La Lucciola - Gennaio 2014 - Liceo Classico Luciano Manara

LA LUCCIOLA
Gennaio 2014
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INDICE
Editoriali:
Editoriali dei direttori di Sofia Zollo e Guido Panzano…………………………………….…...............3
Articoli:
Neoliberismo: globalizzazione non intelligente di Daniele Marcelli…………………………………..4-6
Il sogno di Olivetti di Alice Bertino……………...…………………………………………………….6-7
Mitica Nostalgia di Marta Spizzichino…………...……………………………………………………...8
“Lo so fa’ pur’io” di Eleonora Di Benedetto………………………………………………………...9-10
Non accusate l’arte di Elisa Biagi………………………………………………………….….....…10-11
XXI secolo: la strage degli intellettuali di Petronio.………………………………………………..11-13
Il rispetto del segreto e il vuoto dietro ai suoi occhi di Guido Panzano…………………………….13-14
Gli sprazzi di bellezza di Roma cialtrona di Alessandro Vigezzi…….……………………….……14-16
Jack Smith e la sessualità perversa e lussureggiante di Luca Zammito……………………………16-18
Il Pianista di Elisabetta Tortora………..……………………………………………………………19-20
“Ballata di Uomini e Cani”: Paolini riscopre Jack London di Luca Zammito…………………….20-21
50 sfumature di Londra di Martina Mangione………………………………………………………….21
Il volontariato esiste di Ginger R. ..…………………………………………………………………….22
Uomini e animali di Chiara Del Tavano………………………………………...………………..…23-24
Buongiorno Presidente di Iacopo Giordano……………………………………………………………25
Componimenti creativi:
“Parole che contano” di Aria…………….……………………..………..………………………...27-29
I sogni di Saffo……………………………….……………………………………………………...29-30
Delirio di mezzo inverno di Felix………..…………………………………….………………………..30
Illusioni di Ginger R. …………………………………………….…………………………………..…31
Addii estivi di Elisabetta Tortora…………………………………………………………..……………31
L’arte del Significare di Marino Scarpocchi…………………………………...……………………….31
La Tana del Ragno: parte seconda………………………………..………………………………...32-33
La meravigliosa e trista storia di poeti, scrittori e impavidi briganti: parte terza
di Gian Maria Gherardi e Guido Panzano……………………………………………………………....34
Direttori: Guido Panzano e Sofia Zollo
Caporedattore: Luca Zammito
Impaginazione: Luca Zammito
Copertina: Eleonora Alessandri
Docente referente: Giulio De Martino
Si desidera ringraziare i redattori, la segreteria, il Dirigente Scolastico Fabio Foddai e, in particolar
modo, Loredana Polentini.
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EDITORIALI dei DIRETTORI
Credo sinceramente nel cambiamento e nella crescita personale, nel progresso e nella critica costruttiva;
credo che La Lucciola stia crescendo e che si stia organizzando, che non si sia mutata nella pallida
imitazione de “Il Corriere della Sera”, come alcuni hanno sostenuto, ma che stia solo diventando un progetto
realmente serio nella nostra scuola. Però, fatemelo dire a tutti coloro che hanno mosso critiche diffuse da
voci in corridoio, fatevi avanti e giudicate, commentate, prendeteci a parolacce ma almeno dite apertamente
ciò che pensate, perché questo non è il monopolio di quattro direttori, è un giornalino studentesco in cui ogni
singola idea viene ben accetta, per quanto magari non ci vada a genio. Come già hanno promesso altri, vi
assicuro che qualsiasi proposta, biasimo o censura che vogliate fare sarà presa in considerazione, e se lo
mettete nero su bianco ve la pubblichiamo.
Con tutta la speranza che questo freddo non vi impedisca di pensare, date vita ai vostri neuroni.
SOFIA ZOLLO
Cari amici,
non posso che confermare le parole qui sopra. E non posso che confermare che sono orgogliosissimo,
nonostante tutto, del lavoro che stiamo portando avanti. Molti di noi hanno la maturità, tutti abbiamo da
studiare, ma comunque ci crediamo in questo nostro progetto. E anche se abbiamo creato un giornale
“noioso”, “enciclopedico”, “troppo serio”, almeno abbiamo avuto il coraggio di farlo e di prenderci questo
impegno.
Si parla sempre di coraggio. Noi abbiamo avuto il coraggio di fare uscire La Lucciola una volta al mese
(anzi, direi proprio di farla uscire), di riorganizzare un po’ le cose, di intrattenere rapporti con la nostra
scuola, di trattare sulle copie (che per questo numero saranno tantissime, a meno di tragici errori di stampa).
Chi critica senza intervenire e proporre fa solo un buco nell’acqua. Chi scrive, chi disegna, chi si esprime su
questo giornale ha il coraggio di metterci la faccia. A voi il resto.
Nonostante tutto, non voglio ridurre queste righe a un acido rimbrotto. Quindi, Manariote e Manarioti, ecco a
voi il terzo ambizioso numero, quasi la metà dei sette che ci siamo proposti.
Speriamo vivamente che vi piacerà leggere queste pagine. Vi avverto che non troverete risposte ma molte
domande.
Abbiamo il coraggio di farci le domande giuste; per le risposte c’è tempo.
Un abbraccio,
GUIDO PANZANO
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da uno sviluppo generalizzato, dato che i profitti
economici dell’azienda vanno a ricadere nel luogo in
cui essa ha effettivamente sede e non in quello in cui
la fabbrica è attiva. Altro problema correlato è quello
delle condizioni di lavoro cui viene sottoposta la
manodopera, talvolta anche minorile, costretta a
lavorare più a lungo e con salari nettamente più bassi
di quanto non accada nei paesi occidentali. In ogni
caso il modello di libero scambio globale ha
mostrato la sua fragilità a più riprese nelle varie crisi
che si sono succedute negli anni ’90 del Novecento
sino alla grande crisi del 2008, per quanto
quest’ultima abbia avuto inizio in un periodo segnato
da una maggiore intraprendenza statale e da un
regresso delle dottrine thatcheriane e reaganiane.
La prima di queste crisi, avutasi in Messico fra il ’94
e il ’95, fu determinata dall’improvvisa svalutazione
del pesos (perse quasi il 50% del suo valore in
quattro mesi) e fu frenata dai quasi 50 miliardi che la
comunità internazionale e soprattutto gli Stati Uniti,
intimoriti da un possibile effetto contagio (“effetto
tequila”) in altri paesi dell’America Latina
fondamentali per la loro economia, versarono nelle
casse del neoeletto governo di Ernesto Zedillo.
La crisi, inoltre, era stata preceduta dalla stipulazione
di un accordo fra lo stesso Messico, gli Stati Uniti ed
il Canada per la creazione del Nafta, l’accordo
nordamericano per il libero scambio, il cui ruolo
nella recessione del ’94-’95 è tutt’oggi dibattuto.
Quel che è certo è che l’entrata in vigore del trattato,
il 1 gennaio ’94, portò alla rivolta i contadini del
Nord del paese, molti dei quali, spaventati
dall’abbassamento dei prezzi dei prodotti alimentari
causata dalla concorrenza con quelli del mercato
americano, finirono per confluire nell’esercito
Zapatista di liberazione nazionale.
Neoliberismo:
globalizzazione non intelligente
A partire dalla seconda metà del Novecento sino ad
oggi, in ambito economico, la globalizzazione,
ovvero l’ “unificazione dei mercati” che ha spinto
“verso modelli di consumo più uniformi e
convergenti”, è uno dei pochi fenomeni ad aver
vissuto una crescita costante. È, dunque, la
globalizzazione,
una
delle
caratteristiche
fondamentali del sistema economico avviatosi nel
mondo a partire dalla Seconda Guerra Mondiale,
come logica conseguenza della mentalità capitalista
che aveva accompagnato l’emergere delle potenze
anglosassoni fin dal Settecento, e ulteriormente
diffusosi fra gli anni ’80 e ’90 del Novecento a
seguito delle politiche neoliberiste portate avanti in
Inghilterra dalla Thatcher e negli Stati Uniti da
Reagan e sostenute dal FMI e dell’OMC per tutti gli
anni ’90. Se negli ultimi due decenni del secolo
scorso questa strategia economica veniva
complessivamente vista con un certo favore da
un’opinione pubblica globale abbagliata da tassi di
crescita del PIL costantemente positivi, col nuovo
millennio, crescente si è fatto lo scetticismo verso la
nuova forma che stava assumendo l’economia
globale da parte sia di economisti di livello sia dagli
emergenti movimenti no-global, gruppi di protesta
basati sulla critica al neoliberismo e più in
particolare alle multinazionali ree, in linea con
quanto espresso dall’autrice canadese Naomi Klein
nel suo “No Logo”, di delocalizzare la produzione
dai paesi occidentali alle Free Trade Zone (FTZ) di
quelli in via di sviluppo. Le conseguenze di un tale
processo sono sicuramente negative per il paese che
subisce la delocalizzazione, in quanto esso vedrà
una contrazione degli occupati resa ancora più grave
dai danni che subisce tutto l’indotto dell’azienda che
sposta la sua produzione. Nel paese in cui questa
viene trasferita, invece, innegabili sono i vantaggi
anche se essi restano limitati alla creazione di nuovi
posti di lavoro senza che questa venga accompagnata
Questo clima di instabilità che, tra l’altro, vide anche
l’uccisione del candidato alle elezioni del partito di
governo PRI nonché il proliferare del narcotraffico
con la nascita del noto gruppo dei “Los Zetas”,
favorita anche dalla di poco precedente morte di
Pablo Escobar, leader del cartello di droga di
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Medellin, e dalla conseguente decadenza di gran
parte dei gruppi di narcotrafficanti colombiani,
sicuramente non scoraggiò la fuga degli investitori
stranieri dal Messico né fu utile l’iniziale
stabilizzazione del tasso di cambio peso-dollaro
prevista dal Nafta. Un’altra parte della storiografia
tende, invece, a sottolineare l’importanza del Nafta
nel garantire al Messico un adeguato salvataggio.
Allarme ancora più forte fu quello che venne dal
Sud-Est asiatico con le crisi contemporanee di
Thailandia, Indonesia, Malesia, Filippine e Corea del
Sud nel 1997, crisi che segnarono la conclusione del,
fino ad allora celebrato, miracolo delle tigri
asiatiche. Interessante anche il fatto, sottolineato dal
premio Nobel per l’economia J. E. Stiglitz nel suo La
globalizzazione e i suoi oppositori, che i paesi che ne
uscirono peggio, Indonesia e Thailandia, siano stati
quelli che si erano uniformati più diligentemente alle
direttive neoliberiste del FMI, mentre la Corea del
Sud e la Malesia che si sollevarono più rapidamente
e meglio da tale crisi erano i paesi che anche
nell’emergenza si erano mantenuti più vicini al
“modello asiatico” di forte investimento pubblico.
ad oltre il 20% ed un terzo della popolazione viveva
al di sotto della soglia di povertà. Il governo di De la
Rua, eletto alla fine del 1999, e del suo ministro
dell’Economia Caballo, nominato nel marzo del
2001 (ma aveva ricoperto lo stesso ruolo già con
Menem) e poco più tardi arrestato, fu fautore, come i
due precedenti, di un’agenda politica di stampo
neoliberista che, sulla scia delle direttive dell’FMI,
prevedeva tagli alla spesa pubblica ed in particolare a
stipendi e pensioni. Questi si rivelarono, tuttavia,
insufficienti e, così, il governo fu costretto prima a
sospendere i rimborsi dovuti alle istituzioni
finanziarie internazionali e, poi, in seguito
all’interruzione del nuovo prestito da parte del FMI,
al blocco dei conti correnti, blocco che colpì i piccoli
e medi risparmiatori e che provocò manifestazioni
spontanee fino alle dimissioni dell’esecutivo.
Il paese, traghettato fino alle nuove elezioni del 2003
dal governo di unità nazionale di Duhalde, infine,
abbandonò la parità fra peso e dollaro e svalutò
notevolmente la moneta nazionale, ma fu solo con le
politiche di marca socialdemocratica antiliberista,
attuate, pur con diverse ombre, dal neo-eletto
presidente Kirchner, che riuscì a sollevarsi dalla
situazione di grave emergenza in cui era precipitato.
Le tre crisi esaminate, tutte causate da problemi
finanziari, dimostrano come in alcuni casi (Messico,
Thailandia, Indonesia, Argentina con De la Rua e
prima con Menem) i paesi in questione, anche per
l’instabilità politica interna (in Messico l’uccisione
del candidato alla presidenza Colosio; in Thailandia
gli scandali di corruzione che colpirono il primo
ministro Banharn, il cosiddetto “mister Bancomat”;
in Indonesia le rivolte contro il più che trentennale
governo di Suharto cominciate nel ’96 e culminate
con le dimissioni di questo nel ’98; in Argentina
l’arresto prima di Menem e poi di Caballo), abbiano
ceduto una parte della loro sovranità venendo
incontro alle prescrizioni di un FMI che si stava
ponendo come garante di un mondo sempre più
globalizzato e degli interessi della finanza
internazionale, mentre in altri (Corea del Sud,
Malesia, Argentina con Kirchner) i governi abbiano
rafforzato il proprio potere e aumentato gli interventi
diretti dello stato nazionale sull’economia del paese,
andando però in una direzione opposta a quella della
crescente globalizzazione. Queste alternative sono in
realtà solo due delle tre che il noto trilemma
elaborato da Rodrik nel suo La globalizzazione
intelligente prospetta. L’economista americano,
infatti, parte dal presupposto che “non è possibile
perseguire
simultaneamente
la
democrazia,
l’autodeterminazione nazionale e la globalizzazione
economica”, indi ne consegue che necessario è il
venir meno di uno di questi tre fattori. Rinunciare
allo
Stato-Nazione
e
mantenere,
quindi,
globalizzazione e democrazia significherebbe creare
Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni
Duemila, anche altri paesi, come la Russia e il
Brasile, entrarono in crisi ma esemplare è il caso
argentino del 2000-2001. Il paese versava, già verso
la fine del millennio, in una situazione di profonda
recessione con un enorme debito estero e un sistema
economico indebolito dalle privatizzazioni selvagge
e dallo smantellamento dello stato sociale operato
dal governo Menem in due mandati fra il 1989 e il
1999. Mentre l’oligarchia si arricchiva trasferendo
capitale all’estero, la disoccupazione cresceva fino
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una comunità democratica globale, progetto
ovviamente irrealizzabile, tanto più in un momento
in cui risulta ardua ed utopistica finanche la
creazione di uno Stato unico su un territorio
relativamente piccolo come quello europeo,
nonostante la presenza di istituzioni economiche e
politiche già radicate. L’unica alternativa che si
configura è, dunque, quella fra democrazia e
globalizzazione. Depotenziare la democrazia è però,
ora come ora,
quanto di più pericoloso
immaginabile, in quanto, oltre ad essere quello
democratico, il modello che la storia ha rivelato
vincente, l’elezione più o meno diretta dei propri
governanti è l’unico modo che resta alla popolazione
per poter intervenire sulle decisioni che ne
condizionano il futuro, e obbligatoriamente l’unica
soluzione ammissibile è quella di limitare la
globalizzazione creando un sistema equilibrato come
quello immaginato da Rodrik costituito da “Uno
strato sottile di regole internazionali, che lascino
ampio spazio di manovra ai Governi nazionali, […]
una globalizzazione migliore, un sistema che può
risolvere i mali della globalizzazione senza
intaccarne i grandi benefici economici. Non ci serve
una globalizzazione estrema, ci serve una
globalizzazione intelligente”.
Il sogno di Olivetti
Recentemente ho visto in televisione uno
sceneggiato in due puntate che raccontava la vita di
Adriano Olivetti, intitolata "La forza di un sogno".
Fin da quando ero piccola, ho sempre sentito i miei
genitori, entrambi ingegneri che hanno lavorato in
Olivetti, parlare della storia di quest'uomo che ha
rivoluzionato il modo di vedere l'industria, tanto da
essere diventato un modello ispiratore per tanti
giovani che, come loro, hanno deciso di
intraprendere lo stesso mestiere.
Avevo sentito nominare questo cognome, "Olivetti",
tante volte e tante volte l'avevo visto scritto su libri e
giornali che trovavo in casa, ma non avevo mai
capito fino in fondo tutto quello che realmente c'era
dietro. Per questo motivo, quando ho visto che su
Rai 1 davano uno sceneggiato su di lui, ho deciso,
incuriosita, di guardarlo, nella speranza di capirci
finalmente qualcosa. E la sua storia, certamente un
po' romanzata per quanto riguarda le vicende
personali, ma vera per quanto riguarda il suo lavoro e
la sua missione, mi ha colpito tanto che ho voluto
documentarmi meglio.
Adriano Olivetti nasce a Ivrea l'11 Aprile del 1901.
Suo padre Camillo, imprenditore, nel 1908 fonda
nella piccola città del canavese la "Ing. C. Olivetti &
C", prima fabbrica italiana per macchine da scrivere.
Adriano si laurea in chimica industriale al
Politecnico di Torino e nel 1924 inizia
l'apprendistato nell'azienda, come semplice operaio,
nonostante fosse "il figlio del capo": da questo
momento inizia la carriera di Olivetti, che pian piano
si farà sempre più strada nell'azienda, introducendo
progetti sempre nuovi al fine di migliorarla e
modernizzarla, fino a diventarne Presidente nel
1938; è sotto la sua guida che l'azienda raggiungerà
il suo massimo splendore.
Olivetti fu un industriale moderno, audace e
anticipatore: fu il primo che pensò di programmare
uno sviluppo dell'economia e del territorio che oggi
definiremmo sostenibile; il primo ad aprirsi ai
mercati internazionali, pur mantenendo forti radici
DANIELE MARCELLI
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nel Canavese; il primo a curare gli aspetti
dell'immagine, della comunicazione, della pubblicità.
capire quanta fiducia egli desse ai suoi dipendenti:
durante una delle sue consuete visite ai dipartimenti
dell'azienda notò l'assenza di un operaio, un certo
Capellaro, incaricato di costruire prototipi. Gli venne
detto che era stato licenziato perché colpevole di
aver sottratto materiale aziendale. Olivetti lo
convocò. Questi ammise il fatto, ma spiegò che ciò
era accaduto perché stava lavorando ad una
macchina innovativa ma la sua impostazione non era
condivisa dal responsabile del progetto, che lo
ostacolava. Era stato quindi "costretto" a lavorare a
casa, portandosi via dei pezzi. Olivetti esaminò il
progetto, e ne capì il valore: immediatamente,
reintegrò Capellaro assegnandogli un ufficio e due
disegnatori da coordinare. Il progetto diede origine
alla famosa "Divisumma 24", uno dei prodotti che
fecero la fortuna dell' Olivetti, e Capellaro fu in
seguito nominato Direttore Generale.
Adriano Olivetti fu molto coraggioso nel perseguire
con azioni concrete le sue idee innovative, per
difendere le quali fu spesso costretto a scontrarsi con
gli altri membri della famiglia, anch'essi azionisti,
che avrebbero preferito ricevere maggiori utili
dall'azienda.
La sua morte, improvvisa e prematura, ha interrotto
bruscamente i suoi progetti (in quel momento, stava
lavorando alla realizzazione del primo computer al
mondo). Tuttavia, penso che le sue idee e i suoi
valori sociali siano ancora profondamente attuali; e
ritengo sia utile, in un momento storico come quello
che stiamo vivendo, fermarci a riflettere
sull'importanza di figure come quella di Olivetti,
affinché soprattutto noi giovani possiamo trarne
ispirazione per costruire in Italia, un giorno
(speriamo) non troppo lontano, un mondo del lavoro
equo e stimolante, come quello che lui sognava.
Ma quello che lo rendeva diverso da qualsiasi altro
imprenditore che lo aveva preceduto, e quello che
più mi ha colpito di tale figura è il suo modo di
intendere la fabbrica, che lui vedeva come "un bene
comune, non un interesse privato": secondo Olivetti,
il fine di un'azienda non deve essere esclusivamente
il profitto; ancora più importante è la sua funzione
sociale. Ecco perché si adoperò per migliorare la
qualità della vita dei propri dipendenti: coltivò
sempre una politica di alti salari, superiori agli
standard dell'epoca; avviò la costruzione di case per
i suoi dipendenti, mense, asili, dando origine a un
articolato sistema di servizi sociali; cercò sempre di
fare in modo che i suoi dipendenti avessero tempo
per la cultura, per la famiglia (la Olivetti fu la prima
azienda a concedere il sabato libero). Nella sua
mente, i dipendenti non dovevano percepire l'azienda
come una prigione, un luogo dove la propria libertà
d'espressione fosse soffocata, e la specificità di
ognuno cancellata; anzi, essa doveva rappresentare
per loro un'opportunità, l'opportunità di emergere, di
esprimere se stessi e il proprio talento.
Non a caso Olivetti cercò sempre di attrarre e
motivare i cervelli migliori, creando le condizioni
per valorizzarne l'intelligenza e le capacità: ad
esempio, a ogni giovane assunto ritenuto promettente
veniva data la possibilità di studiare a spese
dell'azienda, tramite corsi che venivano tenuti
durante l'orario d'ufficio, e borse di studio
universitarie. Un famoso episodio è illuminante per
ALICE BERTINO
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nostra cultura ne annovera molti. Questi racconti
abbracciano tra le righe un qualcosa di mistico;
infatti sarebbe certamente più bello continuare a
pensare al narciso come un fiore nato sul corpo di un
giovane morto dal dolore di non potersi amare o
all’alternanza delle stagioni come il ritorno o
l’allontanamento di Proserpina dalla madre Cerere.
I racconti mitologici raccontano la realtà con una
pacatezza quasi timida e discreta, in cui si presenta
un’armonia esatta tra i vari elementi narrati. Essi
costituiscono profonde verità e insegnamenti etici
sotto una forma simbolico-allegorica che ritengo
profondamente elevata e raffinata. I miti greci, come
quelli latini, hanno come protagonisti personaggi
umani e divini, che mostrano di essere dotati sia di
spiccato spessore morale che di superficialità,
caratteristiche che ben si appropriano al mondo
antropico. Sicuramente però queste storie non ci
hanno abbandonato del tutto: infatti le portiamo sulle
spalle con orgoglio e fierezza da molti secoli, e le
poniamo come basi culturali della nostra società.
Non ci stupisce affatto trovare nei nostri giardini
fiori che rievocano realtà lontane e senza tempo o
sentire l’odore pungente dell’alloro tra i viali delle
ville di Roma chiamando alla mente la vicenda di
Apollo e Dafne. Il mito va pertanto considerato come
un insieme di materiali storici, antropologici e
sociologici e perciò valutato in base all'evoluzione
della mente umana. Ragionando al contrario, si può
pensare a quanto sarebbe più affascinante studiare le
dinamiche delle società passate analizzandone i miti.
Questi racconti sono alla base della nostra civiltà,
hanno plasmato la nostra quotidianità e la nostra
storia e basta munirsi delle Metamorfosi d’Ovidio o
dell’Odissea di Omero, una sorta di “istruzioni per
l’uso” un po’ sui generis, per comprendere meglio i
complicati avvenimenti che si svolgono intorno a
noi.
MARTA SPIZZICHINO
Mitica Nostalgia
Sarebbe bello poter dare una spiegazione romantica e
fantastica anziché fisica a tutti i fenomeni che di
continuo si manifestano sotto i nostri occhi.
Sentendo lo scroscio della pioggia sulle piante in
inverno e osservando il colore rubino delle foglie in
autunno, penso a quanto i miti abbiano aiutato
l’uomo antico a vedere la realtà in maniera diversa
rispetto all’uomo moderno. Un modo sentimentale e
poetico per ricercare la causa primaria delle cose e
per rispondere ai numerosi perché della vita. I miti,
infatti, nascondono dentro le proprie storie e parole
una profumata essenza di ottimismo e di fiducia che
la spiegazione fisica e razionale ha ormai rimosso.
Essi ci rivelano qualcosa di noi stessi. Italo Calvino
spiega nelle Lezioni americane che con i miti
bisogna andarci piano e interpretarli nei loro minimi
dettagli per capirne il vero significato. Nella lezione
intitolata "Leggerezza", egli cita il mito di Perseo
che uccide Medusa decapitandola. E’ ben noto che,
per uccidere Medusa, Perseo deve evitare di fissarla
negli occhi altrimenti sarà trasformato in una statua
di pietra. Allora, la guarda indirettamente, attraverso
lo scudo, e così la sconfigge. Lo scrittore vede in
Perseo il rapporto che il poeta ha con il mondo: così
la letteratura ci comunica delle verità sotto forma di
metafore o allegorie. Senza dubbio, inoltre,
dobbiamo ringraziare il Vicino Oriente, soprattutto i
paesi che si estendono dal Sinai all’Eufrate, se la
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“Lo so fa’ pur’io”
pubblico.
La
loro
è
un’arte
narcisista,
autoreferenziale, assolutamente personale per noi
quanto per il pittore. Non sarebbe d’accordo Piero
Manzoni che con la grottesca scultura, se così può
definirsi, “Merda d’artista” (per chi non lo sapesse è
un contenitore di carne in scatola su cui padroneggia
la scritta “Merda d’artista”, per l’appunto) sembra
voler audacemente criticare la tendenza moderna del
poter considerare arte qualsiasi fesseria ben
imbellettata. Così come la gamba di legno di
altissima fattura che Aldo Giovanni e Giacomo si
trovano a dover custodire in “Tre uomini e una
gamba”.
A chi non è mai capitato di approcciare un’opera
d’arte contemporanea senza che l’intrusivo “Pff, so
farlo anch’io!” facesse capolino? Un cliché
silenzioso e discreto, nascosto nei meandri più intimi
della coscienza e martellante in almeno metà degli
encefali che ogni giorno fluttuano tra le grandi sale
del Guggenheim. Tutto normale. Sì, perché cosa
possiamo capirne di una tela bianca a pois rossi, di
un quadrato nero a strisce gialle o degli squarci di
Fontana? Il Nulla assoluto. E del resto, forse, non c’è
molto da elucubrare. Apice di un percorso
individuale, ermetismo, virtuosismo artistico,
estrema essenzialità, schiettezza “Sì, ma perché?”
chiederebbero molti, “e daje ‘co ‘sti perché”
risponderei goliardicamente. Sì, perché basta ‘co ‘sti
perché. E’ una smania della specie umana quella del
“perché”, di avere il controllo cognitivo
sull’universo, di speculare e scardinare la realtà ai
minimi termini e di farsi rodere se tutto questo le è
per qualche motivo precluso. “Mo’ basta” avrà detto
Rothko dipingendo “White Center”, “vi incasino io”.
E difatti delle sue tre strisce di colore sappiamo
poco. Ma non è questo il punto, a mio parere. Il
punto è che opere così ci confondono
irrimediabilmente: incontrollabili, vaghe, tutto e
nulla, belle e brutte. Geniale. C’entra qualsiasi cosa.
Tu, Io, Dio. Sì, pure Dio, perché no? Ed è questo il
bello, la Libertà. La libertà di dare forma
all’apparente informe filtrandolo attraverso la nostra
storia. Tutti i drammi, le gioie, i quesiti, tutto il
nostro Io buttato lì come se fosse cosa di tutti, pure
di Pollock. Ma alla fine siamo solo noi a vederlo. Lo
spazio che lascia il generoso artista lo plasmiamo
come più ci piace, ed ecco che lo squarcio di Fontana
ci ricorda quel grande dolore passato o presente, una
bocca, il taglio di capelli che abbiamo fatto per
sentirci un po’ diversi. Ora il senso ce l’ha, e
gliel’abbiamo dato noi attraverso noi stessi.
Chissà, forse hanno ragione loro. Si respira, è vero,
una certa pretenziosità osservando una scultura o un
quadro
contemporaneo,
ritagliati
in
un
trascurabilissimo spazio di pareti enormi e dal
biancore abbagliante, circondati da improvvisati
conoscitori d’arte dall’espressione compiaciuta e
assorta che fanno finta di comprendere l’essenza
prima della tanto discussa opera ermetica che hanno
di fronte. E poi tutti a dire cose senza senso sullo
sperimentalismo del colore e il virtuosismo della
forma. Ce ne fosse uno che sale sul divanetto di sosta
(amatissimo) del Metropolitan sbraitando “Ajoo io
nun aggia capit nient ca”. Lo si considererebbe
scemo, ma in realtà libererebbe molti dal peso
inconfessabile che grava loro sullo stomaco di fronte
alla realtà di non capirci un accidente di Kline,
Soulages, de Staël e tutti gli altri. “C’amma fa?”
risponderei al tizio coraggioso in piedi sul divanetto
“sembra non sia arte fatta per noi”. Sì, perché l’arte
figurativa, quella perfetta e spettacolare di
Caravaggio, Leonardo, Monet, Manet così come la
scultura di Canova o classica, hanno fatto ciò che
hanno fatto per noi, per l’uomo. Il loro messaggio
arriva, è chiaro, semplice, non ci disturba e non ci
affatica. Le loro forme sono intrise di bellezza e non
è necessario interrogarsi a lungo per apprezzarne gli
effetti. Il gioco è l’emozione, la sensazione, la
tragicità che straripa e cattura, comunicandoci
l’amore che l’artista sembra averci riservato. Eppure
quell’amore non ci lascia tutto lo spazio che
Credo che Yves Klein sarebbe contento di sapere di
questa bella idea che mi è venuta riguardo
l’interpretazione dell’arte contemporanea visto che le
sue tele monocrome si prestano più di altre al
severissimo e disarmante “Lo so fa’ pur’io” di cui
parlavamo all’inizio. Ma credo che questi artisti se
ne freghino abbastanza di quello che pensa il
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vorremmo. Ci impone l’apprezzamento, la
devozione, l’adulazione. Ma ci taglia fuori. Stiamo
sempre al di qua della linea adesiva di sicurezza
appiccicata sul pavimento e possiamo solo prostrarci
alla grandezza di ciò che sta al di là. E ciò che sta al
di là è come è e basta. L’arte contemporanea dice no,
non impone niente, si presta ad essere tutto e niente,
offre le sue tele per disegnarci sopra quello che ti
pare. E tu superi il margine proibito, scatta l’allarme,
e in mezzo a tutto il casino che ti si sta smuovendo
intorno ti raffiguri in basso a destra, timido e
stilizzato. E poi che te ne importa del bodyguard che
ti trascina per i piedi chissà dove, tu stai lì in basso a
destra, tu e il tuo mondo e da quel momento lo
vedranno tutti. Fico, eh?
sublime dell'arte” (come afferma Jean Baudrillard)
ma spesso si mostrano come una collezione di
banalità, oggetti ordinari e kitsch.
ELEONORA DI BENEDETTO
L'opera geniale, dotata di un valore unico e
incomparabile, si è dissolta con l'abbandono verso
l'estetico, verso una produzione artistica in serie in
cui il tocco dell'artista non sembra più essenziale,
verso un'opera impersonale in cui
il “puro
intrattenimento” si confonde con l'arte.
In parallelo alla diminuita importanza dell'artista è il
dominio delle figure di mediatori professionisti
(critici, galleristi, collezionisti), che, dettando le
regole del gioco, sempre più si credono i veri padroni
dell'opera d'arte. Il passaggio è breve per arrivare ai
“consumatori” dell'arte che la rendono veramente
tale in quanto la “vera arte” è definita soltanto dal
gusto delle più potenti classi sociali del periodo.
Ma il grande segreto dell'arte è che ha il potere di
rivelare la vera essenza dell'uomo o, come diceva
Verga quando afferma “l'arte è il frutto delle vostre
passioni”, altro non è che uno specchio della cultura
di oggi, la manifestazione più genuina dei nostri
gusti. Tuttavia il rapporto emozionale che si instaura
con le opere d'arte viene considerato un lusso, solo
per pochi eletti oziosi che devono sfuggire alla noia
della vita. La contraddizione sta nel fatto che i
soggetti delle opere si abbassano sempre più, per
diventare oggetti di uso comune e quotidiano e assai
poco ricercato: vanno ad incrementare un giro
d'affari di milioni di dollari (è proprio l'arte moderna
e contemporanea che raggiunge i prezzi più elevati).
Non accusate l’arte
Difficile cercare d'intendere il senso dell'arte
moderna dall'immagine veicolata da giornali e
riviste,
dalla
televisione,
dalla
pubblicità
commerciale, l'immagine dei mass media della
società dei consumi. Nel primo dopoguerra il boom
economico permette la diffusione dei miti moderni di
bellezza, benessere, successo, potere e denaro,
generando così la “business art” (citando Warhol):
un'arte legata al consumismo, agli affari,
all'economia. Assieme a Warhol si ricordano le
critiche e le provocazioni che Oldenburg, Johns e
molti altri esplicitarono sulla scia del Dadaismo; ad
esempio, da una parte, Oldenburg riprodusse in
gesso gli oggetti esaltati dalla pubblicità; dall'altra, si
diede voce al comune rifiuto dell'opera d'arte
tradizionalmente intesa realizzando una serie di
bandiere americane. L'opera d'arte, quindi,
si
trasforma, sottostando alle regole di mercato per
essere facilmente riproducibile; ma soprattutto per
produrre ricchezza, un tornaconto momentaneo: gli
oggetti artistici non hanno più a che fare con
un'emozione vera o con un ideale o con una “natura
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Si parla di dollari perché è proprio New York uno
dei maggiori mercati dell'arte, che si contende lo
scettro con Londra. L'arte antica, sottoposta invece a
ferree regole di composizione, è fortemente
sottovalutata forse poiché troppo poco “cool” o
“glamour” per il mondo della moda.
Ormai tutto si vende e si compra a qualsiasi prezzo,
ma non ci si ferma mai a pensare fin dove si può
arrivare. Può essere che davvero tutto sia in vendita?
Il Colosseo, ad esempio, o gli Uffizi con i loro secoli
di storia possono essere mai ridotti a qualche milione
di euro? Penso che l'arte sia una libera espressione
dell'uomo e rappresenta una vera e propria necessità
degli esseri umani e pertanto non può che essere un
bene “comune”. Ognuno può imparare qualcosa da
un'opera artistica perché essa è il mezzo più
immediato per raggiungere le coscienze.
XXI secolo: la strage degli intellettuali
Di seguito riporto la sintesi del parere di un arzillo,
ma (quasi) lucido ottantenne che in un caldo
pomeriggio domenicale romano, quest’estate, mi ha
raccontato cosa egli pensasse della figura
dell’intellettuale di oggi. Ho cercato, con scarsi
risultati, di rimaneggiare le informazioni e
posizionarle in un modo più vivace. Per quanto il
tema sia estremamente complesso, ritengo questa
un’opinione interessante.
La filosofia è morta: ne dà il felice annuncio la
società moderna. È morta nei talkshow, è morta nei
discorsi pseudo-controcorrente, è morta nei confronti
politici. Molti i responsabili, i più imprevedibili: il
maggiordomo qui non c’entra nulla, perché il
colpevole è il vicino di casa che passa ore davanti
alla televisione, il ragazzo che passa interi giorni sui
social network, il blogger che ce l’ha con la vita e
quindi si sfoga su Internet. Alcuni parlano di palese
tradimento, altri di omicidio colposo, ma la verità è
che i responsabili non verranno mai scoperti, perché
sono gli stessi sostenitori della cultura gli
insospettabili ed inconsapevoli traditori di una realtà
ormai tramontata. I principali responsabili
dell’eclissi della filosofia sono gli intellettuali; molti
dicono che la loro figura sia sparita, ma la verità è
che essi si sono trasformati in opinionisti di scarso
livello, lasciati in pasto ai media, ed al consenso
popolare.
Persino il cane di Jeff Koons, se lo si guarda bene
(molto simile a quei palloncini che nelle feste per
bambini hanno tanto successo), può celare un
qualche significato. Il problema è che gli artisti
interpretano la parte delle star, hanno successo,
indipendentemente dalla loro produzione attuale a
volte, e inoltre si credono rappresentanti di un
qualcosa di superiore, che essi solo sono in grado di
cogliere. E' proprio qui che sta l'errore, a mio parere:
quella degli artisti non dovrebbe essere una
professione che li porta a trasformarsi in produttori
“obbligati” di opere (che lasciano a volte molto a
desiderare). La loro mediocrità, in realtà, nasconde
un grande dolore: il dolore dell'artista che si aliena
nella sua opera, stabilendo con essa una simbiosi
totale.
ELISA BIAGI
Autori di interventi televisivi a base di “Non solo,
ma anche”, costruttori di miti letterari, su opere
scopiazzate con il copia incolla dai loro predecessori,
fautori di fenomeni cinematografici funzionali al
mercato, o alla fruizione, da parte di ristrette élite
autoreferenziali e logorroicamente tedianti. Ciò si
deve ai cambiamenti che ha portato Internet
nell’ambito della comunicazione. Si è creata una
grandissima distribuzione di informazioni, notizie
che spesso sono incomplete e strumentalizzate, al
fine di modellare le opinioni dei cittadini. Non
11
esistono più persone di cultura disposte a prendere su
se stesse la responsabilità di portare avanti un
sistema di idee compatto e completo. Molteplici sono
le cause di questa situazione: in primis, al giorno
d’oggi è più facile essere criticati, e concettualmente
annientati agli occhi di un popolo dotato mediamente
di un ottima capacità analitica, che però viene messa
a riposo. In secondo luogo, la cultura è inquadrata in
feudi politici, al di fuori dei quali, si possono solo
esprimere critiche e non pareri costruttivi, perché, in
quest’ultimo caso, si verrebbe presto emarginati.
All’interno, invece, di queste fortezze politiche, si
deve mantenere una certa fedeltà intellettuale, nei
confronti delle idee di base del gruppo che non
possono, e non devono, essere messe in discussione.
È quindi difficile fuggire dalle critiche di parte che
non hanno come fine la costruttività, ma
l’annichilimento del messaggio controcorrente. In
altri tempi lo Stato voleva controllare gli intellettuali.
Oggi sono i partiti a volerlo fare, in quanto lo Stato
non si occupa dei pareri dei cittadini, ma di
economia e diplomazia, ergo si cerca fedeltà politica
inculcando nel popolo idee che successivamente
influenzeranno il risultato delle urne. Non si cerca
fedeltà per lo Stato, ma per il partito: ne è un
esempio l’Italia degli ultimi due anni, dove si sono
succeduti tre diversi governi, i cui partiti hanno
scelto di utilizzare l’attacco al governo in carica per
guadagnare consensi. La cultura e le idee vengono
filtrate dai presentatori televisivi, e lo stesso vettore
comunicativo diventa un palcoscenico di basso
livello in cui vengono confinati gli intellettuali,
persone che ormai limitano il loro discorso ad una
critica mediamente sterile, ambito molto più facile, e
dove si può essere ribattuti con meno facilità di come
si può essere distrutti presentando un proprio
progetto. In generale, le idee e quindi gli intellettuali
servono per creare una macchina culturale per i
partiti capace di imporre la propria autorità ed
accaparrare consensi. L’uomo di cultura va ancora,
momentaneamente, di moda ma è quasi totalmente
privo di onestà intellettuale e, quando invece riesce a
prendere su di sé il peso delle proprie scelte
difendendole con fermezza, il pubblico, confuso,
demoralizzato, che ha perso la capacità di ragionare
criticamente spegne il televisore, o chiude il libro,
sfinito dalla confusione che scaturisce da tutto ciò. E
non mi riferisco a personaggi pseudo-intellettuali che
sfruttano il proprio isterismo per stare sulla scena,
usando come strumento di critica insulti dettati da
quelli che sembrano reali attacchi di panico. Ma
questo è il prezzo al giorno d’oggi, si deve essere dei
finti anticonformisti per reggersi a galla e
sopravvivere con la professione di intellettuale,
perciò si comprende quanto sia importante evitare
posizioni scomode agli occhi della classe dirigente.
Mentre un tempo gli intellettuali venivano ostacolati
dai loro mecenati, ora è il vero potere di oggi che li
ostacola, ovvero gli ambiti dove vi è un grande
movimento di denaro: si guardino per esempio la
politica e la televisione.
Le attuali persone di cultura sono limitate da un
popoletto rozzo che non vuole sentire opinioni che
stonano con la propria mente alquanto poco libera,
ma in compenso saldamente incastonata alla cultura
televisiva. Nessun uomo di cultura altresì riesce a
tradurre il suo fervore in azione. In generale, mentre
un tempo i vari intellettuali venivano inquadrati dai
loro mecenati, ora è ancora peggio: essi vengono
incatenati dal loro stipendio, che è inversamente
proporzionale al livello di cultura che promulgano.
È opinione di molti che la crisi aiuterà a ritrovare un
equilibrio, liberi idee capaci di riportarci a quell’uso
critico delle nostre forze intellettuali, che si sta ormai
perdendo. Personalmente, mi chiedo come fa una
crisi a cambiare le carte in tavola, quando due guerre
mondiali, una guerra fredda ed una crisi petrolifera
non ci sono riusciti. Perciò bisogna sperare nello
stesso strumento che sta piano piano annientando i
giovani, ovvero Internet, dalle grandissime
potenzialità, essendo capace di distribuire una
cultura di alto livello urbi et orbi. Ma il punto
fondamentale è cambiare mentalità, si dovrebbe
diventare un popolo di intellettuali, o comunque un
popolo che si interessa al sapere, ognuno dovrebbe
riscoprire, al proprio interno, quell’amore per la
conoscenza e per la scoperta, tipico dell’essere
umano. Ma questa forse è solo un’utopia, per ora
siamo in mano a format televisivi, quindi penso
valga la regola “TACI AUT LOQUERE MELIORA
SILENTIO”. E l’arzillo vecchietto finito il suo caffè
ed il cornetto, con il giornale sotto il braccio prese la
via di casa, salutandomi, e augurandosi di non
avermi troppo turbato con le sue idee.
PETRONIO
12
sembra quasi come gli altri, ma loro lo sanno che
non è lo stesso”. Non c’è nient’altro da aggiungere a
delle parole come queste. E forse è la stessa cosa che
pensò Luke Kelly, sotto la sua barba rossiccia. Siamo
di fronte a una delle canzoni più tristi che siano mai
state scritte. Continua così: “Guardalo fissare non
capendo quale viso che amava solamente ieri, il viso
di una madre che non riesce a capire di che cosa è in
colpa”.
Il rispetto del segreto
e il vuoto dietro ai suoi occhi
“See the child
With the golden hair
Yet eyes that show the emptiness inside
Do we know
Can we understand just how he feels
Or have we really tried”
Dicono che Luke Kelly non abbia mai cantato,
durante gli scatenatissimi concerti dei Dubliners, la
canzone che forse gli veniva meglio di tutte. Quando
il vento dell’Ovest faceva sciogliere la pioggia sopra
i vetri sporchi di O’Donogue’s Pub (fuori dalla
caotica e affollata Temple Bar, “questo è un posto da
veri irlandesi, voi turisti andate in quei bar inglesi!”
mi disse, un tempo lontano, un baffuto bevitore di
birra davanti a una partita di Gaelic Football) e la
folla si accalcava fin al cortile interno, quando i
boccali traboccanti di schiuma passavano da una
mano all’altra dopo il fatidico “and it’s no, nay,
never” e le mani che prima erano bianche e grigie
come il cielo diventavano rosse come le guance e i
capelli, Luke Kelly si avvicinava al microfono e
lasciava tutti, ad ogni canzone, a bocca asciutta.
Non è facile immaginare quando Phil Coulter
(un’autorità nella musica moderna, autore di ballate
irlandesi, di colonne sonore, vincitore di 23 dischi di
platino e altri riconoscimenti) fece sentire per la
prima volta “Scorn not his simplicity” al nostro
“Guardala come piangeva lacrime di felicità il giorno
in cui il dottore gli disse che era un maschio e
guardala ora piangere lacrime di impotenza e pensare
a tutto ciò di cui lui non potrà mai sorridere”. “Solo
lui sa come affrontare il futuro pieno di speranza e,
circondato dalla disperazione, non ti chiederà pietà o
compassione, ma sicuramente tu te ne dovresti
occupare”. Non ci dice, l’autore, a chi sono rivolte
queste parole così profonde e semplici. Potrebbe
essere un amico, lo stesso Kelly, o anche un discorso
fatto allo specchio. E’ Coulter l’autore e il
destinatario, il padre che parla al padre, con il
sentimento di una vita davanti. Una vita, di chi?
Tutta una vita da immaginare, un segreto che non
verrà mai svelato.
Cosa si prova sicuramente non spetta a noi dirlo.
Quello che dobbiamo fare è capire che non tutto ciò
che ci sta davanti è scontato, in primo luogo ciò che
abbiamo dentro. Ciò che siamo: frutto di una
coincidenza, o semplicemente essere e basta, non
una prova o un disegno prestabilito. Non c’è nulla da
rimproverare a nessun Dio, da urlare al cielo solo la
rabbia. E’ proprio vero che siamo fragili e spesso ce
ne dimentichiamo, buttando via le nostre esistenze
mentre accanto a noi c’è chi l’esistenza non ce l’ha o
l’ha smarrita. “Sono tempi difficili per le persone
intelligenti” e lo sono di più per quelle semplici. E
verso il segreto dell’intimità, Kelly portò sempre un
menestrello Luke, suonatore di banjo. “Non
disprezzare la sua semplicità” è una lirica
“poetichissima” (perdonate il prestito leopardiano),
tragica e commovente, scritta da Coulter alcuni mesi
dopo la nascita del suo primo figlio, affetto dalla
sindrome di Down. “Guardalo ora, come sta da solo
e osserva bambini che giocano giochi da bambini, lui
13
Gli sprazzi di bellezza di Roma cialtrona
enorme rispetto, non facendosi mai trascinare da
nessun palco o boccale di birra (sebbene, purtroppo
per lui, ne bevve tanti). Non è giusto ascoltare una
canzone così tra una strimpellata e l’altra, per far
tirare il fiato ai percussionisti. E la saggezza di un
vecchio popolo di umili e di fragili questa cosa la sa
bene.
Così recita il ritornello, che viene ripetuto ben tre
volte: “Non disprezzare la sua semplicità, ma prova
ad amarlo ancora di più, non disprezzare la sua
semplicità”. E’ importante l’utilizzo di “disprezzare
(scorn)”, come se l’autore volesse simboleggiare un
desiderio infinito di un altro destino, un altro inizio
per una fine diversa. Il padre ha paura, ha una paura
ingombrante e incombente, di “disprezzare” suo
figlio e ha paura di non riuscire ad amarlo (“prova”)
semplicemente come tale. “Ad amarlo ancora di
più”. Ma si può amare un figlio ancora di più? La
risposta è nelle note malinconiche della canzone, di
quel sublime passaggio dal “fa” al “fa-” che rende gli
occhi lucidi, la voce incerta e le mani dei violinisti
tremanti. Il sussurro finale non è che un bacio sulla
fronte, quando i suoi occhi semplici e puri come la
pioggia si riposano come tutti gli altri. E’ una
carezza sui capelli biondi ed uno sguardo da più
lontano.
Tanto per farvi capire il genio con cui abbiamo a che
fare: “A questa domanda, da ragazzi, i miei amici
davano sempre la stessa risposta: ‘La fessa’. Io,
invece, rispondevo: ‘L'odore delle case dei vecchi’.
La domanda era: ‘Che cosa ti piace di più,
veramente, nella vita?’. Ero destinato alla sensibilità.
Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato
a diventare Jep Gambardella.”
Questa profondità non è da tutti, e neanche “La
Grande Bellezza” è un film per tutti. E' un'opera
d'arte adatta a chi ha voglia di riflettere in maniera
altrettanto profonda.
Qualche giorno fa ha vinto il Golden Globe come
miglior film non in inglese, ma si merita l'Oscar, e
chi l'ha fatto si meriterebbe il Nobel per il talento, se
esistesse. Io l'ho visto questa estate, al mare, in un
cinema all'aperto, e dopo ho riflettuto per tre giorni.
Il terzo sono resuscitato quando un mio amico, in
spiaggia mi ha fatto: “Aho, sempre lì a riflette', e che
sei, 'no specchio?”. Si è guadagnato un minuto di
“battesimo” con la testa sott'acqua per la nauseante
bruttezza della battuta. Comunque, il dato di fatto è
che mi ha fatto riflettere per tre giorni, e un film deve
essere veramente eccezionale per farmi questo
effetto. Diciamo che è stato l'equivalente culturale di
una droga pesante. Anche perché, se uno lo
comprende a fondo, è un film che crea dipendenza:
le musiche, le atmosfere... Ma andiamo per gradi.
Regia di Paolo Sorrentino, un genio che, con duro e
silenzioso lavoro tira fuori filmoni, cast di tutto
rispetto con Toni Servillo (Jep), Carlo Verdone e
Sabrina Ferilli (all'inizio ero abbastanza diffidente:
GUIDO PANZANO
14
dopo essermela sorbita in tre canali consecutivi
facendo zapping avevo voglia di spararle, ma mi
sono dovuto ricredere, è stata di una profondità
allucinante). Sempre per restare su paragoni
mondani, è (sempre l'equivalente culturale, per
carità) di un cocktail fatto non con brucia-budella,
ma bensì con le più prelibate qualità di liquori.
Giusto così, per darvi un'idea terra terra di un'opera
che è invece alta alta.
Il cuore dell'opera è il percorso psicologico di un
uomo, Jep Gambardella, un giornalista con il dono (o
più probabilmente la maledizione) della sensibilità
dell'artista. Vive di notte, nel vortice di una Roma
mondana in cui si è immerso fin da quando aveva
ventisei anni. Ora che ne ha sessantacinque, non è
semplicemente “un” mondano, ma è riuscito a
diventare il re dei mondani, colui che le feste “ha il
potere di farle fallire”. Ha scritto un libro, da
giovane, ma nonostante avesse suscitato un discreto
interesse ha abbandonato quella strada. Dentro, però,
ha qualcosa come una sottile inquietudine, che
emerge sempre di più mano a mano che la storia si
svolge.
desiderio che chissà per quanto tempo aveva
inconsciamente nascosto a se stesso: quello di
riprendere a scrivere. Nel tentativo di ritrovare
l'ispirazione si scontra però con le stesse ragioni per
le quali ha smesso di scrivere. Ora percepisce più
chiaramente quello che già percepiva: ha infatti la
sensazione di aver buttato e di continuare a buttare al
vento la propria vita, fra quelle feste. Una notte dice:
“Mi chiedono perché non ho più scritto un libro. Ma
guarda qua attorno. Questa fauna. Queste facce.
Questa città, questa gente. Questa è la mia vita: il
nulla. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul nulla
e non ci è riuscito: dovrei riuscirci io?”.
Si immerge allora nella città, e medita. Roma è
affascinante e misteriosa, di giorno è surreale, di
notte è inquietante. Le situazioni assumono l'aspetto
di sogni, giorno e notte si alternano senza soluzione
di continuità con un effetto disorientante, quasi
psichedelico. In questo contesto si inserisce a
meraviglia la voce narrante del protagonista, ed il
ritmo lento e la profondità delle riflessioni sono
davvero molto simili a quello che si elabora nei
sogni, così come sembrano i luoghi che si
attraversano nei sogni quelli che Jep attraversa
vagando fra strade, persone e monumenti.
Le musiche stupende e armoniose sono fondamentali
nel rappresentare gli stati d'animo di questi momenti.
Questo è un altro dei motivi per cui il film è da
applausi fino a spellarsi le mani: l'originalità e
l'intensità con cui descrive emozioni così profonde e
difficili da esprimere. E' questo che rende il film al di
fuori di ogni schema o genere.
Ho trovato meraviglioso come l'autore fa proiettare
al protagonista il suo “io” in Roma, come la fa
diventare il palcoscenico dove agiscono i suoi
pensieri e le sue sensazioni. E' bellissimo il dialogo
fra le immagini, le musiche e la suggestiva voce
narrante del protagonista, con cui si rappresenta
questo percorso.
La profondità abissale dello sguardo del protagonista
rivela come siano squallide le azioni e i pensieri
degli esseri umani, come non sembri esserci nulla
dopo la morte (si vede più volte, in situazioni spesso
comiche, la sfiducia quasi totale verso la religione e i
religiosi), e come quindi sia priva di senso la sua
stessa vita. E a dire il vero non c'è palcoscenico più
Si muove a suo agio in queste feste notturne, trash e
volgari con arguzia e spirito, ma quando questi
momenti di divertimento sono interrotti da una voce
narrante, la sua, che esprime i suoi pensieri, si scorge
in lui quasi una scintilla di follia. In questi momenti,
con un ritmo lento e vagamente musicale, come di
una funzione liturgica, racconta se stesso. I suoi
amici si illudono di vivere un'esistenza felice,
annegandosi come lui in queste feste, ma anche loro
hanno qualcosa dentro, e Jep non riesce a non
percepirlo. “Siamo tutti sull'orlo della disperazione”
dice dopo una ennesima notte “Non abbiamo altro
rimedio che farci compagnia, prenderci un po' in
giro”. Una cosa che ho adorato, del film, è questa,
che non c'è alcuna retorica, tutto viene visto con
disincantata profondità: quello di Jep è un dramma
silenzioso e puramente psicologico in una vita reale,
fra situazioni reali, che ognuno potrebbe vivere.
C'è un momento cruciale. Quando infatti Jep viene a
sapere che Elisa, la prima e probabilmente unica
donna che ha veramente amato, è morta, in lui nasce
una serie di pensieri. Soprattutto emerge in lui un
15
adatto dell'Italia, e città più adatta di Roma per
rappresentare queste cose: i personaggi senza una
meta, senza uno scopo, senza un'aspirazione a
qualcosa di più grande, vuoti e pateticamente illusi,
che al massimo si prendono un po' in giro per
divertirsi: sono lo specchio della nostra terra, una
terra antica in cui le bellezze del passato, ignorate dai
più, risaltano doppiamente di fronte allo squallore
del presente, diventando misteriose e simboliche.
Spaventati? Be', tranquillizzatevi, il film non è
serioso, ci sono molti momenti divertenti e arguti, e
nei momenti profondi come quelli che vi ho descritto
le immagini sono così belle e le musiche così
evocative e melodiose, di una qualità artistica
impressionante, da far capire tutto senza bisogno di
troppe parole. Le parole, appunto, il “chiacchiericcio
e il rumore” di cui rifletterà Jep in una scena finale
espressiva e poco retorica come poche. Ma
continuiamo: Jep vuole ritrovare l'ispirazione, e con
essa gli antichi e puri sentimenti che lo animavano ai
tempi del suo primo libro e del suo amore con Elisa.
Alla fine, quando, per un motivo o per l'altro quasi
tutti i suoi amici si staccano dal “vortice della
mondanità”, e muore una donna che era diventata
sua amica intima (alla quale dice, dopo una notte
nella quale avevano solo dormito insieme: “E' stato
bello non fare l'amore”, e lei “E' stato bello volersi
bene”, pensate che amicizia), è la svolta. E infine,
l’incontro con una missionaria anziana e “santa”, e
un viaggio nell’isola dove aveva amato Elisa, sono
per lui un’illuminazione.
Jack Smith
e la sessualità perversa e lussureggiante
“Jack Smith è l’unica persona che proverei mai a
copiare”. Questo è quanto Andy Warhol rispose al
giornalista David Ehrenstein nel corso di
un’intervista. Partiamo proprio da questa citazione
per delineare la figura di Jack Smith, uno dei più
influenti artisti che il panorama dell’avanguardia
americana della seconda metà del XX secolo abbia
conosciuto. Definirlo un cineasta è alquanto
limitativo: Jack Smith fu attore, commediografo,
fotografo, illustratore e scenografo. Nato a Columbus
in Ohio e cresciuto in Texas, si trasferirà ben presto a
New York. E’ proprio nel City College della grande
Mela che conobbe Ken Jacobs. Con quest’ultimo
instaurò una proficua collaborazione artistica che
vide la partecipazione di Smith, in qualità di attore, a
numerosi film firmati da Jacobs: Saturday Afternoon
Blood Sacrifice (1957), Little Cobra Dance (1957),
Little Stabs At Happiness (1960) e Blonde Cobra
(1963). Nella maggior parte di essi, Smith appare
come “multitravestito mattatore” intento ad
assemblare i propri costumi con altri attori o bambini
sulle strade di Manhattan. Mentre i due lavoravano a
Star Splanged To Death (1958-1960), Smith prese in
prestito la cinepresa di Jacobs con la quale girò il
cortometraggio Scotch Tape. Il film (di 3 minuti)
mostra tre figure che scalano, si muovono e danzano
in mezzo a una ragnatela di fili, lastre di cemento e
pali di legno. La colonna sonora, curata da Tony
Conrad, dona all’elaborato un tocco tropicale. “La
scelta musicale di Smith può essere vista come il
tentativo di esprimere la sua profonda fascinazione
per il mondo latino-americano, filtrato dalla cultura
pop di matrice americana. L’apice di questa
fascinazione è rintracciabile nella sua ossessione per
la diva di Hollywood Maria Montez” (Marc Siegel).
Nel film sono, inoltre, anticipate le ambientazioni
esotiche, che saranno sempre centrali in tutta la
produzione di Smith – sono già rintracciabili nelle
fotografie che realizzò negli anni Cinquanta:
l’inquadratura delimita corpi intrecciati con costumi
Nell’ultima notte di quest’opera d’arte, sono
memorabili le parole di Jep, emblema di tutta
l’opera: “Finisce sempre così, con la morte. Prima
però c’è stata la vita, nascosta sotto i bla, bla, bla,
bla, bla… E’ tutto sepolto sotto il chiacchiericcio e il
rumore: il silenzio e il sentimento, l’emozione e la
paura, gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza, e poi
lo squallore disgraziato… e l’uomo miserabile”.
Durante il film, in questo mutevole percorso
psicologico, si sono visti molti, meravigliosi sprazzi
di bellezza. Il finale non è un lieto fine, ma il più
bello di questi sprazzi.
Non è un film facile, i film veramente belli non sono
mai facili. Diverte, si fa ammirare, e soprattutto fa
pensare. Buona riflessione.
ALESSANDRO VIGEZZI
16
usati e membra di altre figure. L’attrice dominicana,
considerata da molti la peggiore del mondo, esercitò
una larga influenza su Smith: la sua più volte citata
frase “Quando vedo me stessa sullo schermo, appaio
così bella che voglio gridare con gioia” ha portato
l’artista a riconoscere nelle sue stesse creazioni
(realizzate con i materiali più scadenti) gli elementi
di un mondo fantasioso e magico. Smith stesso
afferma: “La spazzatura è la materia dei creatori”. La
frase rimarca con orgoglio il suo modo di concepire
l’arte, del tutto svincolata dall’idea di profitto. La
fascinazione per Maria Montez prende corpo con la
“plasmazione”, operata da Smith in persona, di un
giovane impiegato ispanico delle Poste (incontrato
una notte nella metropolitana di New York) nei
panni della drag queen Mario Montez. I rapporti fra i
due già risalivano al 1961, ma il vero e proprio
debutto di questo “nuovo essere” avvenne nel 1963,
anno in cui Smith realizzò il suo capolavoro,
Flaming Creatures. Considerato da Jonas Mekas
“uno dei quattro lavori che hanno davvero
rivoluzionato il cinema contemporaneo”, Flaming
Creatures è il più importante film d’avanguardia d’
America. Esso è la diretta espressione dell’arte di
Smith: sono infatti evidenti il gusto per la parodia e
per l’esibizionismo, l’eccentricità personale e la
volgarità sessuale. Il film (di circa 45 minuti) venne
girato fra l’estate e l’autunno del 1962 durante otto
fine-settimana. Il set venne allestito nel Windsor
Theater al 412 di Grand Street, NY.
l’immensità dello spazio), danno sfogo alle proprie
intime aspirazioni e desideri, abbandonandosi alle
più inconsce reazioni e agli atti più istintivi in una
ritrovata coralità” (Alfredo Leonardi). Tony Conrad,
recatosi sul set, notò la grande attenzione che Smith
prestava alla preparazione di ogni scena: fu sorpreso
da quanto professionale apparisse la produzione
nonostante il ridotto budget di 300 dollari.
Il film, di cui lo stesso Smith curò la fotografia,
venne girato dal tetto del teatro: i personaggi si
dispongono obliquamente sotto l’impietoso occhio
del loro regista, pronto a coglierne ogni disinibizione
e pulsione. Interessanti sono le considerazioni di
Gregory Markopoulos, membro del New American
Cinema Group. Il film-makers sostiene che nel film
gli attori fossero più importanti dei personaggi da
loro ritratti; Smith porta alle estreme conseguenze
l’idea secondo cui “Chiunque possa indossare il
costume. Il costume diventa il personaggio e il
personaggio il costume”. Markopoulos afferma che
nonostante la caratterizzazione non fosse per Smith
importante, lo fosse invece il dettaglio: con molta
probabilità Smith avrebbe passato molte ore a
pianificare la realizzazione e le inquadrature proprio
perché, prendendo il pieno controllo del progetto,
avrebbe potuto ottenere gli effetti che si era
prefissato in mente. La macchina da presa è
smagliante: si muove velocemente alternando campi
d’insieme, primi e primissimi piani. La cinepresa
diventa un’ “attrice” molto più importante degli
attori in carne ed ossa, pronta ad interagire con loro.
Il film venne girato utilizzando una pellicola in
bianco e nero scaduta, che insieme alla luce del
pomeriggio elimina nell’immagine ogni contrasto; le
figure si stagliano su sfondi sovra-esposti,
scompaiono perdendosi in questi flutti di luce: i loro
corpi slavati diventano un’unica massa indistinta.
Nella sua analisi, Markopoulos sottolinea inoltre
La trama è quasi del tutto inesistente: una serie di
uomini, per lo più travestiti, e donne, si atteggiano, si
mettono del rossetto, si palpeggiano a vicenda e
ballano. Le figure “risiedono nell’aura insieme
ingenua e perversa, ma comunque autentica e come
infantilmente immemore, si tratta di creature che in
luce abbagliante, bianchissima (che riduce
drasticamente la drammaticità del film e suggerisce
17
l’importanza del suono: esso non ha il ruolo di
argomentare l’immagine, ma ne è la controparte.
Premiato dalla rivista di Mekas, Film Culture, con il
Fifth Independent Film Award, il film destò ben
presto scandalo: nel marzo del ‘64 venne sequestrato
e la sua proiezione venne vietata nello stato di New
York. Jonas Mekas e Susan Sontag si schierarono
subito a favore del film, condannando la censura e
tentando di legittimarne la prorompente sessualità.
Mekas venne arrestato con l’accusa di oscenità per
averne continuato le proiezioni. Il film venne anche
bandito dal festival del film sperimentale di Knokkele-Zoute (1963) in Belgio. Mekas, che faceva parte
della giuria, abbandonò il festival ed organizzò, ogni
notte, delle proiezioni clandestine del film nella sua
stanza d’albergo. Nonostante i divieti, il film
divenne, ed è tutt’ora, un cult (lo vide anche
Federico Fellini). L’impatto avuto dal film è
indescrivibile: le parole di James Hoberman ben
sintetizzano la sua forza visiva: Allo stesso tempo
primitivo e sofisticato, esilarante e struggente,
spontaneo e studiato, frenetico e languido, rozzo e
delicato, avant e nostalgico, grintoso e fantasioso,
fresco e sbiadito, innocente e logoro, alto e basso,
crudo e cotto, underground e camp, bianco e nero e
bianco su bianco, composto e decomposto,
riccamente perverso e gloriosamente impoverito,
‘Flaming Creatures’ era qualcosa di nuovo.
A causa dello scandalo e del disappunto che
all’uscita il film generò, Smith intraprese con una
certa reticenza nuovi progetti cinematografici; essi
non raggiungeranno mai il livello di Flaming
Creatures e soprattutto la sua forma conclusa (i film
saranno soggetti a continue modifiche e nessuno
verrà ultimato definitivamente). Al riguardo degno di
nota è Normal Love. Girato per la maggior parte
nella proprietà di Eleonor Ward a Old Lyme,
Connecticut, è il film che forse meglio esprime
quell’estetica del magico ed esotico che
contraddistingue i film di Maria Montez e che
suggestionerà così tanto il giovane Jack.
Questi scrive nel suo diario: “Ho passato la mia
estate all’aperto nella campagna filmando un
amorevole, film a colori rosa pastello e verde, che
sicuramente diventerà la definitiva espressione del
pastoso. Tutti i personaggi indossano abiti da sera
rosa e ghignano e guardano fissi in camera”. Il film,
nei cui margini dell’inquadratura si muovono le
figure più strambe e ambigue, risulta formato da
diversi frammenti drammatici: ogni scena emerge
come un’entità autonoma. I colori prevalenti sono il
verde e il rosa: essi tendono a rendere l’immagine
sempre più mielosa e comunicano un senso di
allegria e di vivacità. Pure in questo caso Smith fa
uso di una pellicola scaduta (stavolta però a colori).
Ciò che colpisce nella messa in scena è la
“normalità” che vi domina: tutte le eccentricità di
Smith diventano reali in un pastiche in cui domina
l’ironia dell’autore. Essa spinge gli attori a
continuare a recitare o, forse sarebbe meglio dire, a
“essere se stessi” nonostante l’artificio diventi
apparente agli occhi dello spettatore e la
rappresentazione
cominci
gradualmente
a
destrutturarsi. Il film consta di importanti camei:
sono infatti presenti due irriconoscibili Andy Warhol
(che curò un documentario sulla lavorazione del
film) e Kenneth Anger. Il film non verrà mai
completato nel significato usuale del termine: sarà
rimontato continuamente e verrà impiegato da Smith
nelle sue successive performance teatrali. L’oggetto
filmico perde quindi la propria integrità per diventare
parte di un processo dialettico, la performance.
P. Adams Sitney nel suo Visionary Film (Oxford
University Press, 1978) definisce Smith come
appartenente ad una fase “mitopoietica” del cinema
underground: una fase di passaggio che porterà in
seguito a prodotti più maturi e articolati.
Questo è quanto ci rimane di un autore tanto
enigmatico quanto inafferrabile: Jack Smith è
l’avanguardia ed è incomparabile l’influsso che la
sua produzione sia filmica che teatrale abbia avuto
sugli artisti contemporanei.
LUCA ZAMMITO
18
della condizione di dipendenza assoluta della gente
inerme di fronte ai persecutori.
Il Pianista
Comprendere la drammaticità della Shoah, per chi
non ha mai vissuto la guerra o provato la triste
condizione di dover lottare per sopravvivere, può
risultare difficile; è importante, perciò, che anche le
nuove generazioni ne abbiano memoria, leggendo
documenti cartacei, visitando mostre fotografiche o
attraverso la visione di film sul tema. Uno dei modi
più efficaci di rappresentare questi eventi è quello di
narrare le vicende di una persona che si è trovata
coinvolta nella tragedia della guerra, provando su se
stessa la ferocia della persecuzione. È quello che ha
fatto il regista Roman Polański raccontando la storia
del pianista Władysław Szpilman. Il suo film, dal
titolo “Il Pianista”, è stato realizzato nel 2002 e
appartiene al genere drammatico biografico; dalle
scene iniziali si evince che la vicenda narrata
riguarda fatti di vita realmente vissuta. Le prime
immagini sono girate in bianco e nero, come se si
trattasse di un documentario e, durante lo scorrere
della pellicola, in primo piano appaiono alcune date
che aiutano lo spettatore a calarsi maggiormente
all'interno del contesto storico rappresentato. La
guerra è lo scenario di fondo, la sua presenza
costante e opprimente si percepisce continuamente
anche attraverso i suoni, le urla, i pianti e i boati
delle bombe, che fanno da contorno permanente alla
storia della vita di Szpilman.
Il regista fa uso, infatti, di alcuni personaggi per
illustrare questo concetto: un uomo con le stampelle,
ridicolizzato dai tedeschi per puro divertimento, cade
a terra, instabile e incerto come lo è la sua situazione,
completamente nelle mani della volontà altrui; ne è
un altro esempio lo stesso Władysław Szpilman,
costretto a vivere come un barbone, tra le macerie
della sua città, soffrendo la fame e la sete, con la
costante paura di morire. Un altro elemento
significativo della storia, è l'ufficiale tedesco Wilm
Hosenfled, il quale, dopo aver scoperto il
nascondiglio di Szpilman viene a conoscenza delle
sue abilità musicali, gli chiede, quindi, di suonare per
lui decidendo di risparmiargli la vita. Da quel
momento se ne prende cura, vuole ascoltare la sua
storia, poi, sapendo dell'arrivo dei Russi, gli cede
anche il suo cappotto. È forse il caso di riflettere su
questa figura e pensare che non è giusto, anche se
umano, attribuire ad ogni singolo la colpa di errori
compiuti da un intero esercito in nome di ideali
deliranti. Wilm Hosenfled è un soldato tedesco e tutti
sono a conoscenza delle atrocità compiute dagli
uomini come lui, ma egli è, in questo caso, un uomo
gentile e umile nei confronti del nostro protagonista
e questo colpisce molto. La neve assume un
significato particolare: la sua presenza è sempre in
corrispondenza di scene di fuga e di trasferimento,
nelle quali il protagonista, con piccoli aiuti, è
travolto dalle vicende che lo circondano; ogni volta
che ciò succede, davanti a lui si presenta una scena
simile; guardando fuori dalla finestra vede sempre il
muro che circonda il ghetto, simbolo dell'isolamento
e delle restrizioni subite dalla popolazione ebraica; a
volte egli si domanda quale sia la parte giusta di quel
muro che lo isola, perché in entrambe, morte e
guerra persistono, mutando solo gli artefici. Una
ripresa in special modo lascia sorpreso lo spettatore:
in mezzo ad abitazioni in rovina, bianche di neve, il
primo piano del pianista con indosso solo un
cappotto nero a proteggerlo dal freddo. È ormai solo
e quando l'inquadratura si allarga, egli diventa una
piccola figura circondata dall'intera città, vittima
Il silenzio è collegato alle scene in cui il
protagonista è solo e soffre enormemente per la
propria condizione. Un silenzio assordante, indice
della paura che il conflitto in atto suscita in chi ne è
vittima. Questo netto contrasto di suoni è interrotto,
ad un tratto, da una musica allegra che si diffonde
nell'aria, essa preannuncia l'imminente arrivo dei
soldati Russi e, con loro, la fine del dramma.
La speranza è un altro filo conduttore in tutto il film:
essa si manifesta attraverso i comportamenti, al
limite della ragione, delle persone che cercano in
modo incessante i propri cari. Essi insistono nella
loro spasmodica ricerca, anche di fronte all'evidenza
della morte, non abbattendosi di fronte all'orrore.
Altre scene possono essere considerate significative
19
della violenza dei nemici, un punto insignificante
rispetto alla devastazione, simbolo della tragedia di
cui egli è uno dei pochi sopravvissuti. La sequenza
successiva ha caratteristiche comuni, perché il
protagonista accende un fuoco per riscaldarsi, l'unica
fiamma nel buio di una notte senza stelle. Quella
luce infonde speranza, ma è minima rispetto al nero
che la circonda e che quasi la inghiotte.
“Macchia” racconta il rocambolesco rapporto fra
Macchia, un cane da slitta che si rifiuta di fare
proprio ciò a cui è addestrato, e i suoi due padroni;
“Bâtard” il rapporto di amore-odio fra il meticcio
Bastardo e il suo padrone Black Leclère; mentre
“Preparare Un Fuoco” i vani tentativi di un uomo di
salvarsi dall’imminente congelamento dei propri arti
inferiori, accendendo un fuoco – il tutto sotto lo
sguardo alquanto curioso del cane che con lui
viaggiava. La comicità del primo racconto, narrato
con una sana dose di arguzia e ironia, lascia subito
spazio alla stravaganza della relazione fra Bastardo e
il suo padrone francese; l’apice della drammaticità è
raggiunto invece con l’ultimo racconto. La stessa
recitazione “narrativa” di Paolini si adatta
perfettamente allo stile dei racconti: da divertente e
quasi distaccata passa lentamente ad essere
partecipata e disperata.
E, allo stesso tempo, mutano anche le ambientazioni
e le luci: al colore vivace e alla mobilità della
performance sul palcoscenico si sostituiscono
lentamente colori sempre più freddi, slavati e la stasi
recitativa che ben ripropone le distese di neve tutte
uguali dell’ultima vicenda. Ed è proprio la neve che
tutto copre (il fuoco che l’uomo tenta disperatamente
di accendere), che tutto inghiotte. Jack London ci
restituisce l’affresco di una società, di un mondo
“argonauticamente” labirintico, in cui ogni certezza
viene perduta. L’uomo, alla “disperata” ricerca
dell’oro e del benessere, si muove a tentoni e viene
costantemente ostacolato; non può far altro che
soccombere bonariamente o tragicamente. L’uomo è
privato della propria identità umana per divenire
soltanto un “passante”, accomunato a tutti gli altri
esseri viventi e agli eterni compagni cani dall’istinto
di sopravvivenza. Notevole è poi la capacità di
Paolini di fondere passato e contemporaneità: il
mondo di London, a noi tanto lontano, diventa
proiezione di una società e delle sue contraddizioni a
noi tanto vicine. Ciò che sorprende, inoltre, è la
grandissima attenzione che Paolini (come London,
d’altra parte) dedica alla figura del cane: i cani nei
racconti di London costituiscono una società nella
società umana, parallela e contraddistinta dalle stesse
peculiarità. I cani presentano delle precise
personalità che li fanno costantemente entrare in
contrasto con i propri padroni. “In tutte queste storie
stasera, io sono sempre stato il cane” annuncia
Paolini alla fine del monologo.
La musica (eseguita dal vivo da Angelo Baselli,
Gianluca Casadei e Lorenzo Monguzzi) mescola
brani originali a ballate di indiscussa fama.
I brani non costituiscono semplicemente un
accompagnamento musicale, ma diventano parte
integrante della narrazione, argomentandola e
marcandone lo svolgimento.
ELISABETTA TORTORA
“Ballata di Uomini e Cani”:
Paolini riscopre Jack London
“Ballata di Uomini e Cani” è il titolo del nuovo
spettacolo di Marco Paolini. Un lavoro che ha visto il
noto drammaturgo di Belluno all’opera per gli ultimi
due anni. Eppure Paolini ci tiene a sottolineare che il
titolo è soltanto provvisorio. Il sottotitolo allo
spettacolo recita: “dedicato a Jack London”.
Ed è proprio da tre racconti dell’autore americano
che Paolini prende spunto, per realizzare un’opera
alquanto insolita nella sua produzione teatrale.
Assurto a fama essenzialmente come drammaturgo
di opere impegnate civilmente, l’attore realizza uno
spettacolo che ha il chiaro intento di svelarci una
parte della propria e della nostra infanzia. C’è un po’
di Jack London dentro ognuno di noi (chi non ha mai
letto o almeno ha sentito raccontare le storie di
“Zanna Bianca” o de “Il Richiamo della Foresta”,
opere antitetiche). Proprio Paolini dichiara: “A lui
devo una parte del mio immaginario di ragazzo”.
Jack London non è però uno scrittore per ragazzi, ma
“è un testimone di parte, si schiera, si compromette,
quello che fa entra in contradditorio con quello che
pensa”. I tre racconti a cui Paolini attinge sono:
“Macchia”, “Bâtard” e “Preparare Un Fuoco”. Ad
ogni racconto viene dedicata all’incirca una
mezz’ora, ma è chiara la disposizione: i tre racconti
costituiscono un climax ascendente, in cui
l’elemento, soggetto a variazione di intensità, è il
drammatico rapporto fra uomo e cane.
20
Lo spettacolo sembra un tentativo, da parte
dell’autore, di tirare le fila di tutta la propria carriera
e produzione artistica: un punto di arrivo e di
partenza, la riscoperta delle proprie origini per
meglio fondare il proprio presente.
Shakespeare e Cristopher Marlowe e alle vedute di
Monet). Per chi visita Londra l’obbligo è quello di
camminare perché, solo camminando, si possono
apprezzare tutti gli scorci meno famosi e più nascosti
della città. Immediatamente mi viene da pensare a
China Town nel quartiere di Soho, dove si viene
catapultati a chilometri di distanza: uno spettacolo
scenografico di colori e bizzarrie tipiche della cultura
cinese. Le strade decorate con le 孔|明|灯 (lanterne
Kongming) pullulano di numerosi ristoranti e negozi
di prodotti orientali. Ugualmente suggestiva, ma
completamente diversa è Camden Town, famosa per
l'affollato mercato e come centro di vita degli
alternativi. Lungo il Regent’s Canal, in più punti, vi
sono ormeggiate delle case galleggianti, molto
caratteristiche e variopinte.
Un’altra piccola perla è Il Temple, un quartiere con
stradine che nel XII e XIII secolo era la sede
dell'Ordine dei Cavalieri Templari. Nel XIV secolo,
passò, dopo molti avvicendamenti, in mano a un
gruppo di giuristi. Da allora è il quartiere degli
avvocati, con le grandi scuole di avvocatura del
Middle e Inner Temple.
Qui c’è anche la famosa Inner Temple Church, che
recentemente è diventata un must per chi ha letto “Il
Codice Da Vinci”.
E’ ovvio che, se si viene a Londra (soprattutto se è la
prima volta), siano tappe obbligatorie musei come la
National Gallery, il British Museum e lo Science
Museum. Tutti rigorosamente gratuiti. La filosofia è
evidente e l’importanza, l’ammirazione, il rispetto
che gli inglesi hanno per la cultura (anche quella
degli altri), che sanno riconoscere e valorizzare,
dovrebbe far riflettere.
E anche lì, non mi sono trattenuta dal domandarmi su
come è possibile che in Italia, culla delle arti,
forziere di tesori inestimabili e patria di talenti
invidiati in tutto il mondo, non si investa nella
cultura, non riconoscendola come bene primario. A
Londra non ho scoperto “l’acqua calda” ma a vedere
come lì le cose funzionano bene mi sono quasi
sentita male. La questione non è pagare il biglietto o
meno, ma è proprio l’organizzazione che non va.
Al British Museum c’è una teca in plexiglas dove si
può depositare un’offerta: un cartello invita a dare
una sterlina, nessuno ti obbliga ma tutti lo fanno. I
musei poi sono anche visti come ambienti d’incontro
e svago, con ristoranti e caffé, negozi di libri e
souvenir. L’amara verità è che forse siamo un paese
di selvaggi e che forse è meglio lasciare tutto agli
inglesi come è stato purtroppo già fatto per Pompei
che ha registrato numeri da record. Numeri che
probabilmente in madrepatria non avrebbe mai
raggiunto.
MARTINA MANGIONE
LUCA ZAMMITO
50 sfumature di Londra
“Nella mia mente si fece subito strada il pensiero
che tale città doveva essere, più di ogni altra città al
mondo, piena di meraviglie e di maledizioni”.
(David Copperfield, Charles Dickens)
L’anno scorso il mio desiderio era quello di andare a
Parigi, l’anno prima di passeggiare tranquillamente
su Las Ramblas. Quest’anno il mio cuore si è
soffermato sulla capitale del Regno Unito. Non c’è
bisogno di tante spiegazioni, semplicemente il mio
cervello viaggiatore punta la lancetta sui miei sogni.
E il mio unico sogno, fino ad una settimana fa era
esattamente quella città, Londra. Eppure 4 giorni non
mi sono bastati per visitarla: la città è così vasta che
ho dovuto utilizzare più volte la metropolitana per gli
spostamenti.
Londra non è come la si immagina: una città fredda
investita continuamente dalla pioggia battente. No.
Londra è soprattutto colore: pensiamo ai famosissimi
taxi inglesi, alle cabine telefoniche, ai pullman rossi
a due piani, alle vetrine di Camden fino alle luci dei
cartelloni pubblicitari di Picadilly Circus. Una città
moderna, ma al tempo stesso un polo d’attrazione
per le personalità più influenti di ogni tempo. Alcuni
di questi personaggi sono giunti a Londra da altre
parti dell’Inghilterra o dall’estero; altri sono nati e
cresciuti in città: tutti hanno comunque lasciato un
segno, chi progettando magnifici edifici, chi
promuovendo riforme e istituzioni, chi ancora
interpretando lo spirito della città attraverso scritti,
sculture e dipinti (pensiamo per esempio al poeta
romantico John Keats, i drammaturghi William
21
immagini di un'epoca da tutti, anche da noi giovani,
ricordata e rimpianta con nostalgia. Puoi parlare
della tua vita, raccontare le preoccupazioni che hai e
alcune saranno in grado di offrirti consiglio facendo
inoltre riferimento alle loro esperienze come modello
da poter seguire. Spesso esco di lì con la mente ricca
di spunti per riflettere. Nascono discorsi che portano
alla rivalutazione del concetto di “vita” e anche
confronti costruttivi. Senti la necessità di convincere
queste persone che ogni fase della vita è importante e
che, dal nostro punto di vista (naturalmente per loro
errato), la giovinezza è sopravvalutata. Ti rendi
conto di come l'essere umano sia mutevole e come
ciò possa portare o ad una solida sicurezza di se
stessi o ad una tenera debolezza. I Giovani per la
Pace mi hanno offerto l'opportunità di mettermi alla
prova e di scansare finalmente tutti gli effimeri
ostacoli che mi impedivano di rendermi utile. Sento
molte persone che platealmente illustrano il loro
desiderio di aiutare le persone in difficoltà, eppure
quando sono venuti a conoscenza di questo progetto,
hanno dato libero sfogo alla creatività inventando
varie scuse. Invito coloro che sentono la reale voglia
di impiegare il proprio tempo in modo utile, ma che
vengono frenati dal qualsiasi tipo di timore, di farsi
coraggio perché le opportunità di fare anche la
minima differenza ci sono. Inoltre, è bello poter
condividere con gli altri ragazzi le diverse sensazioni
che ognuno avverte partecipando agli incontri:
nascono interessanti e divertenti osservazioni.
Il volontariato esiste
Mai sentito parlare dei Giovani per la Pace?
Si tratta di un gruppo associato alla Comunità di
Sant'Egidio che, però in maniera autonoma, si
incontra periodicamente per dedicare un po' del
proprio tempo agli anziani delle case di riposo o ai
bambini con varie difficoltà. Io faccio parte del
gruppo di Monteverde e insieme ad altre persone,
trascorro il venerdì pomeriggio chiacchierando con
le signore Adriana, Ada, Annamaria, Armina,
Fernanda e le restanti splendide donne che in poche
settimane sono state più utili a me di quanto lo sia
stata io a loro. Molte persone sono restie nell'unirsi a
noi: alcune pensano sia una perdita di tempo, altre
invece temono che questa esperienza possa suscitare
loro pensieri ed emozioni che vorrebbero tenere
lontani almeno fino ai sessant'anni. Ci sono altri,
invece, convinti di non esserne all'altezza, hanno
paura di non riuscire a rendersi utili in modo
efficace: anche io appartenevo a quest'ultima
categoria. Credevo non avrei potuto aiutare quelle
persone a distrarre la mente da cattivi pensieri ma
che anzi si sarebbero potute creare situazioni
imbarazzanti. Il primo impatto che ho avuto con le
signore della casa di riposo di San Pancrazio è stato
piuttosto surreale e inaspettato. Ero molto
impacciata, ma sapevo che sorridere e tendere la
mano a ognuna di loro, pronunciando il mio nome
con un tono della voce leggermente più alto, sarebbe
stato il giusto inizio. Partecipando a sempre più
incontri e acquisendo maggior dimestichezza, ho
capito che l'atmosfera di tristezza che tutti
lamentavano ogni volta che gli proponevo di unirsi a
noi, viene annullata dal piacere che gli anziani
provano nell'avere qualcuno che li ascolti o che
dedichi loro attenzioni. E' un'esperienza non solo
utile ma che costituisce anche un arricchimento
personale dal punto di vista umano. Le parole che,
seppur in modo sconnesso, pronunciano, trasmettono
Chiunque è ben accetto e l'ideale sarebbe diventare
un gruppo numeroso così da poter estenderci in tutti i
reparti e offrire compagnia e supporto anche agli altri
anziani. L'appuntamento è sempre il venerdì a San
Pancrazio intorno alle ore 16.00 per passare almeno
poco più di un'ora e mezza prima che le nostre
ragazze cenino alla trasgressiva ora delle 18.00! E'
importante vivere ogni esperienza prima di
giudicarla.
GINGER R.
22
sola col cane per poi tornare mezz’ora dopo con gli
occhi lucidi e dire con voce flebile: “Jolly è volato in
cielo”. In quel momento la padrona si è interrotta.
Gli occhi bagnati e un groppo alla gola. È rimasta là
cercando di non piangere, commossa. Mia sorella ha
cominciato a parlare, per interrompere il silenzio
imbarazzante che si era creato e cambiare discorso;
poi siamo tornate a casa poiché si stava facendo tardi
ed eravamo era piuttosto lontane.
Tutto ciò mi ha fatto ragionare e ho pensato che ci
sia gente che morirebbe per il proprio animale e altri
individui che invece si divertono a torturarlo. Di
quest’ultima categoria di persone non ne ho
conosciuta nessuna (fortunatamente per loro), ma ne
ho sentito parlare parecchio. Ad esempio, c’era una
signora che lanciava dal balcone dei vetri, o
comunque oggetti pericolosi, ai cani della nonna di
una mia amica (un meticcio e un Rottweiler) e un
giorno gli ha buttato delle polpette avvelenate.
Mentre il meticcio non le ha neanche toccate, il
Rottweiler le ha mangiate per poi morire dopo ore di
agonia e l’assassina non è neanche stata punita dalla
legge poiché ritenuta “mentalmente instabile”.
Di casi analoghi ne conosco a milioni: ad esempio
quello che mi ha raccontato un mio amico su degli
abitanti di Torvajanica, piuttosto sadici, che si
divertivano a lasciare ai gatti sotto casa del cibo
unito a veleno per topi per poi divertirsi a guardarli
morire dai loro balconi. Il veleno per topi contiene
delle sostanze che rendono la costituzione del sangue
totalmente liquida e incapace di coagulare.
L’animale, dopo circa un’ora dall’aver ingerito il
veleno (comunque quando è troppo tardi), inizia a
barcollare (all’interno del corpo comincia a
fuoriuscire il sangue dai vasi, irrorando negli organi
interni causandone il collasso e varie emorragie
interne). I sintomi che appaiono man mano che il
veleno fa effetto sono: la perdita di sangue prima
dalla bocca, poi anche dagli occhi tramite la
lacrimazione, e, alla fine, da tutti i pori per via delle
ferite che si aprono.
Uomini e animali
Ho deciso di scrivere quest’articolo in onore di una
signora. È una donna normale, non ha caratteristiche
particolari, non è famosa e non ha fatto neanche
chissà cosa di speciale se non amare il suo cane alla
follia.
Sembrerà banale perché tutti coloro che hanno un
animale gli vogliono bene (si spera), ma mi ha
colpito profondamente il modo in cui i suoi occhi
azzurri, ancora allegri, non annebbiati (come lo sono
di solito gli occhi delle persone anziane come se il
colore dell’iride sia coperto da nuvole di esperienze
passate e di ricordi) appena ha cominciato a parlare
del proprio cane, si siano offuscati diventando vacui,
vuoti come per un ricordo che fa male . Ma partiamo
dall’inizio: io, mia sorella e una nostra amica
abbiamo deciso di portare il cane a Villa Flora per
farlo giocare con altri cani e lì abbiamo incontrato la
vecchietta che, mentre Argo (il nostro cane) giocava
con la cagnolina della signora, ci ha raccontato di
aver preso quella cagnetta dopo che Jolly, il suo
vecchio meticcio di dieci anni, è morto; poi, con gli
occhi velati, ci ha raccontato di come tutti i giorni
portava il cane, affetto da un tumore, a spasso e di
come, quando quello si stancava e si accasciava a
terra esausto, lo portava in braccio nonostante la
propria età e il peso di Jolly (di taglia grande) . Ci ha
anche parlato del momento in cui il cane è morto, e lì
abbiamo veramente dovuto trattenere le lacrime:
dopo una passeggiata particolarmente stancante, in
cui si erano dovuti fermare varie volte, il cane si era
accasciato davanti alla porta di casa e non si voleva
più muovere; allora un’ amica della signora, che era
venuta con loro e che nella sua vita aveva avuto
parecchi cani, l’aveva mandata in salotto rimanendo
In media il decesso, negli animali di piccola taglia,
avviene dopo circa tre ore di assoluta sofferenza,
mentre l’uomo e gli animali di grande taglia
23
muoiono dopo un giorno. Naturalmente l’effetto
varia a seconda della quantità ingerita. Un altro caso
è quello di un bambino che si divertiva a strangolare
i criceti che sua madre continuava a comprargli, o
quello di alcuni ragazzi che si divertivano a
malmenare e a dar fuoco ai gatti: la cosa non si
sarebbe scoperta se uno di quei malcapitati animali
non fosse appartenuto ad una signora, che
impazzendo per la sparizione dell’unico essere che le
era rimasto, lo ha cercato dappertutto per poi trovare
una salma tutta bruciata riconoscibile solo per la
medaglietta.
e il ventre squartato. L’ipotesi è che siano stati usati
come corrieri, essendo stata rinvenuta anche una
busta di plastica. Immaginate voi il dolore che
provereste se il vostro padrone, di cui vi fidavate,
ignari del fatto che vi stava solo usando, vi avesse
immobilizzati per poi aprirvi la pancia senza
anestesia (naturalmente troppo costosa e inutile per
un “essere inferiore” come un cane).
Per terminare voglio dire che quest’articolo è, sì, in
onore della signora incontrata al parco e, con lei, di
tutti coloro che amano i loro animali; ma è anche un
modo per protestare e per denunciare i “mostri” che
hanno fatto e che fanno queste cose (a parte che
molto probabilmente chi adotta la violenza sugli
animali, in futuro, con il 75% di probabilità, sarà
violento con la propria moglie e/o con i propri figli ).
Perciò, se a qualcuno capita di assistere ad atti di
violenza sugli animali, non abbia paura di reagire,
loro lo farebbero per noi. È capitato qualche giorno
fa che un cane randagio ha salvato un bambino, il
quale stava per essere investito da un pirata della
strada, buttandosi addosso a lui per scansarlo e
venendo colpito dalla macchina in corsa. Il padre ha
dichiarato di aver visto la macchina che si avvicinava
velocemente al bambino e di non aver fatto in tempo
a reagire; ma proprio quando il piccolo stava per
essere travolto, un razzo, un angelo custode, lo aveva
spinto mettendolo in salvo. Purtroppo il cane non era
uno spirito, e non è uscito indenne dallo scontro. Ora
sta dal veterinario e tutti i giorni il bambino salvato e
la sua famiglia lo vanno a trovare aspettando la
guarigione per portarselo a casa.
Riguardo ai casi di cuoi ho parlato, sorge spontanea
una domanda : CHI SONO LE VERE BESTIE ?
In seguito, la donna ha chiamato la polizia e la sera
stessa i ragazzi, tre minorenni e un maggiorenne,
sono stati arrestati da dei poliziotti che dopo la
segnalazione della donna erano rimasti in zona e li
avevano sorpresi nell’atto di bastonare un povero
gatto, in seguito adottato da uno dei due poliziotti.
Mentre al maggiorenne è stato dato un anno di
carcere, i genitori dei minorenni, i quali si ritenevano
“indignati” per aver dovuto pagare per degli
“stupidi” gatti, hanno solo ricevuto una multa.
Un altro caso straziante è quello di un meticcio
ritrovato in una bau beach a Livorno dopo essere
stato legato con una fune ad una pila di mattoni e
gettato in mare. Il cane, dal pelo bianco, al momento
del ritrovamento aveva il corpo gonfio in modo
innaturale e gli occhi velati, presentava lividi e tracce
di sangue. Sembra che sia morto nel tentativo
disperato di spezzare la corda (ancora stretta tra i
denti) che lo portava sempre più giù nella profondità
marina. Io, dopo aver visto l’immagine, che mi ha
veramente spezzato il cuore, non riuscivo a smettere
di piangere e sono corsa subito da Argo che ha
cominciato a scodinzolare, magari proprio come
faceva quel cane mentre il padrone gli legava la
corda al collo, ignaro del fatto che stava per morire e
pieno di amore e fiducia nei confronti di un uomo
che non meritava tutto ciò. La fine tragica di una
giornata, che doveva essere fantastica, passata alla
bau beach .
Quest’episodio si aggiunge al caso di un Labrador e
un Pitbull ritrovati con il muso legato da una fascetta
CHIARA DEL TAVANO
24
matematica si dichiarerà “comunque soddisfatto
della prestazione”? Io in ogni caso, fossi stato in lei,
ci avrei provato un po’ di più con Matri prima di
cederlo. Bastava togliergli le veline e forse qualche
gol lo faceva. Il problema è il resto della squadra.
Nemmeno il ritorno di Kakà ha giovato quanto si
sperava: il brasiliano segna e fa crescere il numero
degli adepti al Cristianesimo, ma dicono che gli altri
dieci in campo siano più spaesati di Conte dal
parrucchiere.
Proprio Conte è stato eletto miglior allenatore del
2013. Un risultato ineccepibile, direi. Tutti i mister
lo invidiano, soprattutto per essere riuscito a dare un
senso alla presenza di Padoin all’interno di uno
stadio di calcio. Certo ha anche lui i suoi difetti, non
lo neghiamo. La trasferta di Istanbul gli ha fatto
perdere del prestigio; inoltre, se ci è permesso un
consiglio, dovrebbe evitare le droghe leggere almeno
prima delle conferenze stampa, durante l’ultima sono
arrivati abbaiando i cani antidroga del commissariato
di Polizia. Che sta a tre chilometri di distanza.
Insigne è tornato al gol in campionato dopo oltre
sette mesi. Quelli di Sky hanno anche chiamato
l’interprete per raccogliere le sue dichiarazioni a fine
gara, ma Lorenzino non ne ha voluto sapere. Benitez,
meno timido, ha commentato: “Un McMenu
completo con patatine, grazie”. Stava per ordinare
degli spaghetti allo scoglio, ma si è subito ricordato
che c’era Higuain lì vicino.
Un altro ritorno al gol è stato quello di Robinho. I
tifosi del Milan si sono quasi consolati della
sconfitta. Forse neanche pretendevano tanto, a loro
bastava anche solo che inquadrasse la porta. La
consolazione è comunque magra vista la classifica
dei rossoneri: si vocifera che Galliani abbia fissato i
futuri allenamenti di rifinitura il sabato alle 14, in
modo da abituarsi per l’anno prossimo. Intanto, a
Roma, i giallorossi ne facevano quattro al Genoa.
Eroe di giornata è stato Matuzalem, centrocampista
ex Lazio e membro attivo della Banda della
Magliana: è il primo calciatore che riesce a farsi
espellere mentre viene sostituito. Il povero Konaté,
che stava entrando al suo posto, si è dovuto
riaccomodare subito in panchina.
Qualcosa di simile è capitato anche a Ribéry. “Ho
vinto tutto con il Bayern Monaco e sono il migliore
della mia squadra” pensava, “il pallone d’oro è mio”
pensava. Peccato che l’abbia vinto uno ancora
migliore di lui. Bisogna inchinarsi al vero fenomeno
di quest’anno, CR77. No, non è scritto male, a
Bergamo lo chiamano proprio così: Cristian
Raimondi, numero di maglia 77. Ci dispiace per
Franck, forse l’anno prossimo con una pesante cura
ortodontica avrà più possibilità di vincere l’agognato
premio. Tiribocchi permettendo.
Buongiorno Presidente
La polizia continua ad indagare sugli strani eventi
delle ultime settimane: dopo l’apparizione di
Adriano nelle case il 25 dicembre, durante la notte
dell’Epifania è stato avvistato Chiellini. Molti
credono alla leggenda secondo cui entrambi vadano
a distribuire regali ai bambini; in genere quelli che
sono stati cattivi ricevono delle gigantografie di
Tevez, mentre ai buoni vengono date le quote più
convenienti di tutti i campionati europei, garantite da
Mauri e Doni.
A parte gli scherzi, è veramente vergognoso che dei
calciatori combinino le partite per poi scommetterci
sopra. Non bastava la Nazionale a far perdere
credibilità al calcio italiano? E poi le scommesse
sono diventate una vera malattia. Ora ci si possono
giocare quote improbabili, come il numero di calci
d’angolo o il numero di tiri di Guarìn fuori dallo
stadio… be’, quest’ultima mica tanto improbabile.
E’ il momento di fare dei saluti. Direi di iniziare con
Lotito. Buongiorno Lotito! Come va? Com’è andato
il cenone di Natale? Ah, era così abbondante che
l’avete unito direttamente a quello di Capodanno?
Comunque le assicuro che non la vedo affatto fuori
forma, i bottoni della camicia saltati sono tre come al
solito. Ha qualche dichiarazione in latino da farci,
Presidente? Voi ditemi quello che volete, ma a me
Lotito fa ridere tantissimo. E’ l’unico presidente che
fa incontrare in amichevole due squadre entrambe
sue, Lazio e Salernitana, così almeno una delle due
non perde. Poi non ho mai visto in nessuna tifoseria
una tale concordia d’opinioni sul proprio presidente:
lo odiano tutti.
Buongiorno anche a lei, Allegri! E’ sempre
un’emozione avere a che fare con allenatori del suo
livello. Uno che è riuscito a prendere due gol da
Parolo nella stessa partita merita un trattamento di
riguardo. Poi, quando ne ha presi quattro dal
Sassuolo, hanno capito che forse bisognava cambiare
il trattamento ed esonerarlo. Allegri, come farà
adesso senza una squadra da allenare? Griderà “dai
dai dai” a sua moglie mentre prepara la cena?
Quando suo figlio gli porterà a casa un 3 in
IACOPO GIORDANO
25
COMPONIMENTI CREATIVI
IACOPO GIORDAN
26
“Parole che contano” (I)
banali verità logiche sancite dal dizionario e si elude
con un sorriso di scherno l'idea implicitamente
critica che l'oggetto di tanti sforzi (cioè quello stesso
dizionario) sia degno di interesse, si sta utilizzando
una tattica codarda per mantenere senza sforzo lo
status quo, e insieme per rubarci il mezzo con il
quale dar voce alla nostra perpetua esigenza di
affrancamento - da questo potere e da qualunque
altro gli succeda.
L’esplicitazione del carattere politico e polemico
delle definizioni è dunque una componente
essenziale di un progetto rivoluzionario ed è anche
essenziale per proteggere lo spazio di manovra in cui
ha origine ogni rivoluzione, la tenue ma
irrinunciabile promessa di libertà offerta dalle parole.
A un certo punto, la rivoluzione concettuale,
personale e sociale auspicata in Oltre la tolleranza e
articolata nel Manifesto per un mondo senza lavoro
ha dovuto affrontare questo compito: portare alla
luce il dissidio che attraversa le parole chiave della
nostra comune esperienza e presentare con chiarezza
i significati che ci stanno a cuore. […]
C’è un’evoluzione precisa nelle tre fasi finora attuate
di questo progetto. Oltre la tolleranza era il grido
irato di una persona singola; il Manifesto portava
invece le tracce, nella sua struttura espositiva, di un
dialogo tra persone diverse, appassionate sostenitrici
degli stessi ideali ma non per questo meno oneste
nello stigmatizzare difficoltà e problemi connessi
alla loro realizzazione. Il libro che avete davanti, di
quel dialogo, vuole portare più che le tracce, vuole
esserne il resoconto, l’espressione non di un
individuo, ma di una comunità. È stata, ancora una
volta, una sola persona a stenderne di fatto le pagine
e, probabilmente,
ciascuno dei membri della
comunità avrebbe qualcosa da ridire sui dettagli di
come le pagine sono state stese. Ma questo esito è
inevitabile: ogni comunità continua, anche
nell’accordo, a manifestare la sua inesausta,
molteplice ricchezza, e di tale ricchezza si possono
solo offrire, appunto, temporanei resoconti,
istantanee presto datate, paracarri su cui sostare un
attimo per riprendere fiato prima di proseguire il
cammino. Chi ha scritto il libro ritiene, a torto o a
ragione, di conoscere abbastanza lo spirito della
comunità da poterne offrire questa istantanea, e
perciò ha scelto di scriverlo nella prima persona
plurale; ma è consapevole (e anzi spera) che questo
passo avrà l’effetto di allargare e approfondire la
discussione, non certo di chiuderla”.
Ciao a tutti!
Da tempo sto leggendo un libro, a mio parere molto
interessante, con il titolo "Parole che contano".
Quanto spesso utilizziamo termini dei quali non
conosciamo il significato o propriamente il concetto
puro che vogliono esprimere? A questo proposito
Ermanno Bencivenga, professore ordinario di
filosofia all'Università di California (Irvine), ci ha
donato uno scritto che tratta molte parole spesso
utilizzate con superficialità o semplicemente con
poca attenzione riguardo la loro origine.
In questo libro, organizzato a mo' di dizionario,
vengono proposti diversi termini (dalla "A" alla "Z")
ed accanto vi è riportato una definizione di natura
politico-filosofica.
Qui vi presento parte della sua "premessa": “[...] Le
parole non sono neutrali. Spesso hanno importanti
risonanze, alludono a elementi centrali della nostra
forma di vita; il loro uso ci coinvolge emotivamente
e intellettualmente. Appropriarsene, dunque, dettarne
il significato, è un modo subdolo ma efficace per
imporci una certa retorica, e per suo tramite scelte
sostanziali e qualificanti. Quando mercenari senza
scrupoli, guardiani di un sistema reazionario e
repressivo, vengono etichettati come combattenti per
la libertà e la grancassa dei mezzi di comunicazione
diffonde questa etichetta per l'universo mondo, che
cosa farà chi si oppone a quel sistema? Si dichiarerà
contrario alla libertà? Cercherà un termine nuovo
con cui manifestare le sue opinioni e le sue passioni?
Abbandonerà nelle mani degli avversari una parola
così ricca di storia e di valori come "libertà"?
L'ovvia risposta a tutte queste domande è: No. Per
parole del genere occorre lottare; la loro semantica è
un problema politico, il terreno di un confronto
costante tra interessi contrapposti. E occorre lottare
perché la natura politica della situazione non venga
celata dietro le sembianze ipocrite di una noiosa
registrazione notarile. Il linguaggio è un prezioso e
delicato strumento di esplorazione e ricerca, un
teatro in cui inscenare mille sogni prima di provare a
realizzarli - o magari, terrorizzati dalla loro
rappresentazione, prima di metterli per sempre da
parte. È il tessuto della nostra immaginazione, la
sostanza della nostra apertura al possibile, la
contrastata eppur ostinata garanzia che il nostro
futuro è frutto di una scelta, implicita magari ma non
per questo meno carica di responsabilità. Quando lo
si inchioda alle regole dettate dal potere costituito,
quando si trasformano arroganti prese di posizione in
[Ermanno Bencivenga: Irvine, California, 2003]
27
I termini che esporrò sono quelli da me selezionati e
non costituenti il totale contenuto del libro. Spero
vivamente che possiate trovare interesse nel leggerli!
ha valore positivo, allora volerne il bene significa
provare piacere quando ottiene uno dei suoi valori e
assisterlo in tal senso. Se voglio bene a un impiegato
di banca ne seguirò con sollecitudine la carriera; se
sono amico di un mafioso mi congratulerò con lui e
con me stesso quando toglierà di mezzo un
pericoloso concorrente o un giudice troppo solerte.
Per noi invece il bene di un essere umano è quel che
promuove la sua umanità, cioè la sua natura di
soggetto; volerne il bene dunque non può significare
approvazione e sostegno per quanto in lui si oppone
a tale natura. Al contrario, significherà lottare per lui
e (se possibile) con lui per redimerlo da questi errori,
in nome di ciò che lo rende degno del nostro
sforzo. In secondo luogo, l'affetto che mi lega a un
amico, anche occasionale, nasce per noi dalla (sia
pur oscura) consapevolezza che il suo essere è
implicato nel mio, che la tua voce appartiene al mio
dialogo interiore; quindi che essa non va fatta tacere
ma va invece sostenuta, articolata, sviluppata. Nasce
dalla mia fiducia nei suoi confronti: dalla mia
apertura a quel che non sono ma che (l'amico mi
rivela) potrei essere. (Siccome tale apertura non è
necessariamente reciproca, noi riteniamo, incontrato
con Aristotele, che non lo sia sempre nemmeno
l'amicizia).
A:
Amicizia: Secondo una visione generalmente
aristotelica, non esiste un'autentica comunità se non
esiste amicizia tra i suoi membri: non di tutti con
tutti ma di ciascuno almeno con qualcuno, così da
formare una rete priva di lacune. Amicizia, in questa
prospettiva, è un reciproco e consapevole volersi
bene: un volere l'uno il bene dell'altro cui si
accompagna l'emozione dell’affetto di un segno
positivo (di pienezza, di arricchimento, di gioia) che
il rapporto lascia nell’ identità di entrambi. E,
sebbene ci sia per Aristotele un'amicizia ideale
(fondata sulla migrazione per la virtù altrui), essa
non è l'unica e non può nemmeno essere troppo
frequente (in questo senso, si possono avere solo
pochi amici); ci sono anche rapporti di mutua
benevolenza fondati sul piacere che dà l'altrui
compagnia o sull'utilità che se ne trae. Fra un
commerciante ei suoi clienti di regola o fra due
persone legate da attrazione sessuale, può circolare
affetto e stabilirsi un amicizia; salvo che, quando il
commerciante chiuda in negozio o la protezione
balistica, tende a interrompersi il rapporto e con esso
anche l'affetto (se nel frattempo l'amicizia non ha
acquisito una base più ampia). Il modello liberista fa
di tutto, in teoria e in pratica, per negare una simile
visione della comunità, basata su legami personali.
L'ideale che esso persegue è quello di individui
indipendenti e tesi alla realizzazione del proprio
interesse (di ciò che questo modello concepisce
come tale). A due persone sessualmente attratte,
dunque, o coinvolte in un rapporto di lavoro, può
attribuire solo mire manipolative: ritenere cioè che
cerchino di servirsi l'una dell'altra per ottenere
egoistiche soddisfazioni. (Infatti secondo la
razionalità sancita dal modello è meglio tradire
piuttosto che cooperare ogni qualvolta la
cooperazione non offra a sua volta un tornaconto
individuale perché, diciamo, lavorare con te a un
progetto comune mi aiuta a conseguire i miei scopi).
Quanto ai "veri" amici, essi sono qui una realtà
evanescente o, il che è lo stesso, pesantemente
inflazionata: "è un mio caro amico", dice l'uomo
d'affari di quasi tutti quelli che conosce. Noi siamo
favorevoli alla visione aristotelica; riteniamo però
che sia necessario approfondire “il bene” che gli
amici si vogliono. In primo luogo, se quel bene è per
un essere umano è semplicemente quel che per lui
Amore: Si ama una persona alla quale si è legati da
amicizia quando quella persona diventa per noi
insostituibile, quando nessun altro potrebbe
prenderne il posto. Nella visione corrente ogni
essere, e in particolare ogni esser umano, è
identificato con una struttura specifica e determinata
(con un oggetto di un certo tipo) ed è quindi difficile
capire come possa essere insostituibile. Nulla
esclude, infatti, che persone diverse abbiano la stessa
struttura, oppure io potrei essermi sbagliato
nell’attribuire una certa struttura alla persona amata,
ma nel qual caso arriverò prima o poi alla
conclusione che non si trattava di vero amore ( “tu
non sei quel che pensavo”) e rivolgerò altrove le mie
cure. Chi si lascia guidare da questa visione avrà
probabilmente una vita amorosa costituita da una
serie di episodi disgiunti ciascuno concluso da un
brusco risveglio, e, se vuole comunque legarsi a
qualcosa di insostituibile, dovrà infine identificarlo
non con una persona ma con la struttura specifica e
determinata che continua imperterrito a cercare,
nonostante le delusioni.
Per noi invece un essere umano è uno spazio di
libertà, un incontro/scontro tra molteplici e diversi
progetti. Quel che non è, dunque, gli appartiene tanto
quanto quel che è; la possibilità è parte della sua
natura. Amarlo significa investire il proprio impegno
28
intellettuale, emotivo e pratico in tale possibilità,
nell’umanità della persona amata: incoraggiare e
sostenere la sua crescita, aiutarla a superare ogni
stereotipo nel quale tende a cristallizzarsi, ogni
ostacolo che la routine quotidiana pone alla
realizzazione di tendenze perlopiù sommesse e
implicite. In questa prospettiva, l’amore per una
persona non dovrà mai rivelarsi “sbagliato”; a
rendere quella persona insostituibile è precisamente
il nostro impegno, che è indipendente dalle sue reali
(cioè già realizzate) qualità, e finché l’impegno
permane non sarà necessario cercare altrove. (In
quanto guidato sempre dal non-essere, l’amore è
sempre anche tensione verso un ideale).
Lo stesso contrasto di prospettive vale per l’uso della
parola “amore” in senso traslato e metaforico, in
espressione quali “amore per l’umanità” o “amore
per una causa”. Anche qui si può amare l’umanità
per quel che si crede che sia e poi accorgersi che non
lo è e passare direttamente a odiarla – e forse ad
amare qualcos’altro. Oppure si può amare l’umanità
per quel che non è ma potrebbe e dovrebbe essere, e
sostenere con impegno e dedizione la sua crescita
nella direzione voluta.
in cui le mie mani o i miei piedi cominciano a
muoversi in modo nuovo, la mia anima si esprimerà
in essi tanto quanto nei miei pensieri o nelle mie
parole. Che l’anima si esprima più spesso in pensieri
e parole che in movimenti delle mani o dei piedi
dipende solo dalla circostanza empirica che ci ha
fatto trovare nel linguaggio uno strumento di
liberazione più efficace e sicuro di altri. E che
l’anima sia immortale significa per noi che nessuno
forma sarà repressa per sempre: prima o poi le forze
che la reprimono si indeboliranno, consentendole di
manifestarsi.
Una parte rilevante ma perlopiù dimenticata della
tradizione ha sostenuto che non solo gli esseri umani
hanno un’anima: che un’anima universale permea
ogni ente. Noi guardiamo con favore questa
(cospicua) minoranza e consideriamo l’oblio di cui è
circondata, un atto politico di significato
discriminatorio. Essa infatti vuole ricordarci che la
diversità, il confronto e la lotta tra destini alternativi
sono una caratteristica comune nell’essere.
ARIA
Anima: Per una lunga tradizione filosofica che si è
incrociata con varie credenze religiose, l’anima è un
ente immateriale, che dunque non occupa spazio pur
agendo nello spazio. Un’anima è spesso associata ad
un corpo, del quale sarebbe origine ultima cosicché,
quando l’anima abbandona il corpo, questo giace
inerte. Essendo immateriale, inoltre, e quindi priva di
parti, l’anima è da molti considerata immortale; solo
il corpo muore (cioè si divide, si spezza), l’anima se
ne separa e continua a esistere nel mondo che le è
proprio.
Noi neghiamo che l’anima abbia una sostanza
diversa dal corpo, ma continuiamo a pensare che
esista un’importante divisione in proposito – solo
diversa da quella tradizionale. Ogni ente è per noi
sede di contrasto politico tra forme diverse, e in
particolare tra forme che si sono radicate (e quindi
non suscitano più sorpresa, sono conformi alle
comuni aspettative, perfettamente calate in un ruolo
oggettivo) e altre che non lo sono, ma esercitano
continua pressione per mettersi in luce (ed
eventualmente radicarsi). Il corpo di un ente, per noi,
è costituito dalle sue forme radicate; l’anima da tutto
l’humus di tendenze inespresse, di desideri, di
invenzioni appena accennate che fa loro da sfondo e
che costantemente minaccia (o promette) di
“animare” una scena ormai consueta. Che il corpo
sia costituito di materia, dunque, significa per noi
che in esso certe forme sono riuscite a sottomettere,
tacitare e strumentalizzare tutte le altre, ma non
limita l’anima (o il corpo) a esprimersi solo
attraverso enti di un tipo determinato. Nel momento
I sogni
I sogni sono sicuramente una delle parti più
considerevoli dell'esistenza umana, o almeno io, ho
sempre amato pensare che sia così. Mi sono sempre
considerata una sognatrice e ritengo che i sogni siano
forse la cosa migliore che qualsiasi creatura possa
avere: essi sono la materia prima di tutta la realtà
circostante, che si basa su ogni colpo di genio o
"visione" dei nostri antenati. Tutti i grandi
personaggi avevano un sogno, basta pensare al
grande Nelson Mandela che credeva in un mondo
migliore dove tutti potevano essere uguali tra loro
senza discriminazione alcuna ed ha lottato per
questo, anche la Gertrude del Manzoni a modo suo
sognava, nonostante i suoi fossero sogni distorti,
credendo di poter ricevere quell'amore che nessuno
mai le aveva concesso. D'altronde ammettiamolo,
ognuno di noi nella sua vita ha sognato ad occhi
aperti almeno una volta, poi magari ha lasciato
perdere ma a modo suo è riuscito a varcare i confini
del mondo. Una delle cose migliori dei sogni,
d'altronde, è la capacità di farti sentire libero mentre
sali su, sempre più su, senza fermarti fino a
raggiungere le stelle. I sogni però non sono facili da
ottenere, servono degli ingredienti base: una buona
dose di fantasia, qualche goccia di desiderio, una
manciata di buona volontà, una parte della vostra
anima e un pizzico di sano credere in ciò che si sta
compiendo, poi si può “infornare il tutto” e vedere
che cosa ne esce. Ricordiamoci che è necessario
29
ignorati durante il nostro passaggio sulla terra e di
venire dimenticati subito dopo. Come difesa, l’uomo
non può che aggrapparsi a certezze effimere, per non
sprofondare. Da qua deriva la Coerenza come virtù per sentirci in concordia e armonia con noi stessi ovvio. E affinché anche io mi potessi sentire in pace
con l’animo, ho lasciato a lungo tacere le mie mani e,
infine, sono giunta alla conclusione di prima: la
Coerenza non porta da nessuna parte. La Coerenza
non dovrebbe esistere. Solo un pazzo potrebbe
credere di poter rimanere lo stesso per tutta la sua
vita. L’essere umano, sebbene rimanga, come
persona, lo stesso, muta opinione senza mutare
perché si accresce, inciampa e si corregge, cresce,
percorre sempre strade nuove con i suoi piedi.
Cambia e allo stesso tempo no. Insomma cambia o
non cambia? Difficile dirlo, l’esperienza aggiunge
sempre una nuova stratificazione, siamo come un
muro che viene verniciato a nuovo ogni anno, la
vernice originale resta ma è nascosta. All’esterno
mostriamo i segni del nostro rinnovamento, siamo
giustificati per il nostro cambiamento, andando
avanti si aprono più vedute e diventiamo sempre più
consapevoli di come vogliamo essere. Pur
ritenendomi sulla retta via con la chimera della
Coerenza da inseguire, sono affondata e ho rischiato
di affogare ben più di una volta. In questo quasi
infinito arco di tempo mi sono ritrovata sospesa.
Fluttuavo di moto rettilineo uniforme senza
incontrare
alcuna
forza
ad
imprimermi
un’accelerazione tale da superare lo stato di inerzia.
Soffocata dalla noia giacevo raggomitolata, un punto
nella geometria del letto. Giusto un braccio pesante
fuori dal piano, mollemente, scandiva il passare dei
miei pensieri. Ero annientata, soppressa dalla noia;
pesava l’insensatezza del mio vivere. Sbatacchiata
dalla corrente, con il fiato smorzato in gola,
m’infrangevo su pareti invasive. Ho galleggiato alla
deriva travolta di volta in volta da onde spumose
senza via di salvezza. Quando mi sono accorta che
potevo toccare il fondale con i piedi, contro ogni
pronostico, la situazione è peggiorata. Ho iniziato ad
annaspare consapevolmente in quell’acquitrino. Mi
sono lasciata cullare pigramente da problemi
crogiolandomi nella totale inattività. Non avrei
lanciato alcun SOS. Alla fine, per caso, ho deciso di
salvarmi e di uscire dall’acqua. Ma ogni tanto mi
ronza un pensiero tra le nuvole, adesso, ne sono
davvero uscita? Perché scrivere un testo totalmente
INUTILE? Forse perché mi dispiaceva cominciare di
nuovo a scrivere senza fare una premessa, forse
perché sono matta, oppure, perché dobbiamo sempre
trovare una giustificazione e un fine a ciò che
facciamo? Questo dunque è un elogio all’inutilità (e
per estensione al genere umano… misantropia
portami via).
mettere tutto perché ogni cosa si rivelerà essenziale
per ottenere poi le forme più strane e più belle.
Tornando al discorso del volo, possiamo
tranquillamente affermare che i sogni ti fanno
staccare i piedi da terra portandoti sempre in alto, se
li sai nutrire ti fanno salire così tanto che poi non
vuoi più scendere ma vuoi continuare a salire ancora
e ancora fino a poter toccare le stelle e vedere dove il
mondo finisce e inizia l'universo cosparso di stelle e
pianeti che lo riempiono come puntini colorati. A
volte i desideri derivano da qualcosa o da qualcuno
che a loro modo ti aiutano a librarti: si pensi ai poeti
che sicuramente sono coloro che amavano di più
salire nel cielo e perdercisi per un bel po'. Da parte
mia, spero di poter fare come i poeti e di salire nel
cielo per chiedere aiuto alle stelle, chiederò loro di
donarmi un po' della loro magica fortuna per poter
realizzare i miei desideri più nascosti così potrò
tornare più spesso a trovarle e insieme ci divertiremo
a riconoscere le altre stelle e tutti i pianeti; un giorno
le batterò, riconoscerò tutto e loro ci resteranno male
perché credo che siano un po' saputelle riguardo al
Cosmo. Naturalmente auguro anche a tutti voi di
poter sognare e di librarvi nell' Universo senza paura,
di non smettere mai di credere in ciò che desiderate e
arrivare fino in fondo, detto questo posso salutarvi.
Buon viaggio, ci vediamo sulle stelle.
SAFFO
Delirio di mezzo inverno
Ebbene sì, eccomi di nuovo qui a digitare lettere
sulla tastiera. Mi ero promessa che, una volta
firmato con il mio vero nome, avrei smesso di
mandare stronzate alla Lucciola. Dopo tutto brucerei
ogni mia passata creazione. Non è stato un addio
facile e, a quanto pare, non si è dimostrato tale. Ho
contribuito a far splendere questo giornalino per ben
tre anni, diventando una tra i rifornitori numero uno,
perché dunque abbandonare la mia costanza nel
quarto anno in questo manicomio? Devo dire che ho
resistito alla tentazione per ben due numeri, fiera di
essere una persona coerente con sé stessa. Ma più
vado avanti e più divento consapevole dell’assoluta
inutilità della coerenza. Noi (brutto colpo per la mia
superbia) genere umano abbiamo tentato di dare un
valore ad alcuni atteggiamenti assecondando
l’illusione di vivere in un luogo ordinato. Abbiamo
sentito l’esigenza di classificare e separare ciò che è
eticamente corretto e ciò che non lo è, di attribuire
un valore alle azioni, di dare un senso alla vita; tutto
per non sentire il peso della tremenda leggerezza del
vivere. Non potevamo sopportare l’idea di essere
insignificanti, di esistere per puro caso, di venire
FELIX
30
Illusioni
Siamo sognatori in una vita non così magica.
Il desiderio di passeggiare tra le fiabe viene soddisfatto aggiungendo complicazioni all'esistenza.
Siamo ciechi davanti a centinaia di deluse aspettative.
Creiamo luce artificiale che volutamente indeboliamo con le lacrime.
Siamo così teatrali.
Immaginiamo un pubblico che ci osservi dalla finestra mentre danziamo in tondo per la stanza ad occhi persi.
Vogliamo essere i principi del 2000 ricercando originalità nei protagonisti della nostra vita.
Ci discostiamo dal banale ma aspiriamo tutti al tradizionale Oscar.
Tranquilli siamo amici, fin che non arriviamo ultimi.
L'equilibrio non è infinito e quando il nostro castello di carte cederà ne raccoglieremo i pezzi dicendo che era
solo un gioco.
GINGER R.
Addii estivi
I ricordi risuonano liquidi come canti,
forti rimbombano nel petto i pianti:
di uscire reclamano il diritto
e le lacrime scendono di getto;
come un leone in gabbia,
percuote l'animo la rabbia.
e il fuoco della memoria alimentano;
si vedono sguardi tristi e risate,
ma nuove amicizie sono nate.
C'è un grande desiderio di tornare,
ma per domani solo onde del mare
che forti trascinano lontano,
dove altri ti tengono per mano;
l'inverno è imminente di scena,
ma l'estate continua serena.
I volti, ormai fantasmi bianchi
invisibili agli occhi,
nel cuore risiedono
ELISABETTA TORTORA
L’arte del Significare
Un’avventura di cinque anni.
Cinque anni di Manara, laddove il Manariota
diveniva Manariano, una volta attraversato il MetaLuogo quale era il Presidio.
L’Uomo del Presidio era, nel suo stupore, uno
specchio, ed il riverbero non spariva subito, insieme
al più o meno fugace avventore.
L'immagine restava un po’ lì, ad aspettare il riflesso
seguente, quasi a volersi confondere con lui.
Così si è composto il filmato, scena dopo scena, un
mormorio crescente, il vociare di un coro d’orchestra
prima di iniziare.
L'onda è il falso movimento, l'illusione liquida che
qualcosa cambi, quando passa.
Cavalcarla è il solo modo per cambiare, bisogna
cogliere il momento.
Ecco il momento, quel piccolo tempo che ogni tanto
ci illumina con la sua radiosa realtà.
Capita a tutti, magari con sensazioni diverse e a
cadenze variabili.
Difficile che qualcuno possa essere fuggito dal suo
inaspettato avvento.
In quel momento ci si sente vivi.
Semplicemente.
Ma anche spaventosamente, nella misura in cui si
capisce solo allora quanto poco si era coscienti
prima.
E dopo.
Sempre, in fondo.
E così passano i giorni, gocciolano mese dopo mese,
fino a che gli anni sembrano ancora giorni.
Tutto così, come una passeggiata, una gita lungo un
bel sentiero.
Poi ci si ferma, in quel momento.
E si guarda indietro.
Tutto quel cammino, possibile sia solo quel piccolo
viottolo?
Eppure, all'inizio del passo, già si raccontavano le
avventure.
MARINO SCARPOCCHI,
Presidio Medico 2008-2013
31
Rifece un sogno. L’aria mancava, e Arnolphe si
sentiva tutto rattrappito, indolenzito. Aprì gli occhi,
e si rese conto che era coperto di tela, e che questa
gli ostruiva in particolare la zona della bocca e delle
narici. Cercò convulsamente di togliersi la tela,
mentre tratteneva a fatica un conato di vomito; e poi
nel fetido tunnel vide il ragno avvicinarsi
nervosamente, per poi fermarsi appena sopra di lui.
Arnolphe soffocò un grido, si alzò e corse via. Il
ragno lo inseguiva, lo braccava. Poi il tunnel si aprì
su uno spazio vuoto, e Arnolphe si ritrovò in bilico
su di un filo con un banco di nebbia infinita sotto di
lui. Inizialmente fu silenzio, un silenzio carico di
brividi, brividi di angoscia ma anche di qualcosa di
diverso, un sentimento forte e vitale che Arnolphe
poteva ormai provare solo nei sogni. Ma la stasi
durò poco: il vortice di nebbia cominciò ad attrarlo,
a trascinarlo verso il fondo. Lui si appese al primo
appiglio che trovò, prima di accorgersi con orrore
che era anch’esso tela. E da questa, un milione di
piccoli ragnetti, sudici, strisciarono verso di lui, si
insinuarono nelle sue vesti e, con mille morsetti, lo
punsero. Arnolphe a quel punto si sentì mancare,
barcollò via sul filo precario. E lì, con un rantolo, si
contrasse, rattrappì e cadde giù nel baratro.
La Tana del Ragno
Parte seconda
Erano ormai passati giorni, forse settimane, da
quando Arnolphe si era reso volontariamente
prigioniero nel proprio soggiorno. In quei giorni, il
suo chiodo fisso era certo stata la sua camera da
letto, dimora ormai dell’odiato ragno, alla quale non
poteva fare a meno di pensare con un che di gelosia,
oltre che di disgusto. Erano appunto passati giorni, e
il ragno con tutta probabilità se ne era già andato, ma
lui volle pazientare un altro po’: la prudenza non è
mai troppa, e certo non voleva stimolare la curiosità
del mostro. Tuttavia pazientare, quando sei
completamente privo di passatempi, stava
diventando alquanto insostenibile. Se almeno avesse
preso delle candele per permettersi un po’ di lettura!
Arrivò un giorno in cui Arnolphe non poté più fare a
meno di far qualcosa e decise di adoperarsi per
permettersi la lettura. Detto ciò, prese un tizzone dal
camino e cercò di sistemarlo, in maniera da dargli
luce ma da non bruciacchiarlo. Tuttavia gli mancava
una base, un sostegno. Infilò allora quel pezzo di
legno nella piega tra un cuscino e il divano,
abbastanza lontano dalla faccia, ma non troppo, e,
tutto contento, corse in libreria a prendere un libro,
uno qualsiasi. E lì trovò quello che cercava e,
adagiatosi sotto la coperta, prese finalmente a
leggere. Ma dopo un po’, il fuoco del camino e
insieme del tizzone, il torpore delle lenzuola – e
forse in buona parte anche la capacità soporifera del
libro scelto – gli giocarono un brutto scherzetto: si
addormentò. Si addormentò senza avere il tempo di
adagiare o risistemare il tizzone da un’altra parte, e
uno schioppo a due centimetri dalla sua faccia lo
mise a parte della sua mancanza: il divano aveva
preso fuoco. Alzandosi e gridando, Arnolphe scattò
lontano dal divano e stette a guardare incredulo la
fiamma spandersi sul tessuto a macchia d’olio, per
arrivare anche alla sua coperta. Il fumo si stava
facendo soffocante: Arnolphe indietreggiò con un
po’ di riluttanza, poi si decise, corse fuori dalla
stanza e cercò di chiudersi la porta dietro per non far
passare il fumo. Peccato che, in tutti quegli anni,
Arnolphe non si era mai dato pensiero di chiuderla,
quella porta, e ora si scopriva inevitabilmente fuori
uso. Bestemmiò. Il fumo si era già fatto spesso, e il
vecchio dovette scappare. Passò barcollando davanti
alle scale e pensò che non c’era tempo per salirle.
Così corse in cucina, e ci si chiuse dentro. Si sedette,
in preda all’agitazione più nera. L’aria, già viziata di
suo, si faceva sempre più pesante; il cuore era ormai
in piena tachicardia e la testa gli prese dapprima a
girare, poi letteralmente a vorticare, fino a che non
gli sembrò di esplodere. In poche parole, cadde dalla
sedia, e svenne.
Arnolphe si svegliò. Stropicciò lentamente gli occhi
e ricompose i ricordi dell’accaduto. Era in pessime
condizioni, la testa sembrava esplodergli e in più
sentiva una fitta fortissima all’altezza della gabbia
toracica: doveva essersi incrinato una costola.
Arnolphe era stanco, dolorante e ancora intorpidito, e
per un po’ rimase fermo, immobile, cercando di
ricacciare indietro un forte senso di vuoto che gli
rendeva gli occhi lucidi. Voleva arrendersi, aveva un
terribile bisogno di arrendersi, di poter rimanere per
sempre così, di non doversi alzare mai più. Ma si
alzò, invece, con molta fatica, ma si alzò: doveva
controllare i danni di quell’incendio. Si appoggiò al
bordo del tavolo, e per qualche secondo ebbe fatica a
tenersi in equilibrio. Poi, stabilizzatosi, si trascinò
verso la porta e la aprì, accompagnandosi con un
sospiro. Lentamente raggiunse il salone. Per fortuna,
l’enorme camera era completamente spoglia, e
l’incendio non trovando alcun mobile non era
riuscito ad espandersi. Il divano in compenso ne era
uscito completamente distrutto. A quella vista,
Arnolphe fu preso dallo sconforto: si sedette, quasi
accasciandosi, e non trattenne più il pianto. Quel
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divano era l’unico “lusso” che si era permesso da
quando viveva in quella casa: venduti tutti i mobili
che stavano là prima di lui per evitare di prendere
qualsiasi contagio dai senza-tetto, Arnolphe aveva
comprato quel divano che era nuovo di zecca. Aveva
passato gran parte dei suoi ultimi anni lì, a leggere o
a riposare, e adesso era distrutto, così come era stata
distrutta la sua pace dall’arrivo del ragno. Il ragno!
Arnolphe pensò all’incendio: non poteva essere che
quel mostro fosse talmente testardo da restare in una
casa priva di cibo anche quando va a fuoco. Così si
affrettò a raggiungere le scale, deciso a riprendersi il
possesso dei proprio spazi. Pensò all’opera di pulizia
che avrebbe dovuto fare per via delle ragnatele, ma
nemmeno un pensiero del genere lo bloccava più: per
una volta, provava anzi entusiasmo. Salì le scale e si
ritrovò davanti alla porta. Lì ebbe un attimo di
esitazione. Poi prese un respiro profondo, infilò la
chiave nella serratura, e la girò. E poi gridò: il ragno
era ancora lì, orribile, e aveva coperto tutto il soffitto
di una fittissima tela. Tuttavia aveva un’aria diversa:
stava fermo, quieto, non dava segni di coscienza.
Gonfiava l’addome in maniera regolare, in realtà,
come se stesse dormendo. Sì, stava dormendo.
Arnolphe era paralizzato: non riusciva a decidersi se
andare avanti o tornare indietro, tanta era la paura di
svegliare la bestia. Ma era ormai troppo tardi: questa
già muoveva appena la testa, poi sgranchì le otto
zampe stendendole all’unisono e, uno ad uno, aprì
anche gli occhi. E che si fosse reso conto della
presenza di Arnolphe era innegabile. Non scattò,
tuttavia, come la prima volta che si erano incontrati,
né si mise in agguato, né sibilò, ma rimase immobile
a fissare il suo ospite. Sembrava stordito, forse a
causa del fumo, e pure molto stanco. In poche parole,
il ragno era evidentemente provato dal digiuno.
All’inizio Arnolphe se ne compiacque, ma poi si
scoprì molto seccato: perché diamine quella bestia si
ostinava a voler restare in quel luogo, persino a
dispetto della sua salute? E sull’onda di questo
sentimento, Arnolphe cominciò anche a sentirne
altri: gelosia dei propri spazi, poi rabbia, collera e
ancora dopo odio. Preso dall’impeto, Arnolphe sbatté
la porta. La bestia schizzò, di soprassalto e si ritirò
indietro. Arnolphe le tirò un’occhiataccia di fuoco e,
preso dalla foga, irruppe nella camera e si sedette sul
letto. Poi guardò un’altra volta la creatura e, con la
faccia di chi vuole far scoppiare una guerra, si
coricò. Ma non ci volle molto per pentirsi di ciò: il
ragno, dapprima rimasto sbigottito e confuso, si rizzò
su stesso, infuriato per l’intrusione, e prese a sibilare
più forte che poteva. Poi, non vedendo alcuna
reazione da parte del vecchio - che in realtà stava
fermo molto più per terrore che per coraggio –, aprì i
due denti neri e cominciò a fare delle bolle di bava
bianca con la bocca. Il povero Arnolphe realizzò con
disgusto quello che stava succedendo: la bestia,
sentendosi minacciata e provocata, stava per usare la
sua tela come arma di difesa. Una goccia di bava di
ragno, grande quanto la sua testa, si staccò dalle
fauci e cadde sul petto di Arnolphe, calda quanto
fetida. Subito un’altra andò a finirgli sull’anca
destra, e un’altra ancora pericolosamente troppo
vicina alla testa. Arnolphe cominciò a sentirsi
soffocare: immaginò quel liquido denso e vischioso
che lo ricopriva tutto, e il mostro, che con i suoi due
denti fetidi, penetrava nella sua carne e succhiava via
il suo sangue. Il realtà, il povero vecchio non si
rendeva conto in quel momento di quanto fosse una
preda ben troppo grande per quel ragno, e di quanta
tela sarebbe stata necessaria per intrappolarlo
completamente. Sta di fatto che Arnolphe, non certo
per nervi saldi, rimase fermo e immobile nel letto e il
ragno, consapevole della sua inferiorità in termini di
dimensioni, interpretò ciò come noncuranza e
indifferenza. Così, infastidito dalla prepotenza del
vecchio, smise di bombardarlo di bava e cominciò
nervosamente a tessere la sua tela ingrandendola,
come a voler marcare il proprio territorio. Nel
frattempo il povero Arnolphe, mentre guardava la
bestia che scattava da un parte e dall’altra sopra la
sua testa, sarà stato il dolore alla gabbia toracica,
sarà stata l’assenza di sonno in quegli ultimi giorni,
sarà stata la fame, e soprattutto lo spavento, ma sta di
fatto che si addormentò di sasso, e non riprese
coscienza per un bel po’ di tempo.
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perché lo proteggiamo e lui protegge noi. Siamo
degli spettri. Nessuno sa nulla su di noi”. Ero in
pericolo. Pensai subito al perché quei banditi
assassini avessero liberato proprio me, un letterato
che nemmeno sapeva prendere in mano un fucile.
Ma dopo mi vennero in mente i miei genitori e mi
passò ogni paura. Il sapore della vendetta cancella
ogni prudenza.
Erano trascorse parecchie ore da quando ci
allontanammo dal bosco. Gli chiesi dove stavamo
andando e non me lo vollero dire. Erano diventati
improvvisamente seri, pure Cassio. Poi Squarcio
canticchiò una melodia, che ora non esce più da
questa mia testa canuta: “Combatti! Combatti e sarai
un vincitor”. Familiari erano anche allora quelle
parole. Ma certo! Zio Oliviero. Sì, lui me la
canticchiava la sera! Proprio lui! E come faceva
Squarcio a conoscerla?
Ci avvicinammo ad una facciata vecchia di una
grande casa che era appena spuntata tra le querce e
lasciammo fuori i cavalli. Abbracciai e accarezzai
Afro prima di entrare. Il primo a valicare la porta fu
Tauro che mi diede una pacca sulla spalla per farmi
passare. La casa era molto antica. La prima cosa, che
vidi entrando, fu una bellissima statua in marmo,
lavorata nei minimi dettagli. Rappresentava una dea
dell’antica Grecia, forse Venere. Sulla destra c’erano
una dozzina di bauli e delle botti. Sulla sinistra, un
paio di stivali neri, cinque maschere appese alla
parete e alcuni indumenti. “Dove ci troviamo?”
chiesi sussurrando a Tauro. Pensai non mi avesse
sentito perché non mi diede retta. Da dietro mi
rispose Cassio: “Nella nostra casa dovrebbe esserci
anche Tredici”. Allora mi si gelò il sangue.
Sentimmo dei rumori provenienti da giù, un uomo
stava salendo le scale e arrivando al piano superiore
verso di noi. Oliviero. Mio zio. Squarcio esclamò:
“Tredici!”.
Non ci volevo credere e non sorrisi nel rivederlo.
Sgranai solamente gli occhi. Aveva la barba più
lunga e mi guardò: “Figlio mio!”. Mi abbracciò, ma
fui impassibile. Disse a Tauro di andare al piano di
sotto con gli altri che si congedarono. Non dissi una
parola. Non sapevo se era più forte l’emozione nel
vederlo o la sorpresa di avere uno zio, che
consideravo padre, assassino di tredici uomini.
La meravigliosa e trista storia
di poeti, scrittori e impavidi briganti
Sommario del precedente episodio: dopo peripezie di
ogni tipo, che nessun uomo veramente sano in
ingegno ebbe mai osato solamente figurarsi, il
nostro Fausto Corsetti si ritrova libero e prigioniero
di nuovo. Cosa nascondono i misteriosi cavalieri
suoi salvatori? Perché la loro incursione?
Parte terza
“Ehi, ti vuoi muovere a rispondere!?”. Non lo so se
per la paura di tutto ciò che avevo visto o per paura
di tutto ciò che potevo ancora vedere che raccontai
tutto, ma proprio tutto. E lo feci dal principio. Ma in
cambio, anche lo stesso Cassio parlò. L’uomo che
vidi per la prima volta dietro alla grande quercia era
spagnolo. Si chiamava Rodrigo, ma lo chiamavano
“el Tauro” per la sua forza fisica. Era un “ hombre
robusto y fuerte”. Altissimo, aveva una carnagione
scura e due occhi nero corvino. Ero convinto che
poteva stritolare chiunque con una sola mano, anche
la belva più feroce. Per mia fortuna non ci litigai
mai. Il suo migliore amico, non che il terzo uomo
giunto a salvarmi, era soprannominato Squarcio.
Aveva una cicatrice profondissima sulla coscia della
gamba sinistra. Tauro mi raccontò che gli era stata
provocata da un animale feroce che non riuscì mai a
vedere, “era el diablo, seguro”. Squarcio non parlava
molto, era un uomo di circa quarant’anni di cui
nessuno sapeva il nome, o forse non me lo volevano
dire. Cassio Ciurmini, invece, non aveva un
soprannome ed era sicuramente il componente più
normale del trio. Non aveva una storia alle spalle e,
al contrario di Squarcio, parlava molto. Presi subito
molta confidenza con lui e anche con Tauro.
Probabilmente non ero molto gradito da Squarcio,
che mi fissava con cattiveria e sospetto. Salimmo sui
nostri cavalli e uscimmo dal bosco in cui ci eravamo
fermati.
“Vieni con noi giovane, ti dobbiamo far conoscere
una persona” mi urlò Cassio. “Chi?” chiesi un po’
spaventato e, per prima volta, parlò Squarcio:
“Tredici, un folle”. Rimasi un po’ colpito dalle prime
parole di Squarcio, ma capii che verso quest’uomo
nutrivano tutti una stima incredibile. “E’ un
matador” intervenne Tauro “pero es nuestro
companero”. Poi Cassio: “Uccise in un solo giorno
sette governanti e sei principi. Noi siamo dei santi
GIAN MARIA GHERARDI
GUIDO PANZANO
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Il termine per la consegna degli articoli per il numero di Febbraio è il 21 febbraio: gli
elaborati si possono far pervenire via mail (lucciola.manara@gmail.com) o direttamente ai
membri della redazione.
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