Aggiornamenti-Sociali, Novembre 2014

anno 64
novembre
2014
11
Ebola,
solidarietà globale
Una proposta per il Reddito
di inclusione sociale
Comunità internazionale
Ebola
Mass-media
Spending review
Expo 2015
Lavoro dignitoso
Inclusione sociale
Discriminazione razziale
aggiornamenti sociali
Spending review:
spendere meno o spendere meglio?
aggiornamenti sociali
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aggiornamenti sociali
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politica ed ecclesiale articolando fede cristiana e giustizia.
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cambiamento, con un approccio interdisciplinare e nel
dialogo tra azione e riflessione sociale.
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in Europa (Eurojess), e della Federazione «Jesuit Social
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anno 65 / 11
novembre 2014
Direttore responsabile: Giacomo Costa SJ
Direttore emerito: Bartolomeo Sorge SJ
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IT ISSN 0002-094X
Registrazione Tribunale di Milano
18-11-1960 n. 5442
La testata fruisce dei contributi
statali diretti di cui alla legge
7 agosto 1990, n. 250.
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Il fascicolo precedente è stato
consegnato alle poste di Milano
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il 2/10/2014.
Redazione: Stefano Bittasi SJ, Paolo Foglizzo, Chiara Tintori,
Giuseppe Riggio SJ, Giuseppe Trotta SJ
A Palermo: Emanuele Iula SJ, Giuseppe Notarstefano,
Giuseppina Tumminelli
Comitato di consulenza scientifica: Floriana Cerniglia,
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Antonietta Pedrinazzi, Luca R. Perfetti,
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editoriale
novembre 2014
Giacomo Costa SJ
Ebola, o le basi biologiche della solidarietà
709-716
I primi casi di Ebola registrati in Occidente hanno attirato l’attenzione su
quello che era prima considerato un problema di Paesi remoti. L’approccio
solidale, fondato sull’interdipendenza che lega tutti gli uomini, è l’unica via
per attuare una protezione globale.
mappe
Africa | Governance globale | Medicina | Mercato | Organizzazione mondiale della sanità |
Prevenzione delle malattie | Ricerca medica | Salute | Solidarietà
oltre la notizia
Alleanza contro la povertà in Italia
Per un piano nazionale contro la povertà. La proposta
del Reddito di inclusione sociale (REIS)
718-724
Il 14 ottobre 2014 l’Alleanza contro la povertà in Italia ha presentato una
proposta per la progressiva introduzione di una misura universale di sostegno
al reddito di quanti vivono in condizione di povertà assoluta.
Acli | Caritas
| Disuguaglianza sociale | Movimento sociale | Reddito
| Povertà | Rete sociale | Vita sociale | Welfare
italiana
inclusione sociale
di
725
scheda / reti L’Alleanza contro la povertà in Italia
approfondimenti
Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi
Spending review all’italiana
726-736
L’espressione “spending review” non è sinonimo di generici tagli alla spesa
pubblica, bensì un suo articolato processo di monitoraggio, valutazione e
revisione. Ne presentiamo la storia e le applicazioni nel nostro Paese.
Debito
fiscale
pubblico | Finanza
| Spesa pubblica
pubblica
| Finanziamento
dei partiti
| Governo | Politica
scheda / geo La spending review nel mondo
Paolo Carelli
I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni
737
738-748
La storia dello sviluppo della radio e della televisione nel mondo arabo
aiuta a comprendere le dinamiche di una regione complessa, dove politica,
comunicazione e opinione pubblica si intrecciano con modalità diverse.
Egitto | Fiction | Informazione | Mezzi di comunicazione di massa | Panarabismo | Radio |
Regime autoritario | Siria | Televisione | Tunisia
scheda / media Il potere della satira
706
749
sommario
cristiani e cittadini
Francesco Pistocchini
Un’agenda per il diritto al lavoro dignitoso
750-756
Chiesa cattolica e OIL si muovono in sintonia perché l’occupazione e i diritti
sul lavoro siano considerati il percorso privilegiato nella lotta alla povertà e
per una globalizzazione più giusta.
Chiesa cattolica | Dignità umana | Diritti umani | Dottrina sociale della Chiesa | Lavoro |
Obiettivi di sviluppo post-2015 | ONU | Organizzazione internazionale del lavoro | papa
Francesco | Sviluppo
voci del mondo
Vincent D. Rougeau
Verso la libertà. Gli USA a cinquant’anni dal Civil Rights Act
757-762
A cinquant’anni dal Civil Rights Act, che segnò la fine legale della segregazione razziale, la società americana può procedere nel superamento delle
discriminazioni ancora presenti, anche nei confronti degli immigrati.
Barack Obama | Diritti
Stati Uniti
civili
| Discriminazione
razziale
| Integrazione
dei migranti
|
documenti
Pietro Parolin
La responsabilità di proteggere della comunità internazionale
763-772
La Chiesa richiama la comunità internazionale al dovere di proteggere da
ogni aggressione, quella terroristica come quella del sistema finanziario, non
solo con la forza, ma con il dialogo tra le culture e il diritto internazionale.
Chiesa cattolica | Dialogo | Diritto internazionale | Finanza internazionale | Guerra |
Ingerenza umanitaria | Obiettivi di sviluppo post-2015 | ONU | Sviluppo | Terrorismo
immagini
bussola
Sonia Frangi
Finestre 2014: Berlino
773-774
bibbia aperta / Mura e muri di Giuseppe Trotta SJ
776-780
tools / Expo Milano 2015
di Claudio Urbano
781-785
recensione / Immigrazione irregolare e welfare invisibile
di Sergio Villari
786-788
vetrina / Libri, film, eventi
789-792
707
contatti e informazioni
Il 9 ottobre 2014 è mancato a Roma, nel suo 90° anno di età, il p. Angelo
Macchi, direttore di Aggiornamenti Sociali dal 1981 al 1992. La Redazione
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editoriale
Ebola, o le basi biologiche
della solidarietà
Giacomo Costa SJ
direttore di Aggiornamenti Sociali
<costa.g@aggiornamentisociali.it>
U
no spettro si aggira per il mondo: il virus Ebola, probabilmente trasmesso all’uomo dal contatto con animali selvatici infetti. Esso prende il nome da un fiume del nord
della Repubblica Democratica del Congo, nella cui valle, nel 1976,
scoppiò l’epidemia che portò all’isolamento del virus che oggi colpisce in modo particolare Guinea, Liberia e Sierra Leone e che si sta
affacciando anche negli Stati Uniti e in Europa.
Senza alcuna pretesa di ricostruire un quadro estremamente
complesso e in rapidissimo mutamento, in particolare per quanto
riguarda la diffusione dell’epidemia, la breve presentazione del virus
che abbiamo scritto in apertura è sufficiente per rendersi conto di
come Ebola sia un fenomeno estremamente locale e, al tempo
stesso, completamente globale, poiché evidenzia e articola in sé
alcune dinamiche tipiche del nostro mondo, con le sue potenzialità
e contraddizioni, che riguardano molteplici ambiti tra loro connessi:
scienza e medicina, geopolitica ed economia, cultura e media, politiche locali e globali.
Persino elementi a prima vista estranei al problema di Ebola
entrano in gioco nel tentativo di trovare una soluzione. È il caso,
ad esempio, del ruolo della Cina, ormai diventata una potenza globale: in questa circostanza il colosso di Pechino è in competizione con
l’Occidente per la ricerca di una cura. Un altro esempio è quello della
sfaccettata questione degli OGM: negli Stati Uniti il farmaco sperimentale (Zmapp) somministrato a due malati poi guariti è ottenuto
anche grazie al ricorso a una varietà di tabacco geneticamente modiAggiornamenti Sociali novembre 2014 (709-716)
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ficata. Non solo, sia la cura cinese sia quella americana sono legate al
settore militare, con tutte le contraddizioni che ciò può comportare:
in Cina infatti la ricerca è condotta da un’impresa farmaceutica, la
Sihuan Pharmaceutical Holdings Group, nata come costola dei laboratori dell’esercito cinese e tuttora ad esso legata, mentre negli Stati Uniti
è finanziata parzialmente dal Ministero della Difesa.
Nelle pagine che seguono proveremo allora a offrire una lettura
dell’epidemia di Ebola che fa emergere l’interdipendenza dell’umanità e la conseguente necessità di ricorrere a forme di autorità di
governance globale che, con efficacia e concretezza, possano contribuire a gestire l’emergenza. In questo, come vedremo, può aiutarci
la riflessione su come in passato la solidarietà e il welfare gestiti a
livello “centrale” siano riusciti a migliorare le condizioni di vita.
Cure e disuguaglianze
Jim Yong Kim, infettivologo statunitense di origine coreana e
attuale presidente della Banca mondiale, riguardo a Ebola ha fatto
notare come la comunità internazionale non abbia fornito infrastrutture e competenze alle popolazioni a basso reddito in Guinea,
Liberia e Sierra Leone: «Come risultato, migliaia di persone in questi Paesi stanno ora morendo a causa della lotteria della vita, perché
sono nate nel posto sbagliato». Pochi semplici dati ci mostrano il
fondamento di queste affermazioni: in Liberia, prima dello scoppio dell’epidemia, c’era un medico ogni 100mila abitanti circa (in
Italia ce ne sono 3.800); per di più, i medici liberiani sono stati
più che dimezzati dall’infezione. Un discorso analogo vale per la
disponibilità di infrastrutture, sanitarie e non solo: è chiaro che con
risorse così scarse non è nemmeno lontanamente immaginabile far
fronte a una epidemia come quella in corso, o anche solo pensare
di contenerla.
Lo stesso problema si registra ancora più a monte: lo scorso 12
agosto, Marie-Paule Kieney, vicedirettrice generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per l’innovazione, l’informazione, la raccolta di dati scientifici e la ricerca, affermava: «L’Ebola è
una malattia tipica della gente povera nei Paesi poveri, dove non c’è
mercato; per questo nessuno ha davvero interesse a studiare come
combatterla». Secondo uno studio pubblicato dalla prestigiosissima
rivista The Lancet, su 336 farmaci sviluppati tra il 2000 e il 2011
per affrontare patologie irrisolte, solo quattro erano per la cura delle
cosiddette malattie “trascurate” (cioè presenti soprattutto nei Paesi
a basso reddito ma con bassa o nulla incidenza in quelli sviluppati):
tre per la malaria, una per le diarree tropicali. Dei 150mila test di
laboratorio approvati nello stesso periodo, solo l’1% si occupava dei
710
Giacomo Costa SJ
editoriale
virus che non colpiscono i Paesi più ricchi. Nel 2012 sono stati spesi
3,2 miliardi di dollari su 130 totali per fare ricerca sulle malattie dei
poveri, e di questi solo 527 milioni arrivano dall’industria, mentre
il resto esce dalle tasche di enti pubblici o fondazioni private (cfr
Pedrique B. et al., «The drug and vaccine landscape for neglected
diseases [2000-2011]: a systematic assessment», in The Lancet Global
Health, 6 [dicembre] 2013, e371-e379).
Solo dopo il contagio dei primi quattro occidentali (due americani e due spagnoli), il quadro muta rapidamente: l’OMS riconosce
l’epidemia di Ebola come un’emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale, annunciando l’approvazione di misure temporanee per contenerne la diffusione, tra cui l’autorizzazione alla
somministrazione di trattamenti sperimentali ancora non testati
sull’uomo. Questi sono stati utilizzati sui primi malati occidentali,
due dei quali sono effettivamente guariti. Non sono mancate voci
critiche a sottolineare la dimensione di discriminazione implicita in
questo modo di procedere.
Come già era accaduto nei casi della SARS o dell’influenza
A/H1N1, solo quando la malattia arriva in Occidente scatta
l’inondazione di fondi pubblici per sostenere le case farmaceutiche ritenute più vicine a trovare il vaccino o la cura, anche
se ormai sappiamo bene che la prevenzione è tanto più efficace e
tanto meno costosa quanto più è tempestiva. I virus non guardano
il passaporto di coloro che colpiscono, mentre le decisioni di politica sanitaria evidentemente lo fanno, accettando anche il rischio,
sulla spinta dell’onda emotiva, di spendere molto per qualcosa che
poi resta inutilizzato (come i vaccini contro l’influenza A/H1N1),
anziché spendere meno per agire prima, anche se lontano da casa.
Ebola sbarca in Borsa
Giungendo in Occidente, Ebola arriva anche in Borsa: né ci si
poteva aspettare che tardasse a farlo, vista la pervasività della finanza
nel mondo di oggi. L’annuncio dei primi casi di contagio in Occidente, in particolare negli USA, è stato immediatamente decodificato come l’apertura di un gigantesco mercato potenziale,
nel senso che entrano in scena attori privati (i cittadini occidentali
e le compagnie assicuratrici presso cui essi hanno stipulato polizze
sanitarie) e pubblici (i servizi sanitari nazionali) con la disponibilità
economica per finanziare la ricerca e, soprattutto, per acquistare
i farmaci o i vaccini che grazie ad essa saranno messi a punto. Ad
esempio, le azioni della Tekmira Pharmaceuticals, che ha sviluppato
uno dei farmaci più promettenti tra quelli sperimentali di cui è stato
autorizzato l’utilizzo, sono cresciute di oltre il 25% nel giro di un’ora
Ebola, o le basi biologiche della solidarietà
711
dalla diffusione della notizia del primo caso diagnosticato su suolo
americano all’ospedale di Dallas, il 30 settembre scorso.
Dunque, non appena si profila la possibilità di fare affari, il mercato si mette in movimento. Di per sé non si tratta di una cattiva
notizia, vista la sua capacità di attivare rapidamente e con efficienza
le migliori risorse per raggiungere il proprio obiettivo: è più probabile arrivare a un vaccino e/o a una cura, ora che sono in molti a
cercarli. Ma una volta che sarà stato trovato, si riproporrà in modo
drammatico il problema dell’accesso per quanti – individui e Paesi
– non dispongono di mezzi economici sufficienti.
Pare tuttavia ingenuo accusare il mercato di cinismo per essersi
mosso solo ora, visto che l’emergenza Ebola è nota da tempo. Per come funziona, esso non potrebbe agire diversamente: non percepisce
infatti i bisogni, per quanto giganteschi, ma la domanda, cioè i bisogni associati a una capacità di spesa. Questo stato di cose dovrebbe piuttosto indurci a chiederci quanto spazio vogliamo lasciare
al mercato nelle nostre società, anche nel settore della ricerca
scientifica e farmacologica, e quanto vogliamo invece riservarne
a istituzioni che funzionano con una logica differente.
A questo riguardo risuonano di straordinaria attualità e profondità le parole dell’enciclica Caritas in veritate (2009) di Benedetto
XVI: «L’attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali
mediante la semplice estensione della logica mercantile. [...] La vita
economica ha senz’altro bisogno del contratto, per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti. Ma ha altresì bisogno di leggi
giuste e di forme di ridistribuzione guidate dalla politica, e inoltre
di opere che rechino impresso lo spirito del dono. L’economia globalizzata sembra privilegiare la prima logica, quella dello scambio
contrattuale, ma direttamente o indirettamente dimostra di aver
bisogno anche delle altre due, la logica politica e la logica del dono
senza contropartita» (n. 36). In questa luce, ben più che il cinismo
della logica del mercato, Ebola ci mostra un’insufficiente diffusione
delle altre due.
Il volto economico di Ebola
Come sempre avviene sul mercato, ciò che per alcuni è un’opportunità, per altri è un rischio. Mentre le azioni delle case farmaceutiche salgono alle stelle, le compagnie aeree iniziano a subire
contraccolpi. Anche se secondo l’OMS i collegamenti aerei non
contribuiscono alla diffusione del virus, alcune compagnie hanno
sospeso i voli verso i Paesi più colpiti e molti ritengono che sarebbe
prudente cancellarli tutti: in ogni caso, la paura potrebbe comportare una contrazione del trasporto aereo.
712
Giacomo Costa SJ
editoriale
Ma non saranno certo le compagnie aeree le principali vittime economiche di Ebola, bensì i Paesi africani colpiti e le loro
popolazioni, anche se in questo mondo a due velocità essi fanno assai meno notizia dell’andamento della Borsa (cfr Evangelii gaudium,
n. 53). Un recentissimo studio della Banca mondiale, The economic
impact of the 2014 Ebola epidemic: short and medium term estimates
for West Africa, pubblicato l’8 ottobre, stima la riduzione del PIL dei
Paesi colpiti per il 2014 e il 2015: nel caso della Liberia, ad esempio,
essa è pari al 3,4% nel 2014 e nel peggiore degli scenari ipotizzati
potrebbe toccare il 12% nel 2015. Sostanzialmente, è come se questi Paesi fossero sotto embargo. Una diffusione dell’epidemia agli
altri Paesi dell’Africa occidentale potrebbe provocare una riduzione
del PIL della regione superiore ai 30 miliardi di dollari tra 2014 e
2015 (sempre nel peggiore dei casi): semplicemente una catastrofe
per quelli che sono già tra i Paesi più poveri del mondo! Così la FAO
(Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura) ha avvertito che
l’epidemia sta mettendo a rischio i raccolti in Africa occidentale,
mentre il Fondo monetario internazionale ha chiesto un intervento
globale a largo raggio per aiutare i Paesi colpiti.
L’impatto sull’economia globale è stato finora molto ridotto
perché l’epidemia coinvolge Stati del tutto marginali al suo interno, ma le cose cambierebbero drasticamente se il contagio dovesse
estendersi, magari in aree diverse dall’Africa occidentale. Per questo,
scrive il settimanale americano Time, «è chiaro che il contenimento
dell’epidemia non è solo una necessità umanitaria, ma un imperativo economico».
Informazione e conoscenza
Un’altra dinamica cruciale del mondo contemporaneo che Ebola
ci obbliga a prendere in considerazione è quella dell’informazione e
della conoscenza. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un
dualismo, almeno apparente.
I Paesi africani, in particolare le aree più remote, soffrono
di un deficit di conoscenze mediche e scientifiche. Permangono
così pratiche tradizionali, relative al consumo di carni di animali
selvatici o alla preparazione dei corpi delle vittime di Ebola per
i funerali, che aumentano i rischi di contagio (che, ricordiamo,
avviene per contatto con il sangue e i fluidi corporei dei soggetti
infetti). La mancanza di medici e operatori sanitari professionali rende impossibile qualunque prevenzione, compresa la corretta
gestione delle quarantene. In questo contesto, si diffondono facilmente voci prive di fondamento sulla vera natura e origine
della malattia, o sulla sua fine improvvisa, che condizionano
Ebola, o le basi biologiche della solidarietà
713
poi il comportamento della popolazione, tanto che i Governi dei
Paesi colpiti hanno dovuto lanciare campagne di sensibilizzazione
con lo slogan «Ebola è reale» («Ebola is real»). La situazione non è
diversa da quella dell’Italia secentesca, epoca in cui sono ambientati I promessi sposi, quando si credeva che la peste fosse propagata
dagli untori.
L’Occidente sembra convinto del contrario: «Ebola è dappertutto» potrebbe essere il riassunto dei contenuti di molti media dopo la notizia dei primi contagi, pur avvenuti all’interno
di reparti ospedalieri per il trattamento delle malattie infettive.
Ugualmente, chiunque abbia la febbre e sia stato in Africa viene
subito inserito nella lista dei casi sospetti. Il rischio è che la paura
di Ebola finisca per avere conseguenze persino peggiori della stessa
malattia, almeno in Occidente. Afferma ad esempio Ashish K.
Jha, direttore del Global Health Institute dell’Università di Harvard (USA): «Sta arrivando la stagione dell’influenza: ogni malato
di influenza diventerà un caso sospetto di Ebola? In questo caso
sarà un incubo».
Internet e social network aggiungono il loro potenziale a
questa spirale, soprattutto perché al loro interno è estremamente difficile discriminare le informazioni attendibili da quelle
infondate. Come nota ancora Time, c’è un costante flusso di post
che affermano che Ebola si trasmette attraverso l’aria, l’acqua o il
cibo, ma ciò è falso: «Cercare di arginare la diffusione di notizie
false su Internet è molto simile a cercare di contenere un’epidemia
nel mondo reale: internauti “infetti”, che hanno raccolto false informazioni da un reportage non accurato, da qualche altro utente dei
social network o dal passaparola, diffondono “l’infezione” con tweet
o post privi di fondamento». Da questo punto di vista, l’universo tecnologico di Internet, con il suo eccesso di informazioni, non è così
radicalmente diverso dalla Lombardia del Seicento o dai villaggi più
remoti dell’Africa occidentale.
In ogni situazione, infatti, la combinazione di ignoranza e
paura aumenta la probabilità di prendere decisioni sbagliate:
bloccare i voli e isolare i Paesi colpiti, come molti suggeriscono di
fare, sarebbe un errore, ha affermato Tom Frieden, direttore della
rete dei CDC (Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie)
negli USA. L’isolamento infatti renderebbe più difficile combattere
la malattia nei Paesi in cui si sta sviluppando e paradossalmente
questo aumenterebbe i rischi di contagio per i Paesi vicini e, a cascata, anche per quelli lontani. «In un mondo ideale – è l’opinione
di Ashish K. Jha – al posto della paura ci sarebbe la determinazione
a sradicare [Ebola] dall’Africa occidentale».
714
Giacomo Costa SJ
editoriale
Interdipendenza e solidarietà
I massimi esperti mondiali ci dicono dunque che il miglior modo di proteggerci da Ebola è proteggere tutti gli abitanti del
mondo, i ricchi come i poveri, gli africani come gli occidentali.
Procedere divisi contro un nemico comune non è una buona strategia. A questo proposito, vanno certamente evidenziati il lodevole
impegno e tutte le attività di molte ONG, ma è cruciale fare un
passo ulteriore in questa logica della solidarietà.
In questo senso, ci fanno riflettere le parole di Giovanni Paolo
II sull’interdipendenza, «sentita come sistema determinante di relazioni nel mondo contemporaneo, nelle sue componenti economica, culturale, politica e religiosa, e assunta come categoria morale.
Quando l’interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale, come “virtù”, è la solidarietà. Questa, dunque, non è un sentimento di vaga compassione
o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o
lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di
impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (enciclica
Sollicitudo rei socialis, 1987, n. 38).
Superando le affermazioni del Papa, Ebola ci mette davanti
al fatto che la solidarietà ha addirittura una base biologica. Su
scala mondiale, siamo di fronte alla stessa dinamica che nel XIX secolo portò alla nascita dei sistemi di welfare e dei servizi sanitari
universalistici: le malattie non si possono arginare ed è interesse di
tutti debellarle, ponendo questo sforzo, in una società indubbiamente improntata al liberalismo, a carico non dei singoli malati (anche
allora esisteva la sanità privata), ma della fiscalità generale. Lo scopo
del Public Health Act del 1875 in Gran Bretagna era combattere le
insalubri condizioni di vita nelle città, fonti di minacce alla salute
pubblica, come la diffusione di malattie quali il colera e il tifo, che
si propagavano anche fuori dai quartieri poveri. Per questo venne
istituita la figura del medico pubblico, con il compito di «ispezionare e relazionare periodicamente sulle condizioni sanitarie della città,
accertare l’esistenza di malattie, e in particolare di epidemie [...],
indicare inoltre le modalità per controllare e prevenire la diffusione
di tali malattie». Medici pubblici con questo compito e le risorse per
portarlo a termine sono esattamente quello che manca in Liberia,
Sierra Leone e Guinea, una mancanza che diventa minaccia globale.
Combattere Ebola richiede di estendere quella logica a tutto
il mondo, andando oltre i confini nazionali. Lo afferma il prof.
Stefano Vella, direttore del Dipartimento del farmaco dell’Istituto
superiore di sanità: «Come nel caso del global warming, occorre un
Ebola, o le basi biologiche della solidarietà
715
approccio dello stesso segno in campo sanitario. Serve concepire la
salute come global health perché non si può più lasciare intere popolazioni ad occuparsi dei loro problemi». Come l’ambiente, il clima
o i mercati finanziari, anche la sanità ci mostra che il mondo ha
bisogno di forme e strutture di governance globale per risolvere
i propri problemi più acuti. Gli Stati nazionali o il mercato da soli
non sono in grado di farlo, e nemmeno le ONG o la società civile
globale. Serve una qualche forma di “mano pubblica” globale.
Iniziative sanitarie globali non sono fantascienza, anzi, la storia
della medicina ci insegna che ne sono già state attuate: a poco più
di due anni dalla diagnosi dell’ultimo caso (in Somalia), nel 1980
l’OMS ha solennemente sancito la definitiva scomparsa del vaiolo, dopo che per secoli questa malattia aveva devastato l’umanità
e – detto per inciso – portato alla scoperta del meccanismo della
vaccinazione. Questo risultato è stato ottenuto grazie all’adozione,
nel 1959 (anno in cui il vaiolo faceva ancora 2 milioni di vittime
nel mondo), di una iniziativa globale imperniata sul contenimento
dei focolai e sulle vaccinazioni di massa, sotto il coordinamento e
con le risorse dell’OMS: dunque con l’azione di quella che possiamo
ritenere una forma di autorità o uno strumento di governance
globale, che è il modo per dare attuazione, anche sul piano istituzionale, all’imperativo della solidarietà.
716
Giacomo Costa SJ
approfondimenti
Gli snodi del vivere in comune
attraverso lo studio degli esperti
cristiani e cittadini
Alla riscoperta dell’insegnamento
sociale della Chiesa
voci del mondo
La realtà di altri Paesi
raccontata da chi la vive
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Testi di riferimento
da leggere con cura
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Icone della società di oggi
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oltre la notizia
Una lettura critica dell’attualità
Per un piano nazionale
contro la povertà
oltre la notizia
La proposta del Reddito
di inclusione sociale (REIS)
Alleanza contro la povertà in Italia
Il 14 ottobre scorso, presso la sede del CNEL (Consiglio nazionale economia e lavoro) a Roma, l’Alleanza contro la povertà
in Italia, di cui Aggiornamenti Sociali fa parte tramite la rete
del JSN – Jesuit Social Network Italia, ha presentato al Paese
e al Governo la propria ambiziosa proposta per la progressiva
introduzione di una misura universale di sostegno al reddito
di quanti vivono in condizione di povertà assoluta (Reddito di
inclusione sociale, REIS). Riproduciamo il Documento politico
dell’Alleanza (spostandone la presentazione nella scheda a p.
725), a cui segue un profilo sintetico del REIS, rinviando al sito
<www.redditoinclusione.it> per i dettagli e gli approfondimenti.
1. Il Documento politico
a) La povertà in Italia
Nell’Italia di oggi non mancano i motivi per occuparsi della povertà. Il 9,9% delle persone residenti nel nostro Paese, infatti,
vive in povertà assoluta 1, mentre nel 2007 erano il 4,1% 2.
Il bombardamento quotidiano di dati sulla crisi al quale siamo
tutti sottoposti rischia di lasciare in secondo piano la rilevanza di
1
2
718
Cfr ISTAT, La povertà in Italia, anno 2013, 14 luglio 2014, in <www.istat.it>.
Cfr ISTAT, La povertà in Italia, anno 2010, 15 luglio 2011, in <www.istat.it>.
Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (718-724)
oltre la notizia
questo 9,9%. Non ci si riferisce, infatti, al fenomeno dell’impoverimento che tocca una parte ben più ampia della popolazione,
costringendola a rinunciare ad alcuni consumi che desidererebbe
potersi permettere (come qualche apparecchio tecnologico o la possibilità di andare fuori città in estate), senza però impedire la fruizione dei beni e dei servizi essenziali. Si tratta, piuttosto, di chi non
raggiunge uno «standard di vita minimamente accettabile» calcolato
dall’ISTAT e legato a un’alimentazione adeguata, a una situazione
abitativa decente e ad altre spese basilari come quelle per la salute, i
vestiti e i trasporti.
Anche dopo la fine della crisi, l’Italia resterà più povera di
prima. La ripresa potrà ridurre l’attuale percentuale di povertà assoluta, ma non di molto, dato che la sua maggiore presenza è un fenomeno strutturale, così come il suo nuovo profilo. Non si concentra
più, infatti, esclusivamente nel Meridione e tra le famiglie numerose
(con almeno tre figli), anche se queste rimangono le realtà dove
risulta maggiormente presente. Gli ultimi anni, infatti, ne hanno
visto l’incremento galoppante in segmenti della popolazione prima
ritenuti immuni: il Nord – dove le persone in povertà assoluta sono
aumentate dal 3,3% (2007) al 7,3% (2013) – e le famiglie con due
figli minori (dal 3,8% al 13,4%). Mentre raggiunge nuovi soggetti,
la povertà non abbandona quelli che già da tempo affligge su larga
scala, a partire da bambini e minori.
Che cosa possono fare, oggi, le persone in povertà assoluta?
Chiedere aiuto ai Comuni, che hanno limitate possibilità di risposta
dati i ripetuti tagli, oppure alle tante realtà non profit impegnate nel
territorio, a conoscenti o ad altri. I grandi numeri della povertà di
oggi fanno sì che, nella maggior parte dei casi, chi sperimenta
questa condizione se la debba cavare da solo.
Ciò accade perché l’Italia rimane l’unico Paese dell’UE, insieme
alla Grecia, privo di una misura nazionale a sostegno di chi si trova
in condizione di bisogno. Pur nelle differenze, i tratti di fondo sono
ovunque gli stessi: un contributo economico per affrontare le spese
primarie accompagnato da servizi alla persona (sociali, educativi,
per l’impiego) che servono a organizzare diversamente la propria
vita e a cercare di uscire dalla povertà. Alla base c’è il patto di cittadinanza tra lo Stato e il cittadino in difficoltà: chi è in povertà
assoluta ha diritto al sostegno pubblico e il dovere di impegnarsi a
compiere ogni azione utile a superare tale situazione.
A fronte di questa situazione, un intervento da parte del Governo si rende necessario, partendo dalla considerazione che le risposte attualmente in campo contro la povertà assoluta sono del tutto
inadeguate.
Per un piano nazionale contro la povertà
719
b) Il Piano nazionale contro la povertà
Per questo gli aderenti all’Alleanza hanno svolto insieme un lavoro di approfondimento, tenendo conto delle proposte già elaborate,
che ha prodotto una proposta organica di riforma a regime ampiamente condivisa da tutti i soggetti che la compongono. Sulla base
degli indicatori socioeconomici, delle conoscenze e delle esperienze
maturate, l’Alleanza ritiene che si debba fare del 2015 il primo
anno del Piano nazionale contro la povertà: è questa la prima richiesta dell’Alleanza al Governo italiano per il 2015. Il nostro Paese
ne ha evidente bisogno e la sua attuazione si declina nei punti che
seguono.
1. Far partire il Piano nazionale contro la povertà: l’Alleanza
chiede al Governo italiano di avviare nel 2015 un Piano nazionale
contro la povertà di durata pluriennale. Il Piano deve contenere le
indicazioni concrete affinché venga gradualmente introdotta una
misura nazionale, rivolta a tutte le persone e le famiglie in povertà
assoluta nel nostro Paese, che si basi su una logica non meramente
assistenziale, ma che sostenga un atteggiamento attivo dei soggetti
beneficiari dell’intervento. Pertanto è necessario impegnare da subito risorse adeguate a far partire il Piano nazionale e non limitarsi a
risorse destinate a strumenti che rispondono a logiche emergenziali,
senza definire un quadro organico di interventi.
2. Gradualismo in un orizzonte definito: bisognerà prevedere
che a partire dal primo anno riceva la misura un numero significativo di persone (cfr punto 3), con una crescita graduale in ogni
annualità successiva. Nella stesura del Piano, il legislatore deve assumere precisi impegni riguardanti le tappe intermedie e il punto di
arrivo. L’ultimo anno corrisponderà al primo della misura a regime,
a partire dal quale tutte le famiglie in povertà assoluta riceveranno
la misura. Occorrerà inoltre specificare l’ampliamento dell’utenza
e il relativo finanziamento, previsto per ogni precedente annualità.
Senza una simile prospettiva pluriennale, infatti, risulterebbe poco realistico immaginare la costruzione di un sistema locale di servizi adeguato alla lotta contro l’esclusione sociale. Questa costruzione
richiede investimenti, sviluppo di competenze e programmazione:
gli enti locali, il Terzo settore e le organizzazioni sindacali impegnate nel territorio potranno realizzarla solo se riceveranno un’adeguata
stima economica e previsionale.
3. Prima i più deboli: in ogni anno della transizione l’utenza
si deve allargare rispetto al precedente. L’ordine di fruizione della
misura viene definito esclusivamente in base alla condizione eco-
720
Alleanza contro la povertà in Italia
oltre la notizia
nomica: nell’ambito delle famiglie che sono in povertà assoluta, si
comincia da coloro che versano in condizioni economiche più critiche e progressivamente si copre anche chi sta “un po’ meno peggio”,
sino a fornire la misura, a partire dall’ultimo anno della transizione,
a tutti i nuclei in povertà assoluta.
4. Cominciare subito con i servizi: sin dall’inizio, dal 2015, la
misura deve assumere alcuni tratti fondamentali. Deve costituire il
diritto a una prestazione monetaria accompagnato dall’erogazione
dei servizi necessari ad acquisire nuove competenze e/o organizzare
diversamente la propria vita (servizi per l’impiego, contro il disagio
psicologico e/o sociale per esigenze di cura e altro). Una particolare
attenzione deve essere rivolta ai servizi alla persona, elemento orientato a favorire l’inclusione sociale e valorizzare l’atteggiamento attivo
da parte dei soggetti beneficiari dell’intervento.
5. Assicurare continuità: le prestazioni nazionali sperimentali o
una tantum già esistenti contro la povertà assoluta devono confluire
progressivamente nella misura. Per la precedenza a ricevere la nuova
misura durante la transizione, al principio di “dare prima a chi sta
peggio” si affiancherà quello di garantire la continuità. Pertanto, alle
persone in povertà assoluta che non riceveranno le prestazioni fino
ad oggi in vigore sarà garantita la nuova misura senza interruzioni
del sostegno pubblico. L’Alleanza ritiene come principio fondamentale che per sostenere un piano di lotta alla povertà non si debbano
sottrarre né spostare risorse destinate e vincolate al sociale. Le prestazioni a oggi erogate dal sistema assistenziale non devono subire
modifiche peggiorative per i fruitori.
6. No a guerre tra poveri: la prossima legge di stabilità non deve
prevedere la messa in discussione delle altre misure per il welfare
sociale a rischio, a partire dai fondi nazionali (innanzitutto Fondo
nazionale politiche sociali e Fondo per la non autosufficienza), oggetto negli anni recenti di tagli radicali, che ne hanno già messo in
discussione la sopravvivenza. L’investimento sulla lotta alla povertà
assoluta non può considerarsi in alcun modo sostitutivo del necessario rifinanziamento di questi Fondi.
Allo stesso modo, le risorse necessarie per finanziare la misura
contro la povertà assoluta non dovranno essere recuperate togliendole ad altre fasce deboli o a rischio di fragilità della popolazione.
7. Uno strumento di politica sociale e non di politica
del lavoro: tradizionalmente in Italia tutta l’attenzione è stata
concentrata sulle politiche del lavoro, a scapito delle politiche sociali.
Il nostro obiettivo è quello di valorizzare l’importanza di quest’ultime, ed è ad esse che appartiene la nostra proposta.
Per un piano nazionale contro la povertà
721
8. Il finanziamento deve essere assicurato dallo Stato: a regime la misura dovrà costituire un livello essenziale delle prestazioni
sociali e, dunque, essere interamente finanziata dallo Stato. Eventuali finanziamenti con Fondi europei o altro, una volta verificatane
la legittimità, potrebbero essere utilizzati parzialmente durante la
transizione, ma solo in presenza di un chiaro impegno dello Stato
per la situazione a regime. Il possibile contributo finanziario di donatori privati svolgerà un ruolo di rilievo, con funzione complementare rispetto al necessario finanziamento statale del livello essenziale. Siamo persuasi che la proposta del REIS (Reddito di inclusione
sociale) è compatibile con le capacità finanziarie dello Stato, il quale
dovrà comunque tenere conto di vincoli finanziari sostenibili.
Evidenziare la necessità del finanziamento statale non significa
assolutamente svilire tutto quello che è già stato realizzato nel territorio contro la povertà, che, al contrario, dovrà essere valorizzato e
confluire nella riforma. Da una parte, le risorse attualmente impiegate nella lotta alla povertà a livello regionale e territoriale dovranno
rimanere comunque destinate alla spesa sociale per le famiglie in
condizione disagiata. Allo stesso modo, tutto il patrimonio di esperienze maturate a livello territoriale, da parte di enti locali, Terzo
settore e organizzazioni sindacali confederali, dovrà essere valorizzato nella costruzione della riforma e confluire in essa. La proposta
del REIS prevede, quindi, una cornice di obiettivi strategici e di
risorse per il loro perseguimento, definita dallo Stato, e la traduzione
operativa delle misure ad opera delle istituzioni locali.
9. Valorizzare la partecipazione sociale: l’efficacia della nuova
proposta di riforma è commisurata al pieno coinvolgimento delle
organizzazioni sindacali e del Terzo settore con le istituzioni interessate, sia nella programmazione sia nella progettazione e gestione
degli interventi.
2. La proposta: il Reddito d’inclusione sociale (REIS)
I principi appena enunciati trovano attuazione nella proposta di
adozione di una misura specifica di politica sociale: il REIS. Esso
assicura a chiunque sia caduto in povertà un insieme di risorse
adeguate a raggiungere una condizione materiale decente e, dove possibile e/o necessario, a progettare percorsi di inserimento
sociale o lavorativo. La sua introduzione permetterebbe di dare
al nostro Paese quella politica contro la povertà sinora mancante,
capace, allo stesso tempo, di assicurare a tutti una vita dignitosa e
di offrire strumenti per cambiarla (vigilando che ciò accada) a chi
è in grado di farlo.
722
Alleanza contro la povertà in Italia
oltre la notizia
Una volta a regime, cioè a partire dal quarto anno del Piano
nazionale contro la povertà (il 2018, se il Piano partirà nel 2015), il
profilo del REIS avrà le seguenti caratteristiche.
1. Destinatari: il REIS si rivolge a tutte le famiglie in povertà
assoluta. È destinato ai cittadini, di qualsiasi nazionalità, in possesso
di un valido titolo di legittimazione alla presenza sul territorio italiano e ivi presenti in forma regolare da almeno 12 mesi. Il principio
guida è l’universalismo: una misura per tutte le famiglie in povertà.
2. Importo: ogni nucleo riceve mensilmente una somma pari alla differenza tra la soglia di povertà 3 e il proprio reddito. Il principio
guida è l’adeguatezza: nessuno è più privo delle risorse necessarie a
raggiungere un livello di vita “minimamente accettabile”.
3. Servizi alla persona: quando consono e necessario, insieme al
contributo monetario i beneficiari del REIS ricevono servizi sociali,
sociosanitari, socioeducativi o educativi. Possono essere servizi contro il disagio psicologico e/o sociale, di istruzione, riferiti a bisogni
di cura, per l’autonomia o di altra natura. Si intende così fornire
nuove competenze agli utenti e/o aiutarli a organizzare diversamente
la propria esistenza. Il principio guida risiede nell’inserimento sociale: dare alle persone l’opportunità di costruire percorsi che, nei limiti
del possibile, permettano di uscire dalla condizione di marginalità.
4. Welfare mix: il REIS viene gestito a livello locale grazie a un
impegno condiviso, innanzi tutto, da Comuni e Terzo settore. I Comuni (in forma associata nell’Ambito) hanno la responsabilità della
regia complessiva e il Terzo settore coprogetta insieme a loro, esprimendo le proprie competenze in tutte le fasi dell’intervento; anche
altri soggetti svolgono un ruolo centrale, a partire da quelli dedicati
a formazione e lavoro. Il principio guida consiste nella partnership:
solo un’alleanza tra attori pubblici e privati a livello locale permette
di affrontare con successo il nodo povertà.
5. Lavoro: tutti i membri della famiglia tra 18 e 65 anni ritenuti
abili al lavoro devono attivarsi nella ricerca di un impiego, dare disponibilità a iniziare un’occupazione offerta dai Centri per l’impiego
e a frequentare attività di formazione o riqualificazione professionale. Il principio guida consiste nell’inserimento occupazionale: chi
può, rafforza le proprie competenze professionali e deve compiere
ogni sforzo per trovare un’attività lavorativa.
3 La soglia di povertà a cui fa riferimento la proposta del REIS varia in funzione
di vari parametri, quali la numerosità del nucleo familiare, la presenza di minori e
l’ammontare dell’eventuale canone di locazione dell’appartamento. La soglia base
per i nuclei unipersonali è di 400 euro al mese, più il 75% del canone di locazione
eventualmente pagato.
Per un piano nazionale contro la povertà
723
6. Livelli essenziali: il REIS costituisce un livello essenziale
delle prestazioni, il primo tra gli interventi di politiche sociali a
diventarlo. Viene così introdotto un diritto che assicura una tutela
a chiunque cada in povertà assoluta. Il principio guida è quello di
cittadinanza, secondo il quale viene garantito a tutti il diritto di
essere protetti contro il rischio di povertà.
Il REIS viene introdotto gradualmente, ampliando progressivamente la platea dei beneficiari, sulla base di quanto previsto dal Piano nazionale contro la povertà, fino a raggiungere, il quarto anno,
tutti i nuclei familiari in condizione di povertà assoluta. A regime la
misura richiede un investimento pubblico di circa 7,1 miliardi
di euro. In ogni anno del Piano, le risorse stanziate sono superiori
rispetto al precedente: i percorsi che si possono seguire nel loro progressivo incremento sono vari.
A sostenere l’attuazione del REIS è l’infrastruttura nazionale
per il welfare locale, cioè un insieme di strumenti che lo Stato, in
collaborazione con le Regioni, fornisce ai soggetti del territorio per
porli in condizione di operare al meglio. Vengono definiti criteri di
accesso validi per tutto il Paese e sono trasferite ai territori le risorse
economiche necessarie ad assicurare le relative risposte. Si impianta anche un solido sistema di monitoraggio e valutazione, capace
di comprendere ciò che accade nelle varie realtà locali, di esaminarlo e trarne indicazioni utili al miglioramento, nella prospettiva
di apprendere dall’esperienza. Inoltre, i territori vengono affiancati
con iniziative di formazione, occasioni di confronto tra operatori di
diverse realtà, scambio di esperienze, linee guida. Infine, laddove
la riforma sia inattuata o presenti forti criticità, lo Stato interviene direttamente, ricorrendo a propri poteri sostitutivi. Trattandosi
di un’innovazione ambiziosa per il nostro sistema di welfare,
che lo spinge a un robusto sviluppo sul piano organizzativo,
procedere per gradi e fornire allo stesso tempo tutti gli strumenti
necessari al livello locale paiono condizioni non rinunciabili per il
suo successo.
724
Alleanza contro la povertà in Italia
A
ll’inizio del 2014 è nata l’Alleanza contro la
povertà in Italia, un insieme di soggetti sociali che decidono di unirsi per contribuire alla
costruzione di adeguate politiche pubbliche
contro la povertà assoluta nel nostro Paese.
Nel perseguire questo obiettivo, l’Alleanza ha
condotto un insieme di varie attività, tra loro
collegate: ha svolto un lavoro di sensibilizzazione dell’opinione pubblica; ha promosso un dibattito basato
sull’evidenza empirica concernente gli interventi esistenti e
quelli proposti; si è confrontata con le forze politiche e continua a esercitare pressione su di esse affinché compiano
scelte favorevoli alla lotta contro la povertà; ha elaborato una
propria dettagliata proposta di riforma.
Una simile Alleanza non era mai stata costruita in Italia. È la
prima volta, infatti, che un numero così ampio di soggetti sociali dà vita a un sodalizio per promuovere adeguate politiche
contro la povertà. La sua nascita costituisce un segno dell’urgenza di rispondere al diffondersi di questo grave fenomeno e
dell’accresciuta consapevolezza, in tutti i proponenti, che solo
unendo le forze si può provare a cambiare qualcosa.
Sono soggetti fondatori dell’Alleanza: ACLI, Action Aid, ANCI,
Azione cattolica italiana, Caritas italiana, CGIL, CISL, UIL,
CNCA, Comunità di Sant’Egidio, Confcooperative, Conferenza
delle Regioni e delle Province autonome, Federazione nazionale Società di san Vincenzo de Paoli, Fio-PSD, Fondazione
Banco Alimentare, Forum nazionale del Terzo settore, JSN
– Jesuit Social Network, Legautonomie, Save the Children,
Umanità Nuova-Movimento dei Focolari.
Sono soggetti aderenti dell’Alleanza: ADICONSUM, Associazione Professione in Famiglia, ATD Quarto Mondo, Banco
Farmaceutico, CILAP EAPN Italia, CSVnet – Coordinamento
Nazionale dei Centri di Servizio per il Volontariato, Federazione SCS/CNOS – Salesiani per il sociale, Fondazione Banco
delle Opere di Carità, Fondazione ÉBBENE, Piccola Opera
della Divina Provvidenza del Don Orione, UNITALSI.
L’Alleanza contro la povertà in Italia nasce da un’idea del prof.
Cristiano Gori dell’Università Cattolica di Milano, è promossa dalle ACLI e realizzata grazie al contributo delle Segreterie
confederali di CGIL, CISL e UIL e degli altri aderenti. Alle ACLI
è affidato il coordinamento politico-organizzativo, mentre il
prof. Gori coordina le attività del gruppo tecnico.
La partecipazione all’Alleanza è aperta a tutti i soggetti sociali
interessati alla lotta contro la povertà assoluta in Italia. L’ampiezza della sfida è tale da rendere necessaria la massima
condivisione delle esperienze, delle competenze e della creatività di ognuno. Per maggiori informazioni si rinvia al sito
<www.redditoinclusione.it>.
scheda / reti
L’Alleanza contro la povertà in Italia
725
approfondimenti
Spending review
all’italiana
Maria Flavia Ambrosanio
Professore di Scienza delle Finanze, Università Cattolica di Milano,
<maria.ambrosanio@unicatt.it>
Paolo Balduzzi
Ricercatore di Scienza delle Finanze, Università Cattolica di Milano,
<paolo.balduzzi@unicatt.it>
L’espressione spending review è ormai entrata nel lessico quotidiano, ma non è sinonimo di generici tagli alla spesa pubblica.
Che cosa significa esattamente, anche in base alle numerose
esperienze internazionali di revisione della spesa? Lungo quali
linee e con quali esiti si è mossa la spending review nel nostro
Paese? Possiamo attenderci novità significative in materia di
gestione della spesa pubblica?
L
a spending review consiste in un processo di monitoraggio,
valutazione e revisione della spesa pubblica, al quale è affidato l’obiettivo di migliorarne l’efficienza (taglio degli
sprechi), l’efficacia (indicazione delle priorità) e la trasparenza
(come vengono spesi i soldi pubblici). Va pertanto subito chiarito
che l’espressione spending review non è necessariamente sinonimo di
tagli alla spesa, come invece viene comunemente interpretata nella
gran parte del dibattito politico e non. Se tuttavia l’obiettivo è quello di ridurre la spesa, la spending review ha il pregio di fondarsi su
un approccio di tipo selettivo, che si contrappone a quello dei tagli
lineari o dei tetti alla crescita della spesa uguali per tutti i settori,
che risultano più semplici e immediati da attuare e producono senza dubbio una minore conflittualità politica. In Italia, la revisione
della spesa non è argomento nuovo, ma in passato non è mai stata
oggetto di tutta l’attenzione ricevuta a partire dal 2012, tanto che
l’espressione è entrata a far parte del linguaggio comune.
726
Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (726-736)
approfondimenti
Le pagine che seguono sono dedicate, in primo luogo, a fornire
un inquadramento generale del tema, anche con riferimento ad alcune esperienze internazionali; in secondo luogo presentano alcuni
elementi essenziali della dinamica della spesa pubblica in Italia, che
giustificano un profondo processo di revisione; infine, offrono una
panoramica delle principali misure adottate dal legislatore italiano,
con particolare enfasi su quelle più recenti. Lo sguardo adottato ha
dunque una certa ampiezza e profondità, senza alcuna ambizione di
dare una valutazione puntuale dell’operato del commissario straordinario per la revisione della spesa, Carlo Cottarelli, che a fine ottobre ha lasciato l’incarico, o delle difficoltà da lui incontrate nello
svolgimento del proprio compito.
Che cos’è la spending review?
Come si è accennato, l’essenza di un processo di spending review consiste nella valutazione della spesa pubblica, per stabilire se
le finalità ottenute dalle diverse tipologie di spesa corrispondono
effettivamente agli obiettivi originari del legislatore (efficacia), se
tali obiettivi sono raggiunti al minor costo possibile o se invece esistono sprechi che possono essere ridotti o eliminati (efficienza), e
quindi al fine di conoscere (e saper comunicare al pubblico) come
vengono impiegate le risorse pubbliche raccolte tramite il prelievo fiscale e tributario (trasparenza). La revisione della spesa ha dunque
l’obiettivo principale di superare il tradizionale approccio incrementale nelle decisioni di bilancio: la tendenza a concentrarsi
sulle nuove iniziative di spesa, sulle risorse (aggiuntive) da destinare
ai programmi di spesa già in atto, piuttosto che sulle analisi di efficienza, efficacia e congruità con gli obiettivi della spesa in essere.
I processi di spending review possono assumere connotazioni anche profondamente diverse, come mostrano le esperienze a livello
internazionale.
La differenza principale riguarda gli specifici obiettivi assegnati alla revisione della spesa. Un primo obiettivo, realizzabile anche
nel breve-medio termine, è quello di verificare se e come i programmi di spesa esistenti possano essere attuati con l’impiego
di minori risorse (si fa in questo caso riferimento alla functional
spending review 1), o attraverso la mera eliminazione degli sprechi
o attraverso innovazioni nell’organizzazione dei processi produttivi
1 A livello internazionale, tra gli esempi di functional spending review si possono citare i casi di Finlandia (2005-2015) e Grecia (2010-2011), mentre Australia (2007),
Canada (1994 e 2009), Paesi Bassi (1982 e 2009) e Regno Unito (dal 1998) costituiscono esempi di strategic spending review; a riguardo di alcuni di questi programmi
cfr la scheda a p. 737.
Spending review all’italiana
727
dei beni e servizi pubblici. Un secondo obiettivo, realizzabile solo
nel lungo periodo, è invece quello di ridefinire le aree e i settori di
intervento dell’operatore pubblico, ovvero ciò che la pubblica amministrazione (PA) dovrebbe o non dovrebbe fare (si parla in questo
caso di strategic spending review). È un obiettivo di portata ben più
vasta, che potrebbe implicare anche il ridimensionamento del peso
del settore pubblico o la sua uscita da alcune aree di intervento, o,
al contrario, l’ampliamento del suo ruolo nel sistema economico.
Altre differenze concernono invece le modalità di attuazione,
e in particolare: periodicità (regolare o una tantum, con misure
puntuali finalizzate alla rapida diminuzione della spesa); soggetti
responsabili della gestione, normalmente espressione del ramo esecutivo delle istituzioni (Primo Ministro, Ministero delle Finanze,
altri Ministeri con portafoglio, Commissari ad acta, appositi comitati interministeriali); ambito di applicazione (generale, cioè rivolto
all’intero settore pubblico, oppure limitato a determinate funzioni
o a un determinato livello di governo); definizione delle possibilità
di risparmio, che possono essere espresse in termini di obiettivi fisici
(riduzione del personale, degli immobili pubblici, delle auto blu)
oppure monetari.
È pertanto evidente che i processi di revisione della spesa sono
molto complessi e richiedono elevate competenze, anche sotto il profilo tecnico.
Perché la spending review?
Attualmente molti Paesi sono impegnati in qualche processo di
revisione della spesa, in quanto la crescita del rapporto tra spesa
pubblica e PIL (Prodotto interno lordo) riguarda la maggior parte
dei Paesi sviluppati, in modo particolare in Europa. Senza entrare
nel merito di una letteratura vastissima, sono varie e differenziate
le tesi che contribuiscono a ricostruire il puzzle delle ragioni
della crescita della spesa nei sistemi economici moderni.
Il primo riferimento è la cosiddetta legge di Wagner, che, sulla
base di studi empirici, collega la crescita del settore pubblico allo
sviluppo economico di un Paese. Quando un sistema economico
si sviluppa e sono ormai soddisfatti i bisogni primari, aumenta la
domanda di beni e servizi pubblici per soddisfare quelli secondari,
dal quadro legislativo e di regolazione necessario per lo svolgimento
dell’attività produttiva, allo sviluppo del sistema bancario e finanziario, alla costruzione del sistema di welfare. È dunque la collettività che esprime una domanda di intervento pubblico e non
c’è ragione per non assecondarla, se la stessa collettività è disposta a
finanziarla con aumenti della pressione tributaria.
728
Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi
approfondimenti
All’opposto si trovano le spiegazioni che considerano invece il
lato dell’offerta (i cosiddetti modelli politici): indipendentemente
dalla domanda del settore privato, è insita nel DNA dei Governi
una spinta alla crescita della spesa, derivante dall’utilizzo di risorse pubbliche per massimizzare le rendite politiche. La spesa pubblica
diventa strumento per ottenere consenso elettorale (come nel caso
delle leggi finanziarie pre-elettorali).
Di natura ancora diversa sono le spiegazioni che fanno riferimento alle caratteristiche tecniche dei processi di produzione di
beni e servizi pubblici, per lo più ad elevata intensità di lavoro e a
basso contenuto di progresso tecnico (si pensi all’istruzione): è quindi difficile realizzare aumenti di produttività. Se il costo del lavoro
aumenta – come è accaduto – in assenza di aumenti di produttività,
ne consegue un aumento del costo di produzione di beni e servizi
pubblici e, a parità di domanda, un aumento della spesa pubblica (è
la cosiddetta “malattia di Baumol”).
Ma perché preoccupa la crescita della spesa pubblica, per cui diventano necessarie azioni come la spending review per arrestarla? Il
problema principale riguarda il suo finanziamento, che richiede un
crescente carico tributario, spostando risorse sempre maggiori dal
settore privato a quello pubblico, con tutte le inefficienze associate a
un’eccessiva pressione tributaria, oppure – come si è verificato nella
maggior parte dei Paesi – un finanziamento in deficit, con ricorso
all’indebitamento e il conseguente accumulo di debito pubblico,
i cui problemi sono ben noti al nostro Paese.
Alcune peculiarità della spesa pubblica italiana
Prima di entrare nel merito della spending review all’italiana, è
opportuno richiamare alcune caratteristiche della dinamica di lungo periodo della spesa pubblica nel nostro Paese, in modo da trarre
indicazioni sugli spazi di manovra esistenti. A questo scopo, la Tab.
1 presenta la ripartizione della spesa pubblica per funzioni (in percentuale sul totale della spesa e sul PIL) nel 1990 e nel 2010.
La spesa per interessi, generata dall’accumulo di debito pubblico, è di ammontare assai più elevato che nella maggior parte
degli altri Paesi europei: nel 1990 il debito rappresentava poco
meno del 20% della spesa pubblica complessiva e assorbiva l’11,5%
del PIL ed è solo a partire dalla fine degli anni ’90 che inizia un
sentiero discendente, frutto delle politiche di contenimento del disavanzo pubblico e della discesa dei tassi d’interesse a seguito dell’ingresso nell’Unione monetaria (cioè nell’euro). Il secondo aspetto
che differenzia l’Italia è l’elevata spesa per la protezione sociale
(in particolare per la spesa pensionistica), che ha continuato ad
Spending review all’italiana
729
Evoluzione della spesa pubblica italiana
Funzioni di spesa
% della spesa pubblica totale
2010
1990
2010
Servizi generali
6,0
8,0
3,2
4,1
Difesa
3,1
3,0
1,6
1,5
Ordine pubblico e sicurezza
4,0
3,9
2,1
2,0
11,1
8,6
5,9
4,4
Protezione dell’ambiente
0,9
1,1
0,5
0,6
Abitazioni e assetto del territorio
2,5
1,6
1,3
0,8
11,7
14,8
6,2
7,6
1,5
1,6
0,8
0,8
Affari economici
Sanità
Attività ricreative, culturali, culto
tabella 1
% del PIL
1990
Istruzione
10,1
8,6
5,3
4,4
Protezione sociale
30,3
39,9
16,0
20,4
18,9
8,8
10,0
4,5
100,0
100,0
53,0
51,0
Interessi
Totale
aumentare a ritmi sostenuti negli ultimi 25 anni: dal 30% circa
della spesa totale nel 1990 al 40% nel 2010, quando ha raggiunto il
20,4% del PIL. Anche la spesa per la sanità ha continuato a crescere,
raggiungendo nel 2010 circa il 15% della spesa complessiva e il 7,6%
del PIL. Meno sostenuta la crescita della spesa per servizi generali,
collegata al funzionamento delle istituzioni pubbliche.
Dal 1990 a oggi si è dunque verificata una ricomposizione della
spesa pubblica: previdenza e sanità hanno assorbito risorse crescenti a scapito di quasi tutte le altre funzioni, in particolare
dell’istruzione, la cui quota sul totale della spesa pubblica si è gradualmente ridotta dal 10,1% all’8,6% e oggi vale solo il 4,4% del
PIL. Queste dinamiche sono state accompagnate dalla compressione delle spese di investimento, che tra il 1990 e il 2010 si sono
ridotte dal 6% al 4% della spesa pubblica complessiva e dal 3,2% al
2,1% del PIL, fenomeno che ha accomunato quasi tutti i Paesi europei. Considerando che lavoro e acquisti di beni e servizi assorbono
circa il 40% della spesa corrente al netto degli interessi, un ultimo
aspetto importante riguarda i costi della produzione di beni e servizi
pubblici: in Italia sono cresciuti di quasi un terzo in più dei costi
di produzione dei beni di consumo privati, generando un aumento
delle imposte e delle tariffe pagate dai cittadini.
Se si prescinde dalla spesa per interessi, il cui ammontare dipende solo in parte dalle politiche pubbliche, questi dati indicano
in qualche misura le priorità di spesa dei Governi: più sanità e
pensioni e meno istruzione, più spesa corrente e meno investimenti, scarsa attenzione al controllo dei costi di produzione.
Questi dati indicano anche che circa il 50% della spesa pubblica,
730
Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi
approfondimenti
destinata alle prestazioni sociali e al pagamento degli interessi, è
poco comprimibile almeno nel breve e medio periodo, in quanto
riguarda obbligazioni e diritti acquisiti che devono essere onorati.
È in questo contesto che si sono inseriti diversi tentativi di spending review, soprattutto a partire dalla fine degli anni 2000.
La spending review in Italia: la storia
Il primo esperimento di spending review si deve al ministro
dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa nel 2007, con la costituzione della Commissione tecnica per la finanza pubblica, che produce il Libro verde sulla spesa pubblica. Spendere meglio: alcune prime
indicazioni; con la Legge finanziaria per il 2008 (L. n. 244/2007), il
programma di analisi e valutazione della spesa diventa permanente,
con riferimento alle missioni e ai programmi in cui si articola il bilancio dello Stato; viene ulteriormente potenziato nel 2009 dalla nuova Legge di contabilità e finanza pubblica (L. n. 196/2009), che ne
prevede l’istituzionalizzazione e la graduale estensione a tutte le PA 2.
Nel corso del 2011 arrivano altre norme (D.Lgs . n. 123, D.L.
nn. 98, 138 e 149), tra le quali merita particolare attenzione quella
che estende alle amministrazioni centrali il metodo dei fabbisogni e
dei costi standard – utilizzato per gli enti territoriali, sulla base della
L. n. 42/2009 di attuazione del federalismo fiscale 3 –, al fine di
individuare le eventuali criticità nella produzione ed erogazione dei
servizi pubblici e le strategie di miglioramento dei risultati ottenibili
con le risorse disponibili 4.
2 In particolare, prende avvio la collaborazione tra Ministero dell’Economia e amministrazioni centrali dello Stato, nell’ambito dei Nuclei di analisi e valutazione della
spesa (NAVS), finalizzata a garantire il supporto per la verifica dei risultati programmatici rispetto agli obiettivi di finanza pubblica e per il monitoraggio dell’efficacia
delle misure disposte per incrementare il livello di efficienza delle amministrazioni.
I NAVS si sono insediati a metà del 2011 e hanno predisposto le Relazioni annuali
sui Ministeri, confluite nel Rapporto triennale sulla spesa delle amministrazioni dello
Stato, presentato alle Camere nell’agosto 2012.
3 Il riferimento è al D.Lgs. n. 216/2010 per i fabbisogni standard di Province e
Comuni e al D.Lgs. n. 68/2011 per i costi standard per la sanità nelle Regioni, da
utilizzare per la distribuzione delle risorse tra gli enti territoriali.
4 Il D.L. n. 138/2011 aveva attribuito al Ministro dell’Economia il compito di
presentare, entro il 30 novembre 2011, un programma per la riorganizzazione della
spesa pubblica, contenente le linee guida per l’integrazione delle agenzie fiscali, la
razionalizzazione e la concentrazione in un ufficio unitario a livello provinciale di
tutte le strutture periferiche dell’amministrazione dello Stato; il coordinamento delle
attività delle forze dell’ordine; l’accorpamento degli enti di previdenza pubblica; la
razionalizzazione dell’organizzazione giudiziaria civile, penale, amministrativa, militare e tributaria a rete; la riorganizzazione della rete consolare e diplomatica. Questo
programma non è stato presentato alle Camere, anche se alcune misure, come l’accorpamento degli enti previdenziali, sono state realizzate dal D.L. n. 201/2011 (c.d.
“Salva Italia”).
Spending review all’italiana
731
Il successivo Governo Monti introduce nuovi provvedimenti
inerenti la spending review. Il primo è una direttiva sulla revisione
della spesa delle amministrazioni centrali, in modo da realizzare
già nel 2012 risparmi per 4,2 miliardi di euro, attraverso la riduzione della spesa per acquisto di beni e servizi, il ridimensionamento
delle strutture dirigenziali, la riduzione delle società pubbliche, la
ricognizione degli immobili pubblici al fine di possibili dismissioni,
la riduzione della spesa per locazioni e di quella per rappresentanza
e convegni. Il secondo atto è il D.L. n. 52/2012, Disposizioni urgenti
per la razionalizzazione della spesa pubblica, che istituisce un Comitato interministeriale per la revisione della spesa pubblica,
nomina il Commissario straordinario per la razionalizzazione della
spesa per acquisti di beni e servizi delle PA, introduce norme dirette
a rendere più stringente il ricorso a procedure di acquisto centralizzato di beni e servizi (attraverso CONSIP 5), riduce i tempi per
l’applicazione dei costi e fabbisogni standard per gli enti locali. Il
terzo atto è il D.L. n. 95/2012, Disposizioni urgenti per la revisione
della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario,
che rafforza i contenuti del decreto precedente.
Infine, il 4 ottobre 2013 il Governo Letta nomina commissario straordinario per la revisione della spesa Carlo Cottarelli 6,
che il 19 novembre presenta il proprio Programma di lavoro, fondato sull’idea che la revisione della spesa diventi parte integrante del
processo di preparazione del bilancio di tutte le PA, allo scopo di
modernizzarne procedure e modalità di spesa in modo da fornire
servizi pubblici di alta qualità al più basso costo possibile. Il Programma esplicita innanzitutto gli obiettivi quantitativi, che consistono in risparmi minimi pari a 3,6 miliardi nel 2015, 8,3 nel 2016
e 11,3 a decorrere dal 2017, sulla base dei contenuti della Legge di
stabilità per il 2014; in secondo luogo, fissa degli obiettivi qualitativi
lungo due direzioni: da un lato, focalizzare la spending review sui
guadagni di efficienza, cioè sulla minimizzazione dei costi di produzione dei servizi correnti (riduzione degli sprechi, functional spending review); dall’altro individuare i programmi di spesa a bassa
5
Alla CONSIP (Concessionaria Servizi Informativi Pubblici), nata nel 1997 come
strumento di cambiamento della gestione delle tecnologie dell’informazione nell’allora
Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica, nel 1999 viene affidata anche l’attuazione del Programma per la razionalizzazione degli acquisti
nella PA.
6 Il D.L. n. 69/2013 istituisce e disciplina il ruolo del commissario: la durata
dell’incarico è fissata in tre anni, in modo da configurare una struttura stabile, dotata
di poteri d’ispezione e ampia capacità di proposta e intervento nei confronti delle
amministrazioni centrali e periferiche (cfr <http://revisionedellaspesa.gov.it>).
732
Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi
approfondimenti
priorità, i cui benefici non giustifichino il costo per il contribuente
(strategic spending review); in terzo luogo, fornisce una specifica indicazione delle scadenze, in modo da dare avvio alle prime iniziative
già nell’estate del 2014.
Almeno dal punto di vista del quadro legislativo, sono stati approntati tutti gli strumenti necessari per attuare un serio processo di
revisione della spesa. Ma a che punto siamo? Come è stata tradotta
in pratica l’idea della spending review?
La spending review in Italia: i contenuti
La risposta può arrivare dall’analisi dei provvedimenti più importanti dal punto di vista quantitativo, vale a dire le manovre che si
sono succedute a partire dal 2011: i due decreti Tremonti (DD.LL.
nn. 98/2011 e 138/2011), il decreto “Salva Italia” (D.L. n. 201/2011)
e la legge di stabilità per il 2014 del Governo Letta (L. n. 147/2013).
Il D.L. 98/2011 prevedeva interventi in diversi settori, tra i quali
il tetto alla crescita del finanziamento del Servizio sanitario nazionale e, a partire dal 2013, della spesa per l’acquisto di dispositivi medici; l’ennesima riforma del Patto di stabilità interno, accompagnata
dal taglio lineare dei trasferimenti a Regioni ed enti locali; la proroga di norme già esistenti sui limiti alle assunzioni e all’aumento delle
retribuzioni nel pubblico impiego; qualche intervento marginale sul
sistema pensionistico; l’accorpamento degli istituti scolastici, con
conseguente riduzione del numero di istituzioni e di personale; l’inizio di un processo di spending review per le amministrazioni centrali
e interventi di riduzione dei costi della politica (sul tema el finanziamento ai partiti cfr il riquadro alla p. seguente). Con la sola eccezione delle ultime voci, si è quindi trattato di tradizionali interventi
di contenimento della spesa attraverso misure uniformi per tutti i
settori. La cruda realtà è che, al solito, anche tale manovra si è basata quasi esclusivamente sull’aumento delle entrate tributarie:
accise, IRAP per banche e assicurazioni, bollo sui depositi titoli.
Anche la seconda manovra Tremonti (D.L. n. 138/2011) non
è stata molto diversa: ha previsto riduzioni di risorse più consistenti
ai Ministeri, l’armonizzazione delle regole di decorrenza del pensionamento del settore della scuola e degli altri settori produttivi,
l’allungamento dei tempi per l’erogazione del trattamento di fine
rapporto nel pubblico impiego, l’anticipazione dal 2020 al 2014
dell’inizio del percorso di innalzamento da 60 a 65 anni dell’età
per il pensionamento delle lavoratrici del settore privato. Ma la parte essenziale della manovra è stata ancora una volta l’aumento
del gettito tributario: aumento dell’aliquota ordinaria dell’IVA dal
20% al 21%, introduzione di un’aliquota unica del 20% sui redditi
Spending review all’italiana
733
da capitale e sui redditi diversi (fatta eccezione per i titoli di Stato),
introduzione di un’imposta di bollo sui trasferimenti di denaro all’estero, aumento della cosiddetta “Robin Tax” a carico delle società
del settore energetico.
A confermare che l’impostazione del legislatore rispetto al taglio
della spesa è indipendente dal colore politico dei Governi, il decreto
“Salva Italia” varato dal Governo Monti (D.L. n. 201/2011) mantiene l’approccio dei tagli lineari e dell’aumento delle imposte, anche
se i risparmi di spesa più consistenti (seppur principalmente nel medio periodo) sono associati alla riforma delle pensioni, soprattutto
attraverso l’estensione del metodo contributivo a tutti i lavoratori e
al progressivo innalzamento dell’età pensionabile. Ancora una volta, infatti, le risorse più consistenti derivano dall’inasprimento
della pressione fiscale, realizzato attraverso la riforma della fiscalità sugli immobili (anticipazione e riforma dell’IMU, estesa anche
alle prime case, e creazione della TARES, Tassa rifiuti e servizi) e
La spending review del finanziamento ai partiti
Per ragioni sia di cassa (dal 2003 al 2013
le risorse elargite sotto forma di rimborsi
elettorali sono state di circa due miliardi di euro) sia etiche (legate ai numerosi
scandali), si è ritenuto che il processo di
spending review dovesse affrontare anche
il tema del finanziamento ai partiti. Se ne è
occupato il Gruppo di lavoro sui costi della
politica, coordinato dal prof. Bordignon e di
cui Paolo Balduzzi ha fatto parte. Inoltre,
a inizio 2014, è stato convertito il D.L. n.
149/2013, con cui il Governo Letta aveva
affrontato la materia. Il Gruppo di lavoro
ha avuto così la possibilità di sottoporre
le proprie raccomandazioni direttamente
al legislatore nella fase di conversione del
decreto, ma solo alcune di esse sono state
accettate.
Il D.L. n. 149/2013 prevedeva inizialmente
l’abolizione del finanziamento pubblico diretto all’attività dei partiti e l’introduzione
di forme di finanziamento “privato”, generosamente incentivate da sconti fiscali
(detraibilità dall’IRPEF e dall’IRES delle
erogazioni liberali a favore dei partiti, in percentuale differenziata a seconda della loro
entità; detraibilità delle spese di iscrizione
a scuole politiche di partito, nella misura
734
Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi
del 75% fino a un massimo di 750 euro;
introduzione della possibilità per i contribuenti di destinare il 2 per mille dell’IRPEF
al finanziamento di un partito). Per come
sono congegnati, anche i nuovi strumenti
di finanziamento “privato” sono in realtà
in parte a carico del bilancio pubblico: è
privata la scelta di finanziare i partiti, ma è
pubblica una parte del costo.
Gli emendamenti del gruppo di lavoro proponevano di ridurre la fase di transizione
al nuovo regime da quattro a tre anni, con
un risparmio annuo medio stimato in 15
milioni (proposta non accolta); di abolire la
detraibilità delle spese sostenute per l’iscrizione a scuole politiche di partito, in quanto
misura dal significato davvero ignoto (proposta accolta, con un risparmio stimato di
almeno 1,5 milioni l’anno); di diminuire l’aliquota media di detrazione per le erogazioni
liberali ai partiti, fissata a un livello superiore che in precedenza e ben più in alto di
quella prevista per le erogazioni liberali ad
altri soggetti (con una evidente sperequazione). La proposta è stata parzialmente accolta, con un risparmio stimato in 10 milioni
di euro all’anno, che avrebbe potuto essere
maggiore in caso di accoglimento integrale.
approfondimenti
l’aumento dallo 0,9% all’1,23% dell’aliquota base dell’addizionale
regionale all’IRPEF (Imposta sul reddito delle persone fisiche).
Neanche il Governo Letta, che pure aveva dato maggiore slancio alla spending review, si è mosso in una direzione diversa. Nonostante le numerose misure introdotte, l’effetto sui conti pubblici
e sulla crescita economica è stato praticamente nullo 7. È vero che la
L. n. 147/2013 ha disposto riduzioni di imposte per circa 6 miliardi
di euro, ma sono state compensate da aumenti di altre imposte per
8 miliardi di euro. Inoltre sono previste ancora una volta maggiori
spese, sia in conto capitale – il che non sarebbe un male, di per sé –
sia correnti. E la spending review?
Le cronache estive e gli ultimi avvenimenti fanno presagire
che probabilmente le cose non cambieranno, nonostante i lavori
del commissario Cottarelli, che peraltro con il 1° novembre passa
all’incarico di Direttore esecutivo per l’Italia presso il Fondo monetario internazionale: sin dall’inizio la sua posizione è apparsa in
netto contrasto con quella del Governo, molto più ottimista sulla
possibilità di recuperare risorse. Il passato insegna che le risorse sono
quasi sempre arrivate dall’aumento delle imposte, magari attraverso
le clausole di salvaguardia, con le quali si trasformano in maggiori
entrate i mancati risparmi di spesa 8. Ne contiene una anche la legge
di stabilità per il 2014: la versione originaria prevedeva che, in caso
di mancati risparmi derivanti dalla revisione delle detrazioni per
oneri personali, si sarebbe dovuto procedere con un taglio lineare,
vale a dire con la riduzione dell’aliquota di detrazione dal 19% al
18% per le spese sostenute nel 2013 e al 17% per quelle sostenute nel
2014. In un secondo tempo, però, il Governo è di nuovo intervenuto
correggendosi e stabilendo che quelle risorse si sarebbero dovute recuperare dalla spending review in atto. Meglio tardi che mai?
Spending review per la crescita
Se il passato non ha mostrato grandi risultati sul fronte della
revisione della spesa, che cosa è lecito aspettarsi nel presente e nel
futuro? L’esperienza di Carlo Cottarelli alla guida della Commissio7 Cfr Ambrosanio M. F. – Balduzzi P., «Finanza pubblica: bilancio delle “larghe
intese”», in Aggiornamenti Sociali, 3 (2014) 200-213.
8 È quanto accaduto con i risparmi previsti dalla prima manovra Tremonti (4 miliardi di euro nel 2013 e 20 nel 2014) a seguito dell’attuazione della delega fiscale,
con il conseguente riordino della spesa sociale e la revisione delle agevolazioni fiscali.
Poiché la delega non fu esercitata dal Governo, scattò la clausola di salvaguardia, non
nella forma originaria (riduzione lineare dei regimi di esenzione, esclusione e favore
fiscale), ma in quella riscritta dal Governo Monti, che sostituisce il taglio delle agevolazioni con l’aumento delle imposte indirette (soprattutto dell’IVA); il Governo Letta
ne ha preso atto. Il risultato finale è un aumento delle imposte per l’intera collettività.
Spending review all’italiana
735
ne, cominciata con grande ottimismo e forse con poco realismo, si
è ormai conclusa, ma il programma di lavoro è rimasto sostanzialmente “lettera morta”.
L’aspetto cruciale della vicenda è il mutamento dello scenario
politico. Il passaggio dal Governo Letta al Governo Renzi sembra
implicare, almeno sulla carta, un approccio diverso alla gestione dei
conti pubblici, probabilmente non in pieno condiviso dal Commissario alla spending review.
In ogni caso, il problema che il Governo in carica deve affrontare è il recupero delle risorse consistenti già contabilizzate per
il 2015 e il 2016 dall’Esecutivo precedente. Ad aggravare il quadro sta il fatto che non si registrano segnali di ripresa, anzi, l’Italia
è tornata in recessione e le stime indicano per il 2014 una ulteriore
contrazione del PIL, pur minima. Questo genera un peggioramento dei saldi di finanza pubblica e del rapporto tra debito pubblico
e PIL. Ma il Paese non può essere schiacciato da un’ulteriore
manovra correttiva, che sarebbe l’antitesi delle politiche per la crescita: ci sarebbe infatti bisogno di una politica di bilancio espansiva,
che richiederebbe, da manuale, riduzioni di imposte e/o aumenti di
spesa pubblica.
La revisione della spesa dovrebbe quindi avere come obiettivo
principale non i tagli tout court, ma il recupero selettivo di risorse da utilizzare per promuovere la crescita. Che cosa farà il
Governo Renzi? Almeno fino al momento della stesura di questo
articolo, i segnali sono apparsi contraddittori: il Governo ribadisce
di voler mantenere gli impegni presi (nuova riduzione delle imposte
sul lavoro, riordino degli ammortizzatori sociali, stabilizzazione dei
precari della scuola), ma non è ancora chiaro come saranno realizzati i risparmi di spesa necessari alla loro copertura. Il Presidente del
Consiglio ha chiesto ai Ministeri riduzioni del 3%: come saranno
attuate? Saranno ispirate alle proposte del Commissario Cottarelli
o saranno ancora una volta tagli lineari?
In conclusione non si può non ribadire che all’obiettivo della
crescita dovrebbe anche rispondere l’attesa riforma del sistema
fiscale. In questo caso, occorrerebbe una tax review: nell’impossibilità di una riduzione generalizzata della pressione tributaria, si potrebbe operare una redistribuzione del carico fiscale a vantaggio dei
soggetti più deboli. Se ne parla da anni. Ci riuscirà questo Governo?
Il giudizio resta per il momento sospeso.
736
Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi
I
n alcuni Paesi, i processi di spending review fanno parte da anni del sistema di controllo dei conti pubblici e in alcuni casi hanno permesso anche di
raggiungere risultati considerevoli. Gli esempi più interessanti sono quelli di
Australia, Canada e Regno Unito.
In Australia, la revisione della spesa pubblica è stata finora condotta secondo tre modalità differenti: Comprehensive expenditure reviews, revisioni della
spesa di natura straordinaria (l’ultima risale al 2007), con l’obiettivo specifico
di realizzare risparmi; Strategic reviews, che costituiscono parte integrante del
ciclo di bilancio annuale; Programme evaluations, condotte a livello di singole agenzie governative con l’obiettivo di valutare se le spese effettuate hanno
risposto ai requisiti di efficacia ed efficienza. L’ultima Comprehensive expenditure review ha permesso di realizzare risparmi pari a circa 4 miliardi di euro nel
2007 e nel 2008 e di programmarne altri pari a circa 2,2 miliardi a partire dal
2009. Per quanto riguarda invece le Strategic reviews, dal 2008 ne sono state
condotte circa dodici, in ambiti che vanno dai programmi sui cambiamenti climatici ai programmi di trasferimenti. Ogni Strategic review dura 4-6 mesi, sotto
la supervisione del Ministero delle Finanze, che individua le voci di spesa da
esaminare, con successiva conferma da parte dell’intero Governo; i ministeri
direttamente coinvolti dalla revisione partecipano ai lavori, ma non possono
influenzare né i contenuti delle analisi né tanto meno le raccomandazioni.
A partire dal 1994, anche il Canada ha introdotto un sistema di revisione della spesa al fine di ridurre il deficit di bilancio, con ottimi risultati, tanto che i
conti pubblici hanno registrato avanzi fino al 2007-2008 (scoppio della crisi internazionale). In questo caso la spending review ha comportato un forte
ridimensionamento del settore pubblico, con un taglio dei trasferimenti agli
individui (pensioni) e agli enti decentrati, e del numero di dipendenti pubblici.
È opinione condivisa che il successo sia dovuto principalmente alle scelte organizzative e di funzionamento dell’operazione. La responsabilità di pianificazione
e attuazione del sistema è affidata direttamente a ministri e viceministri, che
devono formulare le proposte di rimodulazione della propria spesa, secondo le
particolari necessità settoriali; poiché le proposte arrivano dagli stessi soggetti
che le devono poi attuare, i comportamenti elusivi sono molto limitati.
Infine, nell’esperienza del Regno Unito, l’analisi della spesa è un’attività fondamentale all’interno dell’intero processo di programmazione e formazione del
bilancio, con l’obiettivo di stabilire quante risorse spettino a ciascun Ministero,
che poi ha la piena responsabilità della loro gestione. Il programma di revisione
globale della spesa è stato introdotto nel 1998 e da quell’anno è stato ripetuto
con grande frequenza e regolarità. Il primo ciclo di revisione (dal 2004 al 20072008) ha prodotto risultati superiori alle aspettative, con risparmi pari ad oltre
23 miliardi di sterline, contro i 20 programmati. L’ultimo ciclo di spending review (2010) ha previsto tagli alla spesa pubblica per oltre 80 miliardi di sterline
entro il 2015, realizzati principalmente attraverso tagli ai ministeri, alle spese
per il welfare (incluse le agevolazioni fiscali), ai trasferimenti agli enti locali e al
numero dei dipendenti pubblici.
scheda / geo
La spending review nel mondo
737
approfondimenti
I mass-media arabi:
linguaggi, poteri
e ambizioni
Paolo Carelli
Dottore di ricerca in Culture della comunicazione,
Università Cattolica di Milano, <paolo.carelli@unicatt.it>
I mass-media hanno giocato, a partire dalla metà del secolo
scorso, un ruolo fondamentale nella Regione araba, contribuendo a formarne l’identità transnazionale. La storia dello
sviluppo della radio e della televisione, che rimane il mezzo
di comunicazione prevalente nel mondo arabo, aiuta a comprendere le dinamiche di un’area complessa, dove politica,
comunicazione e pubblico si intrecciano in modalità diverse.
L’
ondata di rivolgimenti sociali che negli ultimi anni ha interessato diverse nazioni del mondo arabo ha messo in evidenza il ruolo dei media e della comunicazione, il loro rapporto
con il potere autoritario e il relativo funzionamento all’interno di
società ancora distanti da compiuti processi di democratizzazione.
I mezzi d’informazione sono stati in grado di influenzare, favorire, talvolta rallentare, eventi che hanno modificato in maniera
dirompente il quadro politico e istituzionale di un’intera area
del mondo.
Per comprendere a fondo il ruolo della comunicazione nel
mondo arabo, è necessario tracciare alcune coordinate storiche e
ricostruire l’evoluzione dei media in relazione ai contesti sociali e
culturali all’interno dei quali si sono sviluppati, evidenziando come specifiche differenze e peculiarità nazionali abbiano di fatto
influenzato le diverse tradizioni giornalistiche che si sono formate
nei singoli Paesi. L’articolo affronta, da un lato, il rapporto tra i
738
Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (738-748)
approfondimenti
mass-media e la costruzione del cosiddetto “panarabismo”, sogno e
progetto di un’unica voce omogenea del mondo arabo che ha caratterizzato le ambizioni di diversi Paesi e leader politici, ripercorrendo
i differenti modelli d’informazione che si sono sedimentati nelle singole nazioni e le tappe salienti dei tentativi di realizzazione di mezzi
di comunicazione transnazionali; dall’altro, ci soffermeremo sulle
emittenti, i generi e i temi distintivi del sistema televisivo arabo, con
particolare attenzione all’esperienza paradigmatica di Al Jazeera, alle
nuove frontiere della fiction e della serialità e dei loro rapporti con
il potere politico.
1. I media e il “panarabismo”
a) I diversi modelli d’informazione
Secondo la classica suddivisione operata dallo studioso statunitense di mass-media nei Paesi arabi William Rugh (2004), è
possibile individuare almeno quattro differenti modelli che hanno
contraddistinto il sistema dell’informazione del mondo arabo nel
periodo post-coloniale, costruiti sulla base di alcuni criteri generali
d’osservazione che interessano la questione della proprietà dei mezzi,
la cultura professionale degli operatori, gli orientamenti culturali
sottesi, i generi prevalenti: il modello “della mobilitazione”, quello
“della fedeltà”, quello “della transizione” e, infine, il modello “della
diversità”.
–– Il modello della mobilitazione è stato adottato da quei Paesi
in cui regimi militari si sono imposti al potere attraverso la forza
e con metodi violenti. Si tratta di quei casi dove il rovesciamento
dell’ordine precedente è avvenuto per mano di partiti rivoluzionari
i quali si sono serviti della stampa – e più in generale dei mezzi di
comunicazione di massa disponibili – per attivare la popolazione
e per orientare il consenso a supporto delle riforme proposte. Per
quanto riguarda l’elemento della proprietà, il regime è detentore
unico delle testate e si registra un forte legame di giornalisti e operatori dell’informazione con il partito unico al potere. Rientrano
in questo modello la Siria, il Sudan, la Libia durante il regime di
Gheddafi e l’Iraq sotto la dittatura di Saddam Hussein fino alla sua
deposizione nel 2003.
–– Il modello della fedeltà si è diffuso in Stati guidati da emiri
per i quali i principali interessi consistono nel mantenimento della
stabilità e dello status quo. Nella maggior parte dei casi, le testate non appartengono direttamente agli apparati governativi, ma a
personalità o a facoltosi gruppi privati e vicini e contigui al potere.
Sono ammessi e circolano regolarmente anche media d’opposizione
I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni
739
i quali, tuttavia, non svolgono una vera e propria attività di controllo e di critica come nella tradizione del giornalismo watch-dog
(“cane da guardia” del potere), limitandosi a una copertura di generi
d’intrattenimento. L’assenza di una cultura professionale orientata
a indipendenza e imparzialità, unita a una censura e a un sistema
legislativo restrittivo e repressivo nei confronti dei media, ha prodotto quel meccanismo di fedeltà al potere da parte della stampa con
cui Rugh identifica questo secondo gruppo. Alcuni esempi di Paesi
dove si registra tale modello d’informazione sono l’Arabia Saudita
e i piccoli emirati e sultanati come l’Oman, il Bahrein, il Qatar, gli
Emirati Arabi Uniti.
–– Il modello della transizione si fonda sulla commistione tra il
controllo esercitato dal potere politico e una relativa libertà d’espressione e autonomia dei media. Tuttavia i sistemi mediatici appartenenti a questo modello presentano un elevato grado di adattamento,
aggiornamento e capacità di costante evoluzione e mutamento. La
proprietà dei mezzi d’informazione è riconducibile sia al Governo
(le TV di Stato) sia alle forze politiche e a gruppi industriali privati;
ciò garantisce l’esistenza di una pluralità di voci e di orientamenti
politico-culturali, sebbene le leggi di settore siano sempre state particolarmente restrittive. Alcuni Paesi storicamente rientranti sotto
questo modello sono l’Egitto, la Tunisia, la Giordania, l’Algeria. I
rivolgimenti sociali che hanno interessato alcuni di questi territori
negli ultimi anni hanno modificato ulteriormente la natura di tali
sistemi mediatici confermandone, non a caso, la definizione di media in transizione.
–– Il modello della diversità rappresenta un’alternativa radicale
rispetto a quelli ora illustrati: la scarsa libertà e autonomia consentite agli operatori dell’informazione nella gran parte dei Paesi arabi
hanno portato diversi professionisti del settore a spostarsi verso quelle
che Augusto Valeriani, esperto di sociologia dei processi culturali e
comunicativi (2005), ha chiamato «oasi di libertà», spazi in cui si è
sviluppato un sistema dell’informazione ampiamente slegato e relativamente poco influenzato dal potere politico e religioso. L’esempio
più efficace di questo modello è quello del Libano, almeno fino alla
guerra civile del 1975: sin dagli anni ’50, infatti, si era radicato un
sistema democratico e pluralista che aveva consentito a questo Paese
di rimanere pressoché estraneo ai conflitti che avrebbero insanguinato
l’area nel corso dei decenni successivi e, soprattutto, di diventare un
punto di riferimento per esuli e dissidenti politici i quali contribuirono al fermento culturale ed editoriale che caratterizzò il Paese. Anche
in Kuwait si è sviluppato un sistema dei media libero, aperto e democratico: fino all’invasione dell’Iraq e allo scoppio della prima Guerra
740
Paolo Carelli
approfondimenti
del Golfo nel 1990, il piccolo emirato mediorientale si era ritagliato
uno spazio di primo piano nel panorama mediale dell’intera regione
grazie all’esplosione di un sistema della stampa diversificato e particolarmente attento agli aspetti commerciali. È qui che, nel corso degli
anni ’80, ha avuto grande diffusione il quotidiano Al Watan, punto di
riferimento per l’intera area del Golfo (cfr Valeriani 2005, 23).
b) Una vocazione transnazionale
Un elemento caratterizzante dei media arabi è la loro vocazione
transnazionale, cioè la propensione a pensarsi naturalmente in un’ottica che trascende i confini nazionali e a porsi come strumenti di
rappresentazione di una composita area regionale. L’intero sistema
della comunicazione del mondo arabo si è fondato su questa tendenza a sviluppare percorsi che fossero in grado di unire comunità differenti accomunate dall’appartenenza geografica e culturale, oltre che, in taluni casi, linguistica, storica e religiosa. Tra i
leader politici che per primi intuirono e rafforzarono la dimensione
sovranazionale del mondo arabo, vi è sicuramente Gamal Abdel Nasser, presidente egiziano dal 1956 al 1970; in lui albergava la convinzione che l’Egitto potesse e dovesse svolgere una funzione di guida
per l’intera regione, esercitando influenza politica ed economica sulle
nazioni confinanti e limitrofe. A supporto di questo progetto, Nasser
tentò di sfruttare i mezzi di comunicazione esistenti, concentrando
i suoi sforzi e le sue attenzioni soprattutto sul mondo della radio,
che aveva fatto il suo ingresso nella regione araba già nei decenni
precedenti, grazie all’iniziativa di Governi occidentali intenzionati
a espandere l’esercizio della propria influenza sull’area. Nel 1938,
infatti, il servizio pubblico britannico aveva iniziato le trasmissioni
di BBC Arabic Service, mentre a partire dal 1950 veniva trasmesso
Voice of America, con lo scopo di esercitare un’azione di controllo
mediatico dell’area a supporto della propria politica espansionistica.
c) Dalla radio alla televisione
Nasser intuì le potenzialità della radio come strumento per un’azione politica e culturale di visione regionale e transnazionale e per
il contrasto alle mire imperialiste dell’Occidente nei confronti del
mondo arabo (cfr Valeriani 2005, 35). La radio doveva svolgere
funzioni essenzialmente di propaganda, sostenendo il potere
politico nel perseguimento del panarabismo; il presidente egiziano cercò di sfruttare, in questo senso, le potenzialità di Voice of the
Arabs (Sawt al Arab), un’emittente radiofonica creata qualche anno
prima della sua ascesa al potere, che ebbe un ruolo decisivo (e contraddittorio) nella copertura della Guerra dei sei giorni del 1967. L’eI mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni
741
sperienza di Voice of the Arabs può considerarsi paradigmatica del
rapporto tra sistema dei media e sistema politico nel mondo arabo;
in primo luogo perché la sua funzione non consisteva tanto nell’informare, ma nel supportare un progetto politico, da cui emerge evidente il richiamo ad alcuni dei modelli mediatici descritti all’inizio
di questo articolo. In secondo luogo, il network concepiva un ampio
ricorso alla retorica in una chiave di accrescimento della sacralità del
leader, attraverso linguaggi che troveranno piena compiutezza con lo
sviluppo della televisione. Infine, l’esperienza di Voice of the Arabs
s’inseriva nella tradizione sovranazionale dello sviluppo dei media
arabi, realizzando prodotti mediali rivolti a un pubblico regionale e
non solamente circoscritto entro i confini nazionali.
Con l’avvento della televisione, i tentativi di costituire un’organizzazione mediale pienamente ancorata a una dimensione sovranazionale divennero sempre più intensi e strutturati: già negli
anni ’60 fu creata l’ASBU (Arab State Broadcast Union), il primo
network radiotelevisivo “regionale”, che oggi conta decine di emittenti affiliate, sia pubbliche sia private e provenienti non solo dai Paesi
arabi. Due nazioni hanno giocato un ruolo predominante nel favorire
aggregazioni mediali su una scala non legata esclusivamente ai confini
amministrativi: Egitto e Arabia Saudita. Per diversi decenni, almeno
fino agli anni ’90, i due Paesi si sono contesi la leadership della comunicazione nel mondo arabo, nella prospettiva di esercitare un’influenza politica, culturale ed economica sull’intera area (Chiba 2012).
Il sogno del “panarabismo” passò anche attraverso la sperimentazione di tecnologie particolarmente innovative come quella che nel
1978 diede vita ad ArabVision, un sistema di condivisione delle informazioni che, tuttavia, si scontrò proprio con «la difficoltà di proporre un’informazione sulla base di valori arabi» (Valeriani 2005,
40) e con il timore dei Governi e dei regimi verso una circolazione
di notizie non più controllabile.
Con lo scoppio della prima Guerra del Golfo, nel 1990-1991,
la prima epopea dell’informazione panaraba subisce una drastica
battuta d’arresto: la copertura mediatica del conflitto è ampiamente
garantita da network globali, come la CNN, che producono nel pubblico arabo la percezione di uno scarto notevole in termini di professionalità e imparzialità, smascherando i limiti dei media panarabi e
abituando progressivamente gli spettatori a un tipo d’informazione
modellata su canoni tipicamente occidentali (Kennedy 1993).
d) Un mercato regionale
La crescita di mezzi di comunicazione disancorati rispetto alla
cornice nazionale, ma pensati e organizzati in chiave transnazionale,
742
Paolo Carelli
approfondimenti
ha contribuito a strutturare un vero e proprio mercato panarabo dei
media, divenuto sempre più influente nelle dinamiche politiche e
commerciali a livello globale. L’americano Jon B. Alterman, esperto in questioni mediorientali (1999), ha indagato questo mercato
regionale evidenziandone i tratti più significativi e le ragioni che
lo rendono particolarmente interessante e centrale all’interno del
panorama mediatico mondiale. In primo luogo, sostiene l’autore,
l’esplosione di media commerciali, avvenuta a partire dagli anni ’90, ha contribuito a indebolire l’informazione tradizionale
orientata prevalentemente a soddisfare le esigenze dei Governi, dei
regimi o delle élite religiose e finanziarie dei diversi Paesi; il ricorso a generi come le news o l’intrattenimento ha avuto il pregio di
ampliare il pubblico e creare forme di ricezione attiva. In secondo
luogo, si tratta di mercati realmente regionali, nel senso che spesso
gli stessi prodotti e programmi vengono distribuiti e possono essere
fruiti in tutta l’area rafforzando il legame tra le diverse comunità.
Infine, l’esistenza di emittenti sovranazionali su base regionale
ha dato origine a macchine organizzative regionali consentendo
l’emergere di un’informazione quanto più possibile indipendente e imparziale, poiché sganciata da vincoli statuali e costantemente alla ricerca di un pubblico che trascenda i confini nazionali.
2. Emittenti, generi, temi
a) Al Jazeera, la voce del mondo arabo
Intorno alla metà degli anni ’90, il sistema arabo dei media è
pronto per sperimentare il lancio di un canale satellitare transnazionale in grado di diventare la voce dell’intera regione nel mondo
politico e informativo globale. La svolta ha origine in Qatar, grazie
all’ambizione dell’emiro Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, salito al potere nel 1995; nel febbraio dell’anno successivo, Al Thani
abolisce per decreto il Ministero dell’Informazione (l’organo di controllo e di censura sui media e i contenuti informativi) e promuove
la nascita di un canale satellitare indipendente, sancendo di fatto
l’atto di creazione ufficiale di Al Jazeera. In quegli anni, la rivalità mediatica tra Egitto e Arabia Saudita si era trasferita alle
televisioni satellitari; il settore era imperniato sulla competizione tra l’Egyptian Space Channel, che trasmetteva dal 1990 rivolto
principalmente agli egiziani sparsi nel mondo e più in generale con
l’intenzione di diffondere i valori della cultura nazionale in tutta
la regione, e almeno tre grandi network riconducibili a proprietà
saudite con sedi e centri di trasmissione situati in Europa: MBC
(Middle East Broadcasting) con base a Londra dal 1991, Orbit, con
I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni
743
sede a Roma dal 1994, e ART (Arab Radio and Television), lanciato sempre nel 1994 ad Avezzano, in Abruzzo. Sarà proprio Orbit
ad aprire involontariamente la strada all’ascesa incontrastata di Al
Jazeera: all’inizio del 1996, infatti, un accordo siglato pochi mesi
prima tra il canale saudita e la divisione araba del servizio pubblico
britannico (BBC Arabic Tv Division) naufragò, facendo fallire il
primo tentativo di realizzazione di una TV panaraba interamente
all news orientata a valori e modelli produttivi e professionali tipicamente occidentali. In quel vuoto, s’inserì il progetto dell’emiro del
Qatar: la nascente Al Jazeera divenne rifugio per oltre un centinaio
di giornalisti e professionisti formatisi alla scuola della BBC e rimasti senza lavoro (cfr Della Ratta 2005, 121).
Tra i fattori che determinarono il successo di Al Jazeera vi
erano senza dubbio una struttura organizzativa e una strategia
commerciale orientate verso caratteristiche occidentali; lo slogan
che accompagnò la nascita dell’emittente recitava: «The opinion and
the other opinion» (L’opinione e l’altra opinione), rivelando una ricerca
di valori quali l’imparzialità e l’obiettività che la ponevano al centro
dei meccanismi competitivi e culturali dei grandi network occidentali
e transnazionali. In questo senso, il pieno accreditamento globale di
Al Jazeera si compì pochi anni dopo: alla fine degli anni ’90, infatti, il
canale ottenne un notevole successo di pubblico grazie alla copertura
giornalistica di eventi come l’operazione militare Desert Fox (1998)
degli Stati Uniti e del Regno Unito in Iraq e la cosiddetta “seconda
intifada”, che segnò una ripresa della rivolta della popolazione palestinese contro il governo israeliano (2000). La tempestività e l’obiettività
dell’informazione garantite rappresentarono un punto di svolta sia per
il successo dell’emittente, sia per la crescita complessiva della qualità
della comunicazione mediale dell’intero mondo arabo.
b) Al Arabiya e la concorrenza
Un ulteriore momento di rottura nell’evoluzione del sistema mediatico del mondo arabo si verificò nel 2003 con la nascita dell’emittente televisiva Al Arabiya: il progetto prese piede grazie all’iniziativa
di un gruppo di facoltosi investitori provenienti da differenti Paesi
della regione accomunati da un’avversione nei confronti di Al Jazeera.
Il progetto editoriale e culturale di Al Arabiya, infatti, consisteva
principalmente nel replicare e contenere le critiche che Al Jazeera
riservava stabilmente ai regimi arabi. Con l’acquisizione di giornalisti, operatori e professionisti formatisi proprio alla scuola di Al Jazeera, la nuova emittente intendeva spostare la contesa sul terreno della
concorrenza e della qualità del prodotto secondo canoni tipicamente
occidentali: la logica della competizione entrava dunque in maniera
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Paolo Carelli
approfondimenti
dirompente e stabile all’interno del mondo arabo trasformando, di
fatto, la stessa cultura professionale e i valori dell’informazione tradizionalmente radicati nelle società della regione. Strutturare un sistema
intorno alla logica concorrenziale aveva in primo luogo l’obiettivo di
innalzare la qualità della proposta e la capacità critica del pubblico,
oltre che di favorire un pluralismo degli orientamenti politici e culturali; proprio a partire dall’inizio del primo decennio del Duemila,
in effetti, l’offerta televisiva del palinsesto arabo subì una profonda
trasformazione, facendo registrare un incremento della TV d’intrattenimento, articolata in una varietà di generi – dai quiz alla musica,
dallo sport alle soap opera – distanti dai contenuti delle origini.
Oggi, l’universo Al Jazeera è sempre più complesso e composito a dimostrazione di come la lezione della globalizzazione
abbia attecchito e sia stata pienamente compresa all’interno del
mondo arabo. Nel corso degli ultimi anni, il network nato nel piccolo Stato del Qatar si è espanso organizzativamente, linguisticamente e
tematicamente, dando vita a decine di canali sparsi in tutto il mondo:
nel 2003, nasce Al Jazeera Sports (ora beIN Sports Arabia, con derivazioni in Francia, Russia, Indonesia, Nord America), seguito da Al
Jazeera Children Channel (minori) e Al Jazeera Mubasher (argomenti
politici e istituzionali), mentre dal 2011 è attivo Al Jazeera Balkans
(trasmette da Sarajevo in serbo, croato e bosniaco), dal 2013 Al Jazeera America, e nel 2014 stanno nascendo Al Jazeera Türk (Turchia e
Paesi limitrofi) e Al Jazeera Kiswahili (Africa Orientale).
c) La fiction nel mondo arabo
Nel suo libro Arab Television Today, l’esperta di comunicazione
e media arabi britannica Naomi Sakr (2007) sottolineava come uno
dei punti di forza del mercato dei media arabi, che avrebbe aperto notevoli prospettive di crescita, era rappresentato dal fatto che
quella vasta zona del mondo condividesse una sola lingua capace
di connettere le differenti nazioni e culture presenti. In particolare, l’unificazione linguistica consentiva un potenziale allargamento
del mercato che in nessun’altra area del pianeta di tali dimensioni,
ad eccezione degli Stati Uniti e – almeno in parte – dell’America
Latina, poteva dispiegarsi in maniera così ampia; l’autrice dimostrava, inoltre, quanto la combinazione tra l’ingresso delle logiche
competitive e le dimensioni del mercato fosse in grado di «stimolare la creatività locale nella programmazione di intrattenimento
arabo» (Sakr 2007, 111). Tale consapevolezza spinse investitori e
produttori a puntare sulla creazione di format panarabi, seppure in gran parte frutto dell’influenza occidentale, come talent
e reality-show; la diffusione della digitalizzazione, poi, ha fatto il
I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni
745
resto moltiplicando canali tematici dedicati a temi specifici e rivolti
a target sempre più omogeneamente definiti.
Recentemente ha attirato l’attenzione degli studiosi di media arabi un nuovo oggetto d’analisi, che ha registrato un grande successo:
le cosiddette musalsalat, ovvero fiction, soap opera e narrazioni seriali, che per la maggior parte sono mandate in onda durante il periodo
del Ramadan e hanno una durata di trenta giorni, pari al tempo in
cui si consuma il momento di preghiera più importante della religione musulmana; in particolare, vengono trasmesse nell’orario del cosiddetto post-iftar, ovvero al termine del pasto quotidiano di rottura
del digiuno che si consuma al tramonto, corrispondente di fatto alla
fascia televisiva del prime-time. Quello del rapporto tra fiction e
religione è un fenomeno che s’inserisce nella tradizione televisiva
di nazioni che, più e prima di altre, hanno sperimentato periodi
di laicità e modernizzazione; già negli anni ’80, ad esempio, sulle
TV egiziane si trasmetteva la soap opera Al-Aylah (La famiglia), una
critica dell’Islam radicale e dell’estremismo religioso, lascito inequivocabile dell’ideologia laica propagata nel Paese durante il periodo
nasseriano. L’Egitto rimane il principale produttore di fiction, anche
se durante il periodo del governo dei Fratelli Musulmani di Mohamed Morsi (deposto il 3 luglio 2013) il loro numero è calato drasticamente; oggi commedie e melodrammi, esportati anche sui principali
canali satellitari del mondo arabo, hanno soppiantato sia le fiction
celebrative della primavera del 2011 che quelle più marcatamente
anti-religiose e anti-conservatrici. Del resto, la serialità televisiva ha
sempre rappresentato un terreno fertile dentro cui i regimi del
mondo arabo tracciavano i confini della discussione pubblica su
temi sensibili come il sesso, la religione e il terrorismo, che non
trovavano spazio nelle news e nell’informazione; quindi, le fiction
riflettono molto più di altri prodotti mediali i mutamenti delle società arabe e la loro percezione presso l’opinione pubblica.
In questo senso, una conferma arriva osservando l’evoluzione
della fiction televisiva in una nazione come la Siria, che rappresenta
il secondo produttore di opere e racconti appartenenti al genere.
Come sottolinea la studiosa Donatella Della Ratta (2014a), la narrazione televisiva seriale è uno degli strumenti culturali maggiormente utilizzato dal regime di Bashar al Assad nella formazione
ed educazione della popolazione; le fiction siriane affrontano temi
come l’estremismo, il dialogo interreligioso, la libertà della donna e
altri argomenti certamente di non facile trattazione all’interno del
mondo arabo. Una di queste, Ma malakat Aymanukum (tradotta
in italiano Tre donne e trasmessa per un certo periodo sulla rete
satellitare Babel), affronta nodi spinosi come la libertà sessuale e l’e746
Paolo Carelli
approfondimenti
mancipazione femminile in contrasto con l’aderenza ai principi della
religione islamica. Tuttavia, proprio il conflitto siriano e la guerra
civile scatenata nel Paese da parte del regime di Assad hanno avuto
effetti profondi sulla produzione e distribuzione delle fiction arabe;
mentre alcuni registi hanno deciso di rimanere in patria girando
prodotti che affrontano gli avvenimenti degli ultimi anni con titoli
emblematici come Taht sama’a al-Watan (Sotto il cielo della nazione)
o Sa na’ud ba’ada qalil (Torniamo fra poco), l’emigrazione di artisti,
sceneggiatori e produttori verso altri Paesi ha contribuito a gettare
le basi per la riorganizzazione del mercato televisivo arabo. Alcuni
dei successi dell’ultima stagione di musalsalat andate in onda durante il periodo del Ramadan, come per esempio Al-Ikhwah (Fratelli)
o Halawat al-ruh (La dolcezza dell’anima), sono il risultato della
collaborazione produttiva e autoriale di professionisti provenienti
da Egitto, Siria, Libano, Paesi dell’Africa settentrionale e altre zone
della regione; questa inedita «alleanza panaraba di mercato [rappresenta] il vero trend del Ramadan 2014» (Della Ratta 2014b) e dimostra di poter competere sul mercato mediatico e geopolitico con
Paesi come Iran e Turchia, entrambi con una notevole tradizione di
produzione seriale alle spalle.
3. Un panorama composito
Secondo i dati riportati dall’Arab Station Broadcasting Union,
alla fine del 2010 esistevano 470 network televisivi arabi, di cui 26
di proprietà statale o governativa e 444 di natura privata, per un
totale di 733 canali (124 governativi e 609 commerciali, di carattere sia generalista che specializzato). Si tratta di un’esplosione che
nell’ultimo anno ha fatto registrare un ulteriore incremento, con
una preferenza per la TV via satellite, che rappresenta il vero carattere distintivo dei consumi televisivi nel mondo arabo. Daniela Conte,
esperta in sistemi politici (2013), ha sottolineato – riportando stime
del Fondo Monetario Internazionale – come il mercato dei media
panarabo sia compatto intorno a tre soli Paesi: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, che da soli raccolgono circa il
70% degli interi investimenti pubblicitari; inoltre, l’81% di questo
traffico è rivolto alle TV satellitari panarabe (guardate dal 90% del
pubblico televisivo complessivo), lasciando poco o nulla alle piccole emittenti via etere che trasmettono su base nazionale e locale.
Tuttavia, siamo in presenza di un mercato molto frammentato, che
riduce notevolmente le possibilità di ottenere investimenti, insieme
ad alcuni divieti editoriali frutto delle motivazioni politiche e ideologiche che spesso sono alla base di alcune emittenti nate con intenti
esclusivamente religiosi e di contrasto alla laicizzazione dei costumi.
I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni
747
risorse
L’analisi dell’evoluzione del sistema dei media nel contesto panarabo ha messo in luce la centralità della televisione, che rimane
il mezzo principale in cui si giocano sia le contese di carattere
politico per il dominio dell’intera regione, sia i cambiamenti
culturali che stanno accompagnando le società arabe.
Con l’incremento quasi parallelo – seppure con dimensioni diverse – delle televisioni satellitari (soprattutto di carattere tematico)
da un lato, e del web dall’altro, sarà interessante in futuro osservare
le interazioni tra i diversi mezzi, sia in termini di consumo e produzione di contenuti, sia nelle modalità differenti con cui le TV governative controllate dai regimi e i network globali si approcceranno
alle più recenti forme di comunicazione e mobilitazione on line.
Alcuni segnali si sono avuti proprio in occasione degli avvenimenti
delle cosiddette “primavere arabe”, come ad esempio in Tunisia, dove il rapporto tra vecchi e nuovi media si è caricato di complessità e
ambiguità; se da un lato – ha osservato puntualmente il giornalista
Colin Delany (2011) – emittenti come Al Jazeera hanno rilanciato
in maniera massiccia i video “postati” sulle piattaforme web da parte di attivisti e manifestanti, sganciando la protesta dalla sua dimensione più prettamente generazionale e raggiungendo un pubblico più
vasto ed eterogeneo, dall’altro il regime di Ben Ali ha utilizzato le
TV di Stato come strumento per depotenziare le rivolte, dando vita
a una competizione tutta televisiva avente per terreno di contesa le
nuove forme di comunicazione in rete.
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I
l ricorso al dileggio umoristico nei confronti del potere e delle autorità non è una pratica nuova nel mondo arabo, ma la
tradizione della fumettistica e della satira ha vissuto una vera
e propria fase di rinascita nel corso dei rivolgimenti sociali che
hanno interessato gran parte dei Paesi arabi negli ultimi anni:
l’uso dell’umorismo come strumento di indebolimento dei regimi
al potere rappresenta un fenomeno «politicamente secondario
ma sociologicamente e antropologicamente significativo» (B. De
Poli, «Dal dissenso alla rivoluzione: satira e potere nel mondo
arabo contemporaneo», in Diacronie. Studi di storia contemporanea, 11 [2012] 3, <www.studistorici.com/2012/10/29/depoli_numero_11/>). Il contagio rivoluzionario che ha scatenato e
accelerato il processo delle rivolte ha avuto nell’ironia collettiva
un detonatore importante, mentre la circolazione di video, immagini e vignette sulle diverse piattaforme digitali ha contribuito
ad alimentare il dissenso nei confronti del potere costituito. L’incontro tra la scuola umoristica e satirica araba e i social network
ha moltiplicato il flusso dei messaggi e rafforzato la conflittualità
rispetto al potere, generando un forte inasprimento delle misure
repressive, in particolare in Siria o Tunisia. Inoltre, un’analisi più
approfondita dei linguaggi e degli effetti che hanno caratterizzato l’esplosione di vignette satiriche sulle piattaforme web mette
in evidenza almeno due fenomeni correlati; da un lato, come
testimoniato da una pagina Facebook che ha fatto registrare un
notevole successo (Comic4Syria), un forte ricorso a simboli e
icone della cultura popolare e di massa occidentale (ad esempio
vignette che denunciano l’abbraccio tra il dittatore siriano Assad
e il presidente russo Vladimir Putin ritratti nelle locandine di film
come Via col vento o Titanic); dall’altro l’incapacità dei media tradizionali di cogliere la portata critica della satira e delle vignette,
in quanto fenomeno giovanile, dinamico e digitale.
La saldatura tra creatività umoristica e social network ha svolto
anche una funzione di mobilitazione contro le repressioni attuate dai Governi verso alcuni autori e disegnatori; la nascita di
network digitali di artisti e vignettisti ha contribuito a rafforzare
le capacità e le possibilità di negoziazione con i regimi e offerto
visibilità e solidarietà ad alcuni casi eclatanti di censura. Ricordiamo il progetto «100 dessins pour Jabeur», un sito attraverso
il quale artisti di tutto il mondo arabo hanno chiesto la liberazione del collega Jabeur el Mejri detenuto dal marzo 2012
(ottenuta il 19 febbraio 2014), mettendo a disposizione della
rete le proprie opere di denuncia nei confronti dei regimi; oppure il caso più sfortunato di Akram Raslan, vignettista siriano
oppositore di Assad arrestato nell’ottobre 2012 e giustiziato un
anno dopo, per la liberazione del quale fu creata una pagina
Facebook (Freedom for the Syrian caricaturist | Akram Raslan)
con messaggi e disegni di artisti di tutto il mondo.
Paolo Carelli
scheda / media
Il potere della satira
749
cristiani e cittadini
Un’agenda per il diritto
al lavoro dignitoso
Francesco Pistocchini
Redazione di Popoli
Chiesa cattolica e Organizzazione internazionale del lavoro si
muovono da lungo tempo in sintonia perché l’occupazione e i
diritti sul lavoro siano considerati dalla comunità internazionale
come il percorso privilegiato nella lotta alla povertà e per una
globalizzazione più giusta. Per questo collaborano nel promuoverli, mentre alle Nazioni Unite si definiscono gli Obiettivi di
sviluppo per il post-2015.
L’
espressione decent work, che in inglese assume un’accezione
più estesa di “lavoro dignitoso” perché sottolinea la dignità
intrinseca di ogni persona, sta entrando con forza nel dibattito
pubblico internazionale. L’Organizzazione internazionale del lavoro
(OIL), la più antica agenzia specializzata dell’ONU, ne fornisce una
definizione che è sintesi delle aspirazioni delle persone nella propria
vita lavorativa. Decent work significa svolgere un lavoro produttivo e che garantisca un equo compenso, sicurezza sul posto di
lavoro e protezione sociale per le famiglie, migliori prospettive
di crescita personale e integrazione sociale, libertà di esprimersi,
organizzare, partecipare a discussioni che riguardano la propria
vita, pari opportunità per donne e uomini; una tematica che sta a
cuore anche alla Chiesa, che ne ha fatto un argomento centrale della
sua dottrina sociale, come vedremo in questo contributo.
Il concetto di decent work unisce in sé il diritto al lavoro e i diritti sul lavoro, definiti in otto Convenzioni dell’OIL approvate dalla
750
Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (750-756)
cristiani e cittadini
stragrande maggioranza degli Stati: sull’organizzazione dei lavoratori (1948), la contrattazione collettiva (1949), contro il lavoro forzato
(1930, 1957), contro le discriminazioni (1951, 1958) e contro il lavoro
minorile (1973, 1999). Nel 1998 la Dichiarazione sui principi e i diritti
fondamentali del lavoro ha riassunto questo cammino.
Dalla fine degli anni ’90 il riconoscimento della dignità del lavoro
è diventato una priorità per l’OIL. Nel mondo del lavoro le crescenti disuguaglianze scaturite dalla globalizzazione hanno avuto effetti
dirompenti, provocando, da un lato, il declino del lavoro dipendente
formale e, dall’altro, un aumento degli impieghi informali nel Nord
del mondo e di posti di lavoro a basso costo (e limitate tutele) nelle
nuove economie emergenti orientate all’esportazione: aumento delle
ore di lavoro, riduzione dei salari ed erosione del sistema previdenziale
si sono manifestati in molti Paesi, non solo in Italia.
Nell’era della globalizzazione l’OIL ha riaffermato i propri principi
con la Dichiarazione sulla giustizia sociale e per una globalizzazione
giusta del 2008, in cui ribadisce che occupazione, protezione sociale,
dialogo sociale e diritti nel lavoro sono obiettivi strategici tra loro
interconnessi, e che i Paesi sono tenuti a perseguire. È l’Agenda per il
decent work, che assume, visto il gran numero di Stati firmatari, un
valore universale.
Il contributo delle Nazioni Unite
Nel 2015 le Nazioni Unite valuteranno i risultati degli otto Obiettivi del Millennio fissati nel 2000, mentre tra i Paesi membri e gli
organismi internazionali è in corso da due anni la riflessione sui nuovi
obiettivi per il periodo 2015-2030. Una vasta indagine globale condotta dall’ONU sulle future priorità ha mostrato che la creazione di
posti di lavoro si colloca fra le prime tre della lista per i consensi raccolti (cfr <http://vote.myworld2015.org>). Secondo l’OIL ci sono globalmente più di 200 milioni di disoccupati, di cui 73 milioni giovani.
L’attenzione però dovrebbe rivolgersi non solo al numero di lavoratori,
ma anche alla qualità dell’impiego, poiché la crisi economico-finanziaria ha messo ancora più in luce fenomeni di crescita senza equità,
mentre si diffonde la richiesta di sicurezza sociale in un contesto di
crescita del lavoro informale e milioni di lavoratori con le loro famiglie
restano intrappolati sotto la soglia di reddito di 2 dollari al giorno.
Se, come affermano alcune stime, occorre creare 470 milioni di
posti di lavoro nei prossimi quindici anni per stare al passo con la
crescita della popolazione attiva, quale sarà la qualità di questo lavoro?
Quali reali opportunità esisteranno per emergere da condizioni di indigenza? La risposta richiede di affrontare i problemi della precarietà
e delle disuguaglianze di reddito che stanno indebolendo le protezioni
Un’agenda per il diritto al lavoro dignitoso
751
sociali costruite nei decenni scorsi in Occidente e che non ne favoriscono lo sviluppo nel resto del mondo.
L’OIL si è dunque impegnata perché il lavoro sia in cima all’agenda internazionale per lo sviluppo. Il decent work come impegno
per i Governi, catalizzatore di politiche di giustizia e promozione umana, diventa allora un termine ampio per indicare buona
qualità dell’impiego e protezione sociale. Per l’OIL occorre integrarlo in un quadro strategico socioeconomico più ampio possibile,
per prevenire il declino, stimolando la crescita e dando forma a una
globalizzazione equa.
Un Gruppo di lavoro aperto sullo sviluppo sostenibile (Open
Working Group on Sustainable Development Goals, OWG-SDG)
sta preparando le proposte, attualmente formulate in una “Bozza zero” (Zero draft), dove è indicato un lungo elenco di 17 obiettivi che
hanno come orizzonte temporale il 2030. Alcuni si pongono sulla scia
degli otto in scadenza, altri sono nuovi e rispecchiano le nuove priorità globali. L’OIL insiste per l’adozione dell’ottavo, relativo al decent
work: «Promote sustained, inclusive and sustainable economic growth,
full and productive employment and decent work for all» («Promuovere
una crescita economica sostenuta, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva e lavoro dignitoso per tutti»). Solo tre degli
otto Obiettivi del Millennio fissati nel 2000 sono stati pienamente
raggiunti e altri in modo parziale, ma l’esperienza dimostra che laloro
stessa definizione, comune a tutti i Paesi, offre una cornice in cui
mettere a fuoco gli sforzi per lo sviluppo. Le priorità danno forza.
Il processo di definizione dei prossimi obiettivi di sviluppo, nonostante il peso preponderante dei Governi, è aperto e partecipativo
e molti soggetti si sono mossi attivamente. Leader sindacali di ogni
parte del mondo, coordinati dall’OIL, hanno definito in giugno proposte concrete per l’OWG. Lo stesso vale per l’Organizzazione internazionale degli imprenditori (IOE) e l’Alleanza internazionale delle
cooperative (ICA). Nel 2007 la campagna «Decent Work, Decent Life» fu lanciata dalla Confederazione sindacale internazionale (ITUC)
e dall’anno successivo il 7 ottobre è diventato la Giornata mondiale
dedicata al decent work.
In questo spazio di partecipazione della società civile si inseriscono le Chiese – quella cattolica, in primis – la cui voce, anche
per conto di chi non ha voce, ricerca nuovi canali di ascolto, a
partire dai messaggi del Papa. Il 9 maggio, in Vaticano, di fronte
all’influente Comitato esecutivo di alto livello che coordina il sistema delle Nazioni Unite, papa Francesco ha ricordato che lo sguardo,
spesso silenzioso, di quella parte della famiglia umana che è messa
da parte, deve portare a decisioni coraggiose con risultati immediati.
752
Francesco Pistocchini
cristiani e cittadini
Chiesa e OIL: una collaborazione di lunga data
La Chiesa cattolica è direttamente impegnata per un accordo globale su un’agenda che accresca numero e qualità dei posti di lavoro,
per stimolare i Paesi a concentrare l’attenzione politica e le risorse su
aspetti cruciali che non sono stati affrontati in modo adeguato dagli
Obiettivi del periodo 2000-2015.
Tale impegno si colloca sulla scia di una collaborazione tra la Santa Sede e l’OIL che non ha equivalenti con altre agenzie dell’ONU.
Fondata a Ginevra nel 1919, nel quadro della Società delle Nazioni,
l’OIL già negli anni ’20 aprì canali di collaborazione con la Santa
Sede, stabilendo contemporaneamente rapporti anche con il mondo
protestante, attraverso il Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC) che
ha sede nella città svizzera, e allargò lo spazio di collaborazione con gli
organismi religiosi. Con la decolonizzazione, nel secondo dopoguerra,
l’OIL fu capace di mettersi in relazione anche con i non cristiani,
trovando specialmente nel mondo islamico, ebraico e buddhista interlocutori sempre più interessati a cercare nei valori fondanti dell’Organizzazione orizzonti comuni tra persone di diverse fedi.
Negli ultimi anni seminari organizzati in diverse città del mondo
dall’OIL e dal CEC hanno studiato le prospettive spirituali e di fede
legate al decent work e approfondito il confronto interreligioso sulla
giustizia sociale, ma è nella Chiesa cattolica che l’Organizzazione trova un interlocutore fondamentale. Lo ha ricordato papa Francesco in
un messaggio all’ultima assemblea dell’OIL: «L’insegnamento della
Chiesa si pone a sostegno delle iniziative dell’OIL che intendono promuovere la dignità della persona umana e la nobiltà del lavoro».
L’opposizione all’idea che il lavoro sia una merce, espressa nella
Dichiarazione di Filadelfia del 1944 dell’OIL, fa eco a quanto Pio XI
aveva ribadito nel 1931 nella Quadragesimo anno (n. 84). La riflessione strutturata della dottrina sociale della Chiesa sul lavoro,
antica più di un secolo, proseguita da Giovanni XXIII nella Mater et
magistra (1961) e da Giovanni Paolo II nella Laborem exercens (1981),
ha nutrito nel tempo l’opera dell’OIL. Proprio nella Laborem exercens il Papa insisteva su un dato etico fondamentale: «Il lavoro […]
è non solo un bene “utile” o “da fruire”, ma un bene “degno”, cioè
corrispondente alla dignità dell’uomo, un bene che esprime questa dignità e la accresce». «Il lavoro – specifica il Compendio della Dottrina
sociale della Chiesa (CDSC, n. 287), esplicitando la tradizione personalista che pone l’uomo al centro della creazione – ha tutta la dignità
di un ambito in cui deve trovare realizzazione la vocazione naturale e
soprannaturale della persona». Nel corso degli anni i documenti papali hanno anche intrecciato i tradizionali temi del lavoro con quelli
dello sviluppo umano, in una dinamica di reciproco scambio.
Un’agenda per il diritto al lavoro dignitoso
753
Nel 2000, invitato da Giovanni Paolo II, l’allora direttore generale
dell’OIL, Juan Somavía, parlò davanti a 250mila persone riunite per
il Giubileo dei lavoratori e illustrò l’Agenda per il decent work nel XXI
secolo. Cinque anni dopo, presentando all’Università Lateranense il
rapporto The challenge of a fair globalization, frutto di tre anni di lavoro di un’importante commissione dell’OIL, Somavía (2005) ribadiva
la necessità di rendere il decent work un obiettivo globale. «Mentre nel
corso degli anni la Chiesa cattolica ha arricchito il suo insegnamento
sociale, abbiamo sviluppato la cornice del diritto internazionale per
una società migliore, costruita, attraverso il dialogo tripartito, sull’ideale del lavoro che diventi sempre più dignitoso e disponibile per
tutti». Tale incoraggiamento da parte della Santa Sede all’indirizzo
dell’OIL è ben presente a Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate, laddove spiega che cosa significhi la parola «decente» applicata
al lavoro (CV, n. 63).
Rilancio cattolico
«Desideriamo però ancora di più, il nostro sogno vola più alto –
scrive papa Francesco nella Evangelii gaudium nel novembre 2013 –.
Non parliamo solamente di assicurare a tutti il cibo, o un “decoroso
sostentamento”, ma che possano avere “prosperità nei suoi molteplici
aspetti”. Questo implica educazione, accesso all’assistenza sanitaria, e
specialmente lavoro, perché nel lavoro libero, creativo, partecipativo
e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria
vita» (EG, n. 192).
Da Cagliari, nel settembre 2013, dove ha definito il lavoro sorgente di dignità, a Terni, di fronte agli operai delle acciaierie, dove ha
parlato di solidarietà umana che assicura a tutti la possibilità di svolgere un’attività lavorativa dignitosa, papa Francesco ha costantemente
invitato tutte le forze sociali alla collaborazione per il bene comune.
La lotta alla povertà, che nelle parole e nei gesti di questo Papa
ha avuto richiami così espliciti, trova un nuovo slancio in tante
realtà cristiane.
La percezione che il decent work possa realmente catalizzare l’impegno multiforme per la giustizia e la difesa degli emarginati ha portato una trentina di organizzazioni internazionali di ispirazione cattolica a sottoscrivere, nel giugno 2013, la Dichiarazione per il lavoro
dignitoso e l’agenda per lo sviluppo dopo il 2015, che individua nell’occupazione giovanile e nel lavoro dei migranti due ambiti prioritari di
attenzione e sostiene l’OIL nel suo sforzo per inserire il decent work
nel quadro di riferimento post-2015. In prima linea per questo rilancio è il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace che il 29 e 30
aprile scorsi a Roma ha organizzato insieme all’OIL un seminario di
754
Francesco Pistocchini
cristiani e cittadini
studi sul decent work, nella convinzione che esso sia «la chiave essenziale di tutta la questione sociale».
Il seminario ha riunito una cinquantina di delegati di 22 Paesi,
membri di UNIAPAC (imprenditori cattolici), IYCW (giovani lavoratori cristiani), MMTC (Movimento mondiale dei lavoratori cristiani), IMCSC (studenti cattolici), ICMC (Commissione per le migrazioni), Pax Romana, Kolping internazionale, Caritas e altre realtà
impegnate su più fronti con le persone vulnerabili. L’incontro è stato
un’occasione di conoscenza e di scambio di buone pratiche nate da
innumerevoli esperienze sul campo, mettendo a confronto organismi
impegnati su temi che si intersecano: giovani lavoratori, migranti irregolari, sfollati interni, categorie vulnerabili come i lavoratori marittimi
o quelli dediti all’assistenza domiciliare. Una moltitudine di soggetti
colpiti da forme di sfruttamento, con cui tante associazioni cattoliche
vengono a contatto in ogni Paese: 5,7 milioni di minori sono vittime
di lavoro coatto, servitù domestica, matrimoni forzati e forme di asservimento basate sulle caste. «Sono forme più sottili di schiavitù – ha
denunciato il 9 settembre scorso al Consiglio per i Diritti umani di
Ginevra il rappresentante vaticano mons. Silvano Tomasi – e meritano un’attenzione specifica».
L’insegnamento sociale della Chiesa, come ha ribadito il card. Peter Turkson, che presiede il Pontificio Consiglio della Giustizia e della
Pace, è pertinente rispetto agli obiettivi per il post-2015. Da questa
consapevolezza è scaturita una strategia per spingere il decent work
in cima all’agenda per lo sviluppo dell’ONU. Secondo questa road
map approvata a Roma, non possono restare senza risposta le sofferenze che derivano dalle strutture ingiuste, da forme di lavoro
precario e scarsamente remunerato, dal traffico di esseri umani
e dal lavoro forzato, dalle diffuse forme di disoccupazione tra i
giovani e dalle migrazioni non volontarie. L’obiettivo è dunque
quello di portare queste istanze presso i rappresentanti dei Paesi che
negoziano il nuovo quadro, perché l’accordo tra Governi nel definire
le priorità nella cooperazione multilaterale orienterà scelte politiche e
finanziamenti e avrà influenza su milioni di persone.
La 69ª Assemblea generale dell’ONU, che si è conclusa il 1º ottobre, ha dibattuto i temi del post-2015 in vista della dichiarazione
universale prevista per settembre del prossimo anno. Tuttavia, come
riferisce Joseph C. Donnelly, delegato permanente di Caritas Internationalis presso le Nazioni Unite, il tema del decent work in questa
occasione, anche se non è stato ignorato, non ha trovato ancora un’attenzione adeguata. «Molte organizzazioni della società civile – spiega – si fanno portavoce di questa realtà, di un bisogno disperato e
diffuso di lavoro, ma non hanno ancora forza sufficiente per essere
Un’agenda per il diritto al lavoro dignitoso
755
risorse
ascoltate e le risposte alle richieste dei giovani disoccupati sembrano
ancora insufficienti».
Le parole forti che papa Francesco ha rivolto in maggio al Comitato esecutivo dell’ONU sono risuonate il 26 settembre nel discorso del Segretario di Stato, card. Pietro Parolin, all’Università
di Fordham, l’ateneo dei gesuiti di New York: promuovere tutti
insieme una vera mobilitazione etica mondiale che, al di là di
ogni differenza di credo o di opinione politica, diffonda e applichi un ideale comune di fraternità e di solidarietà, specialmente
verso i più poveri e gli esclusi. Il percorso attraverso il decent work
è delineato. Resta ancora un anno per influenzare chi decide gli
indirizzi dello sviluppo globale.
Magistero
CV = Benedetto XVI, enciclica Caritas in veritate,
2009
EG = Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium, 2013.
LE = Giovanni Paolo II, enciclica Laborem exercens, 1981.
MM = Giovanni XXIII, enciclica Mater et magistra, 1961.
QA = Pio XI, enciclica Quadragesimo anno, 1931.
Pallottino M. (2013), «Un’agenda per lo sviluppo: la cooperazione dopo gli Obiettivi del
Millennio», in Aggiornamenti Sociali, 6-7, 475486.
Papa Francesco (2014a), Discorso ai dirigenti e
agli operai delle acciaierie di Terni e ai fedeli
della diocesi di Terni-Narni-Amelia, 20 marzo,
in <www.vatican.va>.
RN = Leone XIII, lettera enciclica Rerum novarum, 1891.
— (2014b), Discorso ai membri del Consiglio dei
capi esecutivi per il coordinamento delle Nazioni Unite, 9 maggio, in <www.vatican.va>.
CDSC (2004) = Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina
sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano.
— (2013), Visita pastorale a Cagliari. Incontro con
il mondo del lavoro, 22 settembre, in <www.
vatican.va>.
Testi
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glish/bureau/leg/declarations.htm>.
Bhowmik S. K. (2013) (ed.), The State of Labour.
The Global Financial Crisis and Its Impact,
Routledge India, London-New York-New Delhi.
Bureau International du Travail (2012), Convergences: travail décent et justice sociale dans
les traditions religieuses, OIT, Genève.
Open Working Group on Sustainable Development Goals (2014), Zero Draft, in <http://
sustainabledevelopment.un.org/owg.html>.
Organizzazioni internazionali di ispirazione
cattolica (2014), «Il lavoro dignitoso e l’agen756
da per lo sviluppo dopo il 2015», in Aggiornamenti Sociali, 1, 54-60.
Francesco Pistocchini
Parolin P. (2014), Address at Fordham University, New York, 26 settembre, <www.centesimu
sannus.org/media/2inuu1412320318.pdf>.
Peccoud D. (2005) (ed.), Philosophical and spiritual perspectives on Decent work, ILO Publications, Geneva.
Pontificio Consiglio della Giustizia e della
Pace (2002), Work as Key to the Social Question. The Great Social and Economic Transformations and the Subjective Dimension of Work,
Libreria Editrice Vaticana, Roma.
Somavía J. (2005), The Challenge of a Fair Globalization, Roma, <www.ilo.org/public/english/bu
reau/dgo/speeches/somavia/2005/rome.pdf>.
Tomasi S. (2014), Statement at the 27th Session
of the Human Rights Council, 9 settembre, in
<http://holyseemissiongeneva.org>.
Verso la libertà
Vincent D. Rougeau
Preside della Law School del Boston College di Newton Centre,
Massachussetts (USA)
voci del mondo
Gli USA a cinquant’anni dal Civil Rights Act
Sono passati cinquant’anni dall’approvazione negli Stati Uniti
del Civil Rights Act, che ha segnato la fine legale di discriminazione e segregazione razziale, sebbene il pregiudizio nei
confronti delle persone di colore abbia continuato a segnare
la storia di una delle maggiori potenze mondiali. Negli ultimi
anni, tuttavia, sembra davvero che la società americana stia
andando oltre la dicotomia bianchi/neri. Riusciranno gli USA
a fare tesoro della loro storia e a mettere in atto una politica
migratoria giusta ed equa, superando le loro paure e creando
una società più inclusiva e partecipativa?
N
on molti Paesi in epoca moderna sono stati più impegnati
degli Stati Uniti nell’intrecciare l’elemento razziale nel tessuto sociale. Il perpetuarsi di una schiavitù a base razziale
in una nazione fondata su nozioni radicali di libertà individuale alimentò un dualismo riguardo ai concetti di “bianco” e “nero” che,
seppur semplicistica, durò a lungo sia nel diritto, sia nella cultura
americani. Sebbene un’atroce guerra civile abbia posto fine all’istituzione legalmente riconosciuta della schiavitù (1861-1865), ciò non
bastò a impedire che le persone di “provata” origine africana fossero,
allora come oggi, politicamente e socialmente emarginate. La nostra
ossessione per le razze è stata all’origine di alcuni tra i più riprovevoli
eventi della nostra storia, ma ha anche dato adito ad alcuni dei nostri
più grandi trionfi.
Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (757-762)
757
Tra questi eventi da celebrare, ce ne fu uno il cui cinquantesimo
anniversario è ricorso quest’estate: l’approvazione del Civil Rights
Act da parte del Parlamento degli Stati Uniti nel 1964. Pur pensato
in una prospettiva più ampia della sola discriminazione razziale,
esso è considerato come un grande trionfo del movimento per
i diritti civili e dello sforzo di porre fine alla discriminazione
nei confronti dei neri negli Stati Uniti e contribuì a completare la
trasformazione degli Stati Uniti da nazione provinciale di ristrette
vedute a potenza globale.
Affrontando la discriminazione
Cinquant’anni sono un lungo periodo nella vita di una persona
(nel mio caso sono una vita intera), ed è perciò sempre più difficile
per la gente di oggi immaginare come fossero gli Stati Uniti prima
del 1964. Per chi se ne ricorda, i cambiamenti scatenati dal Civil
Rights Act furono straordinari e parte di un periodo di stridente
cambiamento culturale e legale.
Prima del 1964, la discriminazione e la segregazione razziali
erano abituali e parte integrante nella vita della maggior parte
degli americani. Nonostante la Corte Suprema degli Stati Uniti
avesse bandito la segregazione razziale dalle scuole pubbliche nel
1954, all’inizio degli anni ’60 e per molti anni a venire sia nel Nord
sia nel Sud del Paese si continuò a opporre una diffusa resistenza
a questa regola. La segregazione era ancora la norma, implicita ed
esplicita, in quasi tutto il resto della vita quotidiana.
A metà degli anni ’50 mio nonno e i suoi fratelli emigrarono
dalle province rurali verso le città del petrolio nella Louisiana del
Sud, rispondendo alla crescente domanda di manovalanza di basso
e medio livello. Nel giorno di paga erano soliti avviarsi verso la
raffineria per riscuotere il salario. Qualche volta venivano pagati
subito. Altre volte passavano tutto il giorno a guardare mentre tutti i bianchi della fabbrica venivano chiamati nell’ufficio per essere
pagati; questo spesso comportava che loro non ricevessero i soldi
se non alla fine della giornata. Tali comportamenti facevano parte
degli affronti quotidiani nei riguardi di chi era nero negli Stati Uniti
e non erano nemmeno considerati degni di nota da parte di molti
che ne erano vittime, nonostante il disagio e l’umiliazione che causavano, e non sono dissimili da certi affronti spesso subiti oggi dagli
immigrati irregolari. L’emarginazione e la debolezza rendono facili
prede di occasionali atti di crudeltà, piccola e grande.
Già dai primi anni ’60 era chiaro che l’opinione degli americani
circa la questione della razza stava mutando, ma il vero cambiamento era ancora lontano a venire. Nel 1961 il padre di mia moglie di758
Vincent D. Rougeau
voci del mondo
venne uno dei primi ingegneri neri impiegati dai Bell Labs. Fin dal
primo giorno fu tormentato senza tregua: dalla spazzatura rovesciata
sulla sua sedia, ai pupazzi che venivano regolarmente impiccati alla
lampada sulla sua scrivania. Nel frattempo, lui e la moglie non riuscivano a trovare una casa decente dove andare a vivere, finché mia
suocera non prese direttamente in mano la situazione. Cercando
casa da sola, con la sua pelle olivastra e i lunghi capelli castani, si
presentava bene come inquilina per appartamenti nella cittadina
benestante di Summit (New Jersey), dove infine si stabilirono e dove mia moglie visse durante l’infanzia. Tuttavia, acquistare casa lì
si rivelò molto difficile (mia suocera non aveva i mezzi per farlo da
sola) e così finirono per stabilirsi in una città limitrofa più multietnica ma sempre più segregata e decadente. Come a tanti altri professionisti neri del loro tempo, se volevano vivere in una comunità
che in qualche modo li accettasse, si vedevano negata l’opportunità
di accumulare ricchezza investendo in una casa di loro proprietà,
poiché queste spesso si svalutavano nel tempo con l’aumentare della
segregazione nei quartieri dove risiedevano.
Il Civil Rights Act dette il via a una cascata di leggi stilate
con l’intento di promuovere l’uguaglianza tra le razze e tra i
sessi, una politica equa della casa e dei salari, ma considerando gli eventi degli ultimi cinquant’anni è particolarmente evidente
il fatto che ci volle molto tempo affinché si consolidasse un vero
cambiamento, e che esso fu spesso dovuto a fattori esterni, quali il
cambiamento economico, l’immigrazione e il semplice passare del
tempo. Altrettanto impressionante è ciò che si staglia all’orizzonte. Potrebbe essere prematuro chiamare gli Stati Uniti una nazione
post-razziale, ma è chiaro che il processo che porterà a quel tipo di
società è già ben avviato.
Una storia eccezionale
Nonostante l’onnipresenza della razza come elemento strutturante della nostra storia, gli americani sono molto a disagio quando si
tratta di accettarla e farla propria come parte integrante di una identità condivisa. Molti spesso si affannano per fingere di non vedere
il fattore razziale nella vita quotidiana (quante volte si descrive qualcuno nei minimi particolari, prima di arrivare a dire che è nero!), si
accettano senza alcun problema gli effetti corrosivi del razzismo tuttora presenti nelle istituzioni e nella struttura sociale. Altri tendono
a insistere sul fatto che il razzismo americano fu semplicemente una
sfortunata aberrazione della gloriosa storia degli inizi della nazione.
Molti sostengono che la razza non conta più e si oppongono anche
agli sforzi più modesti di riparare al passato razzista dell’America.
Verso la libertà
759
Ed è un peccato, poiché ci sono state anche delle vittorie sui nostri
demoni della razza che vale la pena festeggiare, e quei momenti
della nostra storia segnano dei successi peculiari dell’esperimento
americano.
Gli Stati Uniti non furono i soli a creare e mantenere una classe
inferiore, ma non molti altri Paesi sono altrettanto veloci nell’assegnare a sé stessi uno status di eccezionalità che suggerisca il contrario. Non molto tempo fa, durante il discorso inaugurale all’Accademia militare di West Point, il presidente Obama dichiarò di credere
«con tutte le fibre del suo essere» nell’eccezionalità americana e che
gli Stati Uniti rimangano l’unica nazione «indispensabile». Il Civil Rights Act fu sicuramente un momento di eccezionale presa di
coscienza ed è quasi impossibile immaginare che al giorno d’oggi
si possa varare un insieme di leggi così rivoluzionario. Ma gli Stati Uniti dimostrarono anche un forte attaccamento all’istituzione
della schiavitù, molto tempo dopo che la maggior parte delle altre
società vi aveva posto fine, e ci volle una guerra civile di brutalità
scioccante per abolirla. Dopo la guerra, abbiamo mantenuto per un
altro secolo un sistema altamente efficace di segregazione razziale
con mezzi legali e non. Tutto ciò rende gli Stati Uniti eccezionali (e
forse non così indispensabili), ma non nel modo che che noi di solito
vogliamo far intendere.
Nell’ultima decina d’anni tuttavia si è diffusa sempre di più in
molti americani la sensazione che qualcosa di fondamentale sia cambiato nell’intendere la questione razziale. Abbiamo un Presidente
afroamericano con una madre bianca e un padre keniota. La categoria razziale con la crescita più rapida nel censimento statunitense è attualmente quella della “razza mista” e improvvisamente la polarità neri/bianchi, che era una parte così integrante della
coscienza americana, comincia a suonare sorpassata e anacronistica. Nelle aree urbane di Boston, dove abito, la popolazione nera
sta crescendo rapidamente grazie all’immigrazione dall’Africa, dai
Caraibi e dall’America Latina. Molti di questi immigrati rifiutano
la dicotomia americana bianco/nero e non vogliono avere nulla a
che fare con il termine “afroamericano”. Nella mia stessa famiglia,
la maggior parte dei cugini primi dei miei figli appartiene a famiglie
multirazziali, e prevedo che la cosa continuerà quando osservo i miei
figli uscire con i loro rispettivi fidanzati e fidanzate, preparandosi a
scegliere i loro compagni di vita.
La prossima battaglia
Benché sia importante onorare il passato mentre si festeggia il
cinquantesimo del Civil Rights Act, è essenziale prendere in conside760
Vincent D. Rougeau
voci del mondo
razione il futuro. Come verranno interpretati la razza e la discriminazione razziale in un’America sempre più multiculturale?
I discendenti degli schiavi negli Stati Uniti figurano ancora in
modo sproporzionato nelle statistiche negative relative a indigenza,
istruzione, famiglie monoparentali, creazione di ricchezza e speranza
di vita. La discriminazione e il razzismo si fanno ancora regolarmente vedere. Il Presidente è stato vittima di uno sforzo clamoroso
da parte del Partito repubblicano di rendergli quasi impossibile governare e si sentono ripetutamente dichiarazioni da parte di parlamentari repubblicani tali da non lasciare dubbi sul fatto che essi
preferirebbero il blocco dell’azione di governo piuttosto che lavorare con Barack Obama. Abbiamo dovuto assistere all’umiliazione
scioccante di un Presidente fischiato da un membro del Parlamento
durante l’annuale discorso sullo stato dell’Unione.
Sì, penso che una bella fetta del problema sia la razza, ma quanto
a lungo costoro – in gran parte uomini bianchi arrabbiati eletti in
collegi blindati – potranno continuare a ignorare la realtà multirazziale dell’America e la sfida a lungo termine che essa presenta alla
politica nella nostra democrazia?
Parlando come persona che ha visto l’orizzonte delle possibilità
della propria vita allargarsi grazie al Civil Rights Act, sono profondamente grato agli uomini e alle donne del movimento dei diritti
civili e del governo che ebbero il coraggio e l’ispirazione di renderlo
realtà. Ma guardando al futuro, darò il benvenuto a un’America che
non sia più divisa tra bianchi e neri. Mi danno speranza i giovani
che incontro e che vengono da posti come Ghana, Nigeria, Repubblica Dominicana, Haiti e Brasile, che hanno spinto gli americani
verso una consapevolezza più ricca e globale di che cosa significhi
essere nero. Benedico l’immigrazione dall’America Latina, dall’Asia
e altrove, che è stata un fattore chiave nel rendere le nostre città più
cosmopolite, vivaci e aperte.
Sotto molti aspetti, il modo in cui trattiamo gli immigrati si
sta rivelando come un nuovo problema di diritti civili, e solleva
preoccupazioni circa esclusione, inclusione e partecipazione in
una società democratica, le stesse che caratterizzarono anche il movimento dei diritti civili alla metà del XX secolo. Questi problemi
dovrebbero avere un peso particolare per i cattolici, poiché i nostri
insegnamenti in campo sociale si schierano in maniera molto forte
a favore dell’inclusione sociale dei poveri e degli stranieri. Mentre il
Parlamento divora risorse in termini di tempo e denaro per realizzare ben poco che sia duraturo in relazione all’immigrazione, la sua
indifferenza e inerzia dovrebbero sottolineare l’opportunità per noi
di agire in modi che facciano onore al retaggio del Civil Rights Act.
Verso la libertà
761
L’immigrazione non rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti
più di quanto non lo fosse il permettere ai neri di accedere ai posti
di lavoro in posizione di parità o di comprare casa dove volessero.
Trattare le persone con dignità a prescindere dal colore della pelle,
dal sesso, dall’orientamento sessuale o dal Paese di origine richiede
di liberarsi di pregiudizi di vecchia data e impone un cambiamento.
Accogliere le possibilità e le opportunità che si presenteranno con un
sistema più umano di immigrazione in questo Paese ci consentirà
di riconoscere la realtà di un cambiamento che è già in atto e che
offre ai nostri figli e nipoti la speranza che l’America multiculturale
che sta emergendo intorno a loro sarà un luogo pieno di aspettative,
opportunità e vigore, invece che una roccaforte di rabbia e paura.
Nel 1964 serpeggiava molta paura e il superamento di secoli di
discriminazione razziale in questo Paese è ancora in fase di completamento, ma come società ci esprimiamo al meglio quando ci
apriamo alle possibilità di molti e quando riusciamo a guardare oltre
noi stessi per vedere Dio nel volto dell’altro.
Festeggiare il Civil Rights Act ci permette di ricordare un periodo
molto difficile nella nostra storia comune e ci ricorda quanto abbiamo progredito. Ci ricorda anche la saggezza e la dignità di chi ci ha
preceduto e ha creduto che questa nazione potesse essere migliore.
Lo sviluppo di una politica migratoria giusta e umana sarebbe
un ulteriore passo verso tale meta e un modo degno di onorare il
retaggio del Civil Rights Act in una nazione che sta velocemente
superando la contrapposizione tra bianchi e neri.
Titolo originale «Freedom Bound. The Legacy and Ongoing Challenge of the Civil Rights Act»,
apparso su America, 7-14 luglio 2014, pp. 15-17. Traduzione di Maria McKenna. Neretti a cura
della Redazione.
762
Vincent D. Rougeau
documenti
La responsabilità
di proteggere
della comunità
internazionale
Pietro Parolin
Segretario di Stato della Santa Sede
Il 29 settembre 2014, il card. Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, è intervenuto alla 69a Sessione dell’Assemblea
generale dell’ONU, a New York. Riproponiamo qui il testo del
suo discorso, in quanto presenta autorevolmente la posizione
ufficiale della Chiesa rispetto all’attuale delicatissima situazione
internazionale: arrestare ogni aggressione attraverso l’azione
multilaterale e un uso proporzionato della forza è sia lecito sia
urgente. Alla comunità internazionale spetta la responsabilità
di identificare i mezzi per raggiungere questo obiettivo, che
non possono limitarsi al ricorso alle armi, ma devono includere
il dialogo tra le culture e una nuova comprensione del diritto
internazionale. Il card. Parolin offre poi il contributo della Santa
Sede all’elaborazione dei nuovi obiettivi di sviluppo che dovranno entrare in vigore dopo il 2015 e afferma che la responsabilità di proteggere si estende a ogni forma di aggressione,
anche quella che viene da un sistema finanziario dominato
dalla speculazione.
S
ignor Presidente, nell’estenderle le congratulazioni della Santa Sede per la sua elezione alla presidenza della 69ª Sessione
dell’Assemblea Generale, desidero trasmettere i cordiali saluti
di Sua Santità Papa Francesco a lei e a tutte le delegazioni partecipanti. Egli vi assicura della sua vicinanza e delle sue preghiere per
Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (763-772)
763
il lavoro di questa sessione dell’Assemblea Generale, nella speranza
che si possa svolgere in un clima di collaborazione produttiva, per
la costruzione di mondo più fraterno e unito, individuando modi
per risolvere i gravi problemi che oggi affliggono l’intera famiglia
umana.
In continuità con i suoi predecessori, di recente Papa Francesco
ha ribadito la stima e l’apprezzamento della Santa Sede per le
Nazioni Unite quale mezzo indispensabile per costruire un’autentica famiglia di popoli. La Santa Sede apprezza gli sforzi di
questa illustre istituzione, «realizzati a favore della pace mondiale
e del rispetto della dignità umana, della protezione della persona,
specialmente dei più poveri o più deboli, e dello sviluppo economico
e sociale armonioso» 1. Su questa linea, e in numerose occasioni, Sua
Santità ha incoraggiato gli uomini e le donne di buona volontà a
mettere le loro capacità efficacemente al servizio di tutti lavorando
insieme, in collaborazione con la comunità politica e ogni settore
della società civile 2.
Il rischio dell’indifferenza e dell’apatia
Pur ricordando i doni e le capacità della persona umana, Papa
Francesco osserva che oggi esiste il pericolo di una diffusa indifferenza. Nella misura in cui questa indifferenza riguarda il campo
della politica, colpisce anche i settori economico e sociale, «visto che
una parte importante dell’umanità continua ad essere esclusa dai
benefici del progresso e, di fatto, relegata a esseri umani di seconda
categoria» 3. Talvolta tale apatia è sinonimo di irresponsabilità. È
questo il caso oggi, quando un’unione di Stati, creata con l’obiettivo fondamentale di salvare le generazioni dall’orrore della
guerra che porta dolore indicibile all’umanità 4, resta passiva
dinanzi alle ostilità subite da popolazioni indifese.
Desidero ricordare le parole che Sua Santità ha rivolto al Segretario Generale all’inizio d’agosto: «È con il cuore carico e angosciato che ho seguito i drammatici eventi di questi ultimi giorni nel
nord Iraq», pensando alle «lacrime, le sofferenze e le grida accorate
di disperazione dei cristiani e di altre minoranze religiose dell’amata terra dell’Iraq». Nella stessa lettera il Papa ha rinnovato il suo
appello urgente alla comunità internazionale «ad intervenire per
1 Papa Francesco, Discorso ai membri del Consiglio dei Capi esecutivi per il coordinamento delle Nazioni Unite, 9 maggio 2014 (disponibile, come tutti i documenti
pontifici citati, in <www.vatican.va>).
2 Cfr Id., Messaggio al World Economic Forum, 17 gennaio 2014.
3 Id., Discorso ai membri del Consiglio dei Capi esecutivi, cit.
4 Cfr Preambolo della Carta delle Nazioni Unite.
764
Pietro Parolin
documenti
porre fine alla tragedia umanitaria in corso». Ha inoltre incoraggiato «tutti gli organi competenti delle Nazioni Unite, in particolare
quelli responsabili per la sicurezza, la pace, il diritto umanitario
e l’assistenza ai rifugiati, a continuare i loro sforzi in conformità
con il Preambolo e gli Articoli pertinenti della Carta delle Nazioni
Unite» 5.
Una risposta unificata alla sfida terroristica
Oggi sono costretto a ripetere il sentito appello di Sua Santità
e a proporre all’Assemblea Generale, come anche agli altri organi
competenti delle Nazioni Unite, che questo organismo approfondisca la sua comprensione del momento difficile e complesso che
stiamo vivendo.
Con la drammatica situazione nel nord dell’Iraq e in alcune
parti della Siria, constatiamo un fenomeno totalmente nuovo:
l’esistenza di un’organizzazione terrorista che minaccia tutti gli
Stati promettendo di scioglierli e di sostituirli con un governo mondiale pseudoreligioso. Purtroppo, come il Santo Padre ha detto di
recente, anche oggi c’è chi pretende di esercitare il potere forzando
le coscienze e togliendo vite, perseguitando e assassinando nel nome
di Dio 6. Queste azioni feriscono interi gruppi etnici, popolazioni
e culture antiche. Occorre ricordare che questa violenza nasce dal
disprezzo di Dio e falsifica la «religione stessa, la quale, invece, mira
a riconciliare l’uomo con Dio, a illuminare e purificare le coscienze
e a rendere chiaro che ogni uomo è immagine del Creatore» 7.
In un mondo di comunicazioni globali, questo nuovo fenomeno
ha trovato proseliti in molti luoghi ed è riuscito ad attrarre giovani
da tutto il mondo, spesso disillusi da una diffusa indifferenza e dalla
mancanza di valori nelle società opulente. Questa sfida, in tutti i
suoi aspetti tragici, dovrebbe spingere la comunità internazionale a
promuovere una risposta unificata, basata su solidi criteri giuridici e sulla volontà collettiva di cooperare per il bene comune.
A tal fine, la Santa Sede ritiene utile concentrare l’attenzione su due
ambiti importanti. Il primo è quello di affrontare le origini culturali
e politiche delle sfide contemporanee, riconoscendo il bisogno di
strategie innovative per far fronte a questi problemi internazionali
in cui i fattori culturali svolgono un ruolo fondamentale. Il secondo
5 Papa Francesco, Lettera al Segretario generale dell’ONU circa la situazione nel
Nord dell’Iraq, 9 agosto 2014.
6 Cfr L’Osservatore Romano, 3 maggio 2014.
7 Benedetto XVI, Discorso ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la
Santa Sede, 7 gennaio 2013.
La responsabilità di proteggere della comunità internazionale
765
ambito su cui riflettere è un ulteriore studio dell’adeguatezza del
diritto internazionale oggi, vale a dire l’efficacia della sua attuazione
da parte dei meccanismi utilizzati dalle Nazioni Unite per prevenire
la guerra, fermare gli aggressori, proteggere le popolazioni e aiutare
le vittime.
Promozione del dialogo e diritto internazionale
Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, quando il mondo si
risvegliò alla realtà di una nuova forma di terrorismo, alcuni media
e centri di pensiero hanno eccessivamente semplificato quel tragico
momento interpretando tutte le situazioni susseguenti e problematiche in termini di scontro di civiltà. Tale visione non teneva conto
delle antiche e profonde esperienze di buone relazioni tra culture,
gruppi etnici e religioni, e interpretava attraverso questa lente altre
situazioni complesse quale la questione mediorientale e i conflitti
civili attualmente in corso altrove. Similmente, ci sono stati dei tentativi per trovare cosiddetti rimedi legali per contrastare e prevenire
la crescita di questa nuova forma di terrorismo. Talvolta sono state
preferite soluzioni unilaterali a quelle fondate sul diritto internazionale. Anche i metodi adottati non hanno sempre rispettato
l’ordine costituito o le particolari circostanze culturali di popoli che
spesso si sono trovati involontariamente al centro di questa nuova
forma di conflitto globale. Questi errori, e il fatto che siano stati
approvati almeno tacitamente, ci dovrebbero portare a un serio e
profondo esame di coscienza. Le sfide che pongono le nuove forme
di terrorismo non devono farci soccombere a visioni esagerate e a
estrapolazioni culturali. Il riduzionismo dell’interpretare situazioni in termini di uno scontro di culture, giocando sulle paure
e i pregiudizi esistenti, porta solo a reazioni di natura xenofoba
che, paradossalmente, servono a rafforzare proprio quei sentimenti
che stanno al centro del terrorismo stesso. Le sfide che ci si pongono devono spronare a un rinnovato appello al dialogo religioso e
interculturale e a nuovi sviluppi nel diritto internazionale, al fine di
promuovere iniziative di pace giuste e coraggiose.
Quali sono, dunque, i cammini che possiamo seguire? Prima
di tutto, c’è il cammino della promozione del dialogo e della
comprensione tra culture, che è già implicitamente contenuto nel
Preambolo e nel primo articolo della Carta delle Nazioni Unite.
Questo cammino deve diventare un obiettivo sempre più esplicito
della comunità internazionale e dei Governi se davvero siamo impegnati per la pace nel mondo. Allo stesso tempo dobbiamo ricordare
che non spetta alle organizzazioni internazionali o agli Stati inventare la cultura, né è possibile farlo. Similmente, non compete ai Go766
Pietro Parolin
documenti
verni affermarsi come portavoce di culture, né essere gli attori
principali responsabili del dialogo culturale e interreligioso. La
crescita naturale e l’arricchimento della cultura sono, piuttosto, frutto di tutte le componenti della società civile che lavorano insieme.
Le organizzazioni internazionali e gli Stati hanno sì il compito di
promuovere e sostenere, in modo decisivo e con i necessari mezzi
finanziari, quelle iniziative e quei movimenti che promuovono il
dialogo e la comprensione tra culture, religioni e popoli. La pace,
dopo tutto, non è il frutto di un equilibrio di poteri, ma piuttosto
l’esito della giustizia a ogni livello e, cosa più importante, responsabilità condivisa degli individui, delle istituzioni civili e dei Governi.
In effetti, ciò significa comprendersi reciprocamente e apprezzare la
cultura e le circostanze dell’altro. Implica anche preoccuparsi gli uni
degli altri condividendo i patrimoni spirituali e culturali e offrendo
opportunità per l’arricchimento umano.
E tuttavia, non affrontiamo le sfide del terrorismo e della violenza solo con l’apertura culturale. Abbiamo a disposizione anche
l’importante via del diritto internazionale. La situazione attuale
esige una comprensione più incisiva di questo diritto, prestando particolare attenzione alla «responsabilità di proteggere».
Di fatto, una delle caratteristiche del recente fenomeno terrorista
è che ignora l’esistenza dello Stato e, di fatto, dell’intero ordine internazionale. Il terrorismo non mira solo a portare cambiamenti ai
Governi, a danneggiare le strutture economiche o a commettere
semplicemente dei crimini. Cerca di controllare direttamente aree
all’interno di uno o più Paesi, di imporre le proprie leggi, che sono
distinte e opposte rispetto a quelle dello Stato sovrano. Inoltre mina
e rifiuta ogni sistema giuridico esistente, cercando di imporre il dominio sulle coscienze e il controllo completo sulle persone.
Un rinnovato ruolo delle Nazioni Unite
La natura globale di questo fenomeno, che non conosce confini,
è esattamente la ragione per cui il quadro del diritto internazionale offre l’unica via percorribile per affrontare questa sfida urgente.
Questa realtà esige Nazioni Unite rinnovate, che s’impegnino a promuovere e a preservare la pace. Attualmente, i partecipanti attivi
e passivi di un tale sistema sono tutti gli Stati, i quali si pongono
sotto l’autorità del Consiglio di Sicurezza e si impegnano a non
intraprendere atti di guerra senza l’approvazione di questo stesso
Consiglio. In tale quadro, l’azione militare svolta da uno Stato in risposta a un altro Stato è possibile solo nel caso di autodifesa quando
si è sotto attacco armato diretto, e solo fino a quando il Consiglio
di Sicurezza riesce a prendere con successo le misure necessarie per
La responsabilità di proteggere della comunità internazionale
767
ripristinare la pace e la sicurezza internazionale 8. Le nuove forme
di terrorismo compiono azioni militari su vasta scala. Non riescono
ad essere contenute da un solo Stato, e intendono esplicitamente
dichiarare guerra alla comunità internazionale. In tal senso, abbiamo a che fare con un comportamento criminale non previsto
dalla configurazione giuridica della Carta delle Nazioni Unite.
Ciononostante, bisogna riconoscere che le norme vigenti per la
prevenzione della guerra e l’intervento del Consiglio di Sicurezza sono ugualmente applicabili, su basi diverse, nel caso di una
guerra provocata da un “attore non statale”.
È così, in primo luogo, perché l’obiettivo fondamentale della
Carta è di evitare la piaga della guerra alle generazioni future. La
struttura giuridica del Consiglio di Sicurezza, pur con tutti i suoi
limiti e difetti, è stata stabilita proprio per questa ragione. Inoltre,
l’art. 39 della Carta delle Nazioni Unite attribuisce al Consiglio di
Sicurezza il compito di determinare le minacce o le aggressioni alla
pace internazionale, senza specificare il tipo di attori che compiono
queste minacce o aggressioni. Infine, gli Stati stessi, in virtù della
loro adesione alle Nazioni Unite, hanno rinunciato a qualsiasi uso
della forza che sia incoerente con i fini delle Nazioni Unite 9.
Considerato che le nuove forme di terrorismo sono “transnazionali”, esse non rientrano più nelle competenze delle forze di
sicurezza di un solo Stato: riguardano i territori di diversi Stati.
Pertanto, saranno necessarie le forze combinate di diverse nazioni per garantire la difesa di cittadini disarmati. Poiché non esiste
norma giuridica che giustifichi azioni di polizia unilaterali oltre i
propri confini, non c’è alcun dubbio che si tratti di un ambito di
competenza del Consiglio di Sicurezza. Ciò perché, senza il consenso e la supervisione dello Stato nel quale viene esercitato l’uso
della forza, questa forza si tradurrebbe in una instabilità regionale
o internazionale, e pertanto rientrerebbe negli scenari previsti dalla
Carta delle Nazioni Unite.
Fermare ogni aggressione
La mia Delegazione desidera ricordare che è sia lecito sia urgente arrestare l’aggressione attraverso l’azione multilaterale e
un uso proporzionato della forza. Come soggetto rappresentante una comunità religiosa mondiale che abbraccia diverse nazioni,
culture ed etnicità, la Santa Sede spera seriamente che la comunità
internazionale si assuma la responsabilità riflettendo sui mezzi
8
9
768
Pietro Parolin
Cfr Carta delle Nazioni Unite, art. 51.
Cfr ivi, art. 2, 4.
documenti
migliori per fermare ogni aggressione ed evitare il perpetrarsi di
ingiustizie nuove e ancor più gravi. La situazione presente, pertanto, pur essendo di fatto molto seria, è un’occasione perché gli Stati
membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite onorino lo spirito
stesso della Carta delle Nazioni Unite parlando apertamente dei
tragici conflitti che stanno lacerando interi popoli e nazioni. È deludente che finora la comunità internazionale sia stata caratterizzata
da voci contraddittorie e perfino dal silenzio riguardo ai conflitti
in Siria, in Medio Oriente e in Ucraina. È importantissimo che ci
sia unità d’azione per il bene comune, evitando il fuoco incrociato
di veti. Come Sua Santità ha scritto lo scorso 9 agosto al Segretario
Generale, «la più elementare comprensione della dignità umana, costringe la comunità internazionale, in particolare attraverso le norme ed i meccanismi del diritto internazionale, a fare tutto ciò che
le è possibile per fermare e prevenire ulteriori violenze sistematiche
contro le minoranze etniche e religiose».
Pur essendo il concetto di «responsabilità di proteggere» implicito nei principi costituzionali della Carta delle Nazioni Unite e
del diritto umanitario, non favorisce in modo specifico il ricorso
alle armi. Piuttosto, afferma la responsabilità dell’intera comunità
internazionale, in spirito di solidarietà, di combattere crimini odiosi
come il genocidio, la pulizia etnica e la persecuzione per motivi religiosi. Qui con voi, oggi, non posso non menzionare i molti cristiani
e le minoranze etniche che negli ultimi mesi hanno subito persecuzioni e sofferenze atroci in Iraq e in Siria. Il loro sangue esige da
tutti noi un fermo impegno a rispettare e a promuovere la dignità di
ogni singola persona in quanto voluta e creata da Dio. Ciò significa
anche rispetto della libertà religiosa, che la Santa Sede considera un
diritto fondamentale, poiché nessuno può essere costretto «ad agire
contro la sua coscienza» e ognuno «ha il dovere e quindi il diritto di
cercare la verità in materia religiosa» 10.
In sintesi, la promozione di una cultura di pace esige sforzi rinnovati a favore del dialogo, dell’apprezzamento culturale e della
cooperazione, nel rispetto della varietà delle sensibilità. Quel che
occorre è un approccio politico lungimirante che non imponga
rigidamente modelli politici a priori che sottovalutano le sensibilità dei singoli popoli. Infine deve esserci una disponibilità
autentica ad applicare scrupolosamente gli attuali meccanismi
del diritto, restando allo stesso tempo aperti alle implicazioni di
questo momento cruciale. Ciò assicurerà un approccio multilaterale
10 Concilio Vaticano II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 7
dicembre 1965, n. 3.
La responsabilità di proteggere della comunità internazionale
769
che servirà meglio la dignità umana e proteggerà e promuoverà lo
sviluppo umano integrale in tutto il mondo. Questa disponibilità,
laddove viene espressa in modo concreto attraverso nuove formulazioni giuridiche, certamente porterà una rinnovata vitalità alle
Nazioni Unite. Aiuterà anche a risolvere conflitti gravi, siano essi
in atto o latenti, che ancora colpiscono alcune parti dell’Europa,
dell’Africa e dell’Asia, e la cui risoluzione definitiva richiede l’impegno di tutti.
L’agenda dello sviluppo dopo il 2015
Signor Presidente, Con la Risoluzione a/68/6 della 68ª Sessione dell’Assemblea Generale è stato deciso che la presente Sessione
avrebbe discusso l’Agenda di sviluppo post-2015, perché fosse poi
formalmente adottata durante la 70ª Sessione a settembre 2015. Lei
stesso, Signor Presidente, ha opportunamente scelto il tema della
presente Sessione: «Delivering and Implementing a Transformative
Post-2015 Development Agenda» 11.
Durante il suo recente incontro con tutti i capi esecutivi delle
agenzie, dei fondi e dei programmi delle Nazioni Unite, Sua Santità
ha chiesto che i futuri obiettivi per uno sviluppo sostenibile fossero
formulati «con generosità e coraggio, affinché arrivino effettivamente a incidere sulle cause strutturali della povertà e della fame, a
conseguire ulteriori risultati sostanziali a favore della preservazione
dell’ambiente, a garantire un lavoro decente per tutti e a dare una
protezione adeguata alla famiglia, elemento essenziale di qualsiasi
sviluppo economico e sociale sostenibile. Si tratta, in particolare, di
sfidare tutte le forme di ingiustizia, opponendosi alla “economia dell’esclusione”, alla “cultura dello scarto” e alla “cultura
della morte”» 12. Papa Francesco ha incoraggiato i capi esecutivi a
promuovere «una vera mobilitazione etica mondiale che, al di là di
ogni differenza di credo o di opinione politica, diffonda e applichi
un ideale comune di fraternità e di solidarietà, specialmente verso i
più poveri e gli esclusi» 13.
A tale riguardo, la Santa Sede apprezza i diciassette «Obiettivi di
Sviluppo Sostenibile» proposti dal gruppo di lavoro (Gruppo aperto di lavoro sugli obiettivi di sviluppo sostenibile), che cercano di
affrontare le cause strutturali della povertà promovendo un lavoro
dignitoso per tutti. Allo stesso modo, la Santa Sede apprezza che la
11 «Elaborare e attuare un programma per lo sviluppo post-2015 capace di generare trasformazione» [N.d.R.]
12 Papa Francesco, Discorso ai membri del Consiglio dei Capi esecutivi, cit.
13 Ivi.
770
Pietro Parolin
documenti
maggior parte degli obiettivi e dei mezzi non rifletta i timori delle
popolazioni ricche riguardo alla crescita demografica nei Paesi più
poveri. Apprezza anche il fatto che gli obiettivi e i mezzi non impongano agli Stati più poveri stili di vita che di solito sono associati
alle economie avanzate e che tendono a mostrare disprezzo per la
dignità umana. Inoltre, per quanto riguarda l’Agenda di sviluppo
post-2015, l’incorporazione dei risultati del Gruppo aperto di lavoro sugli obiettivi di sviluppo sostenibile, insieme con le indicazioni
date dal Rapporto del comitato intergovernativo di esperti sul finanziamento dello sviluppo sostenibile e quelle che emergono dalle
consultazioni tra le agenzie, appare indispensabile per la realizzazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile e dell’Agenda di sviluppo
post-2015.
Proteggere i poveri dalla speculazione
Tuttavia, e malgrado gli sforzi delle Nazioni Unite e di tante persone di buona volontà, il numero dei poveri e degli esclusi sta crescendo non soltanto nei Paesi in via di sviluppo, ma anche in quelli
sviluppati. La «responsabilità di proteggere», come affermato prima,
si riferisce alle aggressioni estreme contro i diritti umani, ai casi di
grave spregio del diritto umanitario o alle catastrofi naturali gravi.
In modo analogo, c’è l’esigenza di prendere provvedimenti giuridici per proteggere le persone da altre forme di aggressione,
che sono meno evidenti ma altrettanto gravi e reali. Per esempio, un sistema finanziario governato solo dalla speculazione e
dalla massimizzazione dei profitti, o in cui le singole persone sono
considerate come oggetti usa e getta in una cultura dello spreco,
potrebbe equivalere, in alcune circostanze, a una offesa contro la
dignità umana. Ne consegue, pertanto, che le Nazioni Unite e i suoi
Stati membri hanno un’urgente e grave responsabilità verso i poveri
e gli esclusi, ricordando sempre che la giustizia sociale ed economica
è una condizione essenziale per la pace.
Imparare dalla storia
Signor Presidente, ogni giorno della 69ª Sessione dell’Assemblea
generale, e di fatto anche delle prossime quattro Sessioni, fino a novembre 2018, recherà con sé il triste e doloroso ricordo della futile e
disumana tragedia della prima guerra mondiale – una «inutile strage», come l’ha definita Papa Benedetto XV –, con i suoi milioni di
vittime e l’indicibile distruzione. Ricordando il centenario dell’inizio del conflitto, Sua Santità Papa Francesco ha formulato l’auspicio
che «non si ripetano gli sbagli del passato, ma si tengano presenti le lezioni della storia, facendo sempre prevalere le ragioLa responsabilità di proteggere della comunità internazionale
771
ni della pace mediante un dialogo paziente e coraggioso» 14. In
quell’occasione, il pensiero di Sua Santità si è concentrato in modo
particolare su tre aree di crisi: il Medio Oriente, l’Iraq, l’Ucraina.
Ha esortato tutti i cristiani e le persone di fede a pregare il Signore
perché «conceda alle popolazioni e alle Autorità di quelle zone la
saggezza e la forza necessarie per portare avanti con determinazione
il cammino della pace, affrontando ogni diatriba con la tenacia del
dialogo e del negoziato e con la forza della riconciliazione. Al centro
di ogni decisione non si pongano gli interessi particolari, ma il bene
comune e il rispetto di ogni persona. Ricordiamo che tutto si perde
con la guerra e nulla si perde con la pace» 15.
Signor Presidente, facendo miei i sentimenti del Santo Padre,
spero fervidamente che possano essere condivisi da tutti i presenti.
Porgo a tutti voi i miei migliori auguri per il vostro lavoro, fiducioso
che questa Sessione non lesinerà sforzi per porre fine al fragore delle
armi che caratterizza i conflitti in corso e che continuerà a promuovere lo sviluppo dell’intera razza umana, e in particolare dei più
poveri tra noi. Grazie, Signor Presidente.
14 Id.,
15 Ivi.
Angelus, 27 luglio 2014.
Il testo originale inglese e la traduzione in italiano, che qui riprendiamo, sono disponibili in <www.
vatican.va>, come tutti i documenti pontifici in esso citati. Titolo generale, suddivisione in paragrafi
e relativi titoli a cura della nostra Redazione.
772
Pietro Parolin
© sonia frangi
immagini
Sonia Frangi
Finestre 2014: Berlino
Apriamo la nostra finestra alla Bellezza. “Bello”, “bellezza”, “arte” sono
parole che usiamo quotidianamente, per definire un sentire di meraviglia inspiegabile che si desta quando soffermiamo lo sguardo su un
quadro, leggiamo una poesia, contempliamo un’opera architettonica.
Un sentire universale, di cui tutti dovrebbero poter fruire, grazie anche
alla politica, alla scuola, alla famiglia. Come dice Peppino Impastato nel
film I cento passi, «Bisognerebbe ricordare alla gente cos’è la bellezza.
Insegnargli a riconoscerla. A difenderla», affinché rimangano sempre
vivi la curiosità e lo stupore sul mondo.
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la nostra società
recensione
Dalla biblioteca di Aggiornamenti
Sociali, un libro da leggere
vetrina
Libri, film, eventi
segnalati dalla Redazione
bussola
bibbia aperta
Elementi di riflessione sociale
a partire da testi biblici
bibbia aperta
Mura e muri
di Giuseppe Trotta SJ
Redazione di Aggiornamenti Sociali
Q
uando, venticinque anni fa, crollò il
muro di Berlino, il cammino dell’umanità verso una pace più diffusa e una
maggiore cooperazione fra i popoli sembrava ricevere un nuovo slancio, grazie al
superamento della contrapposizione tra i
blocchi Est-Ovest che era all’origine della
cosiddetta “guerra fredda”.
A distanza di pochi anni, invece, un
altro crollo, quello delle Torri gemelle di
New York, sembra aver bloccato questo
processo, assumendo una valenza simbolica che legittima, per motivi di sicurezza, il mantenimento dei muri già eretti
in varie parti del mondo sull’esempio
di quello costruito a Berlino nel 1961,
nonché l’erezione di nuovi. Osservando
da questo punto di vista gli sviluppi della storia recente si potrebbe constatare,
come Qoelet, in modo un po’ cinico e
sconsolato: Niente di nuovo sotto il sole!
(cfr Ecclesiaste 1,9).
Fin dall’antichità, infatti, le mura
fortificate erano impiegate per difendersi
dagli attacchi dei nemici e manifestavano anche l’importanza della città e la
potenza di chi la governava. Così l’immaginario popolare ne ha fatto il simbolo
776
Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (776-780)
della sicurezza, associandole alla divinità,
garante ultima del tutto. Ad esempio, nel
mito greco, Laomedonte, uno dei re di
Troia, chiese a Zeus di rendere inespugnabile la città facendo edificare le sue
mura dagli dèi.
Gli autori biblici non fanno eccezione: Circondate Sion, giratele intorno,
contate le sue torri. Osservate le sue mura,
passate in rassegna le sue fortezze, per narrare alla generazione futura: Questo è il
Signore, nostro Dio in eterno (cfr Salmo
48); sanno, però, anche cogliere l’ambivalenza di ogni realizzazione umana, nel
cui significato simbolico leggono una
modalità di relazione fra gli uomini e
con Dio. In particolare, sono i profeti a
interpretare così la realtà delle mura e dei
muri in genere, aprendo in essi una breccia per guardare oltre.
Le mura come Alleanza
Comunemente si intende per profezia
la capacità di prevedere il futuro e vaticinarlo. Nella Bibbia, invece, si tratta piuttosto dell’abilità di interpretare l’accaduto
alla luce della fede nel Dio della storia
e di mettersi in sintonia con lo Spirito
bibbia aperta
per vedere dove passa la sua via qui e ora
e dove conduce. Infatti, molte profezie
bibliche sono state scritte post eventum,
cioè dopo aver visto le conseguenze degli
avvenimenti.
In alcuni testi particolari, noti come “apocalissi” (ovvero “rivelazioni”), la
profezia si evolve andando oltre i singoli eventi contingenti e i loro sviluppi e
fondando l’interpretazione della storia
sul suo compimento finale: il giudizio
di Dio, il giorno del Signore, quando Lui
stesso interviene a instaurare il suo Regno
sulla terra.
Il libro del profeta Isaia contiene un
testo del genere, la cosiddetta Apocalisse di Isaia (Isaia 24-27), in cui alcuni
avvenimenti sono letti alla luce del futuro escatologico (dal greco éschatos, che
vuol dire “ultimo”), il traguardo a cui la
storia tende come sua realtà definitiva.
Nei versetti 25,10b-26,3 (cfr riquadro),
il profeta accosta un’antica battaglia fra
gli ebrei e i moabiti risalente al tempo
dell’Esodo (XIII sec. a.C.) – di cui, però,
non abbiamo traccia – e il momento del
ritorno dall’esilio in Babilonia (VI sec.
a. C.). Entrambi gli eventi hanno la loro
cifra significativa nelle mura della città,
abbattute nel primo caso, rese salde nel
secondo.
Gli ebrei fuoriusciti dall’Egitto entrarono nella Terra promessa passando
da oriente. Pertanto, a un certo punto dovettero attraversare il territorio
di Moab, situato a est del Mar Morto,
ma i suoi abitanti cercarono di ostacolarli, chiamando un veggente, Balaam,
per maledirli. Il Signore, però, non lo
permise e Israele poté passare indenne.
Così nacque un’ostilità insanabile fra i
due popoli, tanto che il Deuteronomio
comanda perentoriamente: L’Ammonita
e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione,
entrerà nella comunità del Signore; non
vi entreranno mai perché non vi vennero
incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino quando uscivate dall’Egitto
e perché hanno assoldato contro di te Balaam, figlio di Beor, da Petor nel paese dei
due fiumi, perché ti maledicesse (Deuteronomio 23,4-5).
L’episodio assume, agli occhi del
profeta Isaia, un senso apocalittico, cioè
rivelativo dell’agire del Dio di Israele
nella storia: chi si oppone al suo piano
viene sbaragliato, nonostante la grandezza delle opere delle sue mani. Infatti, quando il Signore interviene, in quel
giorno, neanche le mura più alte e spesse
costruite dall’uomo possono opporsi e
restare in piedi, come un nuotatore, per
quanto abile, non può rimanere a galla
nel letame.
Al contrario, invece, la città del popolo eletto è resa inespugnabile proprio dalle sue mura, erette da Dio stesso, al punto da assumere il nome – che ne esprime
l’intima realtà secondo
la mentalità biblica – di
Isaia 25,10b-26,3
salvezza: Non si sentirà
25, 10 Moab sarà calpestato al suolo, come si pesta la paglia
più parlare di violenza nel
nel letamaio. 11 Là esso stenderà le mani, come le distende
tuo paese, di devastazione e
il nuotatore per nuotare; ma il Signore abbasserà la sua
di distruzione entro i tuoi
12
superbia, nonostante gli sforzi delle sue mani. L’eccelsa
confini. Tu chiamerai salfortezza delle tue mura egli abbatterà e demolirà, la raderà
vezza le tue mura e gloria
al suolo. 26,1 In quel giorno si canterà questo canto nel paele tue porte (Isaia 60,18).
se di Giuda: Abbiamo una città forte; egli ha eretto a nostra
Per i moabiti, quinsalvezza mura e baluardo. 2 Aprite le porte: entri il popolo
di, le fortificazioni sono
giusto che mantiene la fedeltà. 3 Il suo animo è saldo; tu gli
assicurerai la pace, pace perché in te ha fiducia.
un segno di superbia, un
Mura e muri
777
ostacolo posto davanti al corso inesorabi- dalla fedeltà all’alleanza e in questo conle degli eventi guidati da Dio verso il loro siste l’essere giusti.
compimento escatologico in un tentativo
Pertanto, come il Signore protegge
illusorio di salvarsi con le proprie mani, Israele e non permette a Moab di fermarper gli ebrei rientrati dall’esilio, invece, lo con una maledizione in vista del bene
sono l’immagine visibile della protezione, universale, così non risparmia di corregdel porto sicuro al quale il Signore con- gerlo quando, con il suo comportamento,
duce il suo popolo.
ostacola il compimento della sua opera
Questo genere di testi va sempre letto nella storia. Secondo gli storici ebrei che
nel contesto più ampio dell’intero mes- hanno narrato quell’evento nella Bibbia
saggio biblico, per non perdere di vista (cfr 2 Cronache 36) la caduta stessa di
la volontà universale di salvezza espressa Gerusalemme nel 587 a.C., con la distruda Dio mediante l’elezione di un popolo zione delle sue mura e la deportazione in
particolare e per non scambiare questo Babilonia, va proprio attribuita all’infesuo modo di agire per un arbitrio ingiu- deltà all’alleanza.
stificato. Infatti, lo stesso Isaia poco priDel resto, lo stesso profeta Isaia rima aveva affermato: Preparerà il Signore legge nella sconfitta dei moabiti quanto
degli eserciti per tutti i popoli, su questo Israele aveva già vissuto in prima permonte, un banchetto di grasse vivande, un sona nella vicenda dell’esilio, da lui debanchetto di vini eccellenti, di cibi succu- scritto nel Canto della vigna (cfr Isaia
lenti, di vini raffinati (Isaia 25,6).
5,1-7) con una metafora poetica imperCosì anche le mura non vengono ab- niata proprio sull’abbattimento del mubattute o tenute in piedi perché erette ro con cui venivano recintate le vigne
dagli uni o dagli altri, ma in virtù della per proteggerle dagli animali e dai ladri
loro relazione con questo progetto sal- (cfr riquadro).
vifico del Signore della storia: l’alleanza
Pertanto, a partire dall’esperienza
in termini biblici. Quelle della città di di Israele, tutti i popoli possono vedere
Moab sono rase al suolo in quanto sim- come non è possibile garantire pace e
bolo dell’opposizione a ciò che Dio vuo- sicurezza, di cui le mura erette da Dio
le realizzare mediante il popolo scelto da sono simbolo, a prescindere dalla giustiLui, mentre quelle della città di Giuda zia attesa dal Signore come manifestaziorestano salde perché rappresentano la concretizIsaia 5,4-8
zazione storica dell’alle4 Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non
anza. Infatti – il profeta
lo dice chiaramente – le abbia fatto? Perché, mentre 5attendevo che producesse uva,
porte delle sue mura si essa ha fatto uva selvatica? Ora voglio farvi conoscere ciò
che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si
aprono al passaggio del trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà
popolo giusto che mantie- calpestata. 6 La renderò un deserto, non sarà potata né
ne la fedeltà a quel piano vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò
divino. Non c’è un diritto di non mandarvi la pioggia. 7 Ebbene, la vigna del Signore
acquisito in base al quale degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda la
rivendicare il primato agli sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco
occhi di Dio, ma la pace spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida
e la sicurezza – di cui le di oppressi. 8 Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite
mura diventano un sim- campo a campo, finché non vi sia più spazio, e così restate
bolo – vengono assicurate soli ad abitare nel paese.
778
Giuseppe Trotta SJ
bibbia aperta
ne visibile della sua alleanza. Se il muro
comporta oppressione o esclusione, prima
o poi sarà abbattuto, chiunque sia il suo
costruttore, Moab o Israele: non si può
recintare e occupare tutto lo spazio e restate soli ad abitare nel paese!
La fine del muro
La rilettura profetica e quella apocalittica della storia, quindi, mostrano come l’opera di Dio consista nell’abbattere
ogni genere di realtà umana che possa
fare da ostacolo all’alleanza, sia i muri e
le mura reali, costruiti con pietre e mattoni, sia quelli virtuali, come addirittura
la legge.
Lo testimonia la stessa storia biblica:
nonostante il divieto del Deuteronomio,
infatti, proprio una donna moabita,
Rut, diventa la bisnonna del re Davide
(cfr Rut 4,13-22). È un caso paradossale,
ma emblematico, in cui un evento salvifico, quindi voluto da Dio, sembra contraddire la Legge, anch’essa proveniente
da Lui.
Rut, rimasta vedova e senza figli, si
rifiuta di lasciare la suocera ebrea, Noemi, a sua volta vedova, senza figli e in
più anziana, e la segue quando lei decide
di rientrare nel suo paese natio, Betlemme, per assisterla, accettando di condividere tutto con lei: dove andrai tu andrò
anch’ io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo
popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il
mio Dio (cfr Rut 1,16). Lì Rut lavora per
sostenere Noemi e accetta di sposare un
suo parente, Booz, per darle una discendenza. Gli anziani, da parte loro, riconoscono la validità del matrimonio dicendo
al marito: Il Signore renda la donna, che
entra in casa tua, come Rachele e Lia, le
due donne che fondarono la casa d’Israele
(cfr Rut 4,11)
Con questo gesto di pietà e di amore filiale Rut dimostra di essere entrata
pienamente nell’alleanza, andando ben
oltre le strettoie di un’interpretazione
legalistica dell’appartenenza al popolo e
diventando a pieno titolo parte di Israele.
L’ingresso di una moabita nella comunità
del Signore, allora, non è considerata una
violazione della Legge, anzi, ne rivela lo
spirito e fa di Rut una degna antenata anche di Gesù (cfr la genealogia di Matteo
1,1-16).
Il quale, da parte sua, mostra una
grande avversione per i muri. Quando un discepolo gli indica l’imponenza
e la ricchezza delle mura del tempio di
Gerusalemme, egli non si lascia impressionare, ma con lucida chiaroveggenza
esclama: «Vedi queste grandi costruzioni?
Non sarà lasciata qui pietra su pietra, che
non sia distrutta» (Marco 13,2). Questa
predizione di quanto poi effettivamente
faranno i Romani nel 70 d.C. è la parola
che interpreta quel fatto in una prospettiva più ampia: a più riprese, infatti, Gesù aveva insegnato che le realtà religiose,
se diventano segno di autoaffermazione
e autoreferenzialità, non sono conformi
alla volontà del Padre e saranno rimosse
(cfr la parabola dei vignaioli ribelli, Marco 12,1-12).
Gesù, del resto, realizza in se stesso
l’alleanza fra l’uomo e Dio in una forma
unica e irripetibile, che l’autore della lettera agli Efesini interpreta proprio come
distruzione di un muro di separazione:
Egli infatti è la nostra pace, colui che ha
fatto dei due un popolo solo, abbattendo il
muro di separazione che era frammezzo,
cioè l’ inimicizia, per mezzo della sua carne
(Efesini 2,14). L’inimicizia di cui si parla è sia quella fra l’uomo e Dio, generata
dal peccato e annullata da Gesù tramite
l’incarnazione e la passione, sia quella
fra i vari popoli, in particolare tra ebrei
e pagani, chiamati a formare un’unica
comunità di credenti. In questo senso,
il non meglio specificato muro di separazione può forse rimandare alla balaustra che separava la zona del tempio a cui
potevano accedere i pagani, il cortile dei
Mura e muri
779
gentili, da quella riservata agli ebrei: alta
un metro e mezzo, essa recava iscrizioni
con minacce di morte a quei pagani che
avessero osato oltrepassarla. Per altri si
tratta della legge giudaica, annullata da
Gesù, o di un uso puramente metaforico
del termine, senza connotazione religiosa
(cfr Best E., Lettera agli Efesini, Paideia,
Brescia 2001, pp. 304-311).
Al di là delle possibili interpretazioni, il senso è chiaro: con la sua vita,
morte e resurrezione Gesù ha distrutto
ogni tipo di barriere, segno di inimici-
780
Giuseppe Trotta SJ
zia, e, con esse, ogni genere di spazio
recintato, riservato ad alcuni e precluso
ad altri. I muri – reali e virtuali – ancora eretti in diversi luoghi del mondo segnano la distanza della nostra storia dal
compimento della redenzione e rendono
ancora più attuale e urgente l’opera profetica di una comunità del Signore aperta
e accogliente, costituita, come il profeta Geremia, sopra i popoli e sopra i regni
per sradicare e demolire, per distruggere
e abbattere, per edificare e piantare (cfr
Geremia 1,10).
tools
Expo Milano 2015
di Claudio Urbano
Giornalista pubblicista
«N
utrire il pianeta, energia per la
vita» è il titolo dell’Esposizione
universale che si svolgerà a Milano dal
1° maggio al 31 ottobre 2015. A sei mesi
dall’inaugurazione, ci chiediamo cosa sia
un’Esposizione universale, quali siano le
peculiarità dell’edizione italiana circa i
contenuti e la struttura dell’evento, ma
soprattutto quali ricadute possa avere per
il territorio che la ospita.
Che cos’è un’Esposizione universale
Un’Esposizione universale (generalmente abbreviata in Expo, dal termine
francese Exposition) «ha come principale
proposito l’educazione del pubblico. Si
possono esporre i mezzi a disposizione
dell’umanità per soddisfare i bisogni
della civilizzazione, mostrare i progressi
raggiunti in uno o più campi dell’attività umana, o le prospettive per il futuro».
Questa la ragion d’essere dell’evento,
enunciata dalla convenzione sottoscritta a
Parigi nel 1928 dagli Stati aderenti al Bureau International des Expositions (BIE),
ente internazionale che organizza le manifestazioni. Le esposizioni universali iniziarono però già nel 1851, con la «Grande
esposizione delle opere dell’industria di
tutte le nazioni» organizzata dalla Gran
Bretagna. Pensate con lo scopo di mostrare i risultati dello sviluppo scientifico
e tecnologico, in un mondo globalizzato
e caratterizzato da forme di innovazione
sempre più immateriali nel tempo hanno
proposto, più che novità tecniche, visioni
di possibili forme di sviluppo nei diversi
ambiti dell’azione umana, sottolineandone il tema della sostenibilità. Un orientamento che si è imposto soprattutto a
partire dall’edizione di Hannover del
2000 col titolo «Humanity, nature, and
technology», passando per l’edizione di
Shanghai del 2010 («Better city, better
life»), per arrivare al prossimo appuntamento di Milano «Nutrire il pianeta,
energia per la vita», e proseguire con dubai (Emirati Arabi Uniti) 2020, «Connecting Minds, Creating the Future».
Fiere tematiche universali con gli
Stati a fare da protagonisti, le esposizioni sono diventate per i Paesi soprattutto
un’occasione di public diplomacy, ovvero
di comunicazione diretta della propria
immagine su scala globale ai cittadinivisitatori, portando alcune eccellenze
Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (781-785)
781
nazionali o illustrando obiettivi di largo
respiro che si intendono perseguire. Seguendo una sensibilità sempre maggiore
a livello mondiale, alle Esposizioni hanno
partecipato in modo crescente anche le
organizzazioni non governative; la prossima edizione di Milano 2015 è stata inoltre aperta anche alle imprese private.
Pur essendo basato sulla partecipazione degli Stati, il modello di Expo non
prevede confronti istituzionali o obiettivi politici da perseguire; gli organizzatori
istituzionali si rivolgono a un pubblico
generalista, fattore che determina lo stile
dell’evento, in particolare per la forma e
lo scopo con cui vengono presentati i temi scelti come filo conduttore.
Tema e novità di Expo Milano 2015
La domanda guida della prossima
Expo è se sia «possibile assicurare a tutta
l’umanità un’alimentazione sufficiente,
buona, sana e sostenibile». Le priorità da
affrontare sono indicate nella food safety,
cioè la capacità di assicurare cibo e acqua
sani e salubri, e nella food security, ovvero
l’accesso sicuro a cibo e acqua sufficienti
per tutta la popolazione del pianeta.
Ci si richiama dunque a uno spettro
molto ampio di istanze legate all’alimentazione, probabilmente non tutte della
medesima urgenza o che è possibile porre
su scale di priorità differenti. Ad esempio,
l’esigenza di un Paese in via di sviluppo
di assicurare ai propri cittadini l’accesso a
una dieta completa può comportare sforzi differenti rispetto a quelli di economie
sviluppate, come diversa può essere la
sensibilità dell’opinione pubblica occidentale sui vari aspetti connessi al cibo.
Più nel dettaglio, durante l’Esposizione verranno illustrate nuove modalità di
produzione e commercio del cibo che ne
garantiscano la qualità e la piena disponibilità, soluzioni per un utilizzo sostenibile delle risorse naturali e innovative
nel trattamento del cibo anche rispetto ai
782
Claudio Urbano
gusti dei consumatori. Dal punto di vista
socioculturale si guarderà alla promozione dell’educazione alimentare da parte di
scuole e famiglie, si rifletterà sul rapporto
tra cibo e salute, si racconteranno le tradizioni alimentari come parte fondante
delle diverse culture e come ponte di
dialogo tra esse; infine, si guarderà alle
possibili forme di cooperazione internazionale per favorire risposte alla povertà
alimentare. Nonostante l’importanza
e l’urgenza delle questioni in gioco, gli
organizzatori di Expo hanno manifestato l’intento di affrontarle con lo spirito
di positiva fiducia nel progresso umano
tipico delle esposizioni universali e rappresentando l’energia vitale che il cibo da
sempre porta con sé.
Ogni Stato partecipante – 144,
rappre­sentanti il 94% della popolazione
mondiale –, presenterà le proprie eccellenze dal punto di vista della produzione
o trasformazione alimentare, oppure i
propri passi avanti rispetto alla sicurezza
alimentare della popolazione, avvalendosi
anche delle forme architettoniche originali dei padiglioni stessi, oppure attraverso processi di produzione degli alimenti
raccontati nel dettaglio, o ancora grazie
alla varietà di prodotti tipici che si troverà negli spazi dei singoli Paesi.
L’edizione italiana di Expo prevede
alcune novità riguardo alla disposizione
di Paesi e organizzazioni partecipanti nel
sito espositivo, volta a favorire una buona
visibilità per tutti e dunque, idealmente,
una posizione di parità agli occhi dei visitatori. Concretamente ciò avverrà o mediante la costruzione autonoma del proprio sito espositivo (padiglioni self-built)
oppure grazie alla scelta di un proprio
spazio all’interno di uno dei nove cluster
tematici, ovvero sei padiglioni collettivi
dedicati a filiere alimentari (riso, cacao,
caffè, frutta e legumi, spezie, cereali e
tuberi) e tre ad aree climatiche comuni
(bio mediterraneo, isole mare e cibo, zone
tools
aride). In tal modo si eviterà di ospitare
gli Stati più piccoli, come accadeva in
passato, in padiglioni di “secondo piano”.
Anche lo Stato della Santa Sede prenderà parte a Expo con un proprio padiglione – in cui saranno attive anche la
Conferenza Episcopale Italiana e la Diocesi di Milano – ispirato al versetto evangelico «Non di solo pane», nell’intento di
proporre una riflessione sugli aspetti della condivisione, della solidarietà e della
tutela delle risorse della Terra, ma anche
alla dimensione del nutrimento interiore
e spirituale dell’uomo.
Molte delle Organizzazioni non governative presenti alla manifestazione –
riunite in un unico soggetto, la Fondazione Triulza, a cui per ora hanno aderito
più di sessanta realtà – gestiranno per la
prima volta un proprio padiglione, la Cascina Triulza, una antica costruzione rurale già presente all’interno del sito espositivo. Nell’intenzione della Fondazione
questo spazio dovrà essere l’occasione per
far sì che le iniziative delle singole associazioni si traducano in visioni e proposte
capaci di raggiungere nel modo più ampio possibile l’attenzione dei visitatori e
dell’opinione pubblica.
Segnaliamo inoltre che la Caritas,
ai suoi differenti livelli e mediante 164
Caritas del mondo, sarà presente a Expo
attraverso una serie di iniziative diffuse.
Con Caritas e altri partner anche Aggiornamenti Sociali arricchirà di contenuti il
pre e durante Expo, con una serie di seminari, una tavola rotonda e cineforum
per riflettere e dialogare su cibo, ambiente e stili di vita, diritto al cibo e rapporto
tra cibo, culture e religioni.
Sfida e occasione
Dati l’ampiezza del tema, il numero
e la diversità dei partecipanti, la risposta
alla domanda iniziale sulla garanzia di
un’alimentazione sana e sicura per tutti
sarà inevitabilmente declinata con svaria-
te modalità mentre i visitatori potranno
costruirsi liberamente una propria mappa
di riferimento sui temi trattati. I padiglioni, pensati soprattutto per un pubblico di famiglie, offriranno occasioni di
riflessione e conoscenza, anche se punteranno più sull’aspetto della suggestione
e del coinvolgimento che non su quello
strettamente didascalico. Uno dei fattori
di maggiore attrattiva sarà la possibilità
di fare una sorta di giro del mondo dei
sapori, assaggiando quanto propongono
i ristoranti dei diversi padiglioni. Per chi
si fermerà più di un giorno a Milano o
in Italia, l’appuntamento sarà poi un’occasione di visita al territorio, considerato
che gran parte degli eventi organizzati
nel corso dei sei mesi di Expo saranno
all’esterno del sito espositivo.
I risultati della manifestazione saranno quindi da valutare al di là di quanto si
vedrà nei padiglioni. Come ricordato in
principio, Expo è innanzitutto un evento
di public diplomacy, dove ciò che conta è
l’immagine che gli Stati – in primo luogo
l’Italia – e gli altri partecipanti trasmetteranno al pubblico. Tuttavia altrettanto
importanti sono le occasioni di scambio
che Expo consente di rafforzare. Alle attività di coordinamento dell’Italia coi Paesi
partecipanti si affiancano infatti occasioni di rapporti diplomatico-commerciali
sia tra gli stessi Paesi sia con le istituzioni
italiane e con le imprese, che possono
presentarsi sui mercati sfruttando l’appuntamento di Expo come catalizzatore
d’attenzione. Per il settore agroalimentare
italiano, in particolare, Expo potrà essere
l’occasione per proporre la sua agenda su
una serie di priorità: contrasto alla povertà alimentare a partire dall’Europa,
riduzione degli sprechi alimentari, modelli di produzione agricola orientati alla
biodiversità e lotta alla contraffazione
alimentare.
Nonostante l’evento non preveda
esplicitamente occasioni di confronto
Expo Milano 2015
783
istituzionale tra Stati, il Governo italiano
ha annunciato la possibilità di alcuni di
questi momenti, nei quali presentare gli
impegni delle Nazioni Unite per il contrasto alla povertà dopo il 2015, anno fissato per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo del millennio, o quelli dell’Unione
Europea in occasione dell’anno europeo
della cooperazione (2015).
Le aspettative per il territorio
diversi poteri di deroga alle norme sugli
appalti per quelli legati ad Expo, cosa che
ha rafforzato le obiezioni di chi considera
la manifestazione soprattutto una ghiotta occasione di arricchimento per alcune
imprese e un terreno fertile per l’illegalità. In effetti purtroppo si deve constatare che Expo non è stata immune dalle
inchieste giudiziarie, tuttora in corso, per
presunta corruzione nell’appalto della cosiddetta “piastra”, della Via d’acqua Sud e
in altri lavori sul sito espositivo.
Mentre nessuna delle opere essenziali desta gravi preoccupazioni rispetto ai
tempi, alcune domande sono destinate
a rimanere aperte: sarà un evento realmente accessibile a tutti? Cosa resterà
L’appuntamento del 2015 è stato da
subito presentato come un’importante
occasione di rilancio internazionale di
Milano e dell’Italia, da cogliere a maggior ragione nell’attuale contesto di crisi
economica. I contrasti tra le istituzioni iniziati all’indomani
Expo 2015: il sito
dell’aggiudicazione italiana della manifestazione La cosiddetta “Piastra” è l’infrastruttura più importante del
(31 marzo 2008) e consu- Sito espositivo. Si tratta della sua ossatura e consiste in tre
matisi soprattutto sul peso elementi principali.
da esercitare e sul ruolo da 1. Le Opere idriche. Il Canale d’acqua che si sviluppa
ricoprire durante la prepa- lungo tutto il perimetro dell’area Expo; la grande piazza
razione dell’evento, hanno d’acqua circolare (Lake Arena), alimentata dal Canale,
rallentato fin dall’inizio i che sarà teatro di spettacoli e giochi d’acqua; le vasche
lavori, tanto che, solo per di fitodepurazione, per depurare le acque piovane grazie
fare alcuni esempi, i ter- all’azione di piante idrofite. Il Canale d’acqua perimetrale
verrà alimentato grazie a un collegamento col canale Vilreni privati dove sorgerà loresi (Via d’acqua Nord), mentre l’acqua in uscita verrà
l’esposizione sono stati ac- convogliata fino alla Darsena di Milano (Via d’acqua Sud).
quisiti dagli organizzatori Il progetto di quest’ultimo tratto prevedeva la realizzazione
solamente nel giugno 2011 di un nuovo canale attraverso i parchi delle zone ovest di
e la nomina governativa Milano, ma è stato via via ridimensionato a causa delle
del commissario unico proteste di cittadini e residenti, che ritengono l’opera tropper Expo, Giuseppe Sala po invasiva. L’acqua in uscita dall’area Expo sarà dunque
(a capo anche della socie- portata fino alla Darsena tramite una condotta quasi intetà pubblica organizzatrice, ramente interrata. A causa di queste modifiche l’opera non
Expo 2015 spa), con cui si sarà terminata entro l’inizio di Expo.
sono definitivamente su- 2. I Percorsi. I principali sono costituiti dai due grandi assi
perati i contrasti e le so- ortogonali che attraversano il sito richiamando la struttura
delle città romane: il “Decumano”, battezzato World Avevrapposizioni di ruoli tra nue, e il “Cardo”. Essenziali alla circolazione sono poi tutti
istituzioni, è del maggio i percorsi secondari che si diramano dal “Decumano”, le
2013.
piazze, le passeggiate lungo il bordo del Canale e i ponti
L’inevitabile rincorsa sullo stesso.
per recuperare il tempo 3. Gli Impianti tecnologici. Includono gli impianti di diperduto ha portato tra stribuzione dell’energia elettrica, delle telecomunicazioni,
l’altro alla concessione di delle acque.
784
Claudio Urbano
tools
Bureau International des Exposition, <www.bieparis.org>.
Expo Milano 2015, <www.expo2015.org>.
Fondazione Triulza, <www.fondazionetriulza.org>.
Open Expo (dove vengono aggiornati i dati sull’avanzamento delle opere, sui costi e sugli appalti
di Expo), <http://dati.openexpo2015.it/>.
Ambrosianeum Fondazione Culturale (2014),
Rapporto sulla città. Milano 2014. Expo, laboratorio metropolitano cantiere per un mondo nuovo, a cura di R. Lodigiani, FrancoAngeli, Milano.
di Milano, che in uno studio del dicembre 2013 (Dell’Acqua, Morri e Quaini
2013) hanno calcolato in 10 miliardi di
euro l’impatto positivo che Expo porterà
al PIL italiano da qui al 2020. La stessa
ricerca stima in 191mila i posti di lavoro
prodotti nel periodo 2013-2020, di cui
67mila durante l’Expo e 89mila dopo la
manifestazione, dopo i 35mila del biennio 2013-2014. I posti di lavoro stabili
generati grazie all’impatto dell’indotto di
Expo sono calcolati invece in 12.400. Ad
oggi, però, almeno il dato sulle assunzioni precedenti all’evento sembra sovrastimato, visto che, secondo quanto rilevato
dall’Osservatorio sul Mercato del Lavoro
della Provincia di Milano al 30 giugno
2014, le assunzioni operate da imprese
di Milano e provincia direttamente impegnate nella preparazione di Expo sono
state solo 3.700.
Quali che siano le ricadute sociali ed
economiche di Expo, l’auspicio è che il
lascito sui temi dell’alimentazione possa
avere una certa rilevanza nella misura in
cui ad esso seguiranno politiche nazionali
e internazionali capaci di interpretare le
vere priorità messe in luce da tutti gli attori in gioco durante la manifestazione.
Dell’Acqua A. – Morri G. – Quaini E. (2013),
L’indotto di Expo. Analisi di impatto economico,
Milano, 20 dicembre, <www.mi.camcom.it/documents/10157/1934307/intervento-ImpattoExpoleggero.pdf>.
risorse
in eredità ai cittadini e al territorio milanesi che avranno ospitato l’Expo? La
storia insegna che dopo i grandi eventi
mondiali vi sono difficoltà ricorrenti:
dall’integrazione tra le grandi opere e il
contesto urbano al riuso di attrezzature e
infrastrutture appositamente realizzate,
dall’incremento del consumo di suolo
alle emissioni inquinanti.
Dal punto di vista sociale e istituzionale, si stanno mettendo in campo grandi sforzi per rendere l’evento Expo (sito
espositivo, servizi, trasporti) realmente
accessibile al più ampio numero di persone. Sul versante economico, sebbene
sia prematuro offrire considerazioni definitive, si può segnalare come l’interesse
per l’evento, anche a livello internazionale, sia in costante crescita, tanto che gli
organizzatori puntano a vendere la metà dei venti milioni di biglietti previsti
prima dell’inizio della manifestazione.
Secondo le stime di Expo SPA i costi di
preparazione diretti (circa 2,5 miliardi di
euro) dovrebbero essere bilanciati dagli
investimenti dei Paesi partecipanti e dai
ricavi dell’evento. Una stima più generale è invece stata fatta dall’Università
Bocconi e dalla Camera di Commercio
Provincia di Milano – Osservatorio Mercato del
Lavoro (2014), Tracciatura avviamenti EXPO.
Monitoraggio dell’impatto occupazionale, 30
giugno, <http://lavoro1.provincia.milano.it/oml/
upload/UpdViewer.aspx?id=46&tbl=tbl_immagini>.
Expo Milano 2015
785
Maurizio Ambrosini
Immigrazione irregolare
e welfare invisibile
Il lavoro di cura attraverso le frontiere
recensione
il Mulino
Bologna 2013
pp. 296, € 27
di Sergio Villari
Dottore di ricerca in Sociologia interculturale
C
he relazione sussiste nel mondo
contemporaneo tra alti livelli di
immigrazione irregolare e diffusione nei
Paesi ricchi di un sistema di welfare in
gran parte informale, governato dalle
famiglie, basato sul lavoro di immigrati
(soprattutto donne) spesso privi dei documenti necessari a risiedere e/o lavorare
«legalmente» e tollerato, o addirittura
sussidiato, dal settore pubblico?
Da questa domanda trae spunto la
riflessione sviluppata nel nuovo libro di
Maurizio Ambrosini, sociologo tra i più
attenti studiosi in Italia delle migrazioni.
Nell’indagare il fenomeno dell’immigrazione irregolare, egli adotta un approccio
dinamico e multicausale, che cerca di
cogliere le interazioni tra il livello macro
e quello microsociale, e in cui i risultati
di numerose ricerche empiriche vengono
interpretati alla luce di alcune delle più
interessanti teorie prodotte negli ultimi
anni dal dibattito internazionale in quel
settore della sociologia denominato Migration studies.
Indagare le cause della diffusione
dell’immigrazione irregolare in Italia e
in tutto il Nord del mondo spinge l’A. ad
786
Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (786-788)
analizzare quelle caratteristiche assunte
dalle economie e dai sistemi sociali dei
Paesi riceventi che rendono i migranti
una risorsa indispensabile per il funzionamento delle nostre società (c. I). Se, infatti, i Governi utilizzano la lotta all’immigrazione irregolare per riaffermare la
propria legittimità minata dai processi di
globalizzazione, da ampi settori delle società riceventi emergono vari interessi, tra
cui quelli delle famiglie, che spingono in
direzione di una maggiore apertura delle
frontiere. È da queste contraddizioni tra
politiche restrittive e bisogni economici
e sociali che trae origine l’immigrazione
irregolare (cfr pp. 45-53).
Tuttavia l’A. rifiuta una visione dei
migranti come vittime passive di condizionamenti esterni, di natura politica ed
economica, che li sovrastano. Se l’immagine prevalente degli immigrati irregolari
è quella stereotipata di malfattori, di vittime o eroi (cfr pp. 27-30), egli preferisce
considerarli attori sociali dotati di autonomia e capacità d’iniziativa (agency).
In particolare, ricollegandosi all’innovativo filone degli “studi sul benessere”,
sottolinea l’importanza delle pratiche
recensione
quotidiane messe in atto dai migranti:
«il riferimento alle pratiche sottintende
che le capacità strategiche degli immigrati non autorizzati incontrano dei limiti,
ma non di meno che attraverso la tenace
concatenazione delle varie azioni della vita quotidiana e la ricerca di risposte alle
difficoltà che incontrano, essi perseguono
propositi di inserimento lavorativo, indipendenza economica, sollecitudine per i
familiari, emersione alla legalità, radicamento nel territorio» (p. 135).
La partecipazione alla vita della comunità locale, attraverso il lavoro o la
scuola dei figli, consente agli immigrati
non autorizzati di acquisire forme di riconoscimento sociale e così di accedere a
istituzioni e opportunità. Ne deriva che,
come ha mostrato la sociologa statunitense Saskia Sassen, la cittadinanza non
è soltanto un insieme di diritti concessi dallo Stato, ma un processo che può
originarsi dal basso, attraverso le pratiche messe quotidianamente in atto (cfr
p. 137).
L’ambito privilegiato scelto per cogliere l’interazione tra fattori strutturali
e agency dei migranti è il lavoro domestico e assistenziale, che viene dapprima
analizzato a livello macrosociale (c. II), ricercando le cause all’origine di una nuova
domanda di lavoro espressa dalle famiglie
occidentali, per lo più di classe media, ma
anche di condizione più modesta, orientate a reperire sul mercato la fornitura di
servizi di cura. L’incremento della popolazione anziana che necessita assistenza e
la maggiore partecipazione delle donne
al lavoro extradomestico hanno infatti
ridotto la capacità delle famiglie di assolvere a quei compiti di cura che sono loro
tradizionalmente assegnati. Ma a fronte
di questi mutamenti non vi è stato né un
adeguato sviluppo dei servizi pubblici, né
una più equa redistribuzione dei compiti
all’interno delle famiglie, che pertanto si
rivolgono al mercato (cfr pp. 81-87).
Così avviene l’incontro con l’offerta
di lavoro da parte degli immigrati, principalmente donne, spesso in condizione irregolare, alle quali continua a essere affidata la cura di anziani, bambini e malati.
Il lavoro domestico e assistenziale, specie
se in coabitazione, offre loro la possibilità
di soddisfare alcuni bisogni: fornisce un
tetto e un salario, permette di risparmiare
e inviare rimesse, le protegge nei confronti delle autorità (cfr p. 105). Ha così preso
corpo, in modo più evidente nell’Europa
meridionale – sebbene ormai il modello si
diffonda in tutto il Nord del mondo – un
sistema di welfare informale, parallelo a
quello ufficiale, gestito direttamente dalle
famiglie al di fuori degli schemi di regolazione pubblica.
Dopo aver inquadrato il fenomeno a
livello macrosociale, lo sguardo si sposta
su quello micro (c. III). Qui l’A. svolge
un’analisi dell’esperienza vissuta dalle migranti impiegate nella fornitura di sevizi
di cura, e, in particolare, nell’assistenza
a domicilio di persone anziane, definite
nel linguaggio comune «badanti», termine svalutante che riflette la tendenza a
sminuire la pesantezza e la delicatezza dei
compiti loro affidati (p. 89). La vita delle
care workers viene indagata richiamando
i risultati di una serie di ricerche svolte
nell’ultimo decennio in varie Province
d’Italia, con l’intento di svelare le risorse e le pratiche che consentono a queste
lavoratrici, così come ad altri immigrati
privi di documenti, di sopravvivere, di
integrarsi nel tessuto socioeconomico e,
in alcuni casi, di porre le basi per l’emersione dall’irregolarità.
Al centro c’è ovviamente il lavoro,
definito come l’architrave delle strategie
di insediamento dei migranti non autorizzati (cfr p. 146). La sua importanza va
al di là del reddito che procura, perché si
connota come l’unica fonte di legittimazione per i nuovi arrivati in Paesi in cui
la presenza dei migranti viene giustificata
Immigrazione irregolare e welfare invisibile
787
solo in proporzione a quanto sia ritenuta
funzionale alle economie delle società riceventi. Nel caso delle care workers, a ciò
si aggiunge l’utilità sociale del loro lavoro,
aspetto che le aiuta a sopportare le dure
condizioni di vita cui sono sottoposte e
la svalutazione culturale nei confronti di
un’occupazione giudicata servile (p. 152).
Ancor più decisive appaiono quelle
risorse che scaturiscono dalle relazioni
sociali in cui sono coinvolti gli immigrati. Per le lavoratrici occupate in attività
di cura, particolarmente rilevante appare
quella che l’A. definisce «familiarizzazione», ossia il coinvolgimento in relazioni
parafamiliari con le famiglie italiane
datrici di lavoro (pp. 170-171). Viene
così analizzato il complesso intreccio di
rapporti con la persona assistita e i suoi
cari, tra cui spicca la care manager, una
nuova figura espressione dei mutamenti
negli assetti familiari della società postindustriale. Si tratta di un familiare
dell’anziano, spesso una figlia, che svolge
un ruolo di regia del lavoro di cura, assumendosi la responsabilità delle questioni
burocratiche, economiche e di relazione
con l’esterno. Dalle interviste emerge un
quadro carico di ambivalenze, in cui relazioni di lavoro e dimensioni affettive si
sovrappongono e che può vedere le lavoratrici vittime di invadenze nella propria
sfera privata, ma anche beneficiarie dei
vantaggi derivanti dalla disponibilità delle famiglie a fornire aiuti oltre gli obblighi contrattuali (pp. 171-183).
Problematiche appaiono anche le relazioni che legano l’immigrata al proprio
Paese natio, in particolare ai figli rimasti
in patria e ai care takers sostitutivi – spesso la madre o la sorella – con cui le madri
migranti formano un «triangolo dell’accudimento». Ai problemi della maternità
attraverso i confini nazionali l’A. dedica
una particolare attenzione (cap. IV), mostrando le differenze interne alle famiglie
transazionali. Non emigrano più soltanto
788
Sergio Villari
giovani madri provenienti da Paesi lontani che lasciano a casa figli ancora piccoli,
ma anche donne in età matura, che spesso si fanno carico delle esigenze di più generazioni, non interessate a ricongiungere
i figli (cfr pp. 204-215). D’altra parte, la
strada dei ricongiungimenti è spesso impervia, specialmente quando avvengono dopo lunghe separazioni che hanno
inevitabilmente modificato abitudini,
mentalità e stili di vita dei componenti
della famiglia, obbligandoli a un difficile
riadattamento alla vita in comune, per di
più in un ambiente non sempre ospitale
e dovendo fronteggiare problemi nuovi,
fonte di stress e delusioni (cfr pp. 226235).
Queste considerazioni spingono l’A.
ad affrontare la spinosa questione del
drenaggio di risorse di cura nei confronti
delle società di provenienza (care drain).
Se i Paesi ricchi importano dal Sud del
mondo risorse di accudimento per fronteggiare le nuove sfide poste dai mutamenti demografici e culturali, ciò provoca un depauperamento dei sistemi di
protezione sociale delle famiglie d’origine
(cfr pp. 235-245). Ma quanto è sostenibile nel lungo periodo un sistema nel quale
il Nord del mondo ricava «beni comuni
socioemozionali» dai Paesi poveri, scaricando interamente su quest’ultimi i costi umani che tale privazione comporta?
Come afferma l’A., «le società profittatrici dei beni comuni del Sud del mondo
cercano di mantenere una posizione di
privilegio, importando le madri e ostacolando il ricongiungimento dei figli. Ma a
un certo punto, sotto regimi democratici,
questo equilibrio asimmetrico diventa insostenibile. I vincoli affettivi delle madri
migranti irrompono sulla scena, chiedendo alle società riceventi di includerli
nello spazio sociale legittimo» (p. 258). Il
Nord del mondo dovrà prendere atto di
tale asimmetria e farsi carico dei legami
familiari negati delle madri migranti.
vetrina
Enzo Bianchi
Essere presbiteri oggi
Edizioni Qiqajon, Magnano (Bi) 2014, pp. 154, € 9
I
mpegnato ormai da tempo a riflettere
«sulla figura del presbitero, sulla sua
identità e sul ministero da lui svolto» (p.
9), Enzo Bianchi, priore della comunità
monastica di Bose, ritorna nuovamente
su questi temi toccando alcuni aspetti che ritiene «più decisivi da un punto
di vista spirituale» e sui quali pensa «di
poter dare, come monaco, un contributo
specifico» (p. 8).
Si tratta, in effetti, di tre grandi capitoli della vita di un prete: la preghiera, il celibato e il cammino personale di
santificazione. Ciascuno di questi temi è
affrontato dapprima con una prospettiva
ampia. L’A. intende innanzi tutto mettere in luce il senso e la rilevanza di queste pratiche per la vita di ogni cristiano,
piuttosto che andare immediatamente a
considerarne i riflessi nella vita di un prete. In questo modo le sue riflessioni, che
molto si fondano sulla Bibbia e la patristica, si rilevano interessanti per qualunque credente, come quando tocca il tema
della «fatica della preghiera» (p. 17).
Un quarto tema, preso
in considerazione anche
dall’esortazione apostolica
Evangelii gaudium di papa
Francesco, attiene invece
più strettamente al ministero presbiterale ed è
quello della predicazione.
Al riguardo Bianchi ricorda che
«nonostante il rinnovamento innescato
dal Concilio Vaticano II, l’omelia continua a essere il punto su cui si fa fuoco da
più parti» (p. 110). Tra le diverse suggestioni contenute nel libro è di certo centrale il richiamo biblico alla predicazione
di Gesù in Luca 4,21. Le «parole di Gesù
nella sinagoga di Nazaret contengono i
tre elementi costitutivi di ogni omelia: la
Scrittura, proclamata nell’oggi a una precisa assemblea» (p. 141). La fedeltà a questi elementi è allora considerata una via
perché l’omelia posso assolvere al compito
proprio di annunciare la buona notizia e
proporre la conversione di vita.
Giuseppe Riggio SJ
Giovanni Cucci
Abitare lo spazio della fragilità
Oltre la cultura dell’homo infirmus
Ancora-La Civiltà Cattolica, Milano 2014, pp. 159, € 16
A
prendo il suo libro con il ritratto
del protagonista ossessionato dalle
malattie e per questo incapace di vivere
del film Hannah e le sue sorelle di Woody Allen, Giovanni Cucci ci introduce a
un aspetto che caratterizza sempre più le
società occidentali negli ultimi decenni:
la ricerca spasmodica del benessere psicofisico e la crescita delle patologie, in particolare quelle psichiche (ricordiamo che
negli ultimi 40 anni sono
triplicati i disturbi censiti
dal Manuale diagnostico e
statistico dei disturbi mentali).
Il libro non intende
criticare la medicina, la
psicologia o la psichiatria (tra l’altro l’autore è uno psicologo
a sua volta), ma è una presa di distanza
789
da una proposta culturale sempre più diffusa, definita “cultura terapeutica”. Con
questa espressione si intende «la tendenza
a esasperare l’aspetto malato delle persone» (p. 7) accompagnata dal messaggio,
trasmesso fin dalla più tenera età, «che
siamo troppo fragili per affrontare le difficoltà della vita e che è possibile al massimo limitare i danni, facendosi curare»
(p. 32). Si delinea così una nuova figura
di uomo, strutturalmente malato e privo
del gusto di vivere (l’homo infirmus), che
prende il posto di quello capace di trasformare il mondo (homo faber).
L’A. non si limita a registrare l’emergere di questa tendenza e a segnalarne le
criticità, ma elabora una visione alternativa che si propone di ridare pregnanza
all’esistenza umana, attribuendo un ruolo centrale all’educazione e sottolineando
l’importanza che vi sia «un orizzonte di
valori capaci di superare la dimensione
puntuale del qui e ora» (p. 124). Una
strada necessaria da percorrere perché
«quando non trova un significato per la
propria vita l’uomo, anche se in buona salute, finisce per scegliere volontariamente
la morte» (p. 128).
Giuseppe Riggio SJ
Sonia Scarpante
La scrittura terapeutica
Pubblicato a cura dell’Autrice, pp. 228, € 18
S
pesso è difficile, a volte
anche molto doloroso,
ma alla fine sempre liberatorio e, per questo, terapeutico. Stiamo parlando
dello scrivere di sé, del
mettersi a nudo nero su
bianco, del tradurre in
parole emozioni ed esperienze di vita.
In questo consiste la pratica della
scrittura terapeutica, di cui ci parla l’A.
nell’omonimo volume, testimonianza diretta di come la malattia può diventare
occasione per riscoprirsi, ma anche strumento indiretto che dà voce alle tante
persone che hanno sperimentato questa
via di guarigione “spirituale”, prima ancora che fisica.
I numerosi scritti riportati dall’A.,
che si alternano per tutta la lunghezza
del libro alle sue riflessioni su modi e i
tempi in cui la scrittura terapeutica è diventata parte integrante del suo percorso
di vita, hanno alcuni tratti in comune.
Trasmettono tutti la fatica del raccontare
790
di ciò che più intimamente riguarda la
nostra vita, illuminando con coraggio anche gli angoli più bui e abbandonandoci
esclusivamente alla sincerità, ma lasciano
trasparire anche il sollievo profondo che
segue alla fatica fatta: ogni scritto sembra
brillare della luce che rincuora e rassicura
quando si giunge all’uscita da un tunnel.
Scrivere di sé è dunque un esercizio
duro ma irrinunciabile per trovare la
propria strada, comprendere la propria
storia, rileggere il proprio passato con gli
occhiali giusti per valorizzare il presente e
inquadrare meglio il futuro. Un esercizio,
sembra voler dire Sonia Scarpante, che
non è appannaggio esclusivo delle persone malate, conforto e occasione per chi
si trova volente o nolente nella sofferenza
fisica, una sorta di salvagente nell’emergenza.
Scrivere è terapeutico, perché non si
finisce mai di conoscersi, che si sia sani
o malati. E, forse, è questo il conforto
più grande.
Francesca Garré
vetrina
Angela Biscaldi
Etnografia della responsabilità educativa
Archetipolibri, Bologna 2013, pp. 260, € 21
I
l volume presenta i frutti di una ricerca sul concetto di responsabilità
nelle relazioni familiari, frutto di un
progetto interuniversitario e cofinanziata dal MIUR e durata sul campo dal
2010 al 2012. Angela Biscaldi, docente
di Antropologia culturale, ne presenta i
risultati in modo agile, evitando di dilungarsi in spiegazioni fumose e teoriche
ma lasciando che siano le parole di genitori ed educatori a far emergere come
il concetto di responsabilità negli ultimi
decenni sia mutato in Italia in modo radicale. Un concetto che oggi sembra «a
stento sopportabile da un adulto e da cui
un bambino deve essere protetto il più
a lungo possibile», arrivando così a generare una sorta di «disaffezione sociale
al concetto di responsabilità in campo
educativo» (p. 8).
La ricerca muove proprio da questa “istantanea” della società, dalla
convinzione che non è
possibile perdere l’uso
della parola “responsabilità”, pena perderne
il significato, e che la
pratica della responsabilità non può
essere accantonata. Il volume articola
non solo le voci di genitori ed educatori,
ma cerca anche di fornire una risposta alla domanda su quale sia la responsabilità
di un bambino e offre uno sguardo su
come le famiglie migranti vivono il rapporto con la responsabilità. Una lettura
agile, profonda, rigorosa, per riflettere
su un concetto sempre più a rischio di
estinzione.
Francesca Ceccotti
Appuntamenti
Padova, 8 novembre
Fondazione Lanza, AC, ACLI, Agesci,
CSI e Noi Associazione organizzano il
Convegno Fisp & Openfield 2014 «Economia “casa” nostra». Dopo l’apertura
del vescovo della diocesi, mons. Antonio
Mattiazzo, interverranno Luigino Bruni,
dell’Università Lumsa di Roma; Lorenzo
Biagi, Segretario della Fondazione Lanza;
Paolo Foglizzo, della nostra Redazione.
Ore 10-16, Aula Magna della Facoltà Teologica del Triveneto, via del Seminario, 29.
Padova, 10 novembre e 1º dicembre
Nell’ambito del programma di seminari «Il Veneto dei Valori. Percorsi per il
quarto Veneto», promosso da Fondazione Lanza, Etimos Foundation e Fondazione E. Zancan, si terranno gli incontri
«Le relazioni che generano valore» (30
novembre), e «Welfare generativo per
una maggiore inclusione sociale» (1º
dicembre); via Dante 55; ore 17-19.30.
Info: www.fondazionelanza.it
Macerata, 14 novembre
Il Circolo di cultura politica Aldo Moro
organizza l’incontro aperto al pubblico
«Ri-partire dalla buona politica», che
vedrà come relatore Bartolomeo Sorge
SJ. Domus San Giuliano, via Cincinelli
4; ore 21.
791
Milano, 6 novembre
Gli invincibili è il titolo del libro di Marco Franzoso (Einaudi, Torino 2014) che
verrà presentato presso la Galleria San
Fedele (via Hoepli, 4) alle ore 18. Interverrà, oltre all’A., Chiara Tintori della
nostra Redazione.
Roma, 20 novembre
In occasione del 24º anniversario della nascita del Servizio dei Gesuiti per i
Rifugiati, JRS Internazionale e Centro
Astalli invitano al colloquio «Le frontiere dell’ospitalità», tra p. Adolfo Nicolás,
preposito generale della Compagnia di
Gesù, e p. Federico Lombardi, direttore
Sala Stampa della Santa Sede, introdotto
da testimonianze dalla Siria. Info e prenotazioni: Centro Astalli: 06.69925099
- astalli@jrs.net; JRS International:
06.69868 465 - international@jrs.net
Monza, 20 novembre
L’Associazione culturale Nova Luna organizza una serata dal titolo «Nutrire il
pianeta?». Interverranno Franca Roiatti
(giornalista) e Chiara Tintori, della nostra Redazione. Modera Enrico Casale,
giornalista. Via Turati-Piazza Castello,
Binario 7, Sala E; ore 21.
Milano, 24 novembre
Alle ore 18, presso il salone ACLI di
via della Signora 3, Giacomo Costa SJ
interverrà a un incontro pubblico sulle
792
tematiche economiche e sociali presenti nella esortazione apostolica Evangelii
Gaudium di papa Francesco, organizzato dal Centro Ecumenico Europeo per
la Pace delle ACLI.
Milano, 25 novembre
Giacomo Costa SJ parteciperà a una serata promossa dalla Commissione Cultura della Parrocchia di Santa Maria
Bianca della Misericordia al Casoretto,
per confrontarsi sui risultati del Sinodo
sulla famiglia. P.za S. Materno, 15; ore
21. Info www.santamariabianca.it
Milano, 27 novembre
Prosegue l’itinerario dell’Associazioni
Giovani Coppie del San Fedele, con
l’incontro dal titolo «Serena…mente
oltre la tempesta del cuore», tenuto da
Marilia Albanese, studiosa di psicologia
indiana e conselour. Sala Ricci, p.za S.
Fedele 4; ore 21.
Bolzano, 1° dicembre
«Cominciare dal basso» è il titolo della
serata che vedrà come ospiti Bartolomeo
Sorge SJ e don Stefano Stimamiglio
(redattore delle riviste Credere e Jesus),
all’interno dell’itinerario «Le vie del sacro», promosso tra gli altri dalla Diocesi di Bolzano-Bressanone e dalle ACLI.
Obiettivo dell’incontro è dialogare sulla
Chiesa alla luce degli stimoli lanciati da
papa Francesco. Teatro Cristallo; ore
20.30. Info: www.teatrocristallo.it
aggiornamenti sociali
novembre 2014
editoriale
Giacomo Costa SJ
Ebola, o le basi biologiche della solidarietà709-716
Poste Italiane SpA - Spedizione in a. p. - DL353/2003 (conv. in L. 27/02/2004, n.46), art.1, c. 1 DCB Milano € 5,00
mappe
OLTRE LA NOTIZIA
Alleanza contro la povertà in Italia
Per un piano nazionale contro la povertà.
La proposta del Reddito di inclusione sociale (REIS)
718-724
APPROFONDIMENTI
Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi
Spending review all’italiana
726-736
Paolo Carelli
I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni
738-748
CRISTIANI E CITTADINI
Francesco Pistocchini
Un’agenda per il diritto al lavoro dignitoso
750-756
VOCI DEL MONDO
Vincent D. Rougeau
Verso la libertà. Gli USA a cinquant’anni
dal Civil Rights Act
757-762
DOCUMENTI
Pietro Parolin
La responsabilità di proteggere
della comunità internazionale
763-772
IMMAGINI
Sonia Frangi
Finestre 2014: Berlino
773-774
bussola
bibbia aperta / Mura e muri
di Giuseppe Trotta SJ
776-780
tools / Expo Milano 2015
di Claudio Urbano
781-785
recensione / Immigrazione irregolare e welfare invisibile
di Sergio Villari
786-788
vetrina / Libri, film, eventi
789-792