LA LUCCIOLA Gennaio 2014 1 INDICE Editoriali: Editoriali dei direttori di Sofia Zollo e Guido Panzano…………………………………….…...............3 Articoli: Neoliberismo: globalizzazione non intelligente di Daniele Marcelli…………………………………..4-6 Il sogno di Olivetti di Alice Bertino……………...…………………………………………………….6-7 Mitica Nostalgia di Marta Spizzichino…………...……………………………………………………...8 “Lo so fa’ pur’io” di Eleonora Di Benedetto………………………………………………………...9-10 Non accusate l’arte di Elisa Biagi………………………………………………………….….....…10-11 XXI secolo: la strage degli intellettuali di Petronio.………………………………………………..11-13 Il rispetto del segreto e il vuoto dietro ai suoi occhi di Guido Panzano…………………………….13-14 Gli sprazzi di bellezza di Roma cialtrona di Alessandro Vigezzi…….……………………….……14-16 Jack Smith e la sessualità perversa e lussureggiante di Luca Zammito……………………………16-18 Il Pianista di Elisabetta Tortora………..……………………………………………………………19-20 “Ballata di Uomini e Cani”: Paolini riscopre Jack London di Luca Zammito…………………….20-21 50 sfumature di Londra di Martina Mangione………………………………………………………….21 Il volontariato esiste di Ginger R. ..…………………………………………………………………….22 Uomini e animali di Chiara Del Tavano………………………………………...………………..…23-24 Buongiorno Presidente di Iacopo Giordano……………………………………………………………25 Componimenti creativi: “Parole che contano” di Aria…………….……………………..………..………………………...27-29 I sogni di Saffo……………………………….……………………………………………………...29-30 Delirio di mezzo inverno di Felix………..…………………………………….………………………..30 Illusioni di Ginger R. …………………………………………….…………………………………..…31 Addii estivi di Elisabetta Tortora…………………………………………………………..……………31 L’arte del Significare di Marino Scarpocchi…………………………………...……………………….31 La Tana del Ragno: parte seconda………………………………..………………………………...32-33 La meravigliosa e trista storia di poeti, scrittori e impavidi briganti: parte terza di Gian Maria Gherardi e Guido Panzano……………………………………………………………....34 Direttori: Guido Panzano e Sofia Zollo Caporedattore: Luca Zammito Impaginazione: Luca Zammito Copertina: Eleonora Alessandri Docente referente: Giulio De Martino Si desidera ringraziare i redattori, la segreteria, il Dirigente Scolastico Fabio Foddai e, in particolar modo, Loredana Polentini. 2 EDITORIALI dei DIRETTORI Credo sinceramente nel cambiamento e nella crescita personale, nel progresso e nella critica costruttiva; credo che La Lucciola stia crescendo e che si stia organizzando, che non si sia mutata nella pallida imitazione de “Il Corriere della Sera”, come alcuni hanno sostenuto, ma che stia solo diventando un progetto realmente serio nella nostra scuola. Però, fatemelo dire a tutti coloro che hanno mosso critiche diffuse da voci in corridoio, fatevi avanti e giudicate, commentate, prendeteci a parolacce ma almeno dite apertamente ciò che pensate, perché questo non è il monopolio di quattro direttori, è un giornalino studentesco in cui ogni singola idea viene ben accetta, per quanto magari non ci vada a genio. Come già hanno promesso altri, vi assicuro che qualsiasi proposta, biasimo o censura che vogliate fare sarà presa in considerazione, e se lo mettete nero su bianco ve la pubblichiamo. Con tutta la speranza che questo freddo non vi impedisca di pensare, date vita ai vostri neuroni. SOFIA ZOLLO Cari amici, non posso che confermare le parole qui sopra. E non posso che confermare che sono orgogliosissimo, nonostante tutto, del lavoro che stiamo portando avanti. Molti di noi hanno la maturità, tutti abbiamo da studiare, ma comunque ci crediamo in questo nostro progetto. E anche se abbiamo creato un giornale “noioso”, “enciclopedico”, “troppo serio”, almeno abbiamo avuto il coraggio di farlo e di prenderci questo impegno. Si parla sempre di coraggio. Noi abbiamo avuto il coraggio di fare uscire La Lucciola una volta al mese (anzi, direi proprio di farla uscire), di riorganizzare un po’ le cose, di intrattenere rapporti con la nostra scuola, di trattare sulle copie (che per questo numero saranno tantissime, a meno di tragici errori di stampa). Chi critica senza intervenire e proporre fa solo un buco nell’acqua. Chi scrive, chi disegna, chi si esprime su questo giornale ha il coraggio di metterci la faccia. A voi il resto. Nonostante tutto, non voglio ridurre queste righe a un acido rimbrotto. Quindi, Manariote e Manarioti, ecco a voi il terzo ambizioso numero, quasi la metà dei sette che ci siamo proposti. Speriamo vivamente che vi piacerà leggere queste pagine. Vi avverto che non troverete risposte ma molte domande. Abbiamo il coraggio di farci le domande giuste; per le risposte c’è tempo. Un abbraccio, GUIDO PANZANO 3 da uno sviluppo generalizzato, dato che i profitti economici dell’azienda vanno a ricadere nel luogo in cui essa ha effettivamente sede e non in quello in cui la fabbrica è attiva. Altro problema correlato è quello delle condizioni di lavoro cui viene sottoposta la manodopera, talvolta anche minorile, costretta a lavorare più a lungo e con salari nettamente più bassi di quanto non accada nei paesi occidentali. In ogni caso il modello di libero scambio globale ha mostrato la sua fragilità a più riprese nelle varie crisi che si sono succedute negli anni ’90 del Novecento sino alla grande crisi del 2008, per quanto quest’ultima abbia avuto inizio in un periodo segnato da una maggiore intraprendenza statale e da un regresso delle dottrine thatcheriane e reaganiane. La prima di queste crisi, avutasi in Messico fra il ’94 e il ’95, fu determinata dall’improvvisa svalutazione del pesos (perse quasi il 50% del suo valore in quattro mesi) e fu frenata dai quasi 50 miliardi che la comunità internazionale e soprattutto gli Stati Uniti, intimoriti da un possibile effetto contagio (“effetto tequila”) in altri paesi dell’America Latina fondamentali per la loro economia, versarono nelle casse del neoeletto governo di Ernesto Zedillo. La crisi, inoltre, era stata preceduta dalla stipulazione di un accordo fra lo stesso Messico, gli Stati Uniti ed il Canada per la creazione del Nafta, l’accordo nordamericano per il libero scambio, il cui ruolo nella recessione del ’94-’95 è tutt’oggi dibattuto. Quel che è certo è che l’entrata in vigore del trattato, il 1 gennaio ’94, portò alla rivolta i contadini del Nord del paese, molti dei quali, spaventati dall’abbassamento dei prezzi dei prodotti alimentari causata dalla concorrenza con quelli del mercato americano, finirono per confluire nell’esercito Zapatista di liberazione nazionale. Neoliberismo: globalizzazione non intelligente A partire dalla seconda metà del Novecento sino ad oggi, in ambito economico, la globalizzazione, ovvero l’ “unificazione dei mercati” che ha spinto “verso modelli di consumo più uniformi e convergenti”, è uno dei pochi fenomeni ad aver vissuto una crescita costante. È, dunque, la globalizzazione, una delle caratteristiche fondamentali del sistema economico avviatosi nel mondo a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, come logica conseguenza della mentalità capitalista che aveva accompagnato l’emergere delle potenze anglosassoni fin dal Settecento, e ulteriormente diffusosi fra gli anni ’80 e ’90 del Novecento a seguito delle politiche neoliberiste portate avanti in Inghilterra dalla Thatcher e negli Stati Uniti da Reagan e sostenute dal FMI e dell’OMC per tutti gli anni ’90. Se negli ultimi due decenni del secolo scorso questa strategia economica veniva complessivamente vista con un certo favore da un’opinione pubblica globale abbagliata da tassi di crescita del PIL costantemente positivi, col nuovo millennio, crescente si è fatto lo scetticismo verso la nuova forma che stava assumendo l’economia globale da parte sia di economisti di livello sia dagli emergenti movimenti no-global, gruppi di protesta basati sulla critica al neoliberismo e più in particolare alle multinazionali ree, in linea con quanto espresso dall’autrice canadese Naomi Klein nel suo “No Logo”, di delocalizzare la produzione dai paesi occidentali alle Free Trade Zone (FTZ) di quelli in via di sviluppo. Le conseguenze di un tale processo sono sicuramente negative per il paese che subisce la delocalizzazione, in quanto esso vedrà una contrazione degli occupati resa ancora più grave dai danni che subisce tutto l’indotto dell’azienda che sposta la sua produzione. Nel paese in cui questa viene trasferita, invece, innegabili sono i vantaggi anche se essi restano limitati alla creazione di nuovi posti di lavoro senza che questa venga accompagnata Questo clima di instabilità che, tra l’altro, vide anche l’uccisione del candidato alle elezioni del partito di governo PRI nonché il proliferare del narcotraffico con la nascita del noto gruppo dei “Los Zetas”, favorita anche dalla di poco precedente morte di Pablo Escobar, leader del cartello di droga di 4 Medellin, e dalla conseguente decadenza di gran parte dei gruppi di narcotrafficanti colombiani, sicuramente non scoraggiò la fuga degli investitori stranieri dal Messico né fu utile l’iniziale stabilizzazione del tasso di cambio peso-dollaro prevista dal Nafta. Un’altra parte della storiografia tende, invece, a sottolineare l’importanza del Nafta nel garantire al Messico un adeguato salvataggio. Allarme ancora più forte fu quello che venne dal Sud-Est asiatico con le crisi contemporanee di Thailandia, Indonesia, Malesia, Filippine e Corea del Sud nel 1997, crisi che segnarono la conclusione del, fino ad allora celebrato, miracolo delle tigri asiatiche. Interessante anche il fatto, sottolineato dal premio Nobel per l’economia J. E. Stiglitz nel suo La globalizzazione e i suoi oppositori, che i paesi che ne uscirono peggio, Indonesia e Thailandia, siano stati quelli che si erano uniformati più diligentemente alle direttive neoliberiste del FMI, mentre la Corea del Sud e la Malesia che si sollevarono più rapidamente e meglio da tale crisi erano i paesi che anche nell’emergenza si erano mantenuti più vicini al “modello asiatico” di forte investimento pubblico. ad oltre il 20% ed un terzo della popolazione viveva al di sotto della soglia di povertà. Il governo di De la Rua, eletto alla fine del 1999, e del suo ministro dell’Economia Caballo, nominato nel marzo del 2001 (ma aveva ricoperto lo stesso ruolo già con Menem) e poco più tardi arrestato, fu fautore, come i due precedenti, di un’agenda politica di stampo neoliberista che, sulla scia delle direttive dell’FMI, prevedeva tagli alla spesa pubblica ed in particolare a stipendi e pensioni. Questi si rivelarono, tuttavia, insufficienti e, così, il governo fu costretto prima a sospendere i rimborsi dovuti alle istituzioni finanziarie internazionali e, poi, in seguito all’interruzione del nuovo prestito da parte del FMI, al blocco dei conti correnti, blocco che colpì i piccoli e medi risparmiatori e che provocò manifestazioni spontanee fino alle dimissioni dell’esecutivo. Il paese, traghettato fino alle nuove elezioni del 2003 dal governo di unità nazionale di Duhalde, infine, abbandonò la parità fra peso e dollaro e svalutò notevolmente la moneta nazionale, ma fu solo con le politiche di marca socialdemocratica antiliberista, attuate, pur con diverse ombre, dal neo-eletto presidente Kirchner, che riuscì a sollevarsi dalla situazione di grave emergenza in cui era precipitato. Le tre crisi esaminate, tutte causate da problemi finanziari, dimostrano come in alcuni casi (Messico, Thailandia, Indonesia, Argentina con De la Rua e prima con Menem) i paesi in questione, anche per l’instabilità politica interna (in Messico l’uccisione del candidato alla presidenza Colosio; in Thailandia gli scandali di corruzione che colpirono il primo ministro Banharn, il cosiddetto “mister Bancomat”; in Indonesia le rivolte contro il più che trentennale governo di Suharto cominciate nel ’96 e culminate con le dimissioni di questo nel ’98; in Argentina l’arresto prima di Menem e poi di Caballo), abbiano ceduto una parte della loro sovranità venendo incontro alle prescrizioni di un FMI che si stava ponendo come garante di un mondo sempre più globalizzato e degli interessi della finanza internazionale, mentre in altri (Corea del Sud, Malesia, Argentina con Kirchner) i governi abbiano rafforzato il proprio potere e aumentato gli interventi diretti dello stato nazionale sull’economia del paese, andando però in una direzione opposta a quella della crescente globalizzazione. Queste alternative sono in realtà solo due delle tre che il noto trilemma elaborato da Rodrik nel suo La globalizzazione intelligente prospetta. L’economista americano, infatti, parte dal presupposto che “non è possibile perseguire simultaneamente la democrazia, l’autodeterminazione nazionale e la globalizzazione economica”, indi ne consegue che necessario è il venir meno di uno di questi tre fattori. Rinunciare allo Stato-Nazione e mantenere, quindi, globalizzazione e democrazia significherebbe creare Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni Duemila, anche altri paesi, come la Russia e il Brasile, entrarono in crisi ma esemplare è il caso argentino del 2000-2001. Il paese versava, già verso la fine del millennio, in una situazione di profonda recessione con un enorme debito estero e un sistema economico indebolito dalle privatizzazioni selvagge e dallo smantellamento dello stato sociale operato dal governo Menem in due mandati fra il 1989 e il 1999. Mentre l’oligarchia si arricchiva trasferendo capitale all’estero, la disoccupazione cresceva fino 5 una comunità democratica globale, progetto ovviamente irrealizzabile, tanto più in un momento in cui risulta ardua ed utopistica finanche la creazione di uno Stato unico su un territorio relativamente piccolo come quello europeo, nonostante la presenza di istituzioni economiche e politiche già radicate. L’unica alternativa che si configura è, dunque, quella fra democrazia e globalizzazione. Depotenziare la democrazia è però, ora come ora, quanto di più pericoloso immaginabile, in quanto, oltre ad essere quello democratico, il modello che la storia ha rivelato vincente, l’elezione più o meno diretta dei propri governanti è l’unico modo che resta alla popolazione per poter intervenire sulle decisioni che ne condizionano il futuro, e obbligatoriamente l’unica soluzione ammissibile è quella di limitare la globalizzazione creando un sistema equilibrato come quello immaginato da Rodrik costituito da “Uno strato sottile di regole internazionali, che lascino ampio spazio di manovra ai Governi nazionali, […] una globalizzazione migliore, un sistema che può risolvere i mali della globalizzazione senza intaccarne i grandi benefici economici. Non ci serve una globalizzazione estrema, ci serve una globalizzazione intelligente”. Il sogno di Olivetti Recentemente ho visto in televisione uno sceneggiato in due puntate che raccontava la vita di Adriano Olivetti, intitolata "La forza di un sogno". Fin da quando ero piccola, ho sempre sentito i miei genitori, entrambi ingegneri che hanno lavorato in Olivetti, parlare della storia di quest'uomo che ha rivoluzionato il modo di vedere l'industria, tanto da essere diventato un modello ispiratore per tanti giovani che, come loro, hanno deciso di intraprendere lo stesso mestiere. Avevo sentito nominare questo cognome, "Olivetti", tante volte e tante volte l'avevo visto scritto su libri e giornali che trovavo in casa, ma non avevo mai capito fino in fondo tutto quello che realmente c'era dietro. Per questo motivo, quando ho visto che su Rai 1 davano uno sceneggiato su di lui, ho deciso, incuriosita, di guardarlo, nella speranza di capirci finalmente qualcosa. E la sua storia, certamente un po' romanzata per quanto riguarda le vicende personali, ma vera per quanto riguarda il suo lavoro e la sua missione, mi ha colpito tanto che ho voluto documentarmi meglio. Adriano Olivetti nasce a Ivrea l'11 Aprile del 1901. Suo padre Camillo, imprenditore, nel 1908 fonda nella piccola città del canavese la "Ing. C. Olivetti & C", prima fabbrica italiana per macchine da scrivere. Adriano si laurea in chimica industriale al Politecnico di Torino e nel 1924 inizia l'apprendistato nell'azienda, come semplice operaio, nonostante fosse "il figlio del capo": da questo momento inizia la carriera di Olivetti, che pian piano si farà sempre più strada nell'azienda, introducendo progetti sempre nuovi al fine di migliorarla e modernizzarla, fino a diventarne Presidente nel 1938; è sotto la sua guida che l'azienda raggiungerà il suo massimo splendore. Olivetti fu un industriale moderno, audace e anticipatore: fu il primo che pensò di programmare uno sviluppo dell'economia e del territorio che oggi definiremmo sostenibile; il primo ad aprirsi ai mercati internazionali, pur mantenendo forti radici DANIELE MARCELLI 6 nel Canavese; il primo a curare gli aspetti dell'immagine, della comunicazione, della pubblicità. capire quanta fiducia egli desse ai suoi dipendenti: durante una delle sue consuete visite ai dipartimenti dell'azienda notò l'assenza di un operaio, un certo Capellaro, incaricato di costruire prototipi. Gli venne detto che era stato licenziato perché colpevole di aver sottratto materiale aziendale. Olivetti lo convocò. Questi ammise il fatto, ma spiegò che ciò era accaduto perché stava lavorando ad una macchina innovativa ma la sua impostazione non era condivisa dal responsabile del progetto, che lo ostacolava. Era stato quindi "costretto" a lavorare a casa, portandosi via dei pezzi. Olivetti esaminò il progetto, e ne capì il valore: immediatamente, reintegrò Capellaro assegnandogli un ufficio e due disegnatori da coordinare. Il progetto diede origine alla famosa "Divisumma 24", uno dei prodotti che fecero la fortuna dell' Olivetti, e Capellaro fu in seguito nominato Direttore Generale. Adriano Olivetti fu molto coraggioso nel perseguire con azioni concrete le sue idee innovative, per difendere le quali fu spesso costretto a scontrarsi con gli altri membri della famiglia, anch'essi azionisti, che avrebbero preferito ricevere maggiori utili dall'azienda. La sua morte, improvvisa e prematura, ha interrotto bruscamente i suoi progetti (in quel momento, stava lavorando alla realizzazione del primo computer al mondo). Tuttavia, penso che le sue idee e i suoi valori sociali siano ancora profondamente attuali; e ritengo sia utile, in un momento storico come quello che stiamo vivendo, fermarci a riflettere sull'importanza di figure come quella di Olivetti, affinché soprattutto noi giovani possiamo trarne ispirazione per costruire in Italia, un giorno (speriamo) non troppo lontano, un mondo del lavoro equo e stimolante, come quello che lui sognava. Ma quello che lo rendeva diverso da qualsiasi altro imprenditore che lo aveva preceduto, e quello che più mi ha colpito di tale figura è il suo modo di intendere la fabbrica, che lui vedeva come "un bene comune, non un interesse privato": secondo Olivetti, il fine di un'azienda non deve essere esclusivamente il profitto; ancora più importante è la sua funzione sociale. Ecco perché si adoperò per migliorare la qualità della vita dei propri dipendenti: coltivò sempre una politica di alti salari, superiori agli standard dell'epoca; avviò la costruzione di case per i suoi dipendenti, mense, asili, dando origine a un articolato sistema di servizi sociali; cercò sempre di fare in modo che i suoi dipendenti avessero tempo per la cultura, per la famiglia (la Olivetti fu la prima azienda a concedere il sabato libero). Nella sua mente, i dipendenti non dovevano percepire l'azienda come una prigione, un luogo dove la propria libertà d'espressione fosse soffocata, e la specificità di ognuno cancellata; anzi, essa doveva rappresentare per loro un'opportunità, l'opportunità di emergere, di esprimere se stessi e il proprio talento. Non a caso Olivetti cercò sempre di attrarre e motivare i cervelli migliori, creando le condizioni per valorizzarne l'intelligenza e le capacità: ad esempio, a ogni giovane assunto ritenuto promettente veniva data la possibilità di studiare a spese dell'azienda, tramite corsi che venivano tenuti durante l'orario d'ufficio, e borse di studio universitarie. Un famoso episodio è illuminante per ALICE BERTINO 7 nostra cultura ne annovera molti. Questi racconti abbracciano tra le righe un qualcosa di mistico; infatti sarebbe certamente più bello continuare a pensare al narciso come un fiore nato sul corpo di un giovane morto dal dolore di non potersi amare o all’alternanza delle stagioni come il ritorno o l’allontanamento di Proserpina dalla madre Cerere. I racconti mitologici raccontano la realtà con una pacatezza quasi timida e discreta, in cui si presenta un’armonia esatta tra i vari elementi narrati. Essi costituiscono profonde verità e insegnamenti etici sotto una forma simbolico-allegorica che ritengo profondamente elevata e raffinata. I miti greci, come quelli latini, hanno come protagonisti personaggi umani e divini, che mostrano di essere dotati sia di spiccato spessore morale che di superficialità, caratteristiche che ben si appropriano al mondo antropico. Sicuramente però queste storie non ci hanno abbandonato del tutto: infatti le portiamo sulle spalle con orgoglio e fierezza da molti secoli, e le poniamo come basi culturali della nostra società. Non ci stupisce affatto trovare nei nostri giardini fiori che rievocano realtà lontane e senza tempo o sentire l’odore pungente dell’alloro tra i viali delle ville di Roma chiamando alla mente la vicenda di Apollo e Dafne. Il mito va pertanto considerato come un insieme di materiali storici, antropologici e sociologici e perciò valutato in base all'evoluzione della mente umana. Ragionando al contrario, si può pensare a quanto sarebbe più affascinante studiare le dinamiche delle società passate analizzandone i miti. Questi racconti sono alla base della nostra civiltà, hanno plasmato la nostra quotidianità e la nostra storia e basta munirsi delle Metamorfosi d’Ovidio o dell’Odissea di Omero, una sorta di “istruzioni per l’uso” un po’ sui generis, per comprendere meglio i complicati avvenimenti che si svolgono intorno a noi. MARTA SPIZZICHINO Mitica Nostalgia Sarebbe bello poter dare una spiegazione romantica e fantastica anziché fisica a tutti i fenomeni che di continuo si manifestano sotto i nostri occhi. Sentendo lo scroscio della pioggia sulle piante in inverno e osservando il colore rubino delle foglie in autunno, penso a quanto i miti abbiano aiutato l’uomo antico a vedere la realtà in maniera diversa rispetto all’uomo moderno. Un modo sentimentale e poetico per ricercare la causa primaria delle cose e per rispondere ai numerosi perché della vita. I miti, infatti, nascondono dentro le proprie storie e parole una profumata essenza di ottimismo e di fiducia che la spiegazione fisica e razionale ha ormai rimosso. Essi ci rivelano qualcosa di noi stessi. Italo Calvino spiega nelle Lezioni americane che con i miti bisogna andarci piano e interpretarli nei loro minimi dettagli per capirne il vero significato. Nella lezione intitolata "Leggerezza", egli cita il mito di Perseo che uccide Medusa decapitandola. E’ ben noto che, per uccidere Medusa, Perseo deve evitare di fissarla negli occhi altrimenti sarà trasformato in una statua di pietra. Allora, la guarda indirettamente, attraverso lo scudo, e così la sconfigge. Lo scrittore vede in Perseo il rapporto che il poeta ha con il mondo: così la letteratura ci comunica delle verità sotto forma di metafore o allegorie. Senza dubbio, inoltre, dobbiamo ringraziare il Vicino Oriente, soprattutto i paesi che si estendono dal Sinai all’Eufrate, se la 8 “Lo so fa’ pur’io” pubblico. La loro è un’arte narcisista, autoreferenziale, assolutamente personale per noi quanto per il pittore. Non sarebbe d’accordo Piero Manzoni che con la grottesca scultura, se così può definirsi, “Merda d’artista” (per chi non lo sapesse è un contenitore di carne in scatola su cui padroneggia la scritta “Merda d’artista”, per l’appunto) sembra voler audacemente criticare la tendenza moderna del poter considerare arte qualsiasi fesseria ben imbellettata. Così come la gamba di legno di altissima fattura che Aldo Giovanni e Giacomo si trovano a dover custodire in “Tre uomini e una gamba”. A chi non è mai capitato di approcciare un’opera d’arte contemporanea senza che l’intrusivo “Pff, so farlo anch’io!” facesse capolino? Un cliché silenzioso e discreto, nascosto nei meandri più intimi della coscienza e martellante in almeno metà degli encefali che ogni giorno fluttuano tra le grandi sale del Guggenheim. Tutto normale. Sì, perché cosa possiamo capirne di una tela bianca a pois rossi, di un quadrato nero a strisce gialle o degli squarci di Fontana? Il Nulla assoluto. E del resto, forse, non c’è molto da elucubrare. Apice di un percorso individuale, ermetismo, virtuosismo artistico, estrema essenzialità, schiettezza “Sì, ma perché?” chiederebbero molti, “e daje ‘co ‘sti perché” risponderei goliardicamente. Sì, perché basta ‘co ‘sti perché. E’ una smania della specie umana quella del “perché”, di avere il controllo cognitivo sull’universo, di speculare e scardinare la realtà ai minimi termini e di farsi rodere se tutto questo le è per qualche motivo precluso. “Mo’ basta” avrà detto Rothko dipingendo “White Center”, “vi incasino io”. E difatti delle sue tre strisce di colore sappiamo poco. Ma non è questo il punto, a mio parere. Il punto è che opere così ci confondono irrimediabilmente: incontrollabili, vaghe, tutto e nulla, belle e brutte. Geniale. C’entra qualsiasi cosa. Tu, Io, Dio. Sì, pure Dio, perché no? Ed è questo il bello, la Libertà. La libertà di dare forma all’apparente informe filtrandolo attraverso la nostra storia. Tutti i drammi, le gioie, i quesiti, tutto il nostro Io buttato lì come se fosse cosa di tutti, pure di Pollock. Ma alla fine siamo solo noi a vederlo. Lo spazio che lascia il generoso artista lo plasmiamo come più ci piace, ed ecco che lo squarcio di Fontana ci ricorda quel grande dolore passato o presente, una bocca, il taglio di capelli che abbiamo fatto per sentirci un po’ diversi. Ora il senso ce l’ha, e gliel’abbiamo dato noi attraverso noi stessi. Chissà, forse hanno ragione loro. Si respira, è vero, una certa pretenziosità osservando una scultura o un quadro contemporaneo, ritagliati in un trascurabilissimo spazio di pareti enormi e dal biancore abbagliante, circondati da improvvisati conoscitori d’arte dall’espressione compiaciuta e assorta che fanno finta di comprendere l’essenza prima della tanto discussa opera ermetica che hanno di fronte. E poi tutti a dire cose senza senso sullo sperimentalismo del colore e il virtuosismo della forma. Ce ne fosse uno che sale sul divanetto di sosta (amatissimo) del Metropolitan sbraitando “Ajoo io nun aggia capit nient ca”. Lo si considererebbe scemo, ma in realtà libererebbe molti dal peso inconfessabile che grava loro sullo stomaco di fronte alla realtà di non capirci un accidente di Kline, Soulages, de Staël e tutti gli altri. “C’amma fa?” risponderei al tizio coraggioso in piedi sul divanetto “sembra non sia arte fatta per noi”. Sì, perché l’arte figurativa, quella perfetta e spettacolare di Caravaggio, Leonardo, Monet, Manet così come la scultura di Canova o classica, hanno fatto ciò che hanno fatto per noi, per l’uomo. Il loro messaggio arriva, è chiaro, semplice, non ci disturba e non ci affatica. Le loro forme sono intrise di bellezza e non è necessario interrogarsi a lungo per apprezzarne gli effetti. Il gioco è l’emozione, la sensazione, la tragicità che straripa e cattura, comunicandoci l’amore che l’artista sembra averci riservato. Eppure quell’amore non ci lascia tutto lo spazio che Credo che Yves Klein sarebbe contento di sapere di questa bella idea che mi è venuta riguardo l’interpretazione dell’arte contemporanea visto che le sue tele monocrome si prestano più di altre al severissimo e disarmante “Lo so fa’ pur’io” di cui parlavamo all’inizio. Ma credo che questi artisti se ne freghino abbastanza di quello che pensa il 9 vorremmo. Ci impone l’apprezzamento, la devozione, l’adulazione. Ma ci taglia fuori. Stiamo sempre al di qua della linea adesiva di sicurezza appiccicata sul pavimento e possiamo solo prostrarci alla grandezza di ciò che sta al di là. E ciò che sta al di là è come è e basta. L’arte contemporanea dice no, non impone niente, si presta ad essere tutto e niente, offre le sue tele per disegnarci sopra quello che ti pare. E tu superi il margine proibito, scatta l’allarme, e in mezzo a tutto il casino che ti si sta smuovendo intorno ti raffiguri in basso a destra, timido e stilizzato. E poi che te ne importa del bodyguard che ti trascina per i piedi chissà dove, tu stai lì in basso a destra, tu e il tuo mondo e da quel momento lo vedranno tutti. Fico, eh? sublime dell'arte” (come afferma Jean Baudrillard) ma spesso si mostrano come una collezione di banalità, oggetti ordinari e kitsch. ELEONORA DI BENEDETTO L'opera geniale, dotata di un valore unico e incomparabile, si è dissolta con l'abbandono verso l'estetico, verso una produzione artistica in serie in cui il tocco dell'artista non sembra più essenziale, verso un'opera impersonale in cui il “puro intrattenimento” si confonde con l'arte. In parallelo alla diminuita importanza dell'artista è il dominio delle figure di mediatori professionisti (critici, galleristi, collezionisti), che, dettando le regole del gioco, sempre più si credono i veri padroni dell'opera d'arte. Il passaggio è breve per arrivare ai “consumatori” dell'arte che la rendono veramente tale in quanto la “vera arte” è definita soltanto dal gusto delle più potenti classi sociali del periodo. Ma il grande segreto dell'arte è che ha il potere di rivelare la vera essenza dell'uomo o, come diceva Verga quando afferma “l'arte è il frutto delle vostre passioni”, altro non è che uno specchio della cultura di oggi, la manifestazione più genuina dei nostri gusti. Tuttavia il rapporto emozionale che si instaura con le opere d'arte viene considerato un lusso, solo per pochi eletti oziosi che devono sfuggire alla noia della vita. La contraddizione sta nel fatto che i soggetti delle opere si abbassano sempre più, per diventare oggetti di uso comune e quotidiano e assai poco ricercato: vanno ad incrementare un giro d'affari di milioni di dollari (è proprio l'arte moderna e contemporanea che raggiunge i prezzi più elevati). Non accusate l’arte Difficile cercare d'intendere il senso dell'arte moderna dall'immagine veicolata da giornali e riviste, dalla televisione, dalla pubblicità commerciale, l'immagine dei mass media della società dei consumi. Nel primo dopoguerra il boom economico permette la diffusione dei miti moderni di bellezza, benessere, successo, potere e denaro, generando così la “business art” (citando Warhol): un'arte legata al consumismo, agli affari, all'economia. Assieme a Warhol si ricordano le critiche e le provocazioni che Oldenburg, Johns e molti altri esplicitarono sulla scia del Dadaismo; ad esempio, da una parte, Oldenburg riprodusse in gesso gli oggetti esaltati dalla pubblicità; dall'altra, si diede voce al comune rifiuto dell'opera d'arte tradizionalmente intesa realizzando una serie di bandiere americane. L'opera d'arte, quindi, si trasforma, sottostando alle regole di mercato per essere facilmente riproducibile; ma soprattutto per produrre ricchezza, un tornaconto momentaneo: gli oggetti artistici non hanno più a che fare con un'emozione vera o con un ideale o con una “natura 10 Si parla di dollari perché è proprio New York uno dei maggiori mercati dell'arte, che si contende lo scettro con Londra. L'arte antica, sottoposta invece a ferree regole di composizione, è fortemente sottovalutata forse poiché troppo poco “cool” o “glamour” per il mondo della moda. Ormai tutto si vende e si compra a qualsiasi prezzo, ma non ci si ferma mai a pensare fin dove si può arrivare. Può essere che davvero tutto sia in vendita? Il Colosseo, ad esempio, o gli Uffizi con i loro secoli di storia possono essere mai ridotti a qualche milione di euro? Penso che l'arte sia una libera espressione dell'uomo e rappresenta una vera e propria necessità degli esseri umani e pertanto non può che essere un bene “comune”. Ognuno può imparare qualcosa da un'opera artistica perché essa è il mezzo più immediato per raggiungere le coscienze. XXI secolo: la strage degli intellettuali Di seguito riporto la sintesi del parere di un arzillo, ma (quasi) lucido ottantenne che in un caldo pomeriggio domenicale romano, quest’estate, mi ha raccontato cosa egli pensasse della figura dell’intellettuale di oggi. Ho cercato, con scarsi risultati, di rimaneggiare le informazioni e posizionarle in un modo più vivace. Per quanto il tema sia estremamente complesso, ritengo questa un’opinione interessante. La filosofia è morta: ne dà il felice annuncio la società moderna. È morta nei talkshow, è morta nei discorsi pseudo-controcorrente, è morta nei confronti politici. Molti i responsabili, i più imprevedibili: il maggiordomo qui non c’entra nulla, perché il colpevole è il vicino di casa che passa ore davanti alla televisione, il ragazzo che passa interi giorni sui social network, il blogger che ce l’ha con la vita e quindi si sfoga su Internet. Alcuni parlano di palese tradimento, altri di omicidio colposo, ma la verità è che i responsabili non verranno mai scoperti, perché sono gli stessi sostenitori della cultura gli insospettabili ed inconsapevoli traditori di una realtà ormai tramontata. I principali responsabili dell’eclissi della filosofia sono gli intellettuali; molti dicono che la loro figura sia sparita, ma la verità è che essi si sono trasformati in opinionisti di scarso livello, lasciati in pasto ai media, ed al consenso popolare. Persino il cane di Jeff Koons, se lo si guarda bene (molto simile a quei palloncini che nelle feste per bambini hanno tanto successo), può celare un qualche significato. Il problema è che gli artisti interpretano la parte delle star, hanno successo, indipendentemente dalla loro produzione attuale a volte, e inoltre si credono rappresentanti di un qualcosa di superiore, che essi solo sono in grado di cogliere. E' proprio qui che sta l'errore, a mio parere: quella degli artisti non dovrebbe essere una professione che li porta a trasformarsi in produttori “obbligati” di opere (che lasciano a volte molto a desiderare). La loro mediocrità, in realtà, nasconde un grande dolore: il dolore dell'artista che si aliena nella sua opera, stabilendo con essa una simbiosi totale. ELISA BIAGI Autori di interventi televisivi a base di “Non solo, ma anche”, costruttori di miti letterari, su opere scopiazzate con il copia incolla dai loro predecessori, fautori di fenomeni cinematografici funzionali al mercato, o alla fruizione, da parte di ristrette élite autoreferenziali e logorroicamente tedianti. Ciò si deve ai cambiamenti che ha portato Internet nell’ambito della comunicazione. Si è creata una grandissima distribuzione di informazioni, notizie che spesso sono incomplete e strumentalizzate, al fine di modellare le opinioni dei cittadini. Non 11 esistono più persone di cultura disposte a prendere su se stesse la responsabilità di portare avanti un sistema di idee compatto e completo. Molteplici sono le cause di questa situazione: in primis, al giorno d’oggi è più facile essere criticati, e concettualmente annientati agli occhi di un popolo dotato mediamente di un ottima capacità analitica, che però viene messa a riposo. In secondo luogo, la cultura è inquadrata in feudi politici, al di fuori dei quali, si possono solo esprimere critiche e non pareri costruttivi, perché, in quest’ultimo caso, si verrebbe presto emarginati. All’interno, invece, di queste fortezze politiche, si deve mantenere una certa fedeltà intellettuale, nei confronti delle idee di base del gruppo che non possono, e non devono, essere messe in discussione. È quindi difficile fuggire dalle critiche di parte che non hanno come fine la costruttività, ma l’annichilimento del messaggio controcorrente. In altri tempi lo Stato voleva controllare gli intellettuali. Oggi sono i partiti a volerlo fare, in quanto lo Stato non si occupa dei pareri dei cittadini, ma di economia e diplomazia, ergo si cerca fedeltà politica inculcando nel popolo idee che successivamente influenzeranno il risultato delle urne. Non si cerca fedeltà per lo Stato, ma per il partito: ne è un esempio l’Italia degli ultimi due anni, dove si sono succeduti tre diversi governi, i cui partiti hanno scelto di utilizzare l’attacco al governo in carica per guadagnare consensi. La cultura e le idee vengono filtrate dai presentatori televisivi, e lo stesso vettore comunicativo diventa un palcoscenico di basso livello in cui vengono confinati gli intellettuali, persone che ormai limitano il loro discorso ad una critica mediamente sterile, ambito molto più facile, e dove si può essere ribattuti con meno facilità di come si può essere distrutti presentando un proprio progetto. In generale, le idee e quindi gli intellettuali servono per creare una macchina culturale per i partiti capace di imporre la propria autorità ed accaparrare consensi. L’uomo di cultura va ancora, momentaneamente, di moda ma è quasi totalmente privo di onestà intellettuale e, quando invece riesce a prendere su di sé il peso delle proprie scelte difendendole con fermezza, il pubblico, confuso, demoralizzato, che ha perso la capacità di ragionare criticamente spegne il televisore, o chiude il libro, sfinito dalla confusione che scaturisce da tutto ciò. E non mi riferisco a personaggi pseudo-intellettuali che sfruttano il proprio isterismo per stare sulla scena, usando come strumento di critica insulti dettati da quelli che sembrano reali attacchi di panico. Ma questo è il prezzo al giorno d’oggi, si deve essere dei finti anticonformisti per reggersi a galla e sopravvivere con la professione di intellettuale, perciò si comprende quanto sia importante evitare posizioni scomode agli occhi della classe dirigente. Mentre un tempo gli intellettuali venivano ostacolati dai loro mecenati, ora è il vero potere di oggi che li ostacola, ovvero gli ambiti dove vi è un grande movimento di denaro: si guardino per esempio la politica e la televisione. Le attuali persone di cultura sono limitate da un popoletto rozzo che non vuole sentire opinioni che stonano con la propria mente alquanto poco libera, ma in compenso saldamente incastonata alla cultura televisiva. Nessun uomo di cultura altresì riesce a tradurre il suo fervore in azione. In generale, mentre un tempo i vari intellettuali venivano inquadrati dai loro mecenati, ora è ancora peggio: essi vengono incatenati dal loro stipendio, che è inversamente proporzionale al livello di cultura che promulgano. È opinione di molti che la crisi aiuterà a ritrovare un equilibrio, liberi idee capaci di riportarci a quell’uso critico delle nostre forze intellettuali, che si sta ormai perdendo. Personalmente, mi chiedo come fa una crisi a cambiare le carte in tavola, quando due guerre mondiali, una guerra fredda ed una crisi petrolifera non ci sono riusciti. Perciò bisogna sperare nello stesso strumento che sta piano piano annientando i giovani, ovvero Internet, dalle grandissime potenzialità, essendo capace di distribuire una cultura di alto livello urbi et orbi. Ma il punto fondamentale è cambiare mentalità, si dovrebbe diventare un popolo di intellettuali, o comunque un popolo che si interessa al sapere, ognuno dovrebbe riscoprire, al proprio interno, quell’amore per la conoscenza e per la scoperta, tipico dell’essere umano. Ma questa forse è solo un’utopia, per ora siamo in mano a format televisivi, quindi penso valga la regola “TACI AUT LOQUERE MELIORA SILENTIO”. E l’arzillo vecchietto finito il suo caffè ed il cornetto, con il giornale sotto il braccio prese la via di casa, salutandomi, e augurandosi di non avermi troppo turbato con le sue idee. PETRONIO 12 sembra quasi come gli altri, ma loro lo sanno che non è lo stesso”. Non c’è nient’altro da aggiungere a delle parole come queste. E forse è la stessa cosa che pensò Luke Kelly, sotto la sua barba rossiccia. Siamo di fronte a una delle canzoni più tristi che siano mai state scritte. Continua così: “Guardalo fissare non capendo quale viso che amava solamente ieri, il viso di una madre che non riesce a capire di che cosa è in colpa”. Il rispetto del segreto e il vuoto dietro ai suoi occhi “See the child With the golden hair Yet eyes that show the emptiness inside Do we know Can we understand just how he feels Or have we really tried” Dicono che Luke Kelly non abbia mai cantato, durante gli scatenatissimi concerti dei Dubliners, la canzone che forse gli veniva meglio di tutte. Quando il vento dell’Ovest faceva sciogliere la pioggia sopra i vetri sporchi di O’Donogue’s Pub (fuori dalla caotica e affollata Temple Bar, “questo è un posto da veri irlandesi, voi turisti andate in quei bar inglesi!” mi disse, un tempo lontano, un baffuto bevitore di birra davanti a una partita di Gaelic Football) e la folla si accalcava fin al cortile interno, quando i boccali traboccanti di schiuma passavano da una mano all’altra dopo il fatidico “and it’s no, nay, never” e le mani che prima erano bianche e grigie come il cielo diventavano rosse come le guance e i capelli, Luke Kelly si avvicinava al microfono e lasciava tutti, ad ogni canzone, a bocca asciutta. Non è facile immaginare quando Phil Coulter (un’autorità nella musica moderna, autore di ballate irlandesi, di colonne sonore, vincitore di 23 dischi di platino e altri riconoscimenti) fece sentire per la prima volta “Scorn not his simplicity” al nostro “Guardala come piangeva lacrime di felicità il giorno in cui il dottore gli disse che era un maschio e guardala ora piangere lacrime di impotenza e pensare a tutto ciò di cui lui non potrà mai sorridere”. “Solo lui sa come affrontare il futuro pieno di speranza e, circondato dalla disperazione, non ti chiederà pietà o compassione, ma sicuramente tu te ne dovresti occupare”. Non ci dice, l’autore, a chi sono rivolte queste parole così profonde e semplici. Potrebbe essere un amico, lo stesso Kelly, o anche un discorso fatto allo specchio. E’ Coulter l’autore e il destinatario, il padre che parla al padre, con il sentimento di una vita davanti. Una vita, di chi? Tutta una vita da immaginare, un segreto che non verrà mai svelato. Cosa si prova sicuramente non spetta a noi dirlo. Quello che dobbiamo fare è capire che non tutto ciò che ci sta davanti è scontato, in primo luogo ciò che abbiamo dentro. Ciò che siamo: frutto di una coincidenza, o semplicemente essere e basta, non una prova o un disegno prestabilito. Non c’è nulla da rimproverare a nessun Dio, da urlare al cielo solo la rabbia. E’ proprio vero che siamo fragili e spesso ce ne dimentichiamo, buttando via le nostre esistenze mentre accanto a noi c’è chi l’esistenza non ce l’ha o l’ha smarrita. “Sono tempi difficili per le persone intelligenti” e lo sono di più per quelle semplici. E verso il segreto dell’intimità, Kelly portò sempre un menestrello Luke, suonatore di banjo. “Non disprezzare la sua semplicità” è una lirica “poetichissima” (perdonate il prestito leopardiano), tragica e commovente, scritta da Coulter alcuni mesi dopo la nascita del suo primo figlio, affetto dalla sindrome di Down. “Guardalo ora, come sta da solo e osserva bambini che giocano giochi da bambini, lui 13 Gli sprazzi di bellezza di Roma cialtrona enorme rispetto, non facendosi mai trascinare da nessun palco o boccale di birra (sebbene, purtroppo per lui, ne bevve tanti). Non è giusto ascoltare una canzone così tra una strimpellata e l’altra, per far tirare il fiato ai percussionisti. E la saggezza di un vecchio popolo di umili e di fragili questa cosa la sa bene. Così recita il ritornello, che viene ripetuto ben tre volte: “Non disprezzare la sua semplicità, ma prova ad amarlo ancora di più, non disprezzare la sua semplicità”. E’ importante l’utilizzo di “disprezzare (scorn)”, come se l’autore volesse simboleggiare un desiderio infinito di un altro destino, un altro inizio per una fine diversa. Il padre ha paura, ha una paura ingombrante e incombente, di “disprezzare” suo figlio e ha paura di non riuscire ad amarlo (“prova”) semplicemente come tale. “Ad amarlo ancora di più”. Ma si può amare un figlio ancora di più? La risposta è nelle note malinconiche della canzone, di quel sublime passaggio dal “fa” al “fa-” che rende gli occhi lucidi, la voce incerta e le mani dei violinisti tremanti. Il sussurro finale non è che un bacio sulla fronte, quando i suoi occhi semplici e puri come la pioggia si riposano come tutti gli altri. E’ una carezza sui capelli biondi ed uno sguardo da più lontano. Tanto per farvi capire il genio con cui abbiamo a che fare: “A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: ‘La fessa’. Io, invece, rispondevo: ‘L'odore delle case dei vecchi’. La domanda era: ‘Che cosa ti piace di più, veramente, nella vita?’. Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella.” Questa profondità non è da tutti, e neanche “La Grande Bellezza” è un film per tutti. E' un'opera d'arte adatta a chi ha voglia di riflettere in maniera altrettanto profonda. Qualche giorno fa ha vinto il Golden Globe come miglior film non in inglese, ma si merita l'Oscar, e chi l'ha fatto si meriterebbe il Nobel per il talento, se esistesse. Io l'ho visto questa estate, al mare, in un cinema all'aperto, e dopo ho riflettuto per tre giorni. Il terzo sono resuscitato quando un mio amico, in spiaggia mi ha fatto: “Aho, sempre lì a riflette', e che sei, 'no specchio?”. Si è guadagnato un minuto di “battesimo” con la testa sott'acqua per la nauseante bruttezza della battuta. Comunque, il dato di fatto è che mi ha fatto riflettere per tre giorni, e un film deve essere veramente eccezionale per farmi questo effetto. Diciamo che è stato l'equivalente culturale di una droga pesante. Anche perché, se uno lo comprende a fondo, è un film che crea dipendenza: le musiche, le atmosfere... Ma andiamo per gradi. Regia di Paolo Sorrentino, un genio che, con duro e silenzioso lavoro tira fuori filmoni, cast di tutto rispetto con Toni Servillo (Jep), Carlo Verdone e Sabrina Ferilli (all'inizio ero abbastanza diffidente: GUIDO PANZANO 14 dopo essermela sorbita in tre canali consecutivi facendo zapping avevo voglia di spararle, ma mi sono dovuto ricredere, è stata di una profondità allucinante). Sempre per restare su paragoni mondani, è (sempre l'equivalente culturale, per carità) di un cocktail fatto non con brucia-budella, ma bensì con le più prelibate qualità di liquori. Giusto così, per darvi un'idea terra terra di un'opera che è invece alta alta. Il cuore dell'opera è il percorso psicologico di un uomo, Jep Gambardella, un giornalista con il dono (o più probabilmente la maledizione) della sensibilità dell'artista. Vive di notte, nel vortice di una Roma mondana in cui si è immerso fin da quando aveva ventisei anni. Ora che ne ha sessantacinque, non è semplicemente “un” mondano, ma è riuscito a diventare il re dei mondani, colui che le feste “ha il potere di farle fallire”. Ha scritto un libro, da giovane, ma nonostante avesse suscitato un discreto interesse ha abbandonato quella strada. Dentro, però, ha qualcosa come una sottile inquietudine, che emerge sempre di più mano a mano che la storia si svolge. desiderio che chissà per quanto tempo aveva inconsciamente nascosto a se stesso: quello di riprendere a scrivere. Nel tentativo di ritrovare l'ispirazione si scontra però con le stesse ragioni per le quali ha smesso di scrivere. Ora percepisce più chiaramente quello che già percepiva: ha infatti la sensazione di aver buttato e di continuare a buttare al vento la propria vita, fra quelle feste. Una notte dice: “Mi chiedono perché non ho più scritto un libro. Ma guarda qua attorno. Questa fauna. Queste facce. Questa città, questa gente. Questa è la mia vita: il nulla. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul nulla e non ci è riuscito: dovrei riuscirci io?”. Si immerge allora nella città, e medita. Roma è affascinante e misteriosa, di giorno è surreale, di notte è inquietante. Le situazioni assumono l'aspetto di sogni, giorno e notte si alternano senza soluzione di continuità con un effetto disorientante, quasi psichedelico. In questo contesto si inserisce a meraviglia la voce narrante del protagonista, ed il ritmo lento e la profondità delle riflessioni sono davvero molto simili a quello che si elabora nei sogni, così come sembrano i luoghi che si attraversano nei sogni quelli che Jep attraversa vagando fra strade, persone e monumenti. Le musiche stupende e armoniose sono fondamentali nel rappresentare gli stati d'animo di questi momenti. Questo è un altro dei motivi per cui il film è da applausi fino a spellarsi le mani: l'originalità e l'intensità con cui descrive emozioni così profonde e difficili da esprimere. E' questo che rende il film al di fuori di ogni schema o genere. Ho trovato meraviglioso come l'autore fa proiettare al protagonista il suo “io” in Roma, come la fa diventare il palcoscenico dove agiscono i suoi pensieri e le sue sensazioni. E' bellissimo il dialogo fra le immagini, le musiche e la suggestiva voce narrante del protagonista, con cui si rappresenta questo percorso. La profondità abissale dello sguardo del protagonista rivela come siano squallide le azioni e i pensieri degli esseri umani, come non sembri esserci nulla dopo la morte (si vede più volte, in situazioni spesso comiche, la sfiducia quasi totale verso la religione e i religiosi), e come quindi sia priva di senso la sua stessa vita. E a dire il vero non c'è palcoscenico più Si muove a suo agio in queste feste notturne, trash e volgari con arguzia e spirito, ma quando questi momenti di divertimento sono interrotti da una voce narrante, la sua, che esprime i suoi pensieri, si scorge in lui quasi una scintilla di follia. In questi momenti, con un ritmo lento e vagamente musicale, come di una funzione liturgica, racconta se stesso. I suoi amici si illudono di vivere un'esistenza felice, annegandosi come lui in queste feste, ma anche loro hanno qualcosa dentro, e Jep non riesce a non percepirlo. “Siamo tutti sull'orlo della disperazione” dice dopo una ennesima notte “Non abbiamo altro rimedio che farci compagnia, prenderci un po' in giro”. Una cosa che ho adorato, del film, è questa, che non c'è alcuna retorica, tutto viene visto con disincantata profondità: quello di Jep è un dramma silenzioso e puramente psicologico in una vita reale, fra situazioni reali, che ognuno potrebbe vivere. C'è un momento cruciale. Quando infatti Jep viene a sapere che Elisa, la prima e probabilmente unica donna che ha veramente amato, è morta, in lui nasce una serie di pensieri. Soprattutto emerge in lui un 15 adatto dell'Italia, e città più adatta di Roma per rappresentare queste cose: i personaggi senza una meta, senza uno scopo, senza un'aspirazione a qualcosa di più grande, vuoti e pateticamente illusi, che al massimo si prendono un po' in giro per divertirsi: sono lo specchio della nostra terra, una terra antica in cui le bellezze del passato, ignorate dai più, risaltano doppiamente di fronte allo squallore del presente, diventando misteriose e simboliche. Spaventati? Be', tranquillizzatevi, il film non è serioso, ci sono molti momenti divertenti e arguti, e nei momenti profondi come quelli che vi ho descritto le immagini sono così belle e le musiche così evocative e melodiose, di una qualità artistica impressionante, da far capire tutto senza bisogno di troppe parole. Le parole, appunto, il “chiacchiericcio e il rumore” di cui rifletterà Jep in una scena finale espressiva e poco retorica come poche. Ma continuiamo: Jep vuole ritrovare l'ispirazione, e con essa gli antichi e puri sentimenti che lo animavano ai tempi del suo primo libro e del suo amore con Elisa. Alla fine, quando, per un motivo o per l'altro quasi tutti i suoi amici si staccano dal “vortice della mondanità”, e muore una donna che era diventata sua amica intima (alla quale dice, dopo una notte nella quale avevano solo dormito insieme: “E' stato bello non fare l'amore”, e lei “E' stato bello volersi bene”, pensate che amicizia), è la svolta. E infine, l’incontro con una missionaria anziana e “santa”, e un viaggio nell’isola dove aveva amato Elisa, sono per lui un’illuminazione. Jack Smith e la sessualità perversa e lussureggiante “Jack Smith è l’unica persona che proverei mai a copiare”. Questo è quanto Andy Warhol rispose al giornalista David Ehrenstein nel corso di un’intervista. Partiamo proprio da questa citazione per delineare la figura di Jack Smith, uno dei più influenti artisti che il panorama dell’avanguardia americana della seconda metà del XX secolo abbia conosciuto. Definirlo un cineasta è alquanto limitativo: Jack Smith fu attore, commediografo, fotografo, illustratore e scenografo. Nato a Columbus in Ohio e cresciuto in Texas, si trasferirà ben presto a New York. E’ proprio nel City College della grande Mela che conobbe Ken Jacobs. Con quest’ultimo instaurò una proficua collaborazione artistica che vide la partecipazione di Smith, in qualità di attore, a numerosi film firmati da Jacobs: Saturday Afternoon Blood Sacrifice (1957), Little Cobra Dance (1957), Little Stabs At Happiness (1960) e Blonde Cobra (1963). Nella maggior parte di essi, Smith appare come “multitravestito mattatore” intento ad assemblare i propri costumi con altri attori o bambini sulle strade di Manhattan. Mentre i due lavoravano a Star Splanged To Death (1958-1960), Smith prese in prestito la cinepresa di Jacobs con la quale girò il cortometraggio Scotch Tape. Il film (di 3 minuti) mostra tre figure che scalano, si muovono e danzano in mezzo a una ragnatela di fili, lastre di cemento e pali di legno. La colonna sonora, curata da Tony Conrad, dona all’elaborato un tocco tropicale. “La scelta musicale di Smith può essere vista come il tentativo di esprimere la sua profonda fascinazione per il mondo latino-americano, filtrato dalla cultura pop di matrice americana. L’apice di questa fascinazione è rintracciabile nella sua ossessione per la diva di Hollywood Maria Montez” (Marc Siegel). Nel film sono, inoltre, anticipate le ambientazioni esotiche, che saranno sempre centrali in tutta la produzione di Smith – sono già rintracciabili nelle fotografie che realizzò negli anni Cinquanta: l’inquadratura delimita corpi intrecciati con costumi Nell’ultima notte di quest’opera d’arte, sono memorabili le parole di Jep, emblema di tutta l’opera: “Finisce sempre così, con la morte. Prima però c’è stata la vita, nascosta sotto i bla, bla, bla, bla, bla… E’ tutto sepolto sotto il chiacchiericcio e il rumore: il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura, gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza, e poi lo squallore disgraziato… e l’uomo miserabile”. Durante il film, in questo mutevole percorso psicologico, si sono visti molti, meravigliosi sprazzi di bellezza. Il finale non è un lieto fine, ma il più bello di questi sprazzi. Non è un film facile, i film veramente belli non sono mai facili. Diverte, si fa ammirare, e soprattutto fa pensare. Buona riflessione. ALESSANDRO VIGEZZI 16 usati e membra di altre figure. L’attrice dominicana, considerata da molti la peggiore del mondo, esercitò una larga influenza su Smith: la sua più volte citata frase “Quando vedo me stessa sullo schermo, appaio così bella che voglio gridare con gioia” ha portato l’artista a riconoscere nelle sue stesse creazioni (realizzate con i materiali più scadenti) gli elementi di un mondo fantasioso e magico. Smith stesso afferma: “La spazzatura è la materia dei creatori”. La frase rimarca con orgoglio il suo modo di concepire l’arte, del tutto svincolata dall’idea di profitto. La fascinazione per Maria Montez prende corpo con la “plasmazione”, operata da Smith in persona, di un giovane impiegato ispanico delle Poste (incontrato una notte nella metropolitana di New York) nei panni della drag queen Mario Montez. I rapporti fra i due già risalivano al 1961, ma il vero e proprio debutto di questo “nuovo essere” avvenne nel 1963, anno in cui Smith realizzò il suo capolavoro, Flaming Creatures. Considerato da Jonas Mekas “uno dei quattro lavori che hanno davvero rivoluzionato il cinema contemporaneo”, Flaming Creatures è il più importante film d’avanguardia d’ America. Esso è la diretta espressione dell’arte di Smith: sono infatti evidenti il gusto per la parodia e per l’esibizionismo, l’eccentricità personale e la volgarità sessuale. Il film (di circa 45 minuti) venne girato fra l’estate e l’autunno del 1962 durante otto fine-settimana. Il set venne allestito nel Windsor Theater al 412 di Grand Street, NY. l’immensità dello spazio), danno sfogo alle proprie intime aspirazioni e desideri, abbandonandosi alle più inconsce reazioni e agli atti più istintivi in una ritrovata coralità” (Alfredo Leonardi). Tony Conrad, recatosi sul set, notò la grande attenzione che Smith prestava alla preparazione di ogni scena: fu sorpreso da quanto professionale apparisse la produzione nonostante il ridotto budget di 300 dollari. Il film, di cui lo stesso Smith curò la fotografia, venne girato dal tetto del teatro: i personaggi si dispongono obliquamente sotto l’impietoso occhio del loro regista, pronto a coglierne ogni disinibizione e pulsione. Interessanti sono le considerazioni di Gregory Markopoulos, membro del New American Cinema Group. Il film-makers sostiene che nel film gli attori fossero più importanti dei personaggi da loro ritratti; Smith porta alle estreme conseguenze l’idea secondo cui “Chiunque possa indossare il costume. Il costume diventa il personaggio e il personaggio il costume”. Markopoulos afferma che nonostante la caratterizzazione non fosse per Smith importante, lo fosse invece il dettaglio: con molta probabilità Smith avrebbe passato molte ore a pianificare la realizzazione e le inquadrature proprio perché, prendendo il pieno controllo del progetto, avrebbe potuto ottenere gli effetti che si era prefissato in mente. La macchina da presa è smagliante: si muove velocemente alternando campi d’insieme, primi e primissimi piani. La cinepresa diventa un’ “attrice” molto più importante degli attori in carne ed ossa, pronta ad interagire con loro. Il film venne girato utilizzando una pellicola in bianco e nero scaduta, che insieme alla luce del pomeriggio elimina nell’immagine ogni contrasto; le figure si stagliano su sfondi sovra-esposti, scompaiono perdendosi in questi flutti di luce: i loro corpi slavati diventano un’unica massa indistinta. Nella sua analisi, Markopoulos sottolinea inoltre La trama è quasi del tutto inesistente: una serie di uomini, per lo più travestiti, e donne, si atteggiano, si mettono del rossetto, si palpeggiano a vicenda e ballano. Le figure “risiedono nell’aura insieme ingenua e perversa, ma comunque autentica e come infantilmente immemore, si tratta di creature che in luce abbagliante, bianchissima (che riduce drasticamente la drammaticità del film e suggerisce 17 l’importanza del suono: esso non ha il ruolo di argomentare l’immagine, ma ne è la controparte. Premiato dalla rivista di Mekas, Film Culture, con il Fifth Independent Film Award, il film destò ben presto scandalo: nel marzo del ‘64 venne sequestrato e la sua proiezione venne vietata nello stato di New York. Jonas Mekas e Susan Sontag si schierarono subito a favore del film, condannando la censura e tentando di legittimarne la prorompente sessualità. Mekas venne arrestato con l’accusa di oscenità per averne continuato le proiezioni. Il film venne anche bandito dal festival del film sperimentale di Knokkele-Zoute (1963) in Belgio. Mekas, che faceva parte della giuria, abbandonò il festival ed organizzò, ogni notte, delle proiezioni clandestine del film nella sua stanza d’albergo. Nonostante i divieti, il film divenne, ed è tutt’ora, un cult (lo vide anche Federico Fellini). L’impatto avuto dal film è indescrivibile: le parole di James Hoberman ben sintetizzano la sua forza visiva: Allo stesso tempo primitivo e sofisticato, esilarante e struggente, spontaneo e studiato, frenetico e languido, rozzo e delicato, avant e nostalgico, grintoso e fantasioso, fresco e sbiadito, innocente e logoro, alto e basso, crudo e cotto, underground e camp, bianco e nero e bianco su bianco, composto e decomposto, riccamente perverso e gloriosamente impoverito, ‘Flaming Creatures’ era qualcosa di nuovo. A causa dello scandalo e del disappunto che all’uscita il film generò, Smith intraprese con una certa reticenza nuovi progetti cinematografici; essi non raggiungeranno mai il livello di Flaming Creatures e soprattutto la sua forma conclusa (i film saranno soggetti a continue modifiche e nessuno verrà ultimato definitivamente). Al riguardo degno di nota è Normal Love. Girato per la maggior parte nella proprietà di Eleonor Ward a Old Lyme, Connecticut, è il film che forse meglio esprime quell’estetica del magico ed esotico che contraddistingue i film di Maria Montez e che suggestionerà così tanto il giovane Jack. Questi scrive nel suo diario: “Ho passato la mia estate all’aperto nella campagna filmando un amorevole, film a colori rosa pastello e verde, che sicuramente diventerà la definitiva espressione del pastoso. Tutti i personaggi indossano abiti da sera rosa e ghignano e guardano fissi in camera”. Il film, nei cui margini dell’inquadratura si muovono le figure più strambe e ambigue, risulta formato da diversi frammenti drammatici: ogni scena emerge come un’entità autonoma. I colori prevalenti sono il verde e il rosa: essi tendono a rendere l’immagine sempre più mielosa e comunicano un senso di allegria e di vivacità. Pure in questo caso Smith fa uso di una pellicola scaduta (stavolta però a colori). Ciò che colpisce nella messa in scena è la “normalità” che vi domina: tutte le eccentricità di Smith diventano reali in un pastiche in cui domina l’ironia dell’autore. Essa spinge gli attori a continuare a recitare o, forse sarebbe meglio dire, a “essere se stessi” nonostante l’artificio diventi apparente agli occhi dello spettatore e la rappresentazione cominci gradualmente a destrutturarsi. Il film consta di importanti camei: sono infatti presenti due irriconoscibili Andy Warhol (che curò un documentario sulla lavorazione del film) e Kenneth Anger. Il film non verrà mai completato nel significato usuale del termine: sarà rimontato continuamente e verrà impiegato da Smith nelle sue successive performance teatrali. L’oggetto filmico perde quindi la propria integrità per diventare parte di un processo dialettico, la performance. P. Adams Sitney nel suo Visionary Film (Oxford University Press, 1978) definisce Smith come appartenente ad una fase “mitopoietica” del cinema underground: una fase di passaggio che porterà in seguito a prodotti più maturi e articolati. Questo è quanto ci rimane di un autore tanto enigmatico quanto inafferrabile: Jack Smith è l’avanguardia ed è incomparabile l’influsso che la sua produzione sia filmica che teatrale abbia avuto sugli artisti contemporanei. LUCA ZAMMITO 18 della condizione di dipendenza assoluta della gente inerme di fronte ai persecutori. Il Pianista Comprendere la drammaticità della Shoah, per chi non ha mai vissuto la guerra o provato la triste condizione di dover lottare per sopravvivere, può risultare difficile; è importante, perciò, che anche le nuove generazioni ne abbiano memoria, leggendo documenti cartacei, visitando mostre fotografiche o attraverso la visione di film sul tema. Uno dei modi più efficaci di rappresentare questi eventi è quello di narrare le vicende di una persona che si è trovata coinvolta nella tragedia della guerra, provando su se stessa la ferocia della persecuzione. È quello che ha fatto il regista Roman Polański raccontando la storia del pianista Władysław Szpilman. Il suo film, dal titolo “Il Pianista”, è stato realizzato nel 2002 e appartiene al genere drammatico biografico; dalle scene iniziali si evince che la vicenda narrata riguarda fatti di vita realmente vissuta. Le prime immagini sono girate in bianco e nero, come se si trattasse di un documentario e, durante lo scorrere della pellicola, in primo piano appaiono alcune date che aiutano lo spettatore a calarsi maggiormente all'interno del contesto storico rappresentato. La guerra è lo scenario di fondo, la sua presenza costante e opprimente si percepisce continuamente anche attraverso i suoni, le urla, i pianti e i boati delle bombe, che fanno da contorno permanente alla storia della vita di Szpilman. Il regista fa uso, infatti, di alcuni personaggi per illustrare questo concetto: un uomo con le stampelle, ridicolizzato dai tedeschi per puro divertimento, cade a terra, instabile e incerto come lo è la sua situazione, completamente nelle mani della volontà altrui; ne è un altro esempio lo stesso Władysław Szpilman, costretto a vivere come un barbone, tra le macerie della sua città, soffrendo la fame e la sete, con la costante paura di morire. Un altro elemento significativo della storia, è l'ufficiale tedesco Wilm Hosenfled, il quale, dopo aver scoperto il nascondiglio di Szpilman viene a conoscenza delle sue abilità musicali, gli chiede, quindi, di suonare per lui decidendo di risparmiargli la vita. Da quel momento se ne prende cura, vuole ascoltare la sua storia, poi, sapendo dell'arrivo dei Russi, gli cede anche il suo cappotto. È forse il caso di riflettere su questa figura e pensare che non è giusto, anche se umano, attribuire ad ogni singolo la colpa di errori compiuti da un intero esercito in nome di ideali deliranti. Wilm Hosenfled è un soldato tedesco e tutti sono a conoscenza delle atrocità compiute dagli uomini come lui, ma egli è, in questo caso, un uomo gentile e umile nei confronti del nostro protagonista e questo colpisce molto. La neve assume un significato particolare: la sua presenza è sempre in corrispondenza di scene di fuga e di trasferimento, nelle quali il protagonista, con piccoli aiuti, è travolto dalle vicende che lo circondano; ogni volta che ciò succede, davanti a lui si presenta una scena simile; guardando fuori dalla finestra vede sempre il muro che circonda il ghetto, simbolo dell'isolamento e delle restrizioni subite dalla popolazione ebraica; a volte egli si domanda quale sia la parte giusta di quel muro che lo isola, perché in entrambe, morte e guerra persistono, mutando solo gli artefici. Una ripresa in special modo lascia sorpreso lo spettatore: in mezzo ad abitazioni in rovina, bianche di neve, il primo piano del pianista con indosso solo un cappotto nero a proteggerlo dal freddo. È ormai solo e quando l'inquadratura si allarga, egli diventa una piccola figura circondata dall'intera città, vittima Il silenzio è collegato alle scene in cui il protagonista è solo e soffre enormemente per la propria condizione. Un silenzio assordante, indice della paura che il conflitto in atto suscita in chi ne è vittima. Questo netto contrasto di suoni è interrotto, ad un tratto, da una musica allegra che si diffonde nell'aria, essa preannuncia l'imminente arrivo dei soldati Russi e, con loro, la fine del dramma. La speranza è un altro filo conduttore in tutto il film: essa si manifesta attraverso i comportamenti, al limite della ragione, delle persone che cercano in modo incessante i propri cari. Essi insistono nella loro spasmodica ricerca, anche di fronte all'evidenza della morte, non abbattendosi di fronte all'orrore. Altre scene possono essere considerate significative 19 della violenza dei nemici, un punto insignificante rispetto alla devastazione, simbolo della tragedia di cui egli è uno dei pochi sopravvissuti. La sequenza successiva ha caratteristiche comuni, perché il protagonista accende un fuoco per riscaldarsi, l'unica fiamma nel buio di una notte senza stelle. Quella luce infonde speranza, ma è minima rispetto al nero che la circonda e che quasi la inghiotte. “Macchia” racconta il rocambolesco rapporto fra Macchia, un cane da slitta che si rifiuta di fare proprio ciò a cui è addestrato, e i suoi due padroni; “Bâtard” il rapporto di amore-odio fra il meticcio Bastardo e il suo padrone Black Leclère; mentre “Preparare Un Fuoco” i vani tentativi di un uomo di salvarsi dall’imminente congelamento dei propri arti inferiori, accendendo un fuoco – il tutto sotto lo sguardo alquanto curioso del cane che con lui viaggiava. La comicità del primo racconto, narrato con una sana dose di arguzia e ironia, lascia subito spazio alla stravaganza della relazione fra Bastardo e il suo padrone francese; l’apice della drammaticità è raggiunto invece con l’ultimo racconto. La stessa recitazione “narrativa” di Paolini si adatta perfettamente allo stile dei racconti: da divertente e quasi distaccata passa lentamente ad essere partecipata e disperata. E, allo stesso tempo, mutano anche le ambientazioni e le luci: al colore vivace e alla mobilità della performance sul palcoscenico si sostituiscono lentamente colori sempre più freddi, slavati e la stasi recitativa che ben ripropone le distese di neve tutte uguali dell’ultima vicenda. Ed è proprio la neve che tutto copre (il fuoco che l’uomo tenta disperatamente di accendere), che tutto inghiotte. Jack London ci restituisce l’affresco di una società, di un mondo “argonauticamente” labirintico, in cui ogni certezza viene perduta. L’uomo, alla “disperata” ricerca dell’oro e del benessere, si muove a tentoni e viene costantemente ostacolato; non può far altro che soccombere bonariamente o tragicamente. L’uomo è privato della propria identità umana per divenire soltanto un “passante”, accomunato a tutti gli altri esseri viventi e agli eterni compagni cani dall’istinto di sopravvivenza. Notevole è poi la capacità di Paolini di fondere passato e contemporaneità: il mondo di London, a noi tanto lontano, diventa proiezione di una società e delle sue contraddizioni a noi tanto vicine. Ciò che sorprende, inoltre, è la grandissima attenzione che Paolini (come London, d’altra parte) dedica alla figura del cane: i cani nei racconti di London costituiscono una società nella società umana, parallela e contraddistinta dalle stesse peculiarità. I cani presentano delle precise personalità che li fanno costantemente entrare in contrasto con i propri padroni. “In tutte queste storie stasera, io sono sempre stato il cane” annuncia Paolini alla fine del monologo. La musica (eseguita dal vivo da Angelo Baselli, Gianluca Casadei e Lorenzo Monguzzi) mescola brani originali a ballate di indiscussa fama. I brani non costituiscono semplicemente un accompagnamento musicale, ma diventano parte integrante della narrazione, argomentandola e marcandone lo svolgimento. ELISABETTA TORTORA “Ballata di Uomini e Cani”: Paolini riscopre Jack London “Ballata di Uomini e Cani” è il titolo del nuovo spettacolo di Marco Paolini. Un lavoro che ha visto il noto drammaturgo di Belluno all’opera per gli ultimi due anni. Eppure Paolini ci tiene a sottolineare che il titolo è soltanto provvisorio. Il sottotitolo allo spettacolo recita: “dedicato a Jack London”. Ed è proprio da tre racconti dell’autore americano che Paolini prende spunto, per realizzare un’opera alquanto insolita nella sua produzione teatrale. Assurto a fama essenzialmente come drammaturgo di opere impegnate civilmente, l’attore realizza uno spettacolo che ha il chiaro intento di svelarci una parte della propria e della nostra infanzia. C’è un po’ di Jack London dentro ognuno di noi (chi non ha mai letto o almeno ha sentito raccontare le storie di “Zanna Bianca” o de “Il Richiamo della Foresta”, opere antitetiche). Proprio Paolini dichiara: “A lui devo una parte del mio immaginario di ragazzo”. Jack London non è però uno scrittore per ragazzi, ma “è un testimone di parte, si schiera, si compromette, quello che fa entra in contradditorio con quello che pensa”. I tre racconti a cui Paolini attinge sono: “Macchia”, “Bâtard” e “Preparare Un Fuoco”. Ad ogni racconto viene dedicata all’incirca una mezz’ora, ma è chiara la disposizione: i tre racconti costituiscono un climax ascendente, in cui l’elemento, soggetto a variazione di intensità, è il drammatico rapporto fra uomo e cane. 20 Lo spettacolo sembra un tentativo, da parte dell’autore, di tirare le fila di tutta la propria carriera e produzione artistica: un punto di arrivo e di partenza, la riscoperta delle proprie origini per meglio fondare il proprio presente. Shakespeare e Cristopher Marlowe e alle vedute di Monet). Per chi visita Londra l’obbligo è quello di camminare perché, solo camminando, si possono apprezzare tutti gli scorci meno famosi e più nascosti della città. Immediatamente mi viene da pensare a China Town nel quartiere di Soho, dove si viene catapultati a chilometri di distanza: uno spettacolo scenografico di colori e bizzarrie tipiche della cultura cinese. Le strade decorate con le 孔|明|灯 (lanterne Kongming) pullulano di numerosi ristoranti e negozi di prodotti orientali. Ugualmente suggestiva, ma completamente diversa è Camden Town, famosa per l'affollato mercato e come centro di vita degli alternativi. Lungo il Regent’s Canal, in più punti, vi sono ormeggiate delle case galleggianti, molto caratteristiche e variopinte. Un’altra piccola perla è Il Temple, un quartiere con stradine che nel XII e XIII secolo era la sede dell'Ordine dei Cavalieri Templari. Nel XIV secolo, passò, dopo molti avvicendamenti, in mano a un gruppo di giuristi. Da allora è il quartiere degli avvocati, con le grandi scuole di avvocatura del Middle e Inner Temple. Qui c’è anche la famosa Inner Temple Church, che recentemente è diventata un must per chi ha letto “Il Codice Da Vinci”. E’ ovvio che, se si viene a Londra (soprattutto se è la prima volta), siano tappe obbligatorie musei come la National Gallery, il British Museum e lo Science Museum. Tutti rigorosamente gratuiti. La filosofia è evidente e l’importanza, l’ammirazione, il rispetto che gli inglesi hanno per la cultura (anche quella degli altri), che sanno riconoscere e valorizzare, dovrebbe far riflettere. E anche lì, non mi sono trattenuta dal domandarmi su come è possibile che in Italia, culla delle arti, forziere di tesori inestimabili e patria di talenti invidiati in tutto il mondo, non si investa nella cultura, non riconoscendola come bene primario. A Londra non ho scoperto “l’acqua calda” ma a vedere come lì le cose funzionano bene mi sono quasi sentita male. La questione non è pagare il biglietto o meno, ma è proprio l’organizzazione che non va. Al British Museum c’è una teca in plexiglas dove si può depositare un’offerta: un cartello invita a dare una sterlina, nessuno ti obbliga ma tutti lo fanno. I musei poi sono anche visti come ambienti d’incontro e svago, con ristoranti e caffé, negozi di libri e souvenir. L’amara verità è che forse siamo un paese di selvaggi e che forse è meglio lasciare tutto agli inglesi come è stato purtroppo già fatto per Pompei che ha registrato numeri da record. Numeri che probabilmente in madrepatria non avrebbe mai raggiunto. MARTINA MANGIONE LUCA ZAMMITO 50 sfumature di Londra “Nella mia mente si fece subito strada il pensiero che tale città doveva essere, più di ogni altra città al mondo, piena di meraviglie e di maledizioni”. (David Copperfield, Charles Dickens) L’anno scorso il mio desiderio era quello di andare a Parigi, l’anno prima di passeggiare tranquillamente su Las Ramblas. Quest’anno il mio cuore si è soffermato sulla capitale del Regno Unito. Non c’è bisogno di tante spiegazioni, semplicemente il mio cervello viaggiatore punta la lancetta sui miei sogni. E il mio unico sogno, fino ad una settimana fa era esattamente quella città, Londra. Eppure 4 giorni non mi sono bastati per visitarla: la città è così vasta che ho dovuto utilizzare più volte la metropolitana per gli spostamenti. Londra non è come la si immagina: una città fredda investita continuamente dalla pioggia battente. No. Londra è soprattutto colore: pensiamo ai famosissimi taxi inglesi, alle cabine telefoniche, ai pullman rossi a due piani, alle vetrine di Camden fino alle luci dei cartelloni pubblicitari di Picadilly Circus. Una città moderna, ma al tempo stesso un polo d’attrazione per le personalità più influenti di ogni tempo. Alcuni di questi personaggi sono giunti a Londra da altre parti dell’Inghilterra o dall’estero; altri sono nati e cresciuti in città: tutti hanno comunque lasciato un segno, chi progettando magnifici edifici, chi promuovendo riforme e istituzioni, chi ancora interpretando lo spirito della città attraverso scritti, sculture e dipinti (pensiamo per esempio al poeta romantico John Keats, i drammaturghi William 21 immagini di un'epoca da tutti, anche da noi giovani, ricordata e rimpianta con nostalgia. Puoi parlare della tua vita, raccontare le preoccupazioni che hai e alcune saranno in grado di offrirti consiglio facendo inoltre riferimento alle loro esperienze come modello da poter seguire. Spesso esco di lì con la mente ricca di spunti per riflettere. Nascono discorsi che portano alla rivalutazione del concetto di “vita” e anche confronti costruttivi. Senti la necessità di convincere queste persone che ogni fase della vita è importante e che, dal nostro punto di vista (naturalmente per loro errato), la giovinezza è sopravvalutata. Ti rendi conto di come l'essere umano sia mutevole e come ciò possa portare o ad una solida sicurezza di se stessi o ad una tenera debolezza. I Giovani per la Pace mi hanno offerto l'opportunità di mettermi alla prova e di scansare finalmente tutti gli effimeri ostacoli che mi impedivano di rendermi utile. Sento molte persone che platealmente illustrano il loro desiderio di aiutare le persone in difficoltà, eppure quando sono venuti a conoscenza di questo progetto, hanno dato libero sfogo alla creatività inventando varie scuse. Invito coloro che sentono la reale voglia di impiegare il proprio tempo in modo utile, ma che vengono frenati dal qualsiasi tipo di timore, di farsi coraggio perché le opportunità di fare anche la minima differenza ci sono. Inoltre, è bello poter condividere con gli altri ragazzi le diverse sensazioni che ognuno avverte partecipando agli incontri: nascono interessanti e divertenti osservazioni. Il volontariato esiste Mai sentito parlare dei Giovani per la Pace? Si tratta di un gruppo associato alla Comunità di Sant'Egidio che, però in maniera autonoma, si incontra periodicamente per dedicare un po' del proprio tempo agli anziani delle case di riposo o ai bambini con varie difficoltà. Io faccio parte del gruppo di Monteverde e insieme ad altre persone, trascorro il venerdì pomeriggio chiacchierando con le signore Adriana, Ada, Annamaria, Armina, Fernanda e le restanti splendide donne che in poche settimane sono state più utili a me di quanto lo sia stata io a loro. Molte persone sono restie nell'unirsi a noi: alcune pensano sia una perdita di tempo, altre invece temono che questa esperienza possa suscitare loro pensieri ed emozioni che vorrebbero tenere lontani almeno fino ai sessant'anni. Ci sono altri, invece, convinti di non esserne all'altezza, hanno paura di non riuscire a rendersi utili in modo efficace: anche io appartenevo a quest'ultima categoria. Credevo non avrei potuto aiutare quelle persone a distrarre la mente da cattivi pensieri ma che anzi si sarebbero potute creare situazioni imbarazzanti. Il primo impatto che ho avuto con le signore della casa di riposo di San Pancrazio è stato piuttosto surreale e inaspettato. Ero molto impacciata, ma sapevo che sorridere e tendere la mano a ognuna di loro, pronunciando il mio nome con un tono della voce leggermente più alto, sarebbe stato il giusto inizio. Partecipando a sempre più incontri e acquisendo maggior dimestichezza, ho capito che l'atmosfera di tristezza che tutti lamentavano ogni volta che gli proponevo di unirsi a noi, viene annullata dal piacere che gli anziani provano nell'avere qualcuno che li ascolti o che dedichi loro attenzioni. E' un'esperienza non solo utile ma che costituisce anche un arricchimento personale dal punto di vista umano. Le parole che, seppur in modo sconnesso, pronunciano, trasmettono Chiunque è ben accetto e l'ideale sarebbe diventare un gruppo numeroso così da poter estenderci in tutti i reparti e offrire compagnia e supporto anche agli altri anziani. L'appuntamento è sempre il venerdì a San Pancrazio intorno alle ore 16.00 per passare almeno poco più di un'ora e mezza prima che le nostre ragazze cenino alla trasgressiva ora delle 18.00! E' importante vivere ogni esperienza prima di giudicarla. GINGER R. 22 sola col cane per poi tornare mezz’ora dopo con gli occhi lucidi e dire con voce flebile: “Jolly è volato in cielo”. In quel momento la padrona si è interrotta. Gli occhi bagnati e un groppo alla gola. È rimasta là cercando di non piangere, commossa. Mia sorella ha cominciato a parlare, per interrompere il silenzio imbarazzante che si era creato e cambiare discorso; poi siamo tornate a casa poiché si stava facendo tardi ed eravamo era piuttosto lontane. Tutto ciò mi ha fatto ragionare e ho pensato che ci sia gente che morirebbe per il proprio animale e altri individui che invece si divertono a torturarlo. Di quest’ultima categoria di persone non ne ho conosciuta nessuna (fortunatamente per loro), ma ne ho sentito parlare parecchio. Ad esempio, c’era una signora che lanciava dal balcone dei vetri, o comunque oggetti pericolosi, ai cani della nonna di una mia amica (un meticcio e un Rottweiler) e un giorno gli ha buttato delle polpette avvelenate. Mentre il meticcio non le ha neanche toccate, il Rottweiler le ha mangiate per poi morire dopo ore di agonia e l’assassina non è neanche stata punita dalla legge poiché ritenuta “mentalmente instabile”. Di casi analoghi ne conosco a milioni: ad esempio quello che mi ha raccontato un mio amico su degli abitanti di Torvajanica, piuttosto sadici, che si divertivano a lasciare ai gatti sotto casa del cibo unito a veleno per topi per poi divertirsi a guardarli morire dai loro balconi. Il veleno per topi contiene delle sostanze che rendono la costituzione del sangue totalmente liquida e incapace di coagulare. L’animale, dopo circa un’ora dall’aver ingerito il veleno (comunque quando è troppo tardi), inizia a barcollare (all’interno del corpo comincia a fuoriuscire il sangue dai vasi, irrorando negli organi interni causandone il collasso e varie emorragie interne). I sintomi che appaiono man mano che il veleno fa effetto sono: la perdita di sangue prima dalla bocca, poi anche dagli occhi tramite la lacrimazione, e, alla fine, da tutti i pori per via delle ferite che si aprono. Uomini e animali Ho deciso di scrivere quest’articolo in onore di una signora. È una donna normale, non ha caratteristiche particolari, non è famosa e non ha fatto neanche chissà cosa di speciale se non amare il suo cane alla follia. Sembrerà banale perché tutti coloro che hanno un animale gli vogliono bene (si spera), ma mi ha colpito profondamente il modo in cui i suoi occhi azzurri, ancora allegri, non annebbiati (come lo sono di solito gli occhi delle persone anziane come se il colore dell’iride sia coperto da nuvole di esperienze passate e di ricordi) appena ha cominciato a parlare del proprio cane, si siano offuscati diventando vacui, vuoti come per un ricordo che fa male . Ma partiamo dall’inizio: io, mia sorella e una nostra amica abbiamo deciso di portare il cane a Villa Flora per farlo giocare con altri cani e lì abbiamo incontrato la vecchietta che, mentre Argo (il nostro cane) giocava con la cagnolina della signora, ci ha raccontato di aver preso quella cagnetta dopo che Jolly, il suo vecchio meticcio di dieci anni, è morto; poi, con gli occhi velati, ci ha raccontato di come tutti i giorni portava il cane, affetto da un tumore, a spasso e di come, quando quello si stancava e si accasciava a terra esausto, lo portava in braccio nonostante la propria età e il peso di Jolly (di taglia grande) . Ci ha anche parlato del momento in cui il cane è morto, e lì abbiamo veramente dovuto trattenere le lacrime: dopo una passeggiata particolarmente stancante, in cui si erano dovuti fermare varie volte, il cane si era accasciato davanti alla porta di casa e non si voleva più muovere; allora un’ amica della signora, che era venuta con loro e che nella sua vita aveva avuto parecchi cani, l’aveva mandata in salotto rimanendo In media il decesso, negli animali di piccola taglia, avviene dopo circa tre ore di assoluta sofferenza, mentre l’uomo e gli animali di grande taglia 23 muoiono dopo un giorno. Naturalmente l’effetto varia a seconda della quantità ingerita. Un altro caso è quello di un bambino che si divertiva a strangolare i criceti che sua madre continuava a comprargli, o quello di alcuni ragazzi che si divertivano a malmenare e a dar fuoco ai gatti: la cosa non si sarebbe scoperta se uno di quei malcapitati animali non fosse appartenuto ad una signora, che impazzendo per la sparizione dell’unico essere che le era rimasto, lo ha cercato dappertutto per poi trovare una salma tutta bruciata riconoscibile solo per la medaglietta. e il ventre squartato. L’ipotesi è che siano stati usati come corrieri, essendo stata rinvenuta anche una busta di plastica. Immaginate voi il dolore che provereste se il vostro padrone, di cui vi fidavate, ignari del fatto che vi stava solo usando, vi avesse immobilizzati per poi aprirvi la pancia senza anestesia (naturalmente troppo costosa e inutile per un “essere inferiore” come un cane). Per terminare voglio dire che quest’articolo è, sì, in onore della signora incontrata al parco e, con lei, di tutti coloro che amano i loro animali; ma è anche un modo per protestare e per denunciare i “mostri” che hanno fatto e che fanno queste cose (a parte che molto probabilmente chi adotta la violenza sugli animali, in futuro, con il 75% di probabilità, sarà violento con la propria moglie e/o con i propri figli ). Perciò, se a qualcuno capita di assistere ad atti di violenza sugli animali, non abbia paura di reagire, loro lo farebbero per noi. È capitato qualche giorno fa che un cane randagio ha salvato un bambino, il quale stava per essere investito da un pirata della strada, buttandosi addosso a lui per scansarlo e venendo colpito dalla macchina in corsa. Il padre ha dichiarato di aver visto la macchina che si avvicinava velocemente al bambino e di non aver fatto in tempo a reagire; ma proprio quando il piccolo stava per essere travolto, un razzo, un angelo custode, lo aveva spinto mettendolo in salvo. Purtroppo il cane non era uno spirito, e non è uscito indenne dallo scontro. Ora sta dal veterinario e tutti i giorni il bambino salvato e la sua famiglia lo vanno a trovare aspettando la guarigione per portarselo a casa. Riguardo ai casi di cuoi ho parlato, sorge spontanea una domanda : CHI SONO LE VERE BESTIE ? In seguito, la donna ha chiamato la polizia e la sera stessa i ragazzi, tre minorenni e un maggiorenne, sono stati arrestati da dei poliziotti che dopo la segnalazione della donna erano rimasti in zona e li avevano sorpresi nell’atto di bastonare un povero gatto, in seguito adottato da uno dei due poliziotti. Mentre al maggiorenne è stato dato un anno di carcere, i genitori dei minorenni, i quali si ritenevano “indignati” per aver dovuto pagare per degli “stupidi” gatti, hanno solo ricevuto una multa. Un altro caso straziante è quello di un meticcio ritrovato in una bau beach a Livorno dopo essere stato legato con una fune ad una pila di mattoni e gettato in mare. Il cane, dal pelo bianco, al momento del ritrovamento aveva il corpo gonfio in modo innaturale e gli occhi velati, presentava lividi e tracce di sangue. Sembra che sia morto nel tentativo disperato di spezzare la corda (ancora stretta tra i denti) che lo portava sempre più giù nella profondità marina. Io, dopo aver visto l’immagine, che mi ha veramente spezzato il cuore, non riuscivo a smettere di piangere e sono corsa subito da Argo che ha cominciato a scodinzolare, magari proprio come faceva quel cane mentre il padrone gli legava la corda al collo, ignaro del fatto che stava per morire e pieno di amore e fiducia nei confronti di un uomo che non meritava tutto ciò. La fine tragica di una giornata, che doveva essere fantastica, passata alla bau beach . Quest’episodio si aggiunge al caso di un Labrador e un Pitbull ritrovati con il muso legato da una fascetta CHIARA DEL TAVANO 24 matematica si dichiarerà “comunque soddisfatto della prestazione”? Io in ogni caso, fossi stato in lei, ci avrei provato un po’ di più con Matri prima di cederlo. Bastava togliergli le veline e forse qualche gol lo faceva. Il problema è il resto della squadra. Nemmeno il ritorno di Kakà ha giovato quanto si sperava: il brasiliano segna e fa crescere il numero degli adepti al Cristianesimo, ma dicono che gli altri dieci in campo siano più spaesati di Conte dal parrucchiere. Proprio Conte è stato eletto miglior allenatore del 2013. Un risultato ineccepibile, direi. Tutti i mister lo invidiano, soprattutto per essere riuscito a dare un senso alla presenza di Padoin all’interno di uno stadio di calcio. Certo ha anche lui i suoi difetti, non lo neghiamo. La trasferta di Istanbul gli ha fatto perdere del prestigio; inoltre, se ci è permesso un consiglio, dovrebbe evitare le droghe leggere almeno prima delle conferenze stampa, durante l’ultima sono arrivati abbaiando i cani antidroga del commissariato di Polizia. Che sta a tre chilometri di distanza. Insigne è tornato al gol in campionato dopo oltre sette mesi. Quelli di Sky hanno anche chiamato l’interprete per raccogliere le sue dichiarazioni a fine gara, ma Lorenzino non ne ha voluto sapere. Benitez, meno timido, ha commentato: “Un McMenu completo con patatine, grazie”. Stava per ordinare degli spaghetti allo scoglio, ma si è subito ricordato che c’era Higuain lì vicino. Un altro ritorno al gol è stato quello di Robinho. I tifosi del Milan si sono quasi consolati della sconfitta. Forse neanche pretendevano tanto, a loro bastava anche solo che inquadrasse la porta. La consolazione è comunque magra vista la classifica dei rossoneri: si vocifera che Galliani abbia fissato i futuri allenamenti di rifinitura il sabato alle 14, in modo da abituarsi per l’anno prossimo. Intanto, a Roma, i giallorossi ne facevano quattro al Genoa. Eroe di giornata è stato Matuzalem, centrocampista ex Lazio e membro attivo della Banda della Magliana: è il primo calciatore che riesce a farsi espellere mentre viene sostituito. Il povero Konaté, che stava entrando al suo posto, si è dovuto riaccomodare subito in panchina. Qualcosa di simile è capitato anche a Ribéry. “Ho vinto tutto con il Bayern Monaco e sono il migliore della mia squadra” pensava, “il pallone d’oro è mio” pensava. Peccato che l’abbia vinto uno ancora migliore di lui. Bisogna inchinarsi al vero fenomeno di quest’anno, CR77. No, non è scritto male, a Bergamo lo chiamano proprio così: Cristian Raimondi, numero di maglia 77. Ci dispiace per Franck, forse l’anno prossimo con una pesante cura ortodontica avrà più possibilità di vincere l’agognato premio. Tiribocchi permettendo. Buongiorno Presidente La polizia continua ad indagare sugli strani eventi delle ultime settimane: dopo l’apparizione di Adriano nelle case il 25 dicembre, durante la notte dell’Epifania è stato avvistato Chiellini. Molti credono alla leggenda secondo cui entrambi vadano a distribuire regali ai bambini; in genere quelli che sono stati cattivi ricevono delle gigantografie di Tevez, mentre ai buoni vengono date le quote più convenienti di tutti i campionati europei, garantite da Mauri e Doni. A parte gli scherzi, è veramente vergognoso che dei calciatori combinino le partite per poi scommetterci sopra. Non bastava la Nazionale a far perdere credibilità al calcio italiano? E poi le scommesse sono diventate una vera malattia. Ora ci si possono giocare quote improbabili, come il numero di calci d’angolo o il numero di tiri di Guarìn fuori dallo stadio… be’, quest’ultima mica tanto improbabile. E’ il momento di fare dei saluti. Direi di iniziare con Lotito. Buongiorno Lotito! Come va? Com’è andato il cenone di Natale? Ah, era così abbondante che l’avete unito direttamente a quello di Capodanno? Comunque le assicuro che non la vedo affatto fuori forma, i bottoni della camicia saltati sono tre come al solito. Ha qualche dichiarazione in latino da farci, Presidente? Voi ditemi quello che volete, ma a me Lotito fa ridere tantissimo. E’ l’unico presidente che fa incontrare in amichevole due squadre entrambe sue, Lazio e Salernitana, così almeno una delle due non perde. Poi non ho mai visto in nessuna tifoseria una tale concordia d’opinioni sul proprio presidente: lo odiano tutti. Buongiorno anche a lei, Allegri! E’ sempre un’emozione avere a che fare con allenatori del suo livello. Uno che è riuscito a prendere due gol da Parolo nella stessa partita merita un trattamento di riguardo. Poi, quando ne ha presi quattro dal Sassuolo, hanno capito che forse bisognava cambiare il trattamento ed esonerarlo. Allegri, come farà adesso senza una squadra da allenare? Griderà “dai dai dai” a sua moglie mentre prepara la cena? Quando suo figlio gli porterà a casa un 3 in IACOPO GIORDANO 25 COMPONIMENTI CREATIVI IACOPO GIORDAN 26 “Parole che contano” (I) banali verità logiche sancite dal dizionario e si elude con un sorriso di scherno l'idea implicitamente critica che l'oggetto di tanti sforzi (cioè quello stesso dizionario) sia degno di interesse, si sta utilizzando una tattica codarda per mantenere senza sforzo lo status quo, e insieme per rubarci il mezzo con il quale dar voce alla nostra perpetua esigenza di affrancamento - da questo potere e da qualunque altro gli succeda. L’esplicitazione del carattere politico e polemico delle definizioni è dunque una componente essenziale di un progetto rivoluzionario ed è anche essenziale per proteggere lo spazio di manovra in cui ha origine ogni rivoluzione, la tenue ma irrinunciabile promessa di libertà offerta dalle parole. A un certo punto, la rivoluzione concettuale, personale e sociale auspicata in Oltre la tolleranza e articolata nel Manifesto per un mondo senza lavoro ha dovuto affrontare questo compito: portare alla luce il dissidio che attraversa le parole chiave della nostra comune esperienza e presentare con chiarezza i significati che ci stanno a cuore. […] C’è un’evoluzione precisa nelle tre fasi finora attuate di questo progetto. Oltre la tolleranza era il grido irato di una persona singola; il Manifesto portava invece le tracce, nella sua struttura espositiva, di un dialogo tra persone diverse, appassionate sostenitrici degli stessi ideali ma non per questo meno oneste nello stigmatizzare difficoltà e problemi connessi alla loro realizzazione. Il libro che avete davanti, di quel dialogo, vuole portare più che le tracce, vuole esserne il resoconto, l’espressione non di un individuo, ma di una comunità. È stata, ancora una volta, una sola persona a stenderne di fatto le pagine e, probabilmente, ciascuno dei membri della comunità avrebbe qualcosa da ridire sui dettagli di come le pagine sono state stese. Ma questo esito è inevitabile: ogni comunità continua, anche nell’accordo, a manifestare la sua inesausta, molteplice ricchezza, e di tale ricchezza si possono solo offrire, appunto, temporanei resoconti, istantanee presto datate, paracarri su cui sostare un attimo per riprendere fiato prima di proseguire il cammino. Chi ha scritto il libro ritiene, a torto o a ragione, di conoscere abbastanza lo spirito della comunità da poterne offrire questa istantanea, e perciò ha scelto di scriverlo nella prima persona plurale; ma è consapevole (e anzi spera) che questo passo avrà l’effetto di allargare e approfondire la discussione, non certo di chiuderla”. Ciao a tutti! Da tempo sto leggendo un libro, a mio parere molto interessante, con il titolo "Parole che contano". Quanto spesso utilizziamo termini dei quali non conosciamo il significato o propriamente il concetto puro che vogliono esprimere? A questo proposito Ermanno Bencivenga, professore ordinario di filosofia all'Università di California (Irvine), ci ha donato uno scritto che tratta molte parole spesso utilizzate con superficialità o semplicemente con poca attenzione riguardo la loro origine. In questo libro, organizzato a mo' di dizionario, vengono proposti diversi termini (dalla "A" alla "Z") ed accanto vi è riportato una definizione di natura politico-filosofica. Qui vi presento parte della sua "premessa": “[...] Le parole non sono neutrali. Spesso hanno importanti risonanze, alludono a elementi centrali della nostra forma di vita; il loro uso ci coinvolge emotivamente e intellettualmente. Appropriarsene, dunque, dettarne il significato, è un modo subdolo ma efficace per imporci una certa retorica, e per suo tramite scelte sostanziali e qualificanti. Quando mercenari senza scrupoli, guardiani di un sistema reazionario e repressivo, vengono etichettati come combattenti per la libertà e la grancassa dei mezzi di comunicazione diffonde questa etichetta per l'universo mondo, che cosa farà chi si oppone a quel sistema? Si dichiarerà contrario alla libertà? Cercherà un termine nuovo con cui manifestare le sue opinioni e le sue passioni? Abbandonerà nelle mani degli avversari una parola così ricca di storia e di valori come "libertà"? L'ovvia risposta a tutte queste domande è: No. Per parole del genere occorre lottare; la loro semantica è un problema politico, il terreno di un confronto costante tra interessi contrapposti. E occorre lottare perché la natura politica della situazione non venga celata dietro le sembianze ipocrite di una noiosa registrazione notarile. Il linguaggio è un prezioso e delicato strumento di esplorazione e ricerca, un teatro in cui inscenare mille sogni prima di provare a realizzarli - o magari, terrorizzati dalla loro rappresentazione, prima di metterli per sempre da parte. È il tessuto della nostra immaginazione, la sostanza della nostra apertura al possibile, la contrastata eppur ostinata garanzia che il nostro futuro è frutto di una scelta, implicita magari ma non per questo meno carica di responsabilità. Quando lo si inchioda alle regole dettate dal potere costituito, quando si trasformano arroganti prese di posizione in [Ermanno Bencivenga: Irvine, California, 2003] 27 I termini che esporrò sono quelli da me selezionati e non costituenti il totale contenuto del libro. Spero vivamente che possiate trovare interesse nel leggerli! ha valore positivo, allora volerne il bene significa provare piacere quando ottiene uno dei suoi valori e assisterlo in tal senso. Se voglio bene a un impiegato di banca ne seguirò con sollecitudine la carriera; se sono amico di un mafioso mi congratulerò con lui e con me stesso quando toglierà di mezzo un pericoloso concorrente o un giudice troppo solerte. Per noi invece il bene di un essere umano è quel che promuove la sua umanità, cioè la sua natura di soggetto; volerne il bene dunque non può significare approvazione e sostegno per quanto in lui si oppone a tale natura. Al contrario, significherà lottare per lui e (se possibile) con lui per redimerlo da questi errori, in nome di ciò che lo rende degno del nostro sforzo. In secondo luogo, l'affetto che mi lega a un amico, anche occasionale, nasce per noi dalla (sia pur oscura) consapevolezza che il suo essere è implicato nel mio, che la tua voce appartiene al mio dialogo interiore; quindi che essa non va fatta tacere ma va invece sostenuta, articolata, sviluppata. Nasce dalla mia fiducia nei suoi confronti: dalla mia apertura a quel che non sono ma che (l'amico mi rivela) potrei essere. (Siccome tale apertura non è necessariamente reciproca, noi riteniamo, incontrato con Aristotele, che non lo sia sempre nemmeno l'amicizia). A: Amicizia: Secondo una visione generalmente aristotelica, non esiste un'autentica comunità se non esiste amicizia tra i suoi membri: non di tutti con tutti ma di ciascuno almeno con qualcuno, così da formare una rete priva di lacune. Amicizia, in questa prospettiva, è un reciproco e consapevole volersi bene: un volere l'uno il bene dell'altro cui si accompagna l'emozione dell’affetto di un segno positivo (di pienezza, di arricchimento, di gioia) che il rapporto lascia nell’ identità di entrambi. E, sebbene ci sia per Aristotele un'amicizia ideale (fondata sulla migrazione per la virtù altrui), essa non è l'unica e non può nemmeno essere troppo frequente (in questo senso, si possono avere solo pochi amici); ci sono anche rapporti di mutua benevolenza fondati sul piacere che dà l'altrui compagnia o sull'utilità che se ne trae. Fra un commerciante ei suoi clienti di regola o fra due persone legate da attrazione sessuale, può circolare affetto e stabilirsi un amicizia; salvo che, quando il commerciante chiuda in negozio o la protezione balistica, tende a interrompersi il rapporto e con esso anche l'affetto (se nel frattempo l'amicizia non ha acquisito una base più ampia). Il modello liberista fa di tutto, in teoria e in pratica, per negare una simile visione della comunità, basata su legami personali. L'ideale che esso persegue è quello di individui indipendenti e tesi alla realizzazione del proprio interesse (di ciò che questo modello concepisce come tale). A due persone sessualmente attratte, dunque, o coinvolte in un rapporto di lavoro, può attribuire solo mire manipolative: ritenere cioè che cerchino di servirsi l'una dell'altra per ottenere egoistiche soddisfazioni. (Infatti secondo la razionalità sancita dal modello è meglio tradire piuttosto che cooperare ogni qualvolta la cooperazione non offra a sua volta un tornaconto individuale perché, diciamo, lavorare con te a un progetto comune mi aiuta a conseguire i miei scopi). Quanto ai "veri" amici, essi sono qui una realtà evanescente o, il che è lo stesso, pesantemente inflazionata: "è un mio caro amico", dice l'uomo d'affari di quasi tutti quelli che conosce. Noi siamo favorevoli alla visione aristotelica; riteniamo però che sia necessario approfondire “il bene” che gli amici si vogliono. In primo luogo, se quel bene è per un essere umano è semplicemente quel che per lui Amore: Si ama una persona alla quale si è legati da amicizia quando quella persona diventa per noi insostituibile, quando nessun altro potrebbe prenderne il posto. Nella visione corrente ogni essere, e in particolare ogni esser umano, è identificato con una struttura specifica e determinata (con un oggetto di un certo tipo) ed è quindi difficile capire come possa essere insostituibile. Nulla esclude, infatti, che persone diverse abbiano la stessa struttura, oppure io potrei essermi sbagliato nell’attribuire una certa struttura alla persona amata, ma nel qual caso arriverò prima o poi alla conclusione che non si trattava di vero amore ( “tu non sei quel che pensavo”) e rivolgerò altrove le mie cure. Chi si lascia guidare da questa visione avrà probabilmente una vita amorosa costituita da una serie di episodi disgiunti ciascuno concluso da un brusco risveglio, e, se vuole comunque legarsi a qualcosa di insostituibile, dovrà infine identificarlo non con una persona ma con la struttura specifica e determinata che continua imperterrito a cercare, nonostante le delusioni. Per noi invece un essere umano è uno spazio di libertà, un incontro/scontro tra molteplici e diversi progetti. Quel che non è, dunque, gli appartiene tanto quanto quel che è; la possibilità è parte della sua natura. Amarlo significa investire il proprio impegno 28 intellettuale, emotivo e pratico in tale possibilità, nell’umanità della persona amata: incoraggiare e sostenere la sua crescita, aiutarla a superare ogni stereotipo nel quale tende a cristallizzarsi, ogni ostacolo che la routine quotidiana pone alla realizzazione di tendenze perlopiù sommesse e implicite. In questa prospettiva, l’amore per una persona non dovrà mai rivelarsi “sbagliato”; a rendere quella persona insostituibile è precisamente il nostro impegno, che è indipendente dalle sue reali (cioè già realizzate) qualità, e finché l’impegno permane non sarà necessario cercare altrove. (In quanto guidato sempre dal non-essere, l’amore è sempre anche tensione verso un ideale). Lo stesso contrasto di prospettive vale per l’uso della parola “amore” in senso traslato e metaforico, in espressione quali “amore per l’umanità” o “amore per una causa”. Anche qui si può amare l’umanità per quel che si crede che sia e poi accorgersi che non lo è e passare direttamente a odiarla – e forse ad amare qualcos’altro. Oppure si può amare l’umanità per quel che non è ma potrebbe e dovrebbe essere, e sostenere con impegno e dedizione la sua crescita nella direzione voluta. in cui le mie mani o i miei piedi cominciano a muoversi in modo nuovo, la mia anima si esprimerà in essi tanto quanto nei miei pensieri o nelle mie parole. Che l’anima si esprima più spesso in pensieri e parole che in movimenti delle mani o dei piedi dipende solo dalla circostanza empirica che ci ha fatto trovare nel linguaggio uno strumento di liberazione più efficace e sicuro di altri. E che l’anima sia immortale significa per noi che nessuno forma sarà repressa per sempre: prima o poi le forze che la reprimono si indeboliranno, consentendole di manifestarsi. Una parte rilevante ma perlopiù dimenticata della tradizione ha sostenuto che non solo gli esseri umani hanno un’anima: che un’anima universale permea ogni ente. Noi guardiamo con favore questa (cospicua) minoranza e consideriamo l’oblio di cui è circondata, un atto politico di significato discriminatorio. Essa infatti vuole ricordarci che la diversità, il confronto e la lotta tra destini alternativi sono una caratteristica comune nell’essere. ARIA Anima: Per una lunga tradizione filosofica che si è incrociata con varie credenze religiose, l’anima è un ente immateriale, che dunque non occupa spazio pur agendo nello spazio. Un’anima è spesso associata ad un corpo, del quale sarebbe origine ultima cosicché, quando l’anima abbandona il corpo, questo giace inerte. Essendo immateriale, inoltre, e quindi priva di parti, l’anima è da molti considerata immortale; solo il corpo muore (cioè si divide, si spezza), l’anima se ne separa e continua a esistere nel mondo che le è proprio. Noi neghiamo che l’anima abbia una sostanza diversa dal corpo, ma continuiamo a pensare che esista un’importante divisione in proposito – solo diversa da quella tradizionale. Ogni ente è per noi sede di contrasto politico tra forme diverse, e in particolare tra forme che si sono radicate (e quindi non suscitano più sorpresa, sono conformi alle comuni aspettative, perfettamente calate in un ruolo oggettivo) e altre che non lo sono, ma esercitano continua pressione per mettersi in luce (ed eventualmente radicarsi). Il corpo di un ente, per noi, è costituito dalle sue forme radicate; l’anima da tutto l’humus di tendenze inespresse, di desideri, di invenzioni appena accennate che fa loro da sfondo e che costantemente minaccia (o promette) di “animare” una scena ormai consueta. Che il corpo sia costituito di materia, dunque, significa per noi che in esso certe forme sono riuscite a sottomettere, tacitare e strumentalizzare tutte le altre, ma non limita l’anima (o il corpo) a esprimersi solo attraverso enti di un tipo determinato. Nel momento I sogni I sogni sono sicuramente una delle parti più considerevoli dell'esistenza umana, o almeno io, ho sempre amato pensare che sia così. Mi sono sempre considerata una sognatrice e ritengo che i sogni siano forse la cosa migliore che qualsiasi creatura possa avere: essi sono la materia prima di tutta la realtà circostante, che si basa su ogni colpo di genio o "visione" dei nostri antenati. Tutti i grandi personaggi avevano un sogno, basta pensare al grande Nelson Mandela che credeva in un mondo migliore dove tutti potevano essere uguali tra loro senza discriminazione alcuna ed ha lottato per questo, anche la Gertrude del Manzoni a modo suo sognava, nonostante i suoi fossero sogni distorti, credendo di poter ricevere quell'amore che nessuno mai le aveva concesso. D'altronde ammettiamolo, ognuno di noi nella sua vita ha sognato ad occhi aperti almeno una volta, poi magari ha lasciato perdere ma a modo suo è riuscito a varcare i confini del mondo. Una delle cose migliori dei sogni, d'altronde, è la capacità di farti sentire libero mentre sali su, sempre più su, senza fermarti fino a raggiungere le stelle. I sogni però non sono facili da ottenere, servono degli ingredienti base: una buona dose di fantasia, qualche goccia di desiderio, una manciata di buona volontà, una parte della vostra anima e un pizzico di sano credere in ciò che si sta compiendo, poi si può “infornare il tutto” e vedere che cosa ne esce. Ricordiamoci che è necessario 29 ignorati durante il nostro passaggio sulla terra e di venire dimenticati subito dopo. Come difesa, l’uomo non può che aggrapparsi a certezze effimere, per non sprofondare. Da qua deriva la Coerenza come virtù per sentirci in concordia e armonia con noi stessi ovvio. E affinché anche io mi potessi sentire in pace con l’animo, ho lasciato a lungo tacere le mie mani e, infine, sono giunta alla conclusione di prima: la Coerenza non porta da nessuna parte. La Coerenza non dovrebbe esistere. Solo un pazzo potrebbe credere di poter rimanere lo stesso per tutta la sua vita. L’essere umano, sebbene rimanga, come persona, lo stesso, muta opinione senza mutare perché si accresce, inciampa e si corregge, cresce, percorre sempre strade nuove con i suoi piedi. Cambia e allo stesso tempo no. Insomma cambia o non cambia? Difficile dirlo, l’esperienza aggiunge sempre una nuova stratificazione, siamo come un muro che viene verniciato a nuovo ogni anno, la vernice originale resta ma è nascosta. All’esterno mostriamo i segni del nostro rinnovamento, siamo giustificati per il nostro cambiamento, andando avanti si aprono più vedute e diventiamo sempre più consapevoli di come vogliamo essere. Pur ritenendomi sulla retta via con la chimera della Coerenza da inseguire, sono affondata e ho rischiato di affogare ben più di una volta. In questo quasi infinito arco di tempo mi sono ritrovata sospesa. Fluttuavo di moto rettilineo uniforme senza incontrare alcuna forza ad imprimermi un’accelerazione tale da superare lo stato di inerzia. Soffocata dalla noia giacevo raggomitolata, un punto nella geometria del letto. Giusto un braccio pesante fuori dal piano, mollemente, scandiva il passare dei miei pensieri. Ero annientata, soppressa dalla noia; pesava l’insensatezza del mio vivere. Sbatacchiata dalla corrente, con il fiato smorzato in gola, m’infrangevo su pareti invasive. Ho galleggiato alla deriva travolta di volta in volta da onde spumose senza via di salvezza. Quando mi sono accorta che potevo toccare il fondale con i piedi, contro ogni pronostico, la situazione è peggiorata. Ho iniziato ad annaspare consapevolmente in quell’acquitrino. Mi sono lasciata cullare pigramente da problemi crogiolandomi nella totale inattività. Non avrei lanciato alcun SOS. Alla fine, per caso, ho deciso di salvarmi e di uscire dall’acqua. Ma ogni tanto mi ronza un pensiero tra le nuvole, adesso, ne sono davvero uscita? Perché scrivere un testo totalmente INUTILE? Forse perché mi dispiaceva cominciare di nuovo a scrivere senza fare una premessa, forse perché sono matta, oppure, perché dobbiamo sempre trovare una giustificazione e un fine a ciò che facciamo? Questo dunque è un elogio all’inutilità (e per estensione al genere umano… misantropia portami via). mettere tutto perché ogni cosa si rivelerà essenziale per ottenere poi le forme più strane e più belle. Tornando al discorso del volo, possiamo tranquillamente affermare che i sogni ti fanno staccare i piedi da terra portandoti sempre in alto, se li sai nutrire ti fanno salire così tanto che poi non vuoi più scendere ma vuoi continuare a salire ancora e ancora fino a poter toccare le stelle e vedere dove il mondo finisce e inizia l'universo cosparso di stelle e pianeti che lo riempiono come puntini colorati. A volte i desideri derivano da qualcosa o da qualcuno che a loro modo ti aiutano a librarti: si pensi ai poeti che sicuramente sono coloro che amavano di più salire nel cielo e perdercisi per un bel po'. Da parte mia, spero di poter fare come i poeti e di salire nel cielo per chiedere aiuto alle stelle, chiederò loro di donarmi un po' della loro magica fortuna per poter realizzare i miei desideri più nascosti così potrò tornare più spesso a trovarle e insieme ci divertiremo a riconoscere le altre stelle e tutti i pianeti; un giorno le batterò, riconoscerò tutto e loro ci resteranno male perché credo che siano un po' saputelle riguardo al Cosmo. Naturalmente auguro anche a tutti voi di poter sognare e di librarvi nell' Universo senza paura, di non smettere mai di credere in ciò che desiderate e arrivare fino in fondo, detto questo posso salutarvi. Buon viaggio, ci vediamo sulle stelle. SAFFO Delirio di mezzo inverno Ebbene sì, eccomi di nuovo qui a digitare lettere sulla tastiera. Mi ero promessa che, una volta firmato con il mio vero nome, avrei smesso di mandare stronzate alla Lucciola. Dopo tutto brucerei ogni mia passata creazione. Non è stato un addio facile e, a quanto pare, non si è dimostrato tale. Ho contribuito a far splendere questo giornalino per ben tre anni, diventando una tra i rifornitori numero uno, perché dunque abbandonare la mia costanza nel quarto anno in questo manicomio? Devo dire che ho resistito alla tentazione per ben due numeri, fiera di essere una persona coerente con sé stessa. Ma più vado avanti e più divento consapevole dell’assoluta inutilità della coerenza. Noi (brutto colpo per la mia superbia) genere umano abbiamo tentato di dare un valore ad alcuni atteggiamenti assecondando l’illusione di vivere in un luogo ordinato. Abbiamo sentito l’esigenza di classificare e separare ciò che è eticamente corretto e ciò che non lo è, di attribuire un valore alle azioni, di dare un senso alla vita; tutto per non sentire il peso della tremenda leggerezza del vivere. Non potevamo sopportare l’idea di essere insignificanti, di esistere per puro caso, di venire FELIX 30 Illusioni Siamo sognatori in una vita non così magica. Il desiderio di passeggiare tra le fiabe viene soddisfatto aggiungendo complicazioni all'esistenza. Siamo ciechi davanti a centinaia di deluse aspettative. Creiamo luce artificiale che volutamente indeboliamo con le lacrime. Siamo così teatrali. Immaginiamo un pubblico che ci osservi dalla finestra mentre danziamo in tondo per la stanza ad occhi persi. Vogliamo essere i principi del 2000 ricercando originalità nei protagonisti della nostra vita. Ci discostiamo dal banale ma aspiriamo tutti al tradizionale Oscar. Tranquilli siamo amici, fin che non arriviamo ultimi. L'equilibrio non è infinito e quando il nostro castello di carte cederà ne raccoglieremo i pezzi dicendo che era solo un gioco. GINGER R. Addii estivi I ricordi risuonano liquidi come canti, forti rimbombano nel petto i pianti: di uscire reclamano il diritto e le lacrime scendono di getto; come un leone in gabbia, percuote l'animo la rabbia. e il fuoco della memoria alimentano; si vedono sguardi tristi e risate, ma nuove amicizie sono nate. C'è un grande desiderio di tornare, ma per domani solo onde del mare che forti trascinano lontano, dove altri ti tengono per mano; l'inverno è imminente di scena, ma l'estate continua serena. I volti, ormai fantasmi bianchi invisibili agli occhi, nel cuore risiedono ELISABETTA TORTORA L’arte del Significare Un’avventura di cinque anni. Cinque anni di Manara, laddove il Manariota diveniva Manariano, una volta attraversato il MetaLuogo quale era il Presidio. L’Uomo del Presidio era, nel suo stupore, uno specchio, ed il riverbero non spariva subito, insieme al più o meno fugace avventore. L'immagine restava un po’ lì, ad aspettare il riflesso seguente, quasi a volersi confondere con lui. Così si è composto il filmato, scena dopo scena, un mormorio crescente, il vociare di un coro d’orchestra prima di iniziare. L'onda è il falso movimento, l'illusione liquida che qualcosa cambi, quando passa. Cavalcarla è il solo modo per cambiare, bisogna cogliere il momento. Ecco il momento, quel piccolo tempo che ogni tanto ci illumina con la sua radiosa realtà. Capita a tutti, magari con sensazioni diverse e a cadenze variabili. Difficile che qualcuno possa essere fuggito dal suo inaspettato avvento. In quel momento ci si sente vivi. Semplicemente. Ma anche spaventosamente, nella misura in cui si capisce solo allora quanto poco si era coscienti prima. E dopo. Sempre, in fondo. E così passano i giorni, gocciolano mese dopo mese, fino a che gli anni sembrano ancora giorni. Tutto così, come una passeggiata, una gita lungo un bel sentiero. Poi ci si ferma, in quel momento. E si guarda indietro. Tutto quel cammino, possibile sia solo quel piccolo viottolo? Eppure, all'inizio del passo, già si raccontavano le avventure. MARINO SCARPOCCHI, Presidio Medico 2008-2013 31 Rifece un sogno. L’aria mancava, e Arnolphe si sentiva tutto rattrappito, indolenzito. Aprì gli occhi, e si rese conto che era coperto di tela, e che questa gli ostruiva in particolare la zona della bocca e delle narici. Cercò convulsamente di togliersi la tela, mentre tratteneva a fatica un conato di vomito; e poi nel fetido tunnel vide il ragno avvicinarsi nervosamente, per poi fermarsi appena sopra di lui. Arnolphe soffocò un grido, si alzò e corse via. Il ragno lo inseguiva, lo braccava. Poi il tunnel si aprì su uno spazio vuoto, e Arnolphe si ritrovò in bilico su di un filo con un banco di nebbia infinita sotto di lui. Inizialmente fu silenzio, un silenzio carico di brividi, brividi di angoscia ma anche di qualcosa di diverso, un sentimento forte e vitale che Arnolphe poteva ormai provare solo nei sogni. Ma la stasi durò poco: il vortice di nebbia cominciò ad attrarlo, a trascinarlo verso il fondo. Lui si appese al primo appiglio che trovò, prima di accorgersi con orrore che era anch’esso tela. E da questa, un milione di piccoli ragnetti, sudici, strisciarono verso di lui, si insinuarono nelle sue vesti e, con mille morsetti, lo punsero. Arnolphe a quel punto si sentì mancare, barcollò via sul filo precario. E lì, con un rantolo, si contrasse, rattrappì e cadde giù nel baratro. La Tana del Ragno Parte seconda Erano ormai passati giorni, forse settimane, da quando Arnolphe si era reso volontariamente prigioniero nel proprio soggiorno. In quei giorni, il suo chiodo fisso era certo stata la sua camera da letto, dimora ormai dell’odiato ragno, alla quale non poteva fare a meno di pensare con un che di gelosia, oltre che di disgusto. Erano appunto passati giorni, e il ragno con tutta probabilità se ne era già andato, ma lui volle pazientare un altro po’: la prudenza non è mai troppa, e certo non voleva stimolare la curiosità del mostro. Tuttavia pazientare, quando sei completamente privo di passatempi, stava diventando alquanto insostenibile. Se almeno avesse preso delle candele per permettersi un po’ di lettura! Arrivò un giorno in cui Arnolphe non poté più fare a meno di far qualcosa e decise di adoperarsi per permettersi la lettura. Detto ciò, prese un tizzone dal camino e cercò di sistemarlo, in maniera da dargli luce ma da non bruciacchiarlo. Tuttavia gli mancava una base, un sostegno. Infilò allora quel pezzo di legno nella piega tra un cuscino e il divano, abbastanza lontano dalla faccia, ma non troppo, e, tutto contento, corse in libreria a prendere un libro, uno qualsiasi. E lì trovò quello che cercava e, adagiatosi sotto la coperta, prese finalmente a leggere. Ma dopo un po’, il fuoco del camino e insieme del tizzone, il torpore delle lenzuola – e forse in buona parte anche la capacità soporifera del libro scelto – gli giocarono un brutto scherzetto: si addormentò. Si addormentò senza avere il tempo di adagiare o risistemare il tizzone da un’altra parte, e uno schioppo a due centimetri dalla sua faccia lo mise a parte della sua mancanza: il divano aveva preso fuoco. Alzandosi e gridando, Arnolphe scattò lontano dal divano e stette a guardare incredulo la fiamma spandersi sul tessuto a macchia d’olio, per arrivare anche alla sua coperta. Il fumo si stava facendo soffocante: Arnolphe indietreggiò con un po’ di riluttanza, poi si decise, corse fuori dalla stanza e cercò di chiudersi la porta dietro per non far passare il fumo. Peccato che, in tutti quegli anni, Arnolphe non si era mai dato pensiero di chiuderla, quella porta, e ora si scopriva inevitabilmente fuori uso. Bestemmiò. Il fumo si era già fatto spesso, e il vecchio dovette scappare. Passò barcollando davanti alle scale e pensò che non c’era tempo per salirle. Così corse in cucina, e ci si chiuse dentro. Si sedette, in preda all’agitazione più nera. L’aria, già viziata di suo, si faceva sempre più pesante; il cuore era ormai in piena tachicardia e la testa gli prese dapprima a girare, poi letteralmente a vorticare, fino a che non gli sembrò di esplodere. In poche parole, cadde dalla sedia, e svenne. Arnolphe si svegliò. Stropicciò lentamente gli occhi e ricompose i ricordi dell’accaduto. Era in pessime condizioni, la testa sembrava esplodergli e in più sentiva una fitta fortissima all’altezza della gabbia toracica: doveva essersi incrinato una costola. Arnolphe era stanco, dolorante e ancora intorpidito, e per un po’ rimase fermo, immobile, cercando di ricacciare indietro un forte senso di vuoto che gli rendeva gli occhi lucidi. Voleva arrendersi, aveva un terribile bisogno di arrendersi, di poter rimanere per sempre così, di non doversi alzare mai più. Ma si alzò, invece, con molta fatica, ma si alzò: doveva controllare i danni di quell’incendio. Si appoggiò al bordo del tavolo, e per qualche secondo ebbe fatica a tenersi in equilibrio. Poi, stabilizzatosi, si trascinò verso la porta e la aprì, accompagnandosi con un sospiro. Lentamente raggiunse il salone. Per fortuna, l’enorme camera era completamente spoglia, e l’incendio non trovando alcun mobile non era riuscito ad espandersi. Il divano in compenso ne era uscito completamente distrutto. A quella vista, Arnolphe fu preso dallo sconforto: si sedette, quasi accasciandosi, e non trattenne più il pianto. Quel 32 divano era l’unico “lusso” che si era permesso da quando viveva in quella casa: venduti tutti i mobili che stavano là prima di lui per evitare di prendere qualsiasi contagio dai senza-tetto, Arnolphe aveva comprato quel divano che era nuovo di zecca. Aveva passato gran parte dei suoi ultimi anni lì, a leggere o a riposare, e adesso era distrutto, così come era stata distrutta la sua pace dall’arrivo del ragno. Il ragno! Arnolphe pensò all’incendio: non poteva essere che quel mostro fosse talmente testardo da restare in una casa priva di cibo anche quando va a fuoco. Così si affrettò a raggiungere le scale, deciso a riprendersi il possesso dei proprio spazi. Pensò all’opera di pulizia che avrebbe dovuto fare per via delle ragnatele, ma nemmeno un pensiero del genere lo bloccava più: per una volta, provava anzi entusiasmo. Salì le scale e si ritrovò davanti alla porta. Lì ebbe un attimo di esitazione. Poi prese un respiro profondo, infilò la chiave nella serratura, e la girò. E poi gridò: il ragno era ancora lì, orribile, e aveva coperto tutto il soffitto di una fittissima tela. Tuttavia aveva un’aria diversa: stava fermo, quieto, non dava segni di coscienza. Gonfiava l’addome in maniera regolare, in realtà, come se stesse dormendo. Sì, stava dormendo. Arnolphe era paralizzato: non riusciva a decidersi se andare avanti o tornare indietro, tanta era la paura di svegliare la bestia. Ma era ormai troppo tardi: questa già muoveva appena la testa, poi sgranchì le otto zampe stendendole all’unisono e, uno ad uno, aprì anche gli occhi. E che si fosse reso conto della presenza di Arnolphe era innegabile. Non scattò, tuttavia, come la prima volta che si erano incontrati, né si mise in agguato, né sibilò, ma rimase immobile a fissare il suo ospite. Sembrava stordito, forse a causa del fumo, e pure molto stanco. In poche parole, il ragno era evidentemente provato dal digiuno. All’inizio Arnolphe se ne compiacque, ma poi si scoprì molto seccato: perché diamine quella bestia si ostinava a voler restare in quel luogo, persino a dispetto della sua salute? E sull’onda di questo sentimento, Arnolphe cominciò anche a sentirne altri: gelosia dei propri spazi, poi rabbia, collera e ancora dopo odio. Preso dall’impeto, Arnolphe sbatté la porta. La bestia schizzò, di soprassalto e si ritirò indietro. Arnolphe le tirò un’occhiataccia di fuoco e, preso dalla foga, irruppe nella camera e si sedette sul letto. Poi guardò un’altra volta la creatura e, con la faccia di chi vuole far scoppiare una guerra, si coricò. Ma non ci volle molto per pentirsi di ciò: il ragno, dapprima rimasto sbigottito e confuso, si rizzò su stesso, infuriato per l’intrusione, e prese a sibilare più forte che poteva. Poi, non vedendo alcuna reazione da parte del vecchio - che in realtà stava fermo molto più per terrore che per coraggio –, aprì i due denti neri e cominciò a fare delle bolle di bava bianca con la bocca. Il povero Arnolphe realizzò con disgusto quello che stava succedendo: la bestia, sentendosi minacciata e provocata, stava per usare la sua tela come arma di difesa. Una goccia di bava di ragno, grande quanto la sua testa, si staccò dalle fauci e cadde sul petto di Arnolphe, calda quanto fetida. Subito un’altra andò a finirgli sull’anca destra, e un’altra ancora pericolosamente troppo vicina alla testa. Arnolphe cominciò a sentirsi soffocare: immaginò quel liquido denso e vischioso che lo ricopriva tutto, e il mostro, che con i suoi due denti fetidi, penetrava nella sua carne e succhiava via il suo sangue. Il realtà, il povero vecchio non si rendeva conto in quel momento di quanto fosse una preda ben troppo grande per quel ragno, e di quanta tela sarebbe stata necessaria per intrappolarlo completamente. Sta di fatto che Arnolphe, non certo per nervi saldi, rimase fermo e immobile nel letto e il ragno, consapevole della sua inferiorità in termini di dimensioni, interpretò ciò come noncuranza e indifferenza. Così, infastidito dalla prepotenza del vecchio, smise di bombardarlo di bava e cominciò nervosamente a tessere la sua tela ingrandendola, come a voler marcare il proprio territorio. Nel frattempo il povero Arnolphe, mentre guardava la bestia che scattava da un parte e dall’altra sopra la sua testa, sarà stato il dolore alla gabbia toracica, sarà stata l’assenza di sonno in quegli ultimi giorni, sarà stata la fame, e soprattutto lo spavento, ma sta di fatto che si addormentò di sasso, e non riprese coscienza per un bel po’ di tempo. 33 perché lo proteggiamo e lui protegge noi. Siamo degli spettri. Nessuno sa nulla su di noi”. Ero in pericolo. Pensai subito al perché quei banditi assassini avessero liberato proprio me, un letterato che nemmeno sapeva prendere in mano un fucile. Ma dopo mi vennero in mente i miei genitori e mi passò ogni paura. Il sapore della vendetta cancella ogni prudenza. Erano trascorse parecchie ore da quando ci allontanammo dal bosco. Gli chiesi dove stavamo andando e non me lo vollero dire. Erano diventati improvvisamente seri, pure Cassio. Poi Squarcio canticchiò una melodia, che ora non esce più da questa mia testa canuta: “Combatti! Combatti e sarai un vincitor”. Familiari erano anche allora quelle parole. Ma certo! Zio Oliviero. Sì, lui me la canticchiava la sera! Proprio lui! E come faceva Squarcio a conoscerla? Ci avvicinammo ad una facciata vecchia di una grande casa che era appena spuntata tra le querce e lasciammo fuori i cavalli. Abbracciai e accarezzai Afro prima di entrare. Il primo a valicare la porta fu Tauro che mi diede una pacca sulla spalla per farmi passare. La casa era molto antica. La prima cosa, che vidi entrando, fu una bellissima statua in marmo, lavorata nei minimi dettagli. Rappresentava una dea dell’antica Grecia, forse Venere. Sulla destra c’erano una dozzina di bauli e delle botti. Sulla sinistra, un paio di stivali neri, cinque maschere appese alla parete e alcuni indumenti. “Dove ci troviamo?” chiesi sussurrando a Tauro. Pensai non mi avesse sentito perché non mi diede retta. Da dietro mi rispose Cassio: “Nella nostra casa dovrebbe esserci anche Tredici”. Allora mi si gelò il sangue. Sentimmo dei rumori provenienti da giù, un uomo stava salendo le scale e arrivando al piano superiore verso di noi. Oliviero. Mio zio. Squarcio esclamò: “Tredici!”. Non ci volevo credere e non sorrisi nel rivederlo. Sgranai solamente gli occhi. Aveva la barba più lunga e mi guardò: “Figlio mio!”. Mi abbracciò, ma fui impassibile. Disse a Tauro di andare al piano di sotto con gli altri che si congedarono. Non dissi una parola. Non sapevo se era più forte l’emozione nel vederlo o la sorpresa di avere uno zio, che consideravo padre, assassino di tredici uomini. La meravigliosa e trista storia di poeti, scrittori e impavidi briganti Sommario del precedente episodio: dopo peripezie di ogni tipo, che nessun uomo veramente sano in ingegno ebbe mai osato solamente figurarsi, il nostro Fausto Corsetti si ritrova libero e prigioniero di nuovo. Cosa nascondono i misteriosi cavalieri suoi salvatori? Perché la loro incursione? Parte terza “Ehi, ti vuoi muovere a rispondere!?”. Non lo so se per la paura di tutto ciò che avevo visto o per paura di tutto ciò che potevo ancora vedere che raccontai tutto, ma proprio tutto. E lo feci dal principio. Ma in cambio, anche lo stesso Cassio parlò. L’uomo che vidi per la prima volta dietro alla grande quercia era spagnolo. Si chiamava Rodrigo, ma lo chiamavano “el Tauro” per la sua forza fisica. Era un “ hombre robusto y fuerte”. Altissimo, aveva una carnagione scura e due occhi nero corvino. Ero convinto che poteva stritolare chiunque con una sola mano, anche la belva più feroce. Per mia fortuna non ci litigai mai. Il suo migliore amico, non che il terzo uomo giunto a salvarmi, era soprannominato Squarcio. Aveva una cicatrice profondissima sulla coscia della gamba sinistra. Tauro mi raccontò che gli era stata provocata da un animale feroce che non riuscì mai a vedere, “era el diablo, seguro”. Squarcio non parlava molto, era un uomo di circa quarant’anni di cui nessuno sapeva il nome, o forse non me lo volevano dire. Cassio Ciurmini, invece, non aveva un soprannome ed era sicuramente il componente più normale del trio. Non aveva una storia alle spalle e, al contrario di Squarcio, parlava molto. Presi subito molta confidenza con lui e anche con Tauro. Probabilmente non ero molto gradito da Squarcio, che mi fissava con cattiveria e sospetto. Salimmo sui nostri cavalli e uscimmo dal bosco in cui ci eravamo fermati. “Vieni con noi giovane, ti dobbiamo far conoscere una persona” mi urlò Cassio. “Chi?” chiesi un po’ spaventato e, per prima volta, parlò Squarcio: “Tredici, un folle”. Rimasi un po’ colpito dalle prime parole di Squarcio, ma capii che verso quest’uomo nutrivano tutti una stima incredibile. “E’ un matador” intervenne Tauro “pero es nuestro companero”. Poi Cassio: “Uccise in un solo giorno sette governanti e sei principi. Noi siamo dei santi GIAN MARIA GHERARDI GUIDO PANZANO 34 Il termine per la consegna degli articoli per il numero di Febbraio è il 21 febbraio: gli elaborati si possono far pervenire via mail (lucciola.manara@gmail.com) o direttamente ai membri della redazione. 35 36
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