 8 novembre Fondazione Lanza, AC, ACLI, Agesci, CSI e Noi Associazione organizzano il Convegno Fisp & Openfield 2014 «Economia “casa” nostra». Dopo l’apertura del vescovo della diocesi, mons. Antonio Mattiazzo, interverranno Luigino Bruni, dell’Università Lumsa di Roma; Lorenzo Biagi, Segretario della Fondazione Lanza; Paolo Foglizzo, della nostra Redazione. Ore 10-16, Aula Magna della Facoltà Teologica del Triveneto, via del Seminario, 29. Padova, 10 novembre e 1º dicembre Nell’ambito del programma di seminari «Il Veneto dei Valori. Percorsi per il quarto Veneto», promosso da Fondazione Lanza, Etimos Foundation e Fondazione E. Zancan, si terranno gli incontri «Le relazioni che generano valore» (30 novembre), e «Welfare generativo per una maggiore inclusione sociale» (1º dicembre); via Dante 55; ore 17-19.30. Info: www.fondazionelanza.it Macerata, 14 novembre Il Circolo di cultura politica Aldo Moro organizza l’incontro aperto al pubblico «Ri-partire dalla buona politica», che vedrà come relatore Bartolomeo Sorge SJ. Domus San Giuliano, via Cincinelli 4; ore 21. 791 Milano, 6 novembre Gli invincibili è il titolo del libro di Marco Franzoso (Einaudi, Torino 2014) che verrà presentato presso la Galleria San Fedele (via Hoepli, 4) alle ore 18. Interverrà, oltre all’A., Chiara Tintori della nostra Redazione. Roma, 20 novembre In occasione del 24º anniversario della nascita del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, JRS Internazionale e Centro Astalli invitano al colloquio «Le frontiere dell’ospitalità», tra p. Adolfo Nicolás, preposito generale della Compagnia di Gesù, e p. Federico Lombardi, direttore Sala Stampa della Santa Sede, introdotto da testimonianze dalla Siria. Info e prenotazioni: Centro Astalli: 06.69925099 - astalli@jrs.net; JRS International: 06.69868 465 - international@jrs.net Monza, 20 novembre L’Associazione culturale Nova Luna organizza una serata dal titolo «Nutrire il pianeta?». Interverranno Franca Roiatti (giornalista) e Chiara Tintori, della nostra Redazione. Modera Enrico Casale, giornalista. Via Turati-Piazza Castello, Binario 7, Sala E; ore 21. Milano, 24 novembre Alle ore 18, presso il salone ACLI di via della Signora 3, Giacomo Costa SJ interverrà a un incontro pubblico sulle 792 tematiche economiche e sociali presenti nella esortazione apostolica Evangelii Gaudium di papa Francesco, organizzato dal Centro Ecumenico Europeo per la Pace delle ACLI. Milano, 25 novembre Giacomo Costa SJ parteciperà a una serata promossa dalla Commissione Cultura della Parrocchia di Santa Maria Bianca della Misericordia al Casoretto, per confrontarsi sui risultati del Sinodo sulla famiglia. P.za S. Materno, 15; ore 21. Info www.santamariabianca.it Milano, 27 novembre Prosegue l’itinerario dell’Associazioni Giovani Coppie del San Fedele, con l’incontro dal titolo «Serena…mente oltre la tempesta del cuore», tenuto da Marilia Albanese, studiosa di psicologia indiana e conselour. Sala Ricci, p.za S. Fedele 4; ore 21. Bolzano, 1° dicembre «Cominciare dal basso» è il titolo della serata che vedrà come ospiti Bartolomeo Sorge SJ e don Stefano Stimamiglio (redattore delle riviste Credere e Jesus), all’interno dell’itinerario «Le vie del sacro», promosso tra gli altri dalla Diocesi di Bolzano-Bressanone e dalle ACLI. Obiettivo dell’incontro è dialogare sulla Chiesa alla luce degli stimoli lanciati da papa Francesco. Teatro Cristallo; ore 20.30. Info: www.teatrocristallo.it aggiornamenti sociali novembre 2014 editoriale Giacomo Costa SJ Ebola, o le basi biologiche della solidarietà709-716 Poste Italiane SpA - Spedizione in a. p. - DL353/2003 (conv. in L. 27/02/2004, n.46), art.1, c. 1 DCB Milano € 5,00 mappe OLTRE LA NOTIZIA Alleanza contro la povertà in Italia Per un piano nazionale contro la povertà. La proposta del Reddito di inclusione sociale (REIS) 718-724 APPROFONDIMENTI Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi Spending review all’italiana 726-736 Paolo Carelli I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni 738-748 CRISTIANI E CITTADINI Francesco Pistocchini Un’agenda per il diritto al lavoro dignitoso 750-756 VOCI DEL MONDO Vincent D. Rougeau Verso la libertà. Gli USA a cinquant’anni dal Civil Rights Act 757-762 DOCUMENTI Pietro Parolin La responsabilità di proteggere della comunità internazionale 763-772 IMMAGINI Sonia Frangi Finestre 2014: Berlino 773-774 bussola bibbia aperta / Mura e muri di Giuseppe Trotta SJ 776-780 tools / Expo Milano 2015 di Claudio Urbano 781-785 recensione / Immigrazione irregolare e welfare invisibile di Sergio Villari 786-788 vetrina / Libri, film, eventi 789-792
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