UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO DIPARTIMENTO DI SCIENZE DEL PATRIMONIO CULTURALE DOTTORATO IN FILOSOFIA, SCIENZE E CULTURA DELL’ETÀ TARDO-ANTICA, MEDIEVALE E UMANISTICA - XI CICLO Coordinatore: Chiar.mo Prof. Giulio d’Onofrio Il nome, la poesia e la misura del divino Proclo interprete della critica di Platone ad Omero Tesi di dottorato realizzata in convenzione di co-tutela con UNIVERSITÉ D’AIX-MARSEILLE ÉCOLE DOCTORALE COGNITION, LANGAGE, ÉDUCATION (E.D. 356) Directeur: Chiar.mo Prof. Patrick Lemaire INSTITUT D’HISTOIRE DE LA PHILOSOPHIE (E.A. 3276) Directeur: Chiar.mo Prof. Alonso Tordesillas Tesi di Piera De Piano Tutor/Directeur Chiar.ma Prof.ssa Lidia Palumbo Chiar.mo Prof. Alonso Tordesillas Co-Tutor/Co-Directeur Chiar.mo Prof. Michele Abbate Anno Accademico 2012/2013 Ad Enzo Ah! Combien les philosophes s’instruiraient, s’ils consentaient à lire les poètes! G. Bachelard, La poétique de l’espace, Paris 1957, p. 188. Ringraziamenti Comincio da chi ha smesso di seguirmi (ma solo formalmente) giusto all’inizio delle mie letture filosofiche, il prof. Luigi Spina, filologo classico di straordinario acume che continua a incoraggiare con competenza e libertà ogni mia iniziativa di ricerca. A lui devo l’incontro speciale con la prof.ssa Lidia Palumbo, per me il fondamento emotivo e didattico di questi anni, a cui ho potuto ancorare, nonostante tutte le difficoltà, l’amore che provo per i testi antichi. Sono grata al prof. Alonso Tordesillas per il tenace impegno con cui ha sostenuto e realizzato la convenzione di co-tutela entro la quale il mio dottorato si è compiuto: l’esperienza francese, divisa tra Aix-enProvence e Parigi, è stata per me un’occasione di grande impegno culturale, vissuta tra entusiasmanti convegni, giornate di studio e incontri seminariali. Lo studio di Proclo, così inatteso quanto da subito affascinante, mi sarebbe stato rovinosamente insidioso senza l’aiuto, costante ed esperto, del prof. Michele Abbate, profondo conoscitore delle pagine procliane, divenute a tutti più familiari grazie ai suoi numerosi scritti. Un ringraziamento particolare va al prof. Giulio d’Onofrio, coordinatore del dottorato FiTMU e soprattutto infaticabile promotore di una rigorosa formazione accademica. A Lorenzo Miletti, grecista appassionato e colto che ho avuto la fortuna di incontrare agli inizi di questo percorso, sento di rivolgere la mia gratitudine per avermi trasmesso, molto generosamente, precisi consigli su strumenti di ricerca e ‘comunicazione retorica’. Grazie ad Annalisa Bussi per aver rivisto le mie pagine francesi oltre che per l’accoglienza che da subito mi ha riservato nella sua Provenza, e ad Anna, Chiara, Carla, Francesco, Jeanne, Sergio, Thérèse, Rita e Davide: con loro, tutti nuovi incontri di cui è stato unico latore il dottorato, ho condiviso la fatica, la pazienza, l’ansia, la soddisfazione che lo studio porta con sé. A mia sorella e alla sua giovane famiglia devo la dolcezza della piccola Agata, ai miei genitori la cura e l’attenzione con cui guardo alle cose cui tengo. Infine, il teatro, luogo dell’immaginazione, il mio compagno più fidato: contemporaneamente al progetto di tesi nasceva un progetto teatrale, Breviario del caos, laboratorio ‘metafisico’ con cui ho costantemente dialogato per trovarvi energia ed animo creativo. INTRODUZIONE Introduzione Molto presto e proprio in seno alla scuola platonica si cominciarono a rivedere i termini con cui la poesia era stata giudicata da Platone nei suoi dialoghi. Forse furono il desiderio del classico1, il bisogno di una tradizione, il riuso dell’antico, che faceva della tarda antichità un’epoca di epigoni, a motivare la ricerca di una symphonia, di una verità potente che abbracciasse Platone quanto Omero, i filosofi quanto i poeti, il presente, così instabile e tormentato, e il lontano passato, quello saldo, quello che veniva naturale chiamare mitico. Abbiamo solo il titolo, attribuito a un certo Telefo di Pergamo, un grammatico di II sec. d.C., che ci dice di un’opera interamente dedicata alla descrizione di questo accordo sinfonico tra Omero e Platone2. È in ambito neopitagorico, però, in particolare con Numenio e Cronio, che troviamo dati molto più consistenti di una nuova prospettiva, che oltrepassa il biasimo manifestato da Platone nei confronti di Omero, per cercare invece di dimostrare come i discorsi del filosofo avessero il medesimo contenuto di verità di quelli del poeta. Nel primo capitolo della mia ricerca ho perciò ricostruito le tappe fondamentali di questo recupero della tradizione arcaica, mostrando come nei secoli, a partire dal medio platonismo fino ad arrivare a Siriano, maestro diretto di Proclo, si sia accresciuta e specializzata un’ermeneutica del mito arcaico in sintonia con la lettura del corpus platonicum. Principi teorici di questo nuovo approccio esegetico al mito sono la teologizzazione della figura di Omero, detto qeolovgo" per la prima volta proprio da Porfirio3, e lo spostamento sul piano metafisico dell’intreccio allegorico di argomento divino e umano. Con l’avvento di pratiche teurgiche innestatesi nel neoplatonismo a partire da Giamblico, il mito comincia a fondersi con la sfera religiosa e l’iniziazione mistica4. Di Plutarco e della Scuola platonica 1 «Si trasmette, si eredita, un desiderio del mito, piuttosto che un contenuto mitologico stabilito» scrive Monica Centanni per spiegare la produzione di un’arte cosiddetta ‘classica’, figlia della tradizione, da sempre in esilio rispetto alla certezza del ‘testo’, alla fondatezza delle fonti, ma riflesso di un desiderio, di un povqo" che in greco è il desiderio nella mancanza. Cfr. Centanni 2005, p. 15. 2 Suidae Lexicon s.v. Thvlefo", vol. IV, p. 539, 23-24 Adler. 3 Cfr. Lamberton 1986. Cfr. § 1.6. 4 Cfr. § 1.7. 7 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO di Atene da lui fondata5, è poi il progetto di fissare una sola scienza teologica (qeologikh; ejpisthvmh)6, manifesto di una sintesi di tutti i saperi tradizionali (mitico, orfico-pitagorico, caldaico) con la dottrina platonica7. All’interno di questo contesto va inserito lo specifico sviluppo che tale recupero delle fonti arcaiche8 guadagna in Proclo. Il punto di inizio della mia ricerca sull’interpretazione procliana della critica platonica ad Omero è costituito dall’indagine sul nome, ovvero da quel momento fondativo del linguaggio che s’interseca con la dimensione mitica. La tesi risulta così divisa in due parti, Il nome e La poesia, che costituiscono gli assi portanti della ricerca: da un lato, la riflessione sull’origine del linguaggio e sul posto occupato dal poeta, accanto agli uomini e agli dèi, nella produzione linguistica; dall’altro, la disamina della speculazione più propriamente estetica di Proclo, affidata al commento delle pagine platoniche della Repubblica. Lungi dal presentarsi come un’analisi della complessa teoria platonica sul linguaggio nell’interpretazione di Proclo, autore di un Commento al Cratilo9, il secondo capitolo della tesi si concentra sulla particolare attenzione che in questo commento il filosofo licio, seguendo Platone, riserva ad Omero, il quale diventa una fonte di apprendimento sulla correttezza dei nomi divini e umani. Partendo dalla convinzione che l’analisi etimologica, se condotta dal filosofo e su nomi di cose eterne, ha sempre valore scientifico, è cioè rivelativa dell’essenza della cosa nominata, Proclo s’interroga sull’origine del linguaggio, finendo per mostrare come questa si trovi nella natura relazionale, rappresentativa del nome che è eijkwvn e a[galma della cosa nominata. Da una parte c’è il nome pronunciato e dall’altra c’è il nome in quanto immagine della cosa nominata: il filosofo, a differenza del grammatico, nell’analisi etimologica di un nome guarda non a ciò che viene 5 Per una ricostruzione storica della Scuola di Atene, sorta all’inizio del V secolo ad opera di Plutarco, a cinque secoli di distanza dalla chiusura dell’Accademia platonica sotto l’assedio di Silla (86 a.C.) cfr. Di Branco 2006, pp. 115-179. 6 Cfr. Procl. Theol. Plat. I, 7, p. 31, 24 ed. Saffrey – Westerink. 7 Cfr. § 1.8. 8 Cfr. Saffrey 1992a e infra § 1.8. p. 49. Interessante è la posizione di Jean-François Mattéi parla di un riaffioriare di fonti arcaiche persino in Platone, per esempio nel suo modo di raccontare in maniera mitica questioni ontologiche, etiche e politiche: «On pourrait ainsi définir le mythe par une série de traits spécifiques qui dessinent l’espace autonome de l’archaïsme platonicien»: Mattéi 2004, p. 8. 9 Il testo è disponibile nelle traduzioni e nei commenti in lingua italiana, spagnola e inglese, rispettivamente di Romano 1989, Álvarez Hoz 1999 e Duvick 2007. Studi monografici specificamente dedicati a questo testo procliano sono quelli di Abbate 2001a e Van den Berg 2008. 8 INTRODUZIONE pronunciato, alla u{lh, alla materia fonica del nome, ma all’ei\do", alla sua essenza, che è appunto la sua funzione delotica, la sua capacità di mostrare la reale natura dell’oggetto a cui esso dà nome. Proclo dà all’indagine linguistica una connotazione teologica, tant’è che alla concezione già platonica del nome mivmhma, aggiunge un ulteriore elemento, appartenente comunque alla sfera della rappresentazione, ma riconducibile a quella dimensione teurgica che è caratteristica propria del tardo neoplatonismo. Sulla scia di commentatori a lui precedenti, anche di ambiente alessandrino, Proclo chiama il nome ‘statua’ degli dèi, evocando appunto quella funzione medianica attribuita alle raffigurazioni divine nella telestica e fondata sulla convinzione che l’oggetto cultuale sia ontologicamente legato alla divinità rappresentata. La natura mimetica dell’onoma fa della produzione linguistica un’attività umana quanto divina, essendo l’anima dotata di una capacità assimilatrice che è analoga a quella demiurgica. Se gli dèi danno nome alle cose nel momento stesso in cui le creano, l’anima, per natura intermedia tra l’intelligibile e il sensibile, e coadiuvata dall’immaginazione produttiva (fantasiva) di cui è dotata, crea il nome guardando all’essenza della cosa nominata, proprio come il Demiurgo universale crea gli enti sensibili a immagine di quelli intelligibili. Dal momento che il prodotto tecnico è strettamente legato al mimhthv", in questo caso all’onomaturgo, sia questo divino o umano, è giusto, secondo Proclo, che Socrate nel suo dialogo con Ermogene abbia fatto menzione del nome divino e umano della stessa cosa. Se, però, Socrate rinunciava a indagare sulla correttezza dei nomi posti da un sapere di ordine superiore, Proclo opera un dettagliato raffronto tra la nominazione divina e quella umana al fine di dimostrare la superiorità della prima sulla seconda. A questo punto interviene il secondo elemento, dopo quello mimetico, che fa della riflessione linguistica una via ermeneutica, un povro" di accesso alla riflessione sulla poesia, e cioè il principio dell’enthousiasmos. Il linguaggio mitico possiede una potenza rivelativa di verità originarie e divine: la parola poetica, infatti, è quella più vicina alla verità perché più vicina agli dèi da cui il poeta è direttamente ispirato. I poeti apprendono i nomi divini ejx ejnqousiasmou', e così coloro che sono ispirati (oiJ ejnqousiavzonte") sono maestri dei filosofi a cui hanno il compito di mostrare il reale oggetto di ricerca appreso 9 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO direttamente dagli dèi10. Da questa prospettiva, Proclo arriva a definire il poeta una causa della creazione stessa dei nomi corretti. Nella produzione linguistica, si individuano due aijtivai della giusta creazione dei nomi: l’una degli dèi o dei demoni, l’altra dei poeti «che sono ispirati e che pervengono alla verace onomaturgia»11. Ricostruito così il ruolo attivo del poeta all’interno dell’attività onomaturgica e dimostrato che la poesia è sempre rappresentazione vera della realtà, chiude il capitolo sull’onoma l’analisi di alcuni passi dell’In Cratylum12 che forniscono, in maniera esemplificativa, una lettura teologica e metafisica del mito arcaico così come viene proposta dal filosofo tardo neoplatonico. Con il terzo capitolo si apre la seconda parte della tesi che restringe l’orizzonte di ricerca sulle pagine procliane dedicate specificamente alla poihtikh; tevcnh. Il Commentario alla Repubblica13 è l’unico commento neoplatonico di questo dialogo che ci sia pervenuto. Esso risulta, dunque, di estrema importanza per l’indagine degli sviluppi della questione poetica affrontata da Platone nei libri II, III e X del dialogo. L’opera è divisa in diciassette saggi incentrati su argomenti ben circoscritti: il quinto e il sesto sono dedicati alla poesia14. Gli studi di Carlo Gallavotti15 del secolo scorso hanno dimostrato l’origine composita di quest’opera procliana, probabilmente costituita da una seziona isagogica, una sorta di guida alla lettura della Repubblica, e una serie di scritti monografici e di approfondimento, indipendenti l’uno dall’altro. La quinta Dissertazione farebbe 10 Cfr. Procl. In Crat. LXXI, 34, 11-12. I riferimenti ai passi del commento sono indicati secondo la divisione in capitolo, pagina e riga dell’edizione di Pasquali 1908. 11 Procl. ibi, LXXXVIII, 44, 22-23. Cfr. § 2.5. Ove non specificato altrimenti, la traduzione è di Romano 1989. 12 Prenderò in esame i capitoli CXIII-CXV, CLXIX, CLXX e CLXXXIII relativi alla denominazione degli ordinamenti divini, alle schermaglie amorose tra Zeus ed Era, alla descrizione della natura divina di Era e Afrodite. Cfr. § 2.6. 13 Userò il titolo di Commentario per designare il lavoro esegetico di Proclo sulla Repubblica poiché esso esprime meglio la natura composita di tale commento di cui si parlerà più a lungo in § 3.1. Citerò il testo procliano dall’edizione di Kroll 1899-1901, indicando di seguito il numero del volume dell’edizione, della pagina e delle righe corrispondenti. 14 Non mi occuperò della Dissertazione XVI, hypomnema del mito conclusivo della Repubblica, né dell’opera procliana di commento alle Opere e giorni di Esiodo, considerando più feconda, in questo contesto, la lettura di scritti maggiormente teorici incentrati sulla poesia in quanto tecnica poetica. Sugli scoli al testo esiodeo cfr. Faraggiana di Sarzana 1981, Faraggiana di Sarzana 1987 e Conti Bizzarro 2010; per l’edizione critica e la traduzione in lingua italiana cfr. Pertusi 1955 e Cassanmagnago 2009 (vd. Bibliografia. Fonti primarie s.v. Esiodo). Il lessico Suida s.v. Provklo", vol. IV, p. 210, 9 attribuisce inoltre al filosofo licio uno uJpovmnhma eij" o{lon to;n ”Omhron, di cui purtroppo non ci è rimasto nient’altro che questa testimonianza. 15 Cfr. Gallavotti 1929 e 1971. Cfr. § 3.1. 10 INTRODUZIONE parte di quella che Gallavotti chiama opera di base, mentre la sesta costituirebbe uno scritto autonomo dedicato al rapporto tra Omero e Platone. I due saggi mostrano evidentemente una natura compositiva e una destinazione diversificate, essendo il primo espressamente didattico nella stessa struttura esegetica, costruita intorno alla soluzione di dieci questioni, l’altro, invece, più autonomo anche rispetto all’evoluzione del dialogo platonico. Tuttavia, è necessario, a mio avviso, superare l’ipotesi oggi più diffusa secondo la quale solo la sesta Dissertazione, a discapito della quinta tralasciata troppo superficialmente dalla bibliografia recente16, restituirebbe non solo il pensiero più maturo e perciò più autentico di Proclo, ma anche gli elementi costitutivi della teoria estetica procliana. L’analisi dettagliata delle dieci questioni ha mostrato invece quanto sarebbe fecondo apprezzare l’originalità e la complessità della posizione di Proclo rispetto alla questione poetica così come viene già chiaramente espressa nello scritto introduttivo. A mio parere fin dalla quinta Dissertazione il Diadoco ateniese introduce nel suo discorso sulla poesia, sebbene con modalità e sviluppi diversi, tutte le componenti necessarie a valutare in maniera compiuta il ruolo del mito arcaico nel suo sistema filosofico17. Il terzo capitolo della tesi è così dedicato alle questioni peri; poihtikh'" affrontate nella quinta Dissertazione del Commentario alla Repubblica. L’indagine procliana prende avvio da alcune aporie del testo platonico di cui l’esegeta propone raffinate e dotte soluzioni. Nel tentativo di conciliare Omero e 16 James Coulter nel 1976, nel suo studio sul linguaggio mimetico nel tardo neoplatonismo, dichiarando di occuparsi soprattutto della sesta Dissertazione così motivava la sua scelta: «It [scil. la quinta Dissertazione] is immeasurably less important, and was probably written rather earlier than the second essay»: Coulter 1976, p. 46. Ad Anne Sheppard si deve una prima e ottima guida generale di entrambe le Dissertazioni: cfr. Sheppard 1980. Robert Lamberton, invece, inserisce la sesta Dissertazione nella sua disamina sull’interpretazione allegorica del mito arcaico, ma trascura palesemente la quinta: cfr. Lamberton 1986, pp. 174-197. Ancora poche e secondarie le pagine dedicate alla quinta Dissertazione dal più recente studio sulla difesa di Omero da parte di Proclo: cfr. Kuisma 1996, pp. 69-77. 17 Kuisma, ad esempio, sostiene che solo nella sesta Dissertazione interviene nella definizione della corretta poesia, accanto al principio etico, anche quello mistico-teurgico. «In the context of the 5th essay (public teaching) it is said that poetry affects the ethical disposition of human souls, but later in the 6th essay (a private lecture) the potentialities of poetry are further described as the efficient cause of mystical experiences»: Kuisma 1996, p. 72. Ciò, come vedremo, è frutto di un fraintendimento dovuto alla prospettiva da cui si continua a guardare la quinta Dissertazione considerata riduttivamente ‘scolastica’. Nella prima questione dello scritto procliano (In Remp. I, 48, 26) la poesia è infatti già definita Mousw'n a[galma, «statua delle Muse», proprio come nell’In Cratylum il nome è «statua degli dèi», chiaro segno del potere teurgico attribuito da Proclo al racconto mitico fin da subito. Su questo argomento cfr. infra § 3.3.4. Mi sembra inoltre un po’ sommaria l’idea che a collegare le due dissertazioni sia, per lo studioso, solo il riferimento, presente in entrambe, ai tuvpoi peri; qeologiva": Kuisma 1996, p. 71. 11 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO Platone, Proclo dà prova di servirsi delle conoscenze retoriche e letterarie della sua formazione, apportando un chiaro segno di originalità all’argomentazione di difesa del poeta arcaico18. Orientando la discussione su un piano ermeneutico evidentemente neoplatonico, il filosofo licio comincia dal tecnicismo di questioni metriche, retoriche e musicali per arrivare alla configurazione di un Poeta che è nel Tutto, modello cosmico del poeta del mondo sensibile. La poesia viene presentata nelle sue caratteristiche primarie: l’origine ispirata, il fine didattico e la natura mimetica. «Tutta la poesia è abito mimetico» - scrive Proclo a conclusione di quella che si mostra come una sorta di definizione dell’attività poetica19. L’esegeta regolamenta tale attività rappresentativa, discutendo di alcuni principi retorico-letterari fondamentali per la realizzazione della forma migliore di poesia, per esempio la norma della rassomiglianza tra parole, pensieri e fatti da attribuire al singolo personaggio del racconto mitico, oppure l’attenzione a evitare una poikiliva etica, una varietà di modelli di vita tra loro contrastanti o comunque rappresentativi dell’immagine virtuosa e viziosa del carattere umano e divino. Così ricostruita, la poesia trova un’inaspettata utilità anche all’interno di una particolare città, quella tirannica, e Platone viene presentato come il miglior giudice dell’arte poetica20. Alla poesia tragica e comica sono dedicate due questioni, la seconda e la terza, nelle quali l’esegeta tenta una conciliazione tra l’accusa platonica e la riabilitazione aristotelica del teatro con l’introduzione del concetto di catarsi tragica. Proclo, pur riconoscendo un effetto positivo delle scene tragiche sul pubblico, allude solo superficialmente ad un aspetto che poi svilupperà nella sesta Dissertazione e resta fedele alla visione platonica del teatro come una pericolosa immagine del mondo degli dèi, presentando la tragedia finanche come un’a[qea fantasiva, una finzione che è in assoluto fuori dalla sfera divina21. Una pagina importante dell’esegesi procliana è poi quella che risolve molto efficacemente l’aporia che genera il finale del Simposio, a proposito del fatto che la stessa 18 Ho dedicato all’intervento di argomentazioni retoriche nella difesa procliana di Omero e all’arte retorica come uno strumento eremeneutico inglobato nell’esegesi filosofica del Diadoco ateniese il § 3.6.1. 19 Cfr. Procl. In Remp. I, 67, 6-9. 20 Cfr. §§ 3.3. e 3.6. 21 Cfr. Procl. ibi, I, 51, 10-12. Cfr. § 3.4.1. 12 INTRODUZIONE persona possa comporre poesia tragica e comica, con le pagine 395a1-5 del terzo libro della Repubblica nelle quali Socrate sembra affermare proprio il contrario22. Un’analisi molto suggestiva dell’arte delle Muse occupa poi la sezione centrale della quinta Dissertazione di cui il filosofo e il poeta sono i protagonisti. Proclo si diffonde sui diversi generi della mousikh; tevcnh per andare a definire il posto della poesia rispetto alla filosofia, genere sommo di arte musicale. Pur passando attraverso momenti di difficile interpretazione, in queste pagine apprendiamo chiaramente che il filosofo e il poeta condividono un legame profondo con una dimensione di ordine superiore, quella delle Muse, da cui proviene al filosofo la capacità di guardare al piano intelligibile, al Tutto e di comporre, alla fine della sua indagine dialettica, inni che celebrano l’armonia cosmica a imitazione di Apollo cantore delle imprese di Zeus. L’entusiasmo – scrive Proclo – non può avere altro fine che la possessione dell’anima del poeta, così Platone – o forse più verosimilmente Proclo stesso, autore di inni alla fine della sua vita filosofica23 – e Omero, in quanto posseduti dalle Muse, non possono che scrivere miti con i quali educare gli uomini, l’uno, il filosofo, esprimendo però con chiarezza ciò che è il giusto, e l’altro, il poeta, proponendo di ciò che è giusto dei caratteri esemplari24. Dopo aver sviluppato questioni di scuola e argomentato sue personali soluzioni a contraddizioni interne alla posizione platonica intorno alla poesia, dopo aver difeso e regolamentato la natura mimetica della poesia e aver mostrato il carattere ispirato della composizione poetica, Proclo approda a due discussioni conclusive in cui si manifesta apertamente la prospettiva neoplatonica da cui egli guarda alla questione poetica, finendosi per allontanare dal contesto politico e paideutico del discorso platonico. Nell’ultima sezione, infatti, la poesia scopre il suo fine ultimo nel bene e il poeta viene inserito in una dimensione addirittura teologica, 22 Cfr. §§ 3.4.2 e 3.4.3. Marino (Vit. Procl. 22, 17-29; 26 ed. Saffrey - Segonds) racconta che il filosofo, ormai settantenne, indebolito dalla sua frenetica attività di studioso e diadoco della scuola, che lo aveva portato a tenere cinque e anche più lezioni e a scrivere circa settecento righe in un solo giorno, si dedicò poi, negli ultimi anni della sua vita, alla preghiera e alla composizione di inni agli dèi. Michael Erler in un suo saggio del 1987 ha analizzato i canti in onore degli dèi composti da Proclo a partire dai suoi scritti teoretici, e in particolare dal Commento al Cratilo considerato un vero e proprio manuale ermeneutico, a dimostrazione di come la filosofia dell’esegeta tardo neoplatonico risulti perfettamente costituita dal connubio di teoresi e produzione letteraria: cfr. Erler 1987. Dei sette inni conservati sono disponibili in italiano le traduzioni di Giordano 1956 e Pinto 1975. A questi testi è dedicato il più recente volume con traduzione in lingua inglese, commento e saggi introduttivi a cura di Van den Berg 2001. 24 Cfr. § 3.5.2. 23 13 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO divenendo immagine sensibile di Apollo, Poeta cosmico che coopera all’ordine dell’universo insieme con Zeus, a sua volta modello divino del filosofo-guardiano della città giusta25. La tesi si chiude con il quarto capitolo incentrato sulla sesta Dissertazione del Commentario alla Repubblica. Il trattato procliano risulta diviso in due libri, il primo dedicato ad Omero, alla difesa dei suoi poemi dalle accuse di Socrate; il secondo a Platone, a quanto di omerico ci sia nei suoi dialoghi, nel tentativo di dimostrare come poesia e filosofia siano profondamente legate26. L’apologia di Omero è costruita su precisi criteri ermeneutici che Proclo prima espone in alcune pagine introduttive e poi mette in pratica in una serie di letture allegoriche dei racconti del mito arcaico. Si scopre così che a fondamento della lettura corretta della poesia, destinata da Omero non a giovani educandi ma a un pubblico ristretto, a uomini che hanno già avviato il loro percorso conoscitivo e sono quindi pronti ad accogliere le verità somme sul reale, si trova lo schema seriale del sistema metafisico procliano. Un’intima connessione tra gli elementi costituitivi del reale racconta la struttura ontologica come quella ermenutica e il mito risulta composto di un significato nascosto e di uno apparente, intrinsecamente legati ma evidentemente separati, proprio come nelle catene (seiraiv) di processione degli ordinamenti divini c’è un primo dio, che presiede a tale graduale derivazione, e ci sono gli dèi di ordine inferiore, demoni ed eroi. Da questa prospettiva, Proclo ingloba l’esperienza poetica in quella teurgica, considerando il discorso mitico come un discorso per soli iniziati e capace di rivelare verità profonde sulle cause prime del reale27. L’esegeta propone delle letture allegoriche dei miti, di cui ho preso in esame, in maniera esemplificativa, l’episodio del giudizio di Paride e i versi omerici sul riso e il pianto degli dèi28, che si fondano su un concetto di rappresentazione simbolica molto ben definito: il significato nascosto del mito 25 Cfr. § 3.7. «La strategia di Proclo è qui [scil. nella sesta Dissertazione] duplice: mostrare che nella poesia qualcosa va oltre il significato letterale; e mostrare che nell’interpretazione platonica della poesia c’è più di quanto certe affermazioni dei dialoghi lascino a prima vista pensare. […] Lo scopo finale è fondere Omero e Platone, poesia e filosofia, in una sintesi di intuizione e di rivelazione neoplatonica»: Halliwell 2009, p. 278. 27 Bouffartigue 1987, p. 129 individua l’originalità di Proclo proprio nell’aver legato il fenomeno poetico da una parte alla rappresentazione dell’universo come retto da una rete di simpatie, dall’altra alla pratica della teurgia. Cfr. § 4.1.2. 28 Cfr. § 4.2. 26 14 INTRODUZIONE risiede dalla parte opposta rispetto a quello letterale; l’allegoria, cioè, propone dei simboli che rispetto a quanto essi simboleggiano sono assolutamente contrari. Ciò che a noi appare vergognoso è in realtà simbolo di una verità appartenente ad un ordinamento ontologico in cui quella stessa cosa possiede una natura del tutto opposta. Per meglio spiegare questo principio, Proclo si serve dell’analogia tracciata tra la produzione poetica e ancora una volta quella demiurgica. Come il Demiurgo universale crea enti sensibili dotati di forma e figura, immersi nella temporalità e nella spazialità, ma che sono immagini di enti intelligibili assolutamente privi di forma, e soprattutto eterni e immutabili, così il poeta costruisce immagini turpi di ciò che trascende in semplicità ogni bellezza parziale29. Il secondo libro della sesta Dissertazione si pone proprio come un nuovo inizio da cui continuare a parlare di poesia. Questa volta è Platone ad essere sotto osservazione, sono i suoi dialoghi dai quali sarà possibile ricostruire una teoria dell’attività poetica in cui Omero figura come maestro, sostenitore e amico del filosofo ateniese. Omero è chiamato a corroborare tesi platoniche, oppure a dimostrarle, oppure ancora ad anticiparle, come a proposito dell’anima, delle descrizioni infernali, o della triplice distinzione demiurgica30. La sua poesia, lungi dall’essere «lontana tre volte dalla verità»31, esprime la verità e lo fa perché è direttamente insufflata nel poeta – e nel pubblico grazie alla natura espansiva dell’entusiasmo – da chi quella verità la possiede eternamente e perfettamente. Se poi le insidie che vengono dallo stile mimetico in cui quella verità è espressa rendono la poesia pericolosa per i giovani inesperti, ciò non autorizza a bandirla dalla kallipolis, a meno di non rischiare – sottolinea Proclo mostrandosi attento lettore del suo maestro – di cacciare lo stesso Platone, autore di scene dialogiche. Come fare, allora, a conciliare l’origine ispirata della poesia con la sua natura mimetica? Nelle ultime pagine del suo trattato Proclo, sulla base della distinzione dei tre gradi di vita dell’anima, propone una tripartizione della poesia, o meglio una tripartizione dell’ejnevrgeia poetica, che ha suscitato molto interesse nella letteratura critica e non pochi motivi di dibattito. Essa, infatti, sembrerebbe 29 Cfr. § 4.1.2. Cfr. § 4.3. 31 Plat. Resp. X, 597e7. 30 15 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO contraddire quanto Proclo sostiene non solo nella quinta Dissertazione, ma anche nel corso della sesta, perché propone una distinzione tra poesia ‘ispirata’, una poesia che, allontanandomi lievemente dalla bibliografia recente, ho chiamato ‘epistemica’32, e infine una poesia ‘mimetica’, come se l’entusiasmo e la mimesis non fossero insieme degli elementi costitutivi di tutta la poesia e l’oggetto del bando platonico si limitasse alla natura mimetica del discorso mitico. La lettura di queste pagine33 ha dimostrato, invece, quanto questo schema proposto da Proclo sia pienamente inserito nell’intera struttura interpretativa della critica platonica ad Omero presentata nelle pagine precedenti. Un’interpretazione che tenga conto della complessità della riflessione procliana, che si astenga dall’irrigidire ulteriormente un tentativo di sistematizzazione dell’indagine platonica, favorisce una ricostruzione più cauta e meno prevenuta della posizione procliana rispetto alla mimesis. Quella di Proclo, in maniera perfettamente armonica con la sua configurazione triadica e seriale del Tutto, è una distinzione tra tre gradi di attività poetica: uno primissimo e sommo (ajkrovtato"), quello in cui il racconto di Omero sugli dèi e sugli uomini coincide con la sapienza divina e, grazie al potere magnetico dell’enthousiasmos, anche il pubblico si riempie di quella sapienza; poi, il grado intermedio nel quale Omero, servendosi della sua saggezza, diffonde spiegazioni e consigli sull’universo e sull’anima; e infine il livello più basso, distinto a sua volta in uno ‘eicastico’, in cui Omero guarda alle cose del mondo sensibile e ne tenta una copia verosimile, e uno ‘fantastico’ in cui il poeta rappresenta apparenze di apparenze col solo scopo di affascinare la parte più irrazionale dell’anima. Quest’ultimo è il livello della poesia tragica a cui va esclusivamente indirizzata la condanna platonica. Proclo è attento a dimostrare come i poemi omerici siano il prodotto di tutti e tre i gradi della poihtikh; tevcnh, perché la poesia non può che, al tempo stesso, essere ispirata, mostrarsi sapiente e parlare per immagini. È solo quando queste immagini delle cose del mondo sensibile si presentano come se fossero il modello di cui esse sono immagini, come accade su di un palcoscenico, seducendo la parte più irrazionale dell’anima, 32 Si tratta di una scelta, argomentata nel § 4.4.3 a cui rimando, che pone, a mio parere fedelmente al testo procliano, l’elemento caratterizzante di questo livello di attività poetica non nella sua finalità educativa, come vuole la letteratura critica, ma nell’intervento attivo delle conoscenze del poeta nella composizione. 33 Cfr. §§ 4.4 e 4.5. 16 INTRODUZIONE che la poesia si allontana irrimediabilmente dalla filosofia e perciò va scacciata dalla città dei filosofi. Sullo sfondo di tale interpretazione si colloca la distinzione che è possibile individuare tra una una mivmhsi" descrittiva e una mivmhsi" valutativa34: la prima, quella di cui Proclo parla soprattutto nella quinta Dissertazione, descrive in generale la natura rappresentativa della poesia (ma anche del dialogo platonico); la seconda è quella che si pone al gradino più basso nella scala delle attività poetiche. Da una parte, dunque, la mimesis in quanto tecnica poietica, dall’altra la mimesis in quanto modalità compositiva. L’arte poetica è mimetica35 perché è un’attività di produzione di oggetti sussistenti in relazione ad un modello, ad un paradigma, e proprio come la produzione linguistica, anch’essa mimetica, tale attività si fonda su una capacità assimilatrice dell’anima insita nel suo potere demiurgico analogo a quello divino. La mimesi si configura allora come quel processo che fonda per analogia qualsiasi forma di produzione demiurgica, quella del cosmo, della parola e del discorso poetico. È nella sua natura di attività poietica il motivo per cui la poesia non può comporre se non attraverso immagini. Tali immagini, però, sono rappresentazioni a volte del divino, altre volte delle cose sensibili, altre ancora delle cose sensibili così come appaiono. Proprio quando la poesia smette di guardare agli dèi e produce apparenze di apparenze, sfruttando quell’affezione dell’anima che si lascia sedurre e appassionare da immagini false del mondo sensibile, la mimesis, quella che descrive il terzo grado di attività poetica, quella che è lontana tre volte dalla verità, diventa l’oggetto dell’accusa platonica e quindi anche procliana. Omero in quanto poeta non può che comporre i suoi versi attingendo a tutti e tre i gradi dell’attività poetica, ma poiché bisogna caratterizzare qualsiasi autore dalla sua attività più nobile piuttosto che da quella di valore inferiore - spiega Proclo36 -, egli è oJ prwvtisto" poihthv", il poeta primissimo, e la sua poesia è indirizzata alla parte più divina dell’anima, quella capace di risalire dal mondo di qui al suo modello intelligibile e poi al Primo Principio. Il livello più alto 34 Tale aspetto è colto in maniera originale e ben argomentata già da Stephen Halliwell nel suo studio sull’estetica della mimesis: cfr. Halliwell 2009, pp. 267-291. Per la discussione in dettaglio dei passi procliani al riguardo cfr. infra § 3.3.1, p. 138 e § 4.4 . 35 Cfr. In Remp. I, 44, 1-2; 67, 7. 36 Procl. ibi, I, 199, 4-5. 17 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO dell’attività poetica, quello che corrisponde al grado più alto di vita dell’anima in cui il filosofo riesce a realizzare il momento ultimo della sua ascesa epistrofica, e cioè l’assimilazione al dio (oJmoivwsi" qew/'), è descritto proprio nei termini di una e[llamyi", di una illuminazione37. Nel cammino di risalita dell’anima verso l’Uno, l’illuminazione corrisponde ad una delle ultime tappe, ulteriore oramai al livello intellettivo, e preparatoria al momento catartico e di definitiva unificazione nel Principio38. Lontanissimi dal bando platonico, leggiamo così di una poesia portatrice di verità e addirittura pari alla suprema visione mistica, e tutto questo proprio grazie alla sua natura relazionale che fonda ogni forma di produzione, quella demiurgica quanto quelle linguistica e poetica, una natura mimetica che unisce il modello alla sua immagine, il dio al poeta da lui ispirato. Se, infatti, il poeta, servendosi di immagini, può diventare pericoloso quando si rivolge ad anime non iniziate, è tuttavia proprio grazie alla capacità di tradurre in immagini la sua attività poietica, condivisa per analogia con l’onomaturgo e il Demiurgo, che egli può predisporre, insieme col filosofo, la paideia della città, proprio come Apollo, sedendo accanto a Zeus, si fa garante dell’ordine del mondo. 37 38 Cfr. Procl. In Remp. I, 180, 17 – 181, 2. Cfr. § 4.4.2. Cfr. Beierwaltes 1990, pp. 324-330. 18 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA CAPITOLO 1 Prima di Proclo: cenni su Omero e la tradizione arcaica nell’interpretazione medio e neoplatonica 1.1. La difficile caccia: il poeta e i suoi interpreti Ricostruire nei dettagli le tappe dell’atteggiamento di difesa nei confronti di Omero sorto in seno alla tradizione platonica anteriore a Proclo meriterebbe, è doveroso anticiparlo, uno spazio molto più ampio e allontanerebbe evidentemente dalle intenzioni di questo studio. Tuttavia, ritengo che tentare un’introduttiva e necessariamente cursoria presentazione della posizione in cui pensatori medio e neoplatonici si sono posti rispetto alla tradizione arcaica e, in particolare, ad Omero potrebbe aiutare ad addentrarci nell’esperienza procliana carichi di un passato, veramente prossimo, da cui un platonico certo non prescindeva e rispetto al quale potremmo cogliere nella giusta misura il senso di novità e di continuità di alcune scelte del Diadoco ateniese1. Con accenti più o meno vivaci fin dal VI sec. a.C. poeti, sofisti, filologi2 si schierarono a difesa di Omero di fronte alle critiche mossegli dai filosofi3. Il 1 Devo la gran parte delle informazioni riportate in questo capitolo fondamentalmente a due testi: l’uno, ormai classico nella storia del mito arcaico, di Felix Buffière (in bibliografia Buffière 1956) e l’altro di Robert Lamberton (Lamberton 1986), incentrato sul processo di teologizzazione della figura di Omero compiutosi proprio in ambito neoplatonico. Lamberton riprende lo stesso argomento in due articoli più recenti (Lamberton 1992 e 2002). 2 Per una recente ricostruzione della ricezione della poesia omerica all’interno delle scuole filologiche di Alessandria e di Pergamo si veda il volume di Nannini 2010, pp. 67-105. In generale si distingue tra l’approccio più squisitamente filologico di Aristarco di Samotracia, direttore della Biblioteca di Alessandria, e quello di orientamento allegorico di Cratete di Mallo, attivo a Pergamo. 3 Come si sa, ancor prima di Platone era stato Senofane ad inaugurare il processo di critica ad Omero con la ben nota critica all’antropomorfismo della rappresentazione divina, che faceva degli dèi esseri dotati di passioni e soprattutto autori di azioni che tra gli uomini potevano suscitare solo biasimo e vergogna (DK 21 B 10-12). Insieme con Senofane va poi ricordato Eraclito, che dimostrava la mancanza di sophia di Omero (DK 22 B 40; 42; 56; 106). Diogene Laerzio riporta un aneddoto della vita di Pitagora raccontato dal suo biografo Ieronimo di Rodi; il filosofo, sceso agli Inferi, avrebbe ritenuto opportuna la pena inflitta all’anima di Omero di rimanere sospesa ad un albero e avvinghiata dai serpenti (Diog. Laert. VIII, 21 = Hier. Rhod. fr. 42 Wehrli): cfr. Buffière 1956, pp. 13-14. Tra i filosofi anti-omerici successivi a Platone si ricordi la scuola epicurea, secondo la quale gli dèi degli intermondi non potevano mescolarsi agli uomini come invece 19 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO primo a difendere Omero sarebbe stato proprio un poeta, coevo di Senofane, Teagene di Reggio. Ad attestarlo è Porfirio4 che riporta la sua famosa e primissima interpretazione allegorica della theomachia, intesa come una guerra tra forze naturali personificate appunto da ciascuna delle divinità olimpiche coinvolte nella battaglia5. Un secolo e mezzo più tardi è Antistene cinico ad occuparsi di Omero e ad introdurre metodologie esegetiche destinate a diventare paradigmatiche. A lui vengono attribuiti ben diciassette titoli di argomento omerico, specialmente relativi all’Odissea, tra cui il Peri; ÔOmhvrou ejxhghtw'n6. Antistene sarebbe stato il primo a distinguere tra apparenza e verità nei poemi omerici, o meglio tra due modalità espressive usate dal poeta arcaico, l’una kata; dovxan (secondo opinione), l’altra kata; ajlhvqeian (secondo verità), distinzione che più tardi sarà adoperata, per esempio dall’ermeneusi stoica di Zenone e Crisippo, per spiegare le contraddizioni interne ai poemi stessi7. Ad Antistene si deve quindi l’attenzione alla fortunata duplicità del livello semantico del mito, quello del senso nascosto e quello delle figure apparenti del racconto sugli dèi8. raccontava Omero: Metrodoro di Lampsaco, l’epicureo omonimo dell’allegorista presocratico, aveva insultato Omero in numerosi scritti (frr. 163, 228, 229 Usener). Cfr. Buffière 1956, p. 21. 4 Porph. Quaest. Hom., I, p. 240, 14 ed. Schrader. 5 La stessa interpretazione sarà ripresa nel I sec. d.C. dall’anonimo autore del trattato Del sublime, IX, 6, 7. Di Teagene è anche lo scolio a Il. I, 381 (I, p. 110, 46-49 Erbse) e da DK 8 B 1-1a si apprende che si occupò anche della vita e della cronologia di Omero, oltre che del suo uso corretto della lingua greca. Il posto di Teagene nella tradizione omerica permetteva a Pfeiffer nel 1968 di datare, nella sua imprescindibile History of Classical Scholarship, seppure ormai superata in molti suoi punti da anni di studi e ricerche, l’inizio della riflessione greca sulla poesia con la nascita stessa della poesia: «La poesia stessa aprì la via alla sua intelligenza»: Pfeiffer 1973, p. 44. «Se si pensa al fatto che ancora nel IV secolo compito degli aedi fosse non solo recitare ma anche spiegare Omero (cfr. Plat. Ion. 530c-d e Xen. Symp. III, 6) non è avventato pensare che Teagene facesse parte della cerchia degli Omerici. L’uso dell’allegoria non era così isolato se pensiamo che in alcuni frammenti e testimonianze di Ferecide di Siro (DK 7 A 8-9, B 4) le divinità rappresentano forze cosmiche. Non vi è accordo sulla cronologia, ma se è corretto che egli difficilmente può essere vissuto molto prima della fine del VI secolo, l’allegoria può avere avuto inizio con rapsodi come Teagene per difendere Omero e può essere stata usata successivamente da scrittori filosofici e teologici come Ferecide per i propri scopi, senza riguardo a passi offensivi o inoffensivi»: ibi, p. 53. Uno studio classico sull’allegoria antica rimane quello di Pépin 1976; per una messa a punto del tema, con ricca bibliografia e approfondita indagine dell’esegesi allegorico-etimologica, rimando a Ramelli – Lucchetta 2004. 6 Diog. Laert. VI, 15-18. 7 A dircelo è Dione di Prusa in Orat. LIII, 4-5 = SVF I, 274 = Giannantoni V A 194. 8 Per una ricostruzione di una teologia antistenica fondata sulla ricerca del senso più profondo nascosto dietro alle forme antropomorfiche delle divinità omeriche cfr. Brancacci 1985-86. Sul posto di Antistene nell’ermeneutica del testo omerico cfr. de Luise – Farinetti 1998. 20 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA Anche tra i sofisti, Protagora, Ippia, e forse Prodico trattano, tra i loro insegnamenti, anche il modo corretto di leggere Omero9. In continuità con l’allegoria di Teagene ed Antistene, si muove poi il grande apparato ermeneutico di epoca stoica: da Diogene Laerzio10 apprendiamo che l’allegoresi di Zenone si fonde con l’analisi etimologica dei nomi; a partire dal caposcuola dell’antica Stoa il metodo etimologico sarà utilizzato ininterrottamente dai suoi successori, Cleante, Crisippo, Antipatro di Tarso, Diogene di Babilonia fino ad imporsi anche tra i filosofi di ambito latino11. L’allegoria e l’analisi etimologica costituiscono quindi da subito gli strumenti ermeneutici da utilizzare per cercare di avvicinarsi nella maniera più autentica possibile al testo omerico, testo fondamentale nell’istruzione di base dei giovani greci di età classica12. È necessario risolvere le contraddizioni interne dovute alla complessa composizione dei poemi stessi, nonché trovare un senso a quei racconti di dèi troppo simili agli uomini che avevano smesso di essere significativi di per se stessi13. Platone, nel suo confronto con la poesia, assegna solo un nome a 9 Perentorio il giudizio di Pfeiffer secondo cui quella dei sofisti non fu una vera e propria eJrmhneiva tw'n poihtw'n. «Le loro spiegazioni di testi poetici prefigurano lo sviluppo di un campo speciale di ricerca, l’analisi linguistica; il fine è retorico o pedagogico, non letterario»: Pfeiffer 1973, p. 91. Sull’attenzione di Protagora ai testi omerici cfr. DK 80 A 25; 28-30; per Ippia esegeta omerico cfr. Plat. Hipp. Min. 364c-365d; per le riflessioni di Prodico sulla sinonimica in contesti letterari, ma solo esiodei, cfr. DK 84 A 18 e Tordesillas 2004. 10 Celebre e preziosissimo è il passo di Diog. Laert. VII, 147 (SVF II 1021) in cui sono riportate le etimologie dei nomi divini proposte dagli stoici sulla base del Cratilo (395e5-396b3; 402d11-403a3; 404b5ca; 407a8-c7); i nomi indagati sono quelli di Zeus, Atena, Era, Efesto, Poseidone, Demetra analizzati come appellativi della stessa divinità che si diffonde nelle cose secondo diverse potenze: Diva poiché per mezzo (dia;) di lei esistono le cose; Zh'na, in quanto è causa del vivere (zh'n); ∆Aqhna' per l’estensione del suo dominio nell’etere (aijqhvr); ”Hra per l’estensione nell’aria (ajhvr); ”Hfaisto" per quella sul fuoco (fw'", per la connessione luce-fuoco); Poseidw'n sull’elemento umido (uJgrovn); Dhmhvthr sulla terra (mhthvr per la connessione terra-madre/ciò che dà nutrimento alle cose). 11 Cicerone e Anneo Cornuto sono solo alcuni degli esponenti dell’esegesi allegorico-etimologica di provenienza romana. Di Cicerone è ampio l’uso dell’allegoria nel II libro del De natura deorum, mentre ad Anneo Cornuto risale per la prima volta l’uso dei termini ejtumologiva, ejtumologevw ed e[tumon (Comp. Theol. Graec. capp. 1; 15; 22; 32; 35). Su questi autori cfr. Ramelli – Lucchetta 2004, capp. V-VI, pp. 233-348. 12 Sull’argomento si veda Marrou 1950, pp. 21-33. Proprio Senofane e Platone riconobbero la portata paideutica dell’opera omerica. Secondo Senofane Omero è stato maestro dell’Ellade ejx ajrch'", fin dalle origini (DK 21 B 10) e per Platone (Resp. X, 606e2) Omero è stato nel senso più completo l’educatore della Grecia (th;n ÔEllavda pepaivdeuken). «È a buon diritto che si può parlare qui, come piace ad Eustazio, di ‘educazione omerica’, oJmhrikh; paideiva: l’educazione che il giovane greco ritraeva da Omero era quella stessa che il Poeta dava ai suoi eroi, quella che vediamo Achille ricevere dalla bocca di Peleo o di Fenice, Telemaco da quella d’Atena»: Marrou 1950, p. 30. 13 È il concetto di ‘tautegoria’ che Schelling nel XIX secolo, mutuandolo espressamente dal poeta inglese Coleridge, applicava al mito nella sua Philosophie der Mythologie: «La mitologia non è allegorica, ma tautegorica», Schelling 1992, p. 309. Tale concetto viene ripreso nel secolo scorso da Walter Friederich Otto, uno dei più grandi studiosi della religione antica, autore nel 1954 di un bellissimo saggio sulle origini del 21 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO quanto da subito hanno già scoperto i primi lettori e interpreti di Omero: la uJpovnoia, il senso nascosto dietro alle raffigurazioni mitiche, paradossali solo in apparenza, è l’orizzonte di lettura già della prima ermeneusi del mito arcaico14. Si risponde così molto presto, e anche istintivamente, a quella polifonia che il mito racchiude in sé, ricorrendo a forme razionali di comprensione e appropriazione del testo15. Ma cosa rappresentano l’Iliade e l’Odissea alla fine dell’età ellenistica? Quale spazio occupano i miti arcaici nell’immaginario letterario della prima età imperiale e della tarda antichità? Di quel racconto degli dèi e degli eroi cosa è sopravvissuto all’ermeneusi filosofica e all’esegesi filologica alessandrina? Per comprendere quanto ancora essenziale e originario restasse il discorso omerico, voglio riportare per intero un passo che rispetto ad Omero si pone a più di un millennio di distanza e in un contesto, quale quello della scuola platonica di Alessandria, che avrebbe dovuto essere il luogo della filosofia in opposizione alla poesia. Si tratta di una pagina della Vita Platonis di Olimpiodoro: Platone, prima di morire ebbe un sogno: mutato in cigno, volava di albero in albero (metevrcetai), dando così gran pena ai cacciatori (ijxeutai'"). Simmia il Socratico ne dedusse che era inafferrabile (a[lhpto") a chi, dopo di lui, avrebbe voluto interpretarlo (toi'" met∆ aujto;n ejxhgei'sqai boulomevnoi" aujtovn): gli interpreti (oiJ linguaggio e il ruolo delle Muse nell’antichità: Die Musen der göttliche Ursprung des Singens und Sagens. Egli respingeva fortemente l’idea della personificazione, sicuro che il linguaggio poetico, per gli antichi portatore di verità perché di origine divina, creasse le cose prima di nominarle: cfr. Otto 2005, p. 90. Tutto quanto la nostra logica di interpreti aggiunge al mito è astrazione; le allegorie, le personificazioni non sono che strumenti offerti dalla nostra logica per dare un senso a delle figure, a degli stati, a degli eventi, che gli antichi poeti arcaici insieme al loro pubblico vedevano come viventi mentre per noi non sono che cose inanimate. Su questo argomento cfr. Palumbo 2009 che indaga sull’origine del linguaggio secondo gli antichi non a partire dalla sua funzione pratica, comunicazionale, ma dal fatto che attraverso di esso la natura delle cose si apre all’espressione, trova la sua possibilità di rivelazione: «Ogni volta che la lingua non deve servire ad uno scopo, bensì sta in certo modo per se stessa, come nel discorso del poeta, le cose permangono ancora nella loro originaria vitalità che è divina», p. 53. 14 Brisson, seguendo Pépin, suggerisce di leggere nello scetticismo polemico di Socrate nei confronti di una ricerca, sterile e non accessibile a tutti, di un senso nascosto sotto l’apparenza ridicola e mostruosa dei racconti mitici, atteggiamento esposto in Resp. II, 378d6 come in Phaedr. 229b-230a, un attacco diretto ad Antistene. Addirittura il filosofo socratico sarebbe da riconoscere dietro al personaggio di Cratilo nell’omonimo dialogo platonico: cfr. Brisson 1982, p. 158. 15 «Quando rapsodi del VI secolo cominciarono a scoprire ‘significati nascosti’ in molte parti dei poeti omerici, essi svilupparono solo, in questo e negli altri campi, qualcosa che l’immaginazione di un grande poeta aveva creato una volta»: Pfeiffer 1973, p. 46. Sulla pervasività del modello omerico nella produzione e nell’ermeneutica poetica, di matrice sia pagana che cristiana, nella tarda antichità cfr. Agosti 2005. 22 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA ejxhghtai;), in effetti, assomigliano a quei cacciatori (ijxeutai'" ga;r ejoivkasin) che vogliono andare a caccia del pensiero degli antichi (ta;" ejnnoiva" tw'n ajrcaivwn qhra'sqai boulovmenoi). E lui, Platone, è inafferrabile perché si possono intendere le sue opere, come quelle di Omero (kaqavper kai; tw'n ÔOmhvrou), in senso fisico, morale, teologico e ancora in molti altri modi (fusikw'" kai; hjqikw'" kai; qeologikw'" kai; aJplw'" pollacw'"). Perciò queste due anime, quelle di Platone e di Omero, si dice che coprono tutti gli accordi (levgontai genevsqai panarmovnioi); perciò è possibile intenderle in vario modo (pantodapw'" e[stin ajkouvein)16. Così Olimpiodoro nel VI sec. d.C., nel raccontare la vita di Platone, traduceva il peso di circa quattro secoli di scolastica esegetica neoplatonica intorno agli scritti del suo maestro. Un’anima panharmonios era quella di Platone e tale risonanza musicale era la stessa di quella dell’anima omerica, origine di, a quel tempo, millenari echi interpretativi: destino beffardo per un filosofo che ai poeti aveva riservato non poche e deboli accuse. Stando alle parole di Olimpiodoro si sarebbero susseguite, dunque, tre modalità esegetiche nell’interpretazione omerica e quindi platonica: fisica, morale e teologica. Buffière17, autore del prezioso lavoro dedicato alla ricezione di Omero dagli inizi fino al tardo neoplatonismo, attribuisce tali modalità a tre periodi cronologici ben definiti: l’interpretazione naturale coinciderebbe con l’età dei cosiddetti filosofi naturalisti presocratici di VI sec. a.C. e vedrebbe il suo massimo rappresentante evidentemente in Teagene di Reggio; la seconda modalità esegetica, quella morale, coinciderebbe con la fase centrale della tradizione omerica, quella di Antistene, dei sofisti fino ad arrivare all’esegesi di età imperiale (Plutarco e Massimo di Tiro); infine quella teologica sarebbe una novità assolutamente neopitagorica e neoplatonica. Seguendo questa traccia storiografica possiamo individuare in due testi fondamentali il momento di passaggio da un approccio morale al testo omerico ad uno teologico: le Quaestiones Homericae 16 Olymp. Vit. Plat. 4, 29-39 ed. Westerink. Ricordiamo che la vita di Platone era anteposta da Olimpiodoro al suo commento all’Alcibiade primo. La traduzione è mia, come di tutti i testi citati quando non specificato altrimenti. Lo stesso racconto ricorre in termini quasi identici in Anon. Prol. 1, 37-48 ed. Westerink. 17 Buffière 1956, pp. 2-3. 23 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO dello Pseudo-Eraclito, risalente secondo le interpretazioni più recenti18, al I sec. d.C, e il De antro nympharum di Porfirio del III sec. d.C. Cominceremo il nostro excursus proprio dallo scritto dello Pseudo-Eraclito che, come vedremo, muove i primi passi verso la teologizzazione di Omero. 1.2. Pseudo-Eraclito Nell’opera del grammatico e retore di età imperiale si riconosce ancora un manifesto atteggiamento di difesa del poeta arcaico in senso antiplatonico. L’autore accusa Socrate di pederastia: i suoi atteggiamenti dipinti da Platone devono essere biasimati almeno quanto quelli degli dèi descritti da Omero19. La città omerica, secondo Pseudo-Eraclito, è una città che possiede nobili istituzioni capaci di regolare la vita umana20. Omero celebra almeno la sacralità di unioni assennate: è per Elena che i Greci intraprendono la loro spedizione, ed è per Penelope che Odisseo sopporta le sue fatiche in viaggio. I dialoghi di Platone, invece, sono disonorati a ogni passo da amori di giovani ragazzi: non c’è uomo che non sia preso da desideri pederasti. Quanto, poi, ai fatti e alle gesta degli dèi raccontati da Omero, l’autore è pronto ad ammettere che, se presi alla lettera, sono davvero tacciabili di ajsevbeia: «Tutto in Omero non è che empietà, se niente è allegorico»21. Nel testo pseudo-eracliteo, inoltre, non vi è ancora traccia di quel procedimento allegorico di tipo diairetico che sarà invece distintivo dell’interpretazione pitagorico-neoplatonica; tale procedimento si caratterizza per la tendenza a cercare nei miti omerici tracce dei misteri ultraterreni. È stato lo studioso tedesco Wolfgang Bernard22 a distinguere di recente tra «allegoresi sostitutiva» (substitutive Allegorese), praticata dagli stoici e dallo Pseudo-Eraclito, 18 Dell’autore si hanno davvero poche notizie; la sua opera presenta dei punti di contatto con il Compendium di Cornuto, ma non può dirsi stoico. La datazione delle sue opere oscilla tra il I e il II sec. d.C. Sull’argomento rimando a Pontani 2005a, pp. 5-17 (vd. Fonti Primarie s.v. Pseudo-Eraclito). 19 Dello stesso parere è Massimo di Tiro che in Or. XVIII, 5 scrive: «Socrate … mescolò nelle sue conversazioni discorsi così ingannevoli e pericolosi che le allusioni di Omero, a paragone di quelli, sono ben lungi dall’essere sotto accusa». La trad. è di Filippo Scognamillo 1997. 20 Ps.-Heracl. Quaest. Hom. 76. 21 Ps.-Heracl. ibi, 1, 1: «Pavnta ga;r hjsevbhsen, eij mhde;n hjllhgovrhsen». È proprio in questo interessante testo che si trova la spiegazione etimologica del termine «allegoria», indicato come il tropos che parla di cose significandone altre, diverse da quelle che dice (a[lla me;n ajgoreuvwn trovpo", e{tera de; w|n levgei shmaivnwn): 5, 2. 22 Cfr. Bernard 1990, pp. 7-8; 15-21; 74-80. 24 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA e «allegoresi diairetica» (dihairetische Allegorese) dei platonici: la prima presenta corrispondenze biunivoche tra singoli elementi del tipo di Zeus = etere, Era = aria et similia, mentre la seconda tratta un intero episodio come riferito a un altro ordine ontologico. Risulta, però, interessante per il nostro discorso il fatto che già nelle Questioni omeriche Omero sia detentore di una sapienza mistica e che costante sia l’uso del verbo qeologevw a proposito del suo modo di rivelare verità nascoste23. In Quaest. Hom. 76, 1, Omero è detto essere «il grande ierofante del cielo e degli dèi, colui che ha aperto i sentieri inaccessibili del cielo, ma solo a chi ha un’anima celeste, che può penetrare gli arcani sublimi»24. Come ha correttamente dimostrato Simonini25, ierofante è un termine proprio del linguaggio mistico e postula l’analogia mito-mistero, quella che in ambito neoplatonico sarà a fondamento della difesa di Omero dalle accuse platoniche; sia il mito che il rito coprono di veli la verità, rivelata e accessibile solo agli iniziati. L’elemento misterico e sapienziale della poesia omerica fa dunque il suo ingresso in questo testo di età imperiale per poi diventare sempre più preponderante in epoca tardo antica. Massimo di Tiro, retore di II secolo d.C., vede in Omero, padre della poesia e della scienza, un mago e un discepolo dei Caldei, esperto di tutte le scoperte astronomiche, venerato come rivelatore di profonde verità esoteriche26. Aristide Quintiliano definisce Omero il profeta del tutto27. Ciò si riflette nella terminologia usata: rispetto al verbo ajllhgorevw e al termine uJpovnoia, vocaboli propri del lessico tecnico tradizionale dell’esegesi allegorica, si prediligono termini quali suvmbolon, ai[nigma che accentuano, evocandola, l’idea di oscurità. Se «enigma» rimanda alla sfera oracolare, «simbolo» è proprio dei sogni, delle profezie e del linguaggio iniziatico. Tale dimensione ci porta direttamente all’altro testo che possiamo considerare centrale nella storia dell’interpretazione della poesia omerica in ambito neoplatonico, ovvero all’Antro delle ninfe di Porfirio, che, con 23 Ps.-Heracl. Quaest. Hom. 22, 1 e 58, 4. Cfr. Pontani 2005a, pp. 27-28. Come vedremo, bisogna, però, aspettare Porfirio perché Omero sia detto per la prima volta qeolovgo". 24 Cfr. anche Phil. De prov. II, 40. 25 Simonini 1986, pp. 90-91, n. 4 (vd. Fonti Primarie s.v. Porfirio). 26 Max. Tyr. Or. XXVI, 1-2. 27 Aristid. Quint. De mus. III, 26. 25 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO le parole di Lamberton, rappresenta «the distinctively Neoplatonist reading of the Iliad and Odissey»28. Porfirio cita espressamente come sue fonti Numenio e Cronio. Buffière infatti fa del medioplatonismo il vero nucleo della lettura allegorica di ordine teologico. Prima di addentrarci nella lettura di qualche frammento numeniano più significativo, è bene guardare allo sfondo che a sua volta sta dietro Numenio, e cioè alle acquisizioni raggiunte in campo filologico-interpretativo ad Alessandria intorno alle Sacre Scritture. 1.3. Il mito e le Sacre Scritture: Filone di Alessandria, Clemente Alessandrino e Origene Tra i modelli di Numenio va annoverato certamente Filone di Alessandria di circa un secolo più anziano e autore prolifico di esegesi biblica29. Sostanzialmente Filone non fa che adottare i criteri già stoici dell’interpretazione allegorica applicandoli al testo biblico30. Sono tre i livelli di lettura: letterale, etico e metafisico. Secondo Lamberton, mentre però quest’ultimo livello di lettura ha a che fare, in un contesto stoico, con la cosmologia e l’universo materiale, in Filone esso concerne l’anima che, come vedremo, sarà invece al centro dell’allegoresi neoplatonica, soprattutto porfiriana. I metodi e il vocabolario utilizzati da Filone sono quelli tradizionali: egli parla di significato letterale (tov rJhtovn) e significato allegorico (ajllhgorivai o uJpovnoiai); utilizza già il termine tecnico aijnivssomai, «il dire per enigmi», «il parlare in maniera nascosta». Oggetto di interpretazioni sono le tradizionali questioni stoiche: origine divina del linguaggio e quindi relazione naturale tra il nome e la cosa (Quaest. in Gen. I, 20); curiosa sovrapposizione tra le componenti linguistiche e la natura umana (vocali, semivocali, consonanti = mente, sensi e corpo, Quaest. in Gen. IV, 117); allegoria 28 Lamberton 1992, p. 123. Porfirio considera il mito altrettanto oscuro dell’oracolo (Quaest. Hom. ad Il. XV, 13, p. 200, 13 ed. Schrader; De phil. ex orac., 1, p. 110 ed. Wolff). 29 Gli studi di riferimento per questo autore sono essenzialmente due: Pépin 1976, pp. 231-242 e Hay 1978-80. Lamberton 1986 gli dedica invece le pp. 44-54. 30 È bene ricordare che Filone non fu il primo ad adottare il metodo allegorico nella lettura del testo biblico. Prima di lui lo aveva fatto Aristobulo di Alessandria, interprete biblico del II-I sec. a. C., del quale restano alcuni significativi frammenti di commento ai libri del Pentateuco. Cfr. Orig. Contr. Cels. IV, 51 e Kraus Reggiani 1986, p. 33. 26 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA naturale degli dèi per cui Omero, poeta del paganesimo, non è da accusare per come rappresenta il divino dal momento che gli dèi alluderebbero, come voleva la primissima lettura allegorica, a principi naturali e/o razionali (Efesto è il fuoco, Era l’aria, Hermes la ragione), anzi egli ha il privilegio di essere stato l’unico a rappresentare il divino in questo modo (De Prov. II, 40-41); Adamo è detto essersi condannato a morte per aver preferito la diade (il mondo creato) alla monade (il Dio creatore) e i versi omerici si trasformano in una verità rivelata tanto da essere risemantizzati nel nuovo contesto narrativo: con queste parole Filone si rivolge ad Adamo peccatore: «‘ma su, vai fuori dal fumo e dalla nebbia’ (Od. 12, 219) e abbandona i ridicoli interessi mortali come la spaventosa Cariddi e non toccarla nemmeno con la cima dell’albero, come dice il poema»31. Secondo Lamberton, Filone ha evidentemente avuto un ruolo importante nella diffusione dell’interpretazione omerica nel contesto platonico cristiano, ovvero quello di Origene e Clemente. Risulta però ancora da capire in che misura tale ruolo sia stato essenziale. Clemente Alessandrino e Origene si pongono tra Numenio e Plotino e ciò sarebbe prova di questo terreno comune tra la lettura biblica e quella omerica. Clemente è più giovane di Numenio, coevo di Ammonio Sacca, maestro di Origene e di Plotino ad Alessandria. Secondo Clemente, Omero e i poeti arcaici, visti in dipendenza dei profeti ebraici, «filosofano per significati nascosti, di∆ uJponoiva" polla; filosofou'sin» (Strom. V, 4, 24, 1). Le dottrine cristiane sono credute accessibili ad Omero, tant’è che sotto alcuni miti del poeta pagano si scorgono verità bibliche. Tuttavia in Clemente non va rintracciato un entusiasmo particolare per i miti omerici. Nel suo uso della cultura pagana, egli è mosso da due obiettivi fondamentali: dimostrare l’inammissibilità degli dèi pagani e accrescere il prestigio della tradizione cristiana e dei testi su cui essa era basata, mostrando che questa stessa rivelazione era penetrata, sebbene in maniera oscura, nel più autorevole dei pagani. Da questi due obiettivi nascono due ‘Omeri’, l’uno del Protrepticus e l’altro degli Stromata. Nel primo troviamo un Omero inventore di dèi (II, 26, 6), ma tali dèi non sono in realtà delle vere divinità; Omero stesso li chiama daivmone" (II, 55, 4), li insulta (VII, 76, 1), e li mostra feriti dai mortali (II, 31 Phil. De somn. II, 70. 27 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO 36, 1-2), loro servi (II, 35, 2) e colpevoli di adulterio (IV, 59, 1). Osserva Lamberton che molti dei passi offensivi presi in considerazione da Clemente sono gli stessi di quelli menzionati da Socrate nella Repubblica, e, soprattutto, che tale elenco sembra anticipare quello procliano dei passi che devono essere spiegati allegoricamente32. Il poeta descritto negli Stromata è invece il poeta da leggere allegoricamente. Omero presenta barlumi di verità: conosce alcuni elementi della dottrina cristiana come la santità dei settanta giorni (V, 14, 107, 3), la giustizia di Dio (V, 14, 130), la creazione dell’uomo dall’argilla (V, 14, 99, 4-6); presenta echi della Genesi sulla separazione della terra e dell’acqua e sull’emergenza della terraferma (V, 14, 100, 5 su Il. 14, 206-7). Tuttavia, nonostante questi rimandi alla verità rivelata, Omero rimane essenzialmente nell’oscurità, un testimone distante dalla vera rivelazione. Egli si riferisce a Zeus come al ‘padre degli dèi e degli uomini’, ma è semplicemente una formula enfatica – spiega il filosofo – propria di chi non sa «né chi sia il padre, né in che senso egli sia il padre, mh; eijdw;" tiv" oJ path;r kai; pw'" oJ pathvr»33. Per Clemente, Omero è dunque autore di una poesia allegorica il cui prestigio può aggiungersi a quello della tradizione cristiana, seppure bisogna restare sempre ben attenti a limitare il grado di verità da attribuirgli. Le sue finzioni poetiche sono dei velamenti, degli schermi: Clemente utilizza già il termine parapevtasma, termine tecnico dell’interpretazione allegorica, per riferirsi alla poesia di Omero, Esiodo, Orfeo, Lino e Museo (V, 4, 24, 1); ma questo ‘schermo’ è equivoco, falso, malgrado tutta la sua bellezza: Omero, il poeta allegorico, è in alcuni punti fondamentali della sua dottrina profondamente in errore. Clemente, dunque, riconosce in Omero un’autorità teologica di una tradizione nemica, che, però, può essere usata contro quella stessa tradizione e inserita in un nuovo contesto34. 32 Lamberton suggerisce di pensare ad una conoscenza da parte di Proclo del Protrepticus e quindi ad una volontà da parte sua di rispondere alle accuse cristiane mosse ad Omero, sebbene il suo obiettivo dichiarato sia invece quello di rispondere direttamente al Socrate del dialogo platonico: Lamberton 1986, p. 79, n. 107. In effetti, come vedremo, fin dall’introduzione della sesta Dissertazione il Socrate della Repubblica è l’unico referente cui il filosofo licio indirizza la sua apologia di Omero. 33 Clem. Al. Strom. VI, 17, 151-152. 34 Cfr. Lamberton 1986, p. 80. 28 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA Origene ha, rispetto a Clemente Alessandrino, una posizione più ostile al poeta arcaico35. Nel Contra Celsum attacca più volte Omero: questi è un poeta autorevole solo nel mondo pagano delle tenebre, solo in quella dimensione è il migliore dei poeti (oJ tw'n poihtw'n a[risto", Contr. Cels. VII, 6); Origene sostiene più volte le stesse accuse mosse da Socrate ad Omero e nega finanche che Platone abbia potuto considerare e[nqeoi alcuni poeti arcaici (Contr. Cels. IV, 36). Secondo Lamberton36 egli anticipa Agostino nel suo rapporto con Pitagorici e Neoplatonici: in più di un caso mostra, per esempio, di rispettare molto Numenio, poiché questi, a differenza di altri pagani, aveva dimostrato di conoscere le Sacre Scritture e le interpretava in maniera allegorica (wJ" peri; tropologoumevnwn, Contr. Cels. IV, 51), ma allo stesso tempo non esita a criticare tutte le difese allegoriche di miti osceni tentate da epicurei e stoici. Origene, inoltre, sarebbe l’unico ad aver operato un parallelismo tra il lettore dei miti omerici e il lettore dei Vangeli (Contr. Cels. I, 42): chi si appresta a leggere i miti eujgnwmovnw", ovvero con una certa apertura mentale, con una buona disposizione d’animo e con la ferma volontà di non cadere in errore, deve scegliere le parti del racconto a cui crederà, quelle da interpretare in maniera allegorica (tina; de; tropologhvsei), andando alla ricerca delle intenzioni dell’autore, e, quelle a cui non crederà, le riterrà scritte solo per il piacere della lettura. La stessa modalità di approccio va auspicata per i lettori delle Sacre Scritture, ovvero una buona disposizione d’animo, un’apertura mentale capace di penetrare nei molteplici livelli di significato (eijsovdou eij" to; bouvleuma) perché possa essere scoperta l’intenzione vera con cui ogni passo è stato scritto. Questo testo rivela anche la diversa posizione di Origene di fronte al testo biblico rispetto a quella di Filone. Origene sa che alcuni passi delle Sacre Scritture, se interpretati letteralmente, possono risultare inaccettabili proprio quanto i miti omerici. Ed è proprio questo il punto a partire dal quale si mossero sia l’esegesi pagana di Omero sia quella cristiana della Bibbia. Non è, allora, errato pensare che Origene abbia fatto con le Sacre Scritture qualcosa di molto simile a ciò che un secolo dopo avrebbe fatto il pagano Porfirio con Omero. 35 Lamberton, ibidem, ipotizza che tale ostilità sia dovuta all’esperienza drammatica della persecuzione del 202 a cui invece Clemente scampò. 36 Lamberton ibi, p. 81. 29 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO 1.4. Numenio Rispetto a quanto ricostruito fin qui, la novità tutta interna alla tradizione platonica è lo scopo dichiarato di mostrare una convivenza, un accordo tra due maestri di verità: Omero e Platone. Uno dei primi tentativi di conciliare Platone ed Omero37 risale almeno a Numenio, filosofo medioplatonico legato all’ambiente pitagorico della seconda metà del II sec. d.C.38. Di Numenio possediamo solo frammenti: sessanta tramandatici da Eusebio e una dozzina tramandatici da altri autori cristiani e pagani, da Clemente Alessandrino (II-III sec. d.C.) a Giovanni Lido (VI sec. d.C.). Dal metodo utilizzato da Eusebio per le citazioni possiamo essere sicuri di leggere ipsissima verba della sua fonte. Tuttavia, quasi tutti i frammenti relativi alla posizione di Numenio rispetto all’interpretazione allegorica della poesia omerica39 sono riportati da Porfirio nel suo De antro nympharum, in maniera però non letterale. Come abbiamo già accennato, Porfirio più volte fa esplicito riferimento a Numenio (De antr. nymph. 21; 24; 28-34) e al suo contemporaneo Cronio (De antr. nymph. 3, 1) come sue fonti nella lettura allegorica del passo omerico in questione (Od. XIII, 102-112), ma non specifica direttamente quando li sta citando e quando no. Ciò non aiuta a stabilire i corretti confini tra i due lettori di Omero, ma senz’altro testimonia la grande influenza del filosofo medioplatonico su Porfirio e l’importanza del suo ruolo nella storia della critica letteraria omerica. Numenio utilizza sovente versi omerici anche in chiave ironica, soprattutto nella ricostruzione storiografica dell’Accademia e della Stoa (fr. 25 Des Places). 37 Il lessico Suida s.v. Thvlefo", vol. IV, p. 539, 23-24 attribuisce al grammatico di II secolo Telefo di Pergamo un lavoro intitolato Peri; th'" JOmhvrou kai; Plavtwno" sumfwniva", ma purtroppo ne leggiamo solo il titolo. Ma già per l’autore del Sublime, che riconosce la mivmhsi" e la zhvlwsi" come due strade che portano al sublime, Platone più di tutti aveva imitato ed emulato Omero: Ps-Long. De subl. XIII, 1-4; per Massimo di Tiro, Platone è più simile ad Omero che a Socrate: Or. XXXII, 119-123. 38 Secondo Lamberton la critica di Platone ad Omero si gioca sul piano morale, mentre criteri estetici entrano in gioco solo se in contrasto con quelli morali. Nel difendere Omero, sono già di Numenio e di Porfirio gli argomenti etici che faranno da fondamento anche all’apologia procliana; in questa, invece, si aggiungeranno, in maniera più sistematica, argomenti di esclusiva natura estetica: cfr. Lamberton 1986, p. 19. 39 Le fonti di quanto Numenio ha scritto intorno ad Omero sono, dopo il De antro nympharum (frr. 30-33 Des Places), il Commento al Somnium Scipionis di Macrobio (fr. 34 Des Places) e il Commentario alla Repubblica di Proclo (fr. 35 Des Places). 30 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA Da un frammento del suo scritto Peri; tajgaqou' (fr. 1 Des Places), invece, è possibile evincere una particolare prospettiva della sua attività filosofica: egli, infatti, sostiene di voler risalire, a partire da Platone, a Pitagora e poi a tutti coloro che hanno anticipato dottrine e culti, in maniera armoniosa con il filosofo ateniese, ovvero Bramani, Giudei, Magi ed Egizi. A dimostrazione di quanto Numenio abbia operato per un sincretismo tra Oriente e Occidente, tra paganesimo e cristianesimo si può citare anche l’importanza che la sua opera riveste per Origene. Questi introduce in più di un caso le citazioni di Numenio con il verbo tropologevw, termine che, come abbiamo visto, in ambiente cristiano sostituisce spesso il più frequente ajllhgorevw, a proposito di un uso appunto allegorico del testo biblico da parte del filosofo neopitagorico40. Un altro testimone dell’approccio interpretativo utilizzato da Numenio è il fr. 23 Des Places, un passo tratto dal suo Peri; tw'n para; Plavtwni ajporrhvtwn. Qui Numenio intuisce, forse per primo, la funzione semantica della natura drammatica dell’opera platonica. È lui infatti a ipotizzare che Platone si sia servito dei suoi personaggi per riuscire a dire la verità e allo stesso tempo vivere senza rischi: ecco perché il filosofo ateniese nell’Eutifrone pone dietro alla veste di un ‘rozzo teologo’, quella appunto del sacerdote ispirato, l’intera comunità ateniese e quindi dietro a quella socratica se stesso; la voce di Platone sta dietro ad Eutifrone quanto dietro ad Omero e questo dimostra come la sua dottrina non sia così nettamente separata dalla poesia ispirata. Sull’opera di Numenio si discute ancora per cercare di capire se il suo commento all’episodio odissiaco e al mito di Er, di cui sappiamo grazie ad una notizia di Proclo (In Remp. II, 96, 10-13), costituiscano delle opere autonome o piuttosto siano inserite in una sorta di raccolta di spiegazioni ai passi più difficili di Platone e di Omero, se cioè si possa parlare di scritti di ermeneutica omerica o di interessi isolati legati ad esercizi di scuola41. Tuttavia, Buffière sostiene con convinzione che Numenio, nell’interpretare allegoricamente l’antro delle ninfe 40 «Numenio di Apamea … propagò un tipo di allegoria mistica e cercò di armonizzare Platone e Mosè e – all’interno di una sistemazione del sapere in chiave pitagorico-platonica – i riti e i dogmi dei giudei, dei magi e degli egiziani»: Simonini 1986, p. 17. Sulla categoria storiografica di medioplatonismo che s’interseca con quella di neopitagorismo, categoria intermedia in cui si deve far rientrare Numenio cfr. Frede 1987. 41 A tal proposito Lamberton così si esprime: «…it is tempting to believe that On the Secrets in Plato amounted to a collection of Numenius’ most remarkable elucidations of exceptionally rich or exceptionally problematical passages in Plato»: Lamberton 1986, p. 64, n. 66. 31 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO abbia avuto come obiettivo la volontà di conciliare Omero e Platone, e ciò lo rende a buon diritto il primo degli interpreti omerici di stampo neoplatonico42. Lo studioso francese chiama métaphysique questo tipo di allegoresi: i primi interpreti di Omero trasformano gli dèi in elementi naturali, gli interpreti stoici leggono nell’Iliade e nell’Odissea paradigmi morali, i Neoplatonici costruiscono una fitta rete di simboli mistici. Essi fanno di Omero uno ‘spiritualista’, un sostenitore dell’immortalità dell’anima al pari di Platone e di Pitagora. Essi s’interessano prima, con Numenio e Porfirio, alla natura dell’anima, alla sua discesa nel mondo sensibile e alla sua risalita in quello intelligibile, poi, con Siriano e Proclo, alle gerarchie teologiche disegnate da Omero nei suoi due poemi. Abbiamo constatato che già alla prima età imperiale si potrebbero far risalire delle tracce di questa esegesi mistica, ma «c’est avec Numénius, dans la seconde moitié du second siècle après J.-C., qu’elle trouve son veritable hiérophante. Cronius, disciple de Numénius, poursuit l’oeuvre de son maître. Dans l’école de Plotin, Porphyre … est le grand spécialiste de ces commentaires ‘inspirés’ et marche sur les traces des deux Pythagoriciens. Puis il faut arriver à Syrianus et à Proclus, son disciple, pour voir le courant réapparaître; Proclus, en ce domaine, suit de près Syrianus; il s’occupe beaucoup plus d’accorder ses innombrables triades aux divinités de l’antique mythologie que du sort des âmes. […] C’est de Numénius, en definitive, que jaillit le grand courant. Et l’on peut dire de cet esprit original qu’il fut l’un des plus puissants ferments de la mystique neoplatonicienne»43. È Numenio a proporre, secondo Porfirio, l’interpretazione allegorica dell’Odissea vista come l’intera storia dell’anima nella sua discesa nel mondo sensibile. Nel fr. 33 des Places (il capitolo 34 del De antro nympharum) si legge che Odisseo rappresenta per Omero l’immagine (th;n eijkovna) dell’uomo che attraversa le successive prove della generazione (dia; th'" ejfexh'" genevsew" dierxomevnou), per poi essere infine trasportato tra coloro che non conoscono più 42 Buffière 1956, pp. 442-444. È bene sottolineare che Buffière non risolve la questione di Numenio neopitagorico o neoplatonico: pone, à la fois, il neopitagorismo e il Neoplatonismo alle origini di quella che, secondo lui, è l’esegesi mistica di Omero. Per Lamberton 1992, pp. 123-124 è più giusto considerali dei “dogmatic Platonists” or “esoteric Platonists” convinti dell’esistenza di una dottrina pitagorica espressa in maniera oscura nei dialoghi platonici. 43 Buffière, ibi, p. 394. 32 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA l’agitazione delle onde e ignorano il mare, ovvero la materia44. Infatti – conclude Porfirio, rendendoci impossibile comprendere dove finisca la citazione e inizi un suo personale commento – «l’oceano, il mare e le onde anche in Platone sono il mondo della materia, povnto" de; kai; qavlassa kai; kluvdwn kai; para; Plavtwni hJ uJlikh; suvstasi"»45. Nell’interpretazione di Numenio, dunque, si fa già avanti una forte componente neoplatonica: se si pensa infatti all’immagine dell’anima che passa attraverso la generazione, discesa a cui segue à rebours la sua separazione da questa stessa materia per unirsi a coloro che invece non conoscono il mare, che sono cioè esterni alla u{lh, si può evidentemente intravedere il senso neoplatonico, già noto a Numenio, della discesa dell’anima dall’eternità del mondo degli dèi alla temporalità e spazialità della materia e poi della sua risalita fino alla definitiva unione con la semplicità degli esseri divini46. 1.5. Plotino Prima di passare all’indagine della posizione porfiriana rispetto al mito arcaico, è bene precisare solo qualche aspetto sul ruolo svolto da Plotino nella nostra storia ermeneutica. Il filosofo di Licopoli nomina Omero in tre punti, una volta definendolo oJ poihthv" (Enn. I, 1 [53], 12, 31), altre due volte riferendosi vagamente a oiJ poihtaiv dov’è il contesto a chiarire che si tratta evidentemente di Omero (Enn. V, 5 [32], 8, 6; VI, 7 [38], 30, 29). In generale Plotino sembra essere poco interessato ad una storia dell’interpretazione della poesia mitica, sebbene le sue conoscenze approfondite della letteratura e la sua sensibilità per il linguaggio e l’immaginazione poetica siano di indubbio spessore47. Non si può, dunque, rintracciare un interesse particolare per la tradizione arcaica che abbia prodotto 44 Cfr. Hom. Od. XI, 122-123. Num. fr. 33, 8-9 Des Places. 46 Sull’uso allegorico dell’Odissea in Numenio e nell’arte del suo tempo cfr. Carcopino 1956, pp. 201 ss. e Dodds 1965, p. 101, n.1; sulla novità rappresentata dalla lettura allegorica di Numenio del viaggio per mare di Odisseo come esperienza dell’anima cfr. Buffière 1956, pp. 413-417: «Nous avions un Ulysse mendiant devenu le patron des Cyniques; Ulysse l’endurant devenu l’idéal des Stoïciens. Avec Numénius, s’achève la sublimation du héros: il n’est plus le sage dans son corps, axé sur la vie terrestre, mais l’âme, l’âme seule, luttant contre son corps, jusqu’à l’heure où elle en dépouillera les haillons pour retrouver sa pureté originelle (p. 417)». Per una ricostruzione, invece, di tutto il materiale esegetico omerico relativo all’Odissea si veda il volume di Pontani 2005b. 47 Tra gli studi su Plotino e il mito, restano ancora fondamentali Cilento 1960 e Pépin 1955. 45 33 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO anche una riflessione scritta tutta incentrata su questo argomento. Si possono, però, dedurre, da contesti non direttamente destinati al nostro tema, delle suggestioni, assolutamente interessanti, sul significato del mito e sulla sua fruizione a cui accenneremo brevemente. Per Plotino il mito ha valore didattico (Enn. III, 5 [50], 9, 28-29), può servire a esprimere l’ineffabile, è un’immagine che riflette la verità senza essere la verità: raggiungerla implica superare il mito interpretandolo (VI, 9 [9], 11, 17-19). Esso rappresenta realtà inesprimibili (V, 1 [10], 7, 30-42), ma l’immagine non è mera degradazione dell’oggetto sensibile bensì subisce l’influenza del modello e ne è come uno specchio, capace di coglierne l’apparenza (IV, 3 [27], 11, 6-8). Per Plotino il mito può riuscire a raccontare nel tempo, nel loro successivo distinguersi l’una dall’altra le cose che invece sono sincroniche, sono confuse e che non si distinguono se non per il diverso livello ontologico cui appartengono e per la diversa potenza che possiedono (III, 5 [50], 9, 24-26)48. È in questo senso che va interpretata, per esempio, la creazione del mondo di Tim. 28b in cui Platone fa riferimento ad una nascita dell’universo. Si tratta di un passo molto discusso, fin dalla critica aristotelica del primo libro del De caelo alle prime interpretazioni sorte in seno all’Accademia e al medioplatonismo. Alcinoo (Didask. XIV, 169, 34-35 ed. Hermann) e Apuleio (De Plat. I, 8) ne davano un’interpretazione allegorica sostenendo invece la tesi dell’eternità del mondo49. In un senso simile intende il passo anche Plotino, secondo cui Platone fa nascere il mondo anche se questo non ha nessun inizio, poiché per presentare ciò che è indistinto deve differenziarlo, deve esprimere ciò che è simultaneo rappresentandolo nel tempo, e finisce necessariamente per usare mimhvmata a scopo didattico. Il mito racconta il processo di individuazione e produzione 48 La stessa suggestione sulla capacità del mito di raccontare in maniera separata ciò che è sempre unitario e indistinto si ritroverà anche in Salustio (De diis, IV, 9). Può essere interessante notare che il mito platonico, invece, nell’interpretazione di Franco Ferrari, sembra avere una funzione totalizzante rispetto alla frammentazione dell’argomentazione dialettica: «il ricorso al mito è collegato all’esigenza di situare il discorso in una prospettiva globale e, in qualche modo, ‘olistica’: il mito sembra operare una sorta di totalizzazione dell’esperienza»: Ferrari 2006, p. 32; in questo senso si esprime anche Dixsaut 2003, pp. 190195. 49 Per un’interpretazione letterale del passo propendevano invece Plutarco (de anim. procr. in Tim. 1015f1017c) e Attico (frr. 19, 23, 25 Des Places). Per una ricostruzione dettagliata del dibattito antico sull’interpretazione di questo passo del Timeo cfr. il secondo volume di Baltes 1976-78. Cfr. anche più recentemente Falcon 2012, pp. 165-168 e Ferrari 2012, pp. 104-114. 34 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA dell’universo, dell’anima e della materia nel loro determinarsi, come successivi nel tempo, come separati, benché tutto ciò non sia mai stato né generato né separato (Enn. III, 5 [50], 9, 26-28). Ciò è possibile perché il racconto mitico, in quanto mimetico, è sempre relativo ad un modello rispetto al quale esso si pone sì come una copia, ma anche come una rappresentazione; il paradigma è pur sempre conservato, benché diminuito, nel prodotto della rappresentazione, e si fa raggiungibile proprio perché mediato dalla sua immagine; dalla prospettiva plotiniana, se si riesce a cogliere nell’immagine la relazione col suo modello, si valicherà l’immagine e si risalirà al modello. Famoso è l’esempio dei costruttori di statue: essi le costruiscono credendo di poter attirare su di esse la partecipazione e l’influenza degli dèi, ma l’uomo entrato nel tempio, lascia alle sue spalle le statue poste dentro alla cella per cogliere direttamente il modello di quelle immagini (VI, 9 [9], 11, 17-19). La rappresentazione (to; mimhqevn) di una cosa è sempre disposta a subire l’influenza (prospaqev") del suo modello, è come uno specchio capace di coglierne l’aspetto visibile (IV, 3 [27], 11, 6-8). Allo stesso modo, il mito è un’immagine e, in quanto tale, riflette la verità quasi per natura; ma ovviamente non è esso stesso la verità e allora, per giungere ad essa, occorre oltrepassare l’immagine, interpretandola: i miti sono immagini che ai più sapienti rivelano per enigmi (aijnivttetai) la visione degli dèi (VI, 9 [9], 11, 2530). Insomma, la sfera del mito, come quella della metafora, nella quale per esempio rientra tutta la semantica dell’illuminazione, fa il suo ingresso nel sistema filosofico plotiniano nella fase finale del ritorno al Principio, diventa un corollario della teologia negativa, di quella incapacità del linguaggio a raccontare la visione dell’Uno50. Ciò è evidente, per esempio, nel riferimento al mito teogonico della triade Urano-Crono-Zeus di Enn. V, 8 [31], 12-1351. Si tratta di un noto passo dello scritto plotiniano inserito nella descrizione della risalita dell’anima verso la bellezza intelligibile, risalita che si conclude con il ritorno epistrofico all’Uno. Ebbene, il racconto della visione finale è affidato alla finzione mitica della 50 Cfr. Lamberton 1986, p. 90. È un passo molto celebre e che ha suscitato molto interesse tra gli studiosi. Dibattuto è il posto da assegnare a Zeus nella successione delle Ipostasi nascoste dietro alla triade divina. Per una disamina dettagliata della questione rimando a Pépin 1955, pp. 21-27, Hadot 1981a e Hadot 1981b. Vedremo nell’ultimo capitolo come lo stesso mito venga interpretato da Proclo. Cfr. infra § 4.1.3. In generale, per un’interpretazione dei racconti genealogici della mitologia greca arcaica cfr. Philippson 1983, pp. 45-68. 51 35 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO generazione degli dèi: colui che vede descrive l’esperienza dell’unione dell’anima con l’Intelletto attraverso la fagocitazione di Crono dei propri figli, la fuga di Zeus e infine l’incatenamento di Crono. L’anima, che nel vedere il Principio Primo s’identifica con esso, prima vede Crono divorare i propri figli, ovvero l’Intelletto che trattiene in sé l’universo delle Idee; poi vede Zeus che riesce a sfuggire a suo padre, e cioè vede se stessa distinta dall’Intelletto nel momento della processione; infine vede Crono incatenato, ovvero l’Intelletto rivolto verso se stesso e verso la sua fonte, definendo così se stesso e le Idee in esso contenute; la castrazione di Urano allora non è che il chiudersi della generazione infinita che promana dall’Uno52. Come ha giustamente notato Lamberton53, l’adattamento del racconto esiodeo della generazione degli dèi al sistema triadico della metafisica plotiniana, sebbene venga superato dai tardo neoplatonici che pongono gli dèi olimpici nel livello dell’Intelletto piuttosto che in quello dell’Anima, costituisce tuttavia un punto di partenza innegabile per i successivi tentativi di conciliazione tra il mito e la cosmologia neoplatonica. Che il linguaggio mitico sia adatto a parlare di, anzi ad accennare a realtà superiori, Plotino lo scrive anche in un altro passo delle Enneadi. Interrogandosi sulla possibilità che il piacere (hJdonhv) possa avere una relazione con l’intelletto, Plotino risponde dicendo che ce l’ha solo nel senso che ogni attività può essere impedita o meno da una condizione esterna, e che l’attività libera da questo condizionamento è più desiderabile ed è preferita alla prima. Il piacere è dunque mescolato all’intelletto dagli uomini «perché sono in difficoltà nel trovare una denominazione adatta, e forgiano come metafore anche quelle altre locuzioni da noi tanto amate (ta; a[lla ojnovmata par∆ hJmi'n ajgapwvmena metafevronte"54) come ‘ebbro di nettare’, ‘a mensa e banchetto’, ‘il padre sorrise’; e di queste espressioni anche i poeti ne inventano a migliaia»55. I poeti 52 Cfr. Hadot 1981b, pp. 210-211. Cfr. Lamberton 1986, p. 106. 54 Ritroveremo questo termine aristotelico (Rhet. III, 13, 1045b), dal quale deriva appunto il nostro ‘metafora’, anche in Proclo, ad indicare proprio l’utilizzo del medesimo termine in relazione a diverse entità, appartenenti a diversi livelli ontologici della stessa catena seriale. Cfr. infra, p. 226, n. 58. 55 Plot. Enn. VI, 7 [38], 30, 23-29. La traduzione è di Moriani 1997. Si noti come Plotino metta sullo stesso piano, o comunque analizzi negli stessi termini, il mito omerico e il mito platonico. Gli esempi riportati, infatti, sono presi da Platone come dai poemi omerici: rispettivamente Plat. Symp. 203b5, Plat. Phaedr. 247a8 e Hom. Il. V, 426 e XV, 47. 53 36 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA utilizzano termini propriamente riferiti all’esperienza umana per parlare dell’esperienza degli dèi servendosi della metafora, dell’abito allegorico. Plotino si dimostra inoltre aderente alla tradizione arcaica nella sua interpretazione del racconto di Odisseo. Gli unici episodi citati esplicitamente dal filosofo neoplatonico sono quelli di Circe e Calipso, tra i quali non fa distinzione. L’oggetto della riflessione plotiniana è ancora una volta la bellezza, la necessità che to; kalovn sia assolutamente lontano dall’oscurità della materia. Ebbene, la decisione di Odisseo di lasciare Circe e Calipso, nonostante il piacere che esse gli offrivano, diventa un’allegoria dell’anima bisognosa di innalzarsi oltre la dimensione corporea e ritornare, dopo un lungo peregrinare, alla sua patria (Enn. I, 6 [1], 8, 17-20)56. Plotino continua, così, il processo di spiritualizzazione dell’eroe omerico consegnandolo dunque, in linea con la tradizione medioplatonica, direttamente nelle mani di Porfirio. 1.6. Porfirio Se con Plotino, benché in maniera implicita e frammentaria, si fanno avanti dei principi ermeneutici che diventeranno una costante della riflessione procliana, come quello della trasposizione metaforica da un piano semantico all’altro nell’alternarsi dei contesti narrativi, o quello della necessità di adottare il linguaggio mitico per argomenti indicibili, con Porfirio si assiste ad una prima compiuta esemplificazione del procedimento ermeneutico del mito arcaico e ad una più chiara ed esplicita definizione del vocabolario da riferire all’interpretazione omerica. Possiamo pensare che tale novità venga al filosofo dalla sua formazione filologica57; l’Antro delle ninfe, infatti, benché ci sia pervenuto anche in manoscritti autonomi, si inserisce nel più ampio lavoro di commento ai poemi omerici operato da Porfirio a cui sono attribuiti numerosi 56 Lamberton 1986, p. 107 suggerisce che anche in Enn. V, 9 [5], 1, 20-21 Plotino, dopo aver distinto il genere umano tra coloro che non provano a sollevarsi dal mondo sensibile, coloro che ci provano ma non ci riescono e infine coloro che hanno successo e arrivano lì (ejkei'), risalgono al Principio, si riferisca ad Odisseo nel parlare del genere primo degli uomini, quello che riesce ad abbandonare il mondo fisico per arrivare «dopo un lungo peregrinare, nella patria ben governata». 57 Sull’influenza della formazione filologica di Porfirio sul suo metodo ermeneutico si veda Toulouse 2000, in particolare le pp. 37-41. 37 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO degli scoli antichi58. Esso è dedicato per intero all’analisi interpretativa di soli 11 versi dell’Odissea, i versi 102-112 del XIII libro. Sarebbe impossibile sviluppare in poche pagine tutte le suggestioni del testo, ma è importante per noi individuarne i dati essenziali, quelli che ci permettono di seguire un filo rosso che lega l’esperienza medioplatonica a Porfirio e questi alla più vasta e sistematica ermeneusi procliana59. L’opera porfiriana si apre con la questione dell’esistenza reale o fittizia della grotta omerica sulle coste itacesi. Nessuno degli antichi periegeti ha mai descritto un antro del genere, ma pensare ad esso come ad una pura invenzione omerica, quella che in termini tecnici chiamiamo plavsma60, sarebbe come accusare Omero di ajpiqanovth": nel testo si dice infatti di due entrate presenti nella grotta, l’una per la discesa degli uomini, l’altra per il cammino degli dèi, ma nessuno avrebbe mai creduto che un uomo o, se non un uomo, la natura, avesse potuto costruire in terra una porta per gli uomini e una per gli dèi. Lo stesso Cronio61, fonte neopitagorica citata esplicitamente da Porfirio – dichiara la natura enigmatica ed allegorica di tale racconto62, natura evidente, egli dice, non solo ai sapienti ma anche alla gente comune (ijdiwvtai") e che costringe ad indagare (polupragmonei'n63) funzioni e significati dell’intero apparato mitico (3, 1-3). È 58 Sappiamo che Porfirio scrisse le Quaestiones Homericae (sull'Iliade e l'Odissea) che ci sono giunte, a parte il libro I, non completo, sotto forma di scholia trasmessi dai manoscritti omerici. 59 Uno studio ancora fondamentale sul testo porfiriano e sulla maniera del filosofo di leggere Omero è quello di Pépin 1966. Dettagliata è l’indagine sul significato dell’Antro delle ninfe in rapporto al pensiero filosofico di Porfiro proposta da Alt 1996. Per un’analisi accurata dei capitoli 1-4 e 34-46, quelli di cui ci occuperemo in queste pagine, si veda il più recente contributo di Meyer 2007. 60 Il concetto di plasma come ‘invenzione’ risale almeno a Senofane che parla di plavsmata tw'n protevrwn, di «invenzioni degli antichi», a proposito dei miti sulle lotte degli dei (DK 21 B 1, 22). 61 Cron. Test. D 9 Leemans. Su Cronio, figura dai contorni incerti, eJtai'ro" del più noto Numenio, si veda Simonini 1986, p. 89, n. 3. Buffière 1956, p. 423 lo considera, per dimostrare l’origine neopitagorica dell’allegoria metafisico-teologica, modello diretto di Porfirio. 62 ∆Allhgorei'n e aijnivttesqai sono i verbi qui utilizzati, anche questi tecnici: De antr. 3, 2-3. 63 Il verbo polupragmonei'n è vox neutra: un’accezione positiva è quella che lo intende come «affaccendarsi in molte cose», «ricercare», «investigare», mentre negativa è l’interpretazione nel senso di «impicciarsi degli affari altrui», «curiosare». Allo stesso modo il termine corradicale polupragmosuvnh è «attività» (Thuc. VI, 87, 3) ma anche «indiscrezione», «invadenza» (Plat. Resp. IV, 444b2). Interamente incentrato sulla polupragmosuvnh come pavqo" dell’anima è il De curiositate di Plutarco. In 518c lo scrittore di Cheronea così la definisce: «e[sti ga;r hJ polupragmosuvnh filopeustiva tw'n ejn ajpokruvyei kai; lanqavnw"». Segreto e nascosto non è il bene e quindi la curiosità è orientata alla conoscenza dei mali altrui diventando perciò sorella dell’invidia e della malevolenza. Plutarco, però, ammette anche degli usi positivi della p., quella rivolta ejpi; ta; beltivw kai; ta; hJdivw, «a materie migliori e più liete», ed è il caso ad esempio della ricerca medica (518d) o delle scienze naturali (517c-d) o anche dell’amore per la conoscenza (filomavqeia) rispetto al quale la curiosità è ajkmh; kai; stovmwma, punta aguzza da smussare e consumare nelle cose migliori (521a). 38 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA qui subito accennato un elemento tradizionale dell’ermeneutica omerica64, la funzione protrettica dell’allegoria: l’apparente inverosimiglianza del racconto mitico è, per il lettore, stimolo alla ricerca. Analoghe osservazioni ritorneranno, come vedremo, lungo tutto il platonismo, da Giamblico (De myst., III, 15) a Salustio (De diis III; IV) a Giuliano (Or. VII, 216c-d), e infine in Proclo, connotandosi nel tempo di un aspetto esoterico65. Nel risolvere la questione della verità storica dell’antro si fanno allora avanti due elementi messi molto bene in luce da Simonini nel suo ricchissimo commento al testo, elementi che danno una sfumatura nuova alla posizione porfiriana rispetto a quella a lui anteriore66. L’uno è quello della non casualità della composizione mitica e l’altro è il suo carattere mistico. Porfirio chiama a testimone Artemidoro di Efeso il quale confermerebbe, contro il parere ingenuo e superficiale dei più, l’esistenza di un antro sacro alle ninfe sulle coste di Itaca (fr. 55 Stiehle)67. A partire dal noto studio di Pépin sul testo porfiriano, il rapporto storia-allegoria è stato visto come un punto essenziale dell’interpretazione dei miti nel filosofo neoplatonico. Sarebbe impossibile in questa sede ricostruire in dettaglio il dibattito suscitato da tale questione. Possiamo almeno ricordare l’interpretazione più diffusa secondo la quale Porfirio ammetterebbe una relazione forte e necessaria del mito con la realtà, crederebbe in una verità letterale prima che 64 Pépin riconduce tale principio a Posidonio (Pépin 1966, pp. 259-266), ma potremmo risalire fino ad Aristotele e al celebre passo di Met. I, 2, 982b, in cui il mito, essendo meraviglioso, suscita lo stupore, rivela l’ignoranza e spinge alla filosofia, se non addirittura proprio a Platone e al noto passo del Teeteto 155d1-4, in cui la meraviglia è detta essere lo stato d’animo proprio del filosofo e vero cominciamento (ajrch; filosofiva") dell’indagine filosofica. Sulla relazione tra qaumavzein e filosofei'n cfr. Berti 2007, pp. V-VII. 65 Cfr. già Plut. De E apud Delph. 385c-d e Max. Tyr. Or. IV, 5-6. 66 Cfr. Simonini 1986, pp. 92-94, note 6 e 8. 67 Sull’interpretazione letterale e insieme storica del testo omerico si vedano anche Strabone e gli studi al riguardo (Biraschi 1986, in particolare pp. 75, 77). Nel caso specifico dell’antro di Itaca Strabone ritiene sia meglio attribuire l’assenza dell’antro nell’isola «ad uno sconvolgimento naturale piuttosto che all’ignoranza di Omero o ad una falsa relazione dei luoghi secondo l’elemento mitico della sua poesia (I, 3, 18)». Ramelli, nel suo volume già citato (Ramelli – Lucchetta 2004, pp. 205-231), parla di un’esegesi storico-razionalista contrapposta a quella allegorica e sorta in ambiente peripatetico, in particolare con Palefato (II sec. a.C. ?), secondo la quale il mito sarebbe il risultato di un travisamento, una sorta di distorsione fantastica, a fini didattici, di un fatto storico. Strabone è posto dalla studiosa in entrambe le categorie, perché, pur ammettendo un dato storico di base, riportato da Omero polumaqhv", il geografo non rinuncia ad allegorizzazioni fisiche o etiche del racconto mitico. Ramelli non fa alcun accenno a Porfirio, non rientrando negli interessi cronologici del volume, ma potremmo considerare la posizione porfiriana simile a quella di Strabone evitando di accentuare l’elemento storico. Palefato e i palefatiani si contraddistinguono per una mirata polemica contro l’allegoresi stoica; Porfirio invece non rinuncia mai a fare ricorso a questo tipo di allegoria, anche in senso etico. 39 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO allegorica del mito68. Tale posizione sarebbe una novità rispetto alla tradizione allegorica di età imperiale che condannava e abbandonava il senso letterale dei miti omerici, in quanto empi, per rifugiarsi nell’allegoria (An. De subl., 9, 7; Ps.Heracl. All. hom. 1, 1); un’originalità poi condivisa anche da Numenio, Giamblico e dallo stesso Proclo. Negli ultimi anni il confronto con le pagine 75-80 del primo libro del Commento al Timeo di Proclo, dedicate alla lettura del mito platonico di Atene e Atlantide, ha condotto a nuove e stimolanti ipotesi di lettura69. A mio parere, non si può certamente credere, e lo abbiamo visto negli autori precedenti così come sarà evidente anche dall’analisi della posizione procliana, che nella tradizione allegorica tardo neoplatonica non si pensasse alla presenza di un senso apparente, potremmo dire un senso letterale, assolutamente assurdo, e uno, invece, nascosto, autenticamente vero. Allo stesso modo parlare della verità di un dato reale non basta per attribuire a Porfirio un senso storico70 del mito, necessario per salvarlo dall’accusa di ripugnanza e indecenza. Per Porfirio stesso il racconto omerico è ajsafhv" e l’oscurità deve essere resa trasparente perché il lettore apprenda da quelle immagini poetiche il vero significato. Certo è che dalla sua prospettiva, Omero non può aver aggiunto a caso qualcosa alla realtà: il suo è un 68 Pépin 1966, pp. 235-240 argomenta questa sua interpretazione partendo da un passo dell’Adversus Christianos (fr. 69, p. 88, 19-22 von Harnack) in cui Porfirio sostiene che l’interpretazione allegorica di un testo richiede prima di tutto che esso abbia un senso letterale in sé compiuto, chiaro e accettabile, tale che non susciti ripugnanza in chi ascolta: quella ripugnanza e vergogna che, secondo Origene (Contr. Cels. 4, 48), evocano i miti greci presi nel loro senso letterale. Porfirio, riferendosi ad un passo del Vangelo di Giovanni, afferma che «la lettera esala all’ascolto un odore che rovina l’anima sconvolgendola per la ripugnanza, di modo che l’insegnamento nascosto è tutto intero viziato». Nel De antro, secondo Pépin, Porfirio si dimostrerebbe coerente con questo principio perché la preoccupazione che i versi omerici abbiano un riferimento reale coinciderebbe con l’esigenza di salvare il senso letterale del testo da interpretare. Più moderate sono le posizioni di Simonini 1986, p. 94: «Per Porfirio non solo lo sfruttamento allegorico e l’esattezza storica non sono incompatibili, ma la validità della lettera del testo è anzi preliminare a una migliore esegesi allegorica» e di Penati Bernardini 1988, p. 119: «L’unica possibilità perché anche il senso letterale della descrizione omerica abbia valore è che si riferisca ad una realtà di cui già la ‘sapienza antica’ ha riconosciuto la valenza simbolica». 69 Fondamentale al riguardo è il dettagliato commento al testo procliano di Tarrant 2007, in particolare le pp. 60-84 dove lo studioso pone Porfirio tra coloro che intendono il racconto di Crizia un mito senza considerarlo necessariamente vero. Il riconoscere una verità letterale oltre che allegorica di un mito sarebbe infatti una novità tutta giamblichea: «Because earlier thinkers had failed to see the universality of the pattern, and only sought one level at which the narrative would fit some truth, none of them had been in position to see that a symbolic truth does not exclude a literal truth. This was Iamblichus’ invention»: p. 82 (v. Bibliografia. Fonti primarie s. v. Proclo). 70 Tarrant, ibi, p. 64 sostiene correttamente che historia nell’uso procliano riferito al mito di Atlantide non ha il nostro valore di fatto storico, realmente accaduto, ma solo di nudo racconto, esposizione ordinaria di cui non è fondamentale sapere se è vera o falsa, ma che certamente si differenzia dal mito perché non ha un significato nascosto. 40 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA sapere mistico espresso simbolicamente. Anche se il passo omerico è apparentemente oscuro e meraviglioso, è compito dell’interprete ricercarne il valore simbolico «poiché né gli uomini costruirono mai templi senza simboli mistici (a[neu sumbovlwn mustikw'n), né Omero può aver esposto a caso (wJ" e[tuce) il suo racconto su questo soggetto»71. C’è dunque una simbologia nella stessa consacrazione di quell’antro alle ninfe operata dagli uomini e tale simbologia Omero è riuscito a rappresentarla nel suo racconto. Più si comprenderà che la poesia ha un referente reale, per nulla inventato, più il Porfirio filologo riuscirà a cogliere la reale portata semantica, rivelativa di quell’antro, «tesoro di antica saggezza» (th'" palaia'" sofiva" plh're" to; ajnavqhma, 4, 18). Assolutamente originale è anche il metodo esegetico utilizzato dal filosofo di Tiro nel suo scritto. Pépin lo definisce «pluralisme calculé»72: se Praechter73 ne aveva già messo in evidenza la forte polivalenza simbolica, per cui allegoria fisica, morale, teologica vengono a sovrapporsi molto frequentemente nella lettura del medesimo dettaglio narrativo, Pépin pone l’attenzione sulla piena consapevolezza di Porfirio di tale pluralismo. Tale criterio esegetico – spiega lo studioso francese – si oppone a quello di Giamblico, Siriano e Proclo, per i quali ogni dialogo platonico è definito da un’intenzione propria (skopov"). È questa un’esegesi unitaria in cui ogni dettaglio è interpretato all’interno di una serie di livelli gerarchici (metafisico, matematico, fisico, etico), ma ciò non vuol dire anarchia del metodo porfiriano, disordine di fronte all’ordine rigoroso dei tardo neoplatonici. Porfirio semplicemente non dà preferenza all’una o all’altra lettura, non ha l’urgenza di inquadrarle tutte in un unico sistema interpretativo. Tale differenza era già avvertita dagli antichi: nel Commento al Timeo Proclo sintetizza i due diversi procedimenti ermeneutici definendo quello di Porfirio più particolare (merikoteron), quello di Giamblico più universale (epoptikoteron): uno è analitico, l’altro sintetico, ma entrambi – sottolinea il filosofo – danno un’interpretazione conforme all’argomento del dialogo (th/' pavsh/ tou' dialovgou 71 Porph. De antr. nymph. 4, 14-16. Pépin 1966, p. 246. 73 Praechter 1910, pp. 127-128. 72 41 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO proqevsei suvmfwnon ajpevfhsan)74. Nella parte finale del suo testo, inoltre, anche Porfirio usa esplicitamente il termine skopov", a proposito della lettura allegorica di Cronio e Numenio: egli sottolinea la forte intenzionalità da cui gli interpreti omerici che lo hanno preceduto erano mossi, l’orientamento con cui essi avrebbero letto l’Odissea, interpretando i viaggi di Odisseo e il suo ritorno in patria come la discesa dell’anima nella generazione e il suo ritorno alla vera patria, quella del mondo intelligibile75. Secondo Pépin, tale osservazione da parte di Porfirio dimostrerebbe che il filosofo neoplatonico era già a conoscenza di questo metodo esegetico che in realtà, come hanno poi dimostrato anche i più recenti studi di Jaap Mansfeld, i filosofi della tarda antichità mutuano dalla filologia ellenistica e condividono con l’ermeneutica cristiana76. Al di là del metodo utilizzato, a questo punto dobbiamo individuare le tracce di ermeneusi tutta neoplatonica segnate da Porfirio in questo testo e che sono da considerare un momento di svolta importante nell’interpretazione di Omero. Nei capitoli 15-19 del De antro Porfirio deve spiegare la strana presenza di favi piuttosto che di acqua nei crateri e nelle anfore di pietra che adornano la grotta. Il miele, spiega il filosofo, è un simbolo molto utilizzato dai poeti, perché possiede molte e diverse funzioni. In particolare esso ha un potere catartico e curativo. Viene utilizzato nei riti iniziatici della religione mitraica per purificare il musthv" da ogni errore o colpa ed è farmaco usato per detergere e mantenere pulite piaghe croniche. A questo punto l’interprete introduce una breve digressione sulla teogonia della triade Urano-Crono-Zeus, come ormai ci aspettiamo, che presenta interessanti elementi che ritroveremo nella lettura allegorica proposta da Proclo. Il filosofo neoplatonico fa riferimento ad una tradizione orfica (Orph. Fragm. 137, 148, 149, 154 Kern) – come abbiamo visto nota già a Plotino – che, discostandosi 74 Procl. In Tim. I, 204, 24-27 ed. Diehl. Per un’analisi accurata di tale passo procliano si veda Pépin 1974 che rintraccia una possibile fonte di tale distinzione dei due metodi esegetici in Plat. Symp. 209e-210a. 75 Si tratta di Porph. De antr. nymph. 34, 13–20 = Num. fr. 33 Des Places = test. 45 Leemans. 76 Già Pépin fa risalire ad Origene l’uso di schemi introduttivi nel commentare alcuni libri biblici e soprattutto del termine skopov" (Orig. De princ. IV, 2, 9): cfr. Pépin 1966, p. 249. A Mansfeld si deve il noto studio dedicato alla produzione isagogica della filosofia neoplatonica; qui egli dimostra come gli schemata isagogica alla trattazione di un autore e della sua opera, sebbene siano stati definiti in maniera sistematica da Proclo, costituiscano una modalità esegetica pre-giamblichea e soprattutto condivisa, prima che con l’ambiente cristiano, anche con quello filologico-letterario (esempi se ne trovano nell’introduzione o edizione dei Phaenomena di Arato, nell’introduzione a Virgilio di Elio Donato) e tecnico-scientifico (per esempio nei commenti galenici alle opere mediche di Ippocrate e in quelli tardo-antichi alle opere retoriche di Ermogene): cfr. Mansfeld 1994, pp. 10-57. 42 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA in parte dalla teogonia esiodea77, raccontava di un Crono legato da Zeus e castrato come Urano. Prima di legare suo padre, Zeus, su suggerimento della Notte, divinità del pantheon orfico dai poteri profetici e nomotetici, lo avrebbe, però, ubriacato di miele78. In realtà Orfeo, attraverso l’immagine del miele non faceva che ricorrere ad un simbolo – spiega Porfirio – ad un velamento allegorico, e, raccontando per enigmi (tou' qeolovgou aijnissomevnou), parlava di una divinità soggiogata dal piacere e perciò indotta a spargere il suo seme, le sue forze generatrici (katavgesqai ta; qei'a eij" gevnesin ajpospermativzein te dunavmei" eij" th;n hJdonh;n ejkluqevnta, De antr. nymph. 16, 11-13). «Per i Teologi la dolcezza del miele, con la quale Crono viene tratto in inganno per essere poi castrato, rappresenta il piacere che deriva dall’unione sessuale, th/' ejk sunousiva" hJdonh/', 16, 14-15». Per lo stesso motivo Urano era stato castrato da Crono proprio nell’atto di unirsi a Gea. Il miele, dunque, viene utilizzato anche come «simbolo della forza seduttiva del piacere che induce alla generazione, ejpi; ãth'" di∆à hJdonh'" eij" gevnesin katagwgh'" oijkeion suvmbolon, 17, 20-21»79. L’episodio di Crono incatenato diventa allora allegoria del rapporto anima-corpo, di quel soggiogamento al piacere che è preliminare alla gevnesi", alla discesa nel corpo dell’anima, avvinta dal desiderio di cui è simbolo il miele80. Abbiamo già parlato dell’interpretazione del viaggio di Odisseo come discesa dell’anima nella generazione, nel mondo della materia: interpretazione questa numeniana, ma affidata comunque alla tradizione porfiriana. È Porfirio a riportarci le parole di Numenio e a queste manifesta il suo consenso, il suo accordo. Quasi in chiusura alla sua lunga indagine sul passo odissiaco, Porfirio spiega allora il significato di quel suvmbolon che a suo parere il poeta aveva aggiunto misticamente e che dava unità all’intero enigma dell’antro: l’olivo, la 77 Cfr. Hes. Theog. 453-506. Il motivo orfico della castrazione di Crono viene ricondotto alla Teogonia di Eudemo da West 1983, pp. 68-69, 134 ss. Dell’incatenamento parla anche Taziano nel suo Discorso ai Greci (IX, 10, 23-26). Cfr. Bos 1991, pp. 103-105. 79 Si fa notare con Simonini che fin da Omero l’erotismo, le arti e i modi della seduzione, i doni di Afrodite sono definiti «mielati» (meivlica), dolci come il miele: Simonini 1986, pp. 162-163, n. 61. 80 Come ha giustamente sottolineato Simonini tutto ciò è espresso nel testo dal verbo dei'sqai propriamente «essere legato»; nella lingua mistica di Orfici e Pitagorici l’espressione per definire l’unione dell’anima al corpo è appunto dei'sqai th;n yuch;n eij" to; swvma e Porfirio nella Lettera a Marcella (33, 78) scrive: «se saremo superiori al fascino dei piaceri sessuali e del corpo noi avremo legato ciò che lega». Vd. Simonini, ibi, pp. 163-164, n. 61. 78 43 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO pianta presso cui si chiude il viaggio dell’eroe omerico. Ancora una volta egli tiene a sottolineare come non potrebbe essere casuale la presenza, proprio in capo al porto, di quella pianta, sacra ad Atena81 e perciò simbolo di sapienza82. «Poiché la dea è nata dalla testa del padre, il teologo (oJ qeolovgo") pensò che il luogo adatto per l’olivo fosse consacrarlo in capo al porto»83. Si assiste così ad una geniale ricostruzione del mito attraverso la quale la poesia si fa della struttura dell’universo e del suo principio. L’antro è immagine del cosmo, è creazione di un’intelligenza superiore, eterna e da essa separata; in quell’olivo si trova rappresentato il principio demiurgico del sistema metafisico neoplatonico. C’è una perfetta coincidenza tra quella pianta e il demiurgo: come l’olivo è pianta sempreverde e dono dei vincitori e dei supplici, così la potenza creatrice del cosmo è natura intelligente e saggezza eterna e sempre fiorente, distribuisce i premi della vittoria agli atleti della vita e il rimedio che dà sollievo alle infinite pene; come quella pianta abbraccia e dà unità all’intero antro (aujth; sunevcousa tou' a[ntrou to; ai[nigma, 32, 20), così «colui che solleva e attrae a sé i supplici e i compassionevoli è il demiurgo che tiene il cosmo unito e coerente (oJ sunevcwn to;n kovsmon dhmiourgov", 33, 6-7)». Ciò che però è davvero una novità del filosofo di Tiro è raccontato nel penultimo capitolo del testo. Si tratta dell’interpretazione dell’accecamento di Polifemo da parte di Odisseo. In Porfirio tale episodio diventa la chiave interpretativa dell’intera Odissea. Ciò è assolutamente un unicum. Nel capitolo 35 del De antro Porfirio pone l’attenzione sul dio del mare Phorkys cui è dedicato il porto di Itaca dove, appunto, si trova l’antro. Il filosofo ricollega questo passo dell’Odissea (XIII, 96) ai primi versi del I libro (69-75) dove Omero spiega che Odisseo si trova in preda ai furori del mare per aver accecato Polifemo, figlio della ninfa Thoosa, figlia a sua volta del signore del mare Phorkys. Giunto ad Itaca, Odisseo deve perciò recarsi alla grotta, sedersi sotto l’ulivo posto sul punto più alto dell’antro e chiedere consiglio ad Atena. Questa scena diventa fortemente 81 Il legame della dea con l’olivo nasce dall’episodio della contesa di Atena con Poseidone per il possesso dell’Attica, in cui si narra che essa fece scaturire dal suolo il primo olivo: cfr. Apoll. Bibl. III, 14, 1. 82 Porfirio allude qui alla nascita di Atena dalla testa di Zeus (cfr. Hes. Theog. 886-900; Hymn. Hom. 28, 4 ss.; Orph. Fragm. 174; 176 Kern); la dea è perciò simbolo di saggezza: cfr. Porph. fr. 8, p. 14, 17 Bidez e Procl. In Tim. I, 159, 26 ed. Diehl. 83 Porph. De antr. nymph. 32, 24-25. 44 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA significativa per Porfirio. Odisseo ha dovuto fuggire alle onde, alle tempeste marine simbolo della materia, del mondo sensibile. Per farlo, però, non è bastato – scrive Porfirio – accecare Polifemo, cioè uccidere quella parte passionale, materiale che è in ciascun uomo84. Bisognava calmare gli animi degli dèi con dei sacrifici, lottare contro le passioni, e alla fine, sedersi presso quell’ulivo, simbolo di saggezza, pianta dedicata ad Atena nata dalla testa di Zeus e arrivare così, grazie a questa contemplazione, presso gli uomini che non conoscono il mare, tanto da confondere un remo con una vanga. L’anima si è completamente allontanata dalla materia; Odisseo assiso in contemplazione è l’anima che chiede consiglio alla sapienza per liberarsi delle passioni umane. Tale immagine è sintesi di profondi temi dell’etica neoplatonica; diventa, infatti, simbolo della risalita dell’anima, distaccatasi dalla materia, verso l’intelletto dalla cui sapienza apprende la conoscenza della verità intelligibile85. Racconto mitico e senso nascosto come strumenti ermeneutici rivelativi della metafisica neoplatonica divisa nei suoi livelli gerarchici si configurano adesso e si svilupperanno più tardi e definitivamente nella rinata Scuola di Atene. Porfirio chiama esplicitamente e per la prima volta Omero qeolovgo"86 : il poeta arcaico è 84 Cfr. Porph. De antr. nymph. 35, 21-25. Secondo Lamberton dietro a questa interpretazione, antesignana a suo dire di un’indagine psicanalitica ante litteram, starebbe un’allusione al suicidio come tentativo estremo dell’uomo di liberarsi dalla materia; Porfirio alluderebbe con questa sua lettura del poema omerico alla sua stessa esperienza di vita, al suo tentato suicidio: Lamberton 1992, p. 129. 85 Odisseo «è l’uomo alla ricerca della salvezza, frutto di ascesi, conoscenza e azione; […] il ritorno in patria è il ritorno a sé, all’unità della dispersione corporea. Ma la salvezza implica anche theōria, ‘contemplazione’ dell’essere e dell’intelligibile, al fine supremo di assimilarsi a Dio. […] E allora il filosofo riceverà le istruzioni concernenti la vita eterna: come Odisseo che, nudo, ritornato alla sua vera essenza, riceve istruzioni da Atena ‘saggezza divina’»: Simonini 1986, p. 249. Proclo nel suo Commento al Parmenide arriverà a paragonare il momento ultimo del movimento dialettico del pensiero, la visione della verità con cui si conclude il viaggio ascensivo dell’anima, alla conclusione salvifica delle fatiche di Odisseo: «[…] e questo è il mistico ricovero dell’anima (oJ mustiko;" o{rmo" th'" yuch'"), cui il poema (hJ poivhsi") conduce Odisseo al termine del molto errare della sua vita, e al quale anche noi, se vogliamo essere salvati, dobbiamo dirigere noi stessi»: In Parm. V, 1025, 33-37 ed. Cousin. Cfr. anche Herm. In Phaedr. 214, 19-24 ed. Couvreur. 86 Cfr. Porph. De antr. nymph. 32, 25. Per una ricostruzione dei precedenti classici dell’uso di tale nome a proposito della poesia omerica si leggano le pagine 22-31 di Lamberton 1986. È, però, opportuno notare che nessuno degli autori ‘pre-neoplatonici’ citati da Lamberton ha mai direttamente attribuito il titolo di qeolovgo" ad Omero. Il volume di Lamberton ricostruisce così la divinizzazione di questo poeta avvenuta soltanto in ambiente neoplatonico. Secondo lo studioso la ripresa di Omero da parte dei neoplatonici, il loro tentativo di far coincidere i poemi omerici con le idee sulla natura del divino e del reale della tradizione platonica è da ricondurre a due motivazioni fondamentali: da un lato riscattare la reputazione di Omero quale baluardo della cultura pagana greca dimostrando invece che i suoi racconti e la realtà da essi rappresentata fossero assolutamente compatibili con quello che Lamberton chiama «contemporary idealist thought» (p. VIII); dall’altro lato, sfruttare il prestigio di Omero a supporto delle dottrine tardo neoplatoniche. 45 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO autore di verità somme; la sua intelligenza «e la sua perfezione in ogni virtù gli hanno consentito di nascondere l’immagine di realtà più divine sotto la finzione di una favola (ejn muqarivou plavsmati eijkovna" tw'n qeiwtevrwn h/jnivsseto» (36, 10-12)87. 1.7. Giuliano e Salustio Se di Giamblico non abbiamo attestazioni di un particolare interesse per la poesia arcaica, possiamo almeno citare alcune riflessioni proposte da due esponenti avvicinabili al suo entourage: Giuliano e Salustio. Sebbene non vi si possa riscontrare una vera e propria lettura esegetica di testi omerici, in essi il mito si fa oggetto di riflessione in quanto strumento di conoscenza sugli dèi. Di Giuliano Lamberton riconosce un atteggiamento contraddittorio, dovuto alla sua esigenza di affermare la cultura pagana contro l’espansione del Cristianesimo che mal si accordava con la necessità di un’interpretazione allegorica del mito che ne limitava la divulgazione. Profondo conoscitore di Omero a cui era stato educato dal suo tutore Mardonio, Giuliano lamenta l’oscurità dell’insegnamento poetico e, alla maniera platonica, diffida della possibilità che il senso nascosto sotto il racconto apparentemente turpe del mito possa essere colto da un pubblico più vasto, per esempio dai più giovani (Or. II, 74d-75a; Or. VII, 206c-207d)88. Eppure in orazioni come quella Contro il cinico Eraclio (Or. VII) e il Discorso alla madre degli dèi (Or. IX) l’imperatore filosofo teorizza quella che è stata definita una vera e propria filosofia del mito89. Nella Contro Eraclio Giuliano individua due categorie di mito: esistono miti iniziatici e miti etici. Questi ultimi sono destinati all’educazione dei giovani e possono fare da sostegno a quella parte della filosofia che si occupa della vita pratica. Il mito iniziatico, invece, sembra essere quello di maggiore interesse per il nostro discorso. Come ci si aspetta da un 87 Il tentativo di creare un’armonia tra la poesia arcaica e la filosofia platonica in Porfirio potrebbe essere inserito nel più esteso progetto di unificazione di tutta la cultura pagana, a partire dall’accordo tra Platone e Aristotele che si avvia proprio con il filosofo di Tiro, da opporre a quella cristiana. Per l’accordo tra platonismo e aristotelismo cfr. Karamanolis 2006 e in particolare, per il ruolo di Porfirio, le pp. 243-330. 88 Sulla condanna razionalistica all’uso del mito in Giuliano scrive anche Vernière 1978. 89 Su questo argomento si diffonde il recente studio di De Vita 2011: si vedano in particolare le pagine 107-120, nelle quali la studiosa, seguendo Foussard 1978, dimostra come il mito diventi in Giuliano di supporto alle sue espressioni filosofiche in ambito metafisico-teologico e antropologico. 46 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA allievo di Giamblico, è la teurgia ad attirare l’attenzione: il mito e l’arte ieratica cominciano a sovrapporsi in una concezione della poesia che si fa rito misterico. Si ritrova la tradizionale teoria del velo figurativo, dell’invenzione mitica come parapevtasma, schermo protettivo con funzione esoterica delle verità somme, protette dalla gente comune incapace di valicare il senso apparente, e destinate invece agli iniziati; ritroviamo il valore protrettico del meraviglioso, dell’apparentemente straordinario, anche mostruoso, capace di risvegliare la curiosità di cercarvi un senso più profondo. Giamblico, sulle cui tracce Giuliano dichiara di porsi (Or. VII, 217a), aveva già trasferito in ambito religioso il concetto di funzione protrettica della poesia: gli enigmi della divinazione sono, secondo lui, destinati a scuotere l’apatia dell’intelligenza umana verso acutezze più grandi (De myst. III, 15, 136, 8-10). Così accade anche in Giuliano: interpretare il mito oltrepassando la finzione narrativa può avvenire solo a condizione che l’indagine sia condotta sotto la guida degli dèi (Or. 8, 170a-b). Dietro questa precisazione è evidente, allora, il potere rivelativo che oramai la pratica teurgica affida agli iniziati alla scuola platonica post-giamblichea. La dimensione religiosa, teologica del mito si fa sempre più dominante: l’esegeta, nel suo lavoro interpretativo, deve farsi guidare direttamente dagli dèi, da chi è più in alto per poter apprendere direttamente da essi la verità, proprio come accade in un rito teurgico90. Nello stesso filone giamblicheo va inserita anche l’opera di un filosofo di IV secolo, autore di un volumetto particolarmente interessato ai risvolti religiosi della filosofia e della teurgia tardo neoplatoniche: si tratta di Salustio, autore della cui identità ancora si discute91, e del suo De diis et de mundo. I capitoli III e IV di questo scritto sono dedicati al mito, senza che venga mai citato Omero. Si tratta di pagine ancora poco indagate92, ma ricche di spunti anche molto vicini, come vedremo, all’argomentazione procliana a partire proprio dall’inizio della 90 «[La filosofia] si esprime attraverso il mito … e al tempo stesso procede oltre il mito: attraverso l’esegesi allegorica il repertorio delle leggende tradizionali è infatti ‘purificato’ dagli elementi irrazionali o moralmente discutibili, sì da giungere – almeno nelle intenzioni dell’autore – ad una riconfigurazione complessiva del pantheon greco-romano ed orientale»: De Vita 2011, p. 120. 91 Egli viene identificato o con Flavius Sallustius, prefetto del pretorio sotto Giuliano, o con Saturninus Secundus Salutius, consigliere di Giuliano e prefetto dell’Oriente. Le fonti greche tramandano per entrambi i comandanti il nome Salouvstio". Sulla questione cfr. l’appendice di Clarke 1998, pp. 347-350. 92 Si può trovare una disamina più dettagliata in Clarke 1998. 47 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO trattazione. Salustio infatti comincia il suo saggio, senza citarli esplicitamente, dagli schemi teologici di Resp. II, 379a-381b: gli dèi sono sempre buoni, immuni da sentimenti ed emozioni, e non mutano mai (De diis I, 6-7). Le divinità dei miti arcaici non sono così come gli dèi debbono essere, questo perché sono nascosti sotto veli allegorici. La natura divina dei racconti mitici è garantita dal fatto che «quelli ispirati tra i poeti e i migliori dei filosofi» raccontano miti (De diis, III, 2223), così come lo fanno i fondatori dei riti e gli dèi stessi quando parlano per oracoli. Dunque è chiaro che il filosofo pone i miti di Platone sullo stesso piano di quelli di Omero, così come associa la poesia ai misteri e agli oracoli, assolutamente in linea con la nostra traccia platonica iniziata con Numenio e Porfirio e giunta fino alle porte del tardo neoplatonismo. Nel quarto capitolo Salustio propone un’interessante classificazione dei miti, senza però approfondirla ulteriormente. Egli distingue tra miti teologici, fisici, psichici, materiali e misti. I teologici sono rivelatori di verità sugli dèi e sono quelli appropriati ai filosofi; quelli fisici sono relativi alla natura e all’universo e, insieme ai miti psichici, relativi appunto all’anima, si addicono ai poeti; quelli misti sono propri dei misteri, dal momento che ogni iniziazione cerca di stabilire per l’uomo una relazione sia con l’universo che con gli dèi93. Nel trattare il mito esiodeo di Crono che divora i suoi figli, in realtà, egli mostra di inserirlo prima nei miti teologici, poi in quelli di carattere misto94, così come accenna al giudizio di Paride come ad un mito misto con molteplici livelli di significati; non è dunque molto chiaro perché consideri i miti adatti ai poeti quelli che parlano della natura e dell’anima. In realtà sembra che tale distinzione concerna le diverse interpretazioni dello stesso mito, come se ogni mito, preso nella sua totalità o in ciascuna delle sue parti, potesse ammette i diversi tipi di allegoria e quindi essere interpretato in relazione agli dèi, alla natura, all’anima e alla materia95. Resta comunque stabilita la connessione tra mito e verità, tra discorso poetico e discorso filosofico, tra tradizione arcaica e teologia. 93 Cfr. Sal. De diis, IV, 23-26. Come si vede anche Salustio si confronta con questo mito davvero cruciale per la tradizione omerica e in fondo arriva a dirlo anche più legato alla natura dell’universo perché l’attività degli dèi si esercita sempre sulle cose dell’universo. Esso invece potrebbe essere considerato teologico perché ogni dio è noetico e ogni intelletto contempla se stesso, finendo dunque per parlare dell’essenza degli dèi. Cfr. Lamberton 1986, p. 141. 95 Cfr. Pépin 1966, p. 250. 94 48 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA 1.8. La scuola di Atene Siamo così arrivati all’ultima tappa del nostro rapido excursus nel passato di Proclo. Ebbene, l’orientamento teologico dell’ultima tradizione platonica, quella dell’Atene di V-VI secolo d.C., alimenta l’interesse per le antiche tradizioni teologiche greche, tra queste le dottrine pitagoriche e orfiche, tanto da spingere un insigne studioso del neoplatonismo quale è Henri Dominique Saffrey a parlare nel 1992 del «retour aux sources» come di un vero e proprio aspetto della filosofia neoplatonica meritevole di attenzione96. Sebbene si percepisca nell’analisi dello studioso francese un’eccessiva attenzione all’esperienza ateniese, a discapito della storia medioplatonica, neoplatonica – soprattutto porfiriana – che, come abbiamo visto, era già orientata verso la costruzione di una sinfonia filosofica e panellenica97, è pur vero che la teologizzazione dell’opera platonica si compie in maniera definitiva proprio ad Atene con Proclo e che una serie di titoli, anche di opere purtroppo perdute, attesta effettivamente un fervido impegno degli esponenti di V secolo nella realizzazione di tale accordo tra saperi arcaici e filosofia platonica. Il primo autore di riferimento è un allievo di Plutarco fondatore della Scuola platonica, Ierocle, filosofo poi attivo ad Alessandria, al quale Fozio nella sua Biblioteca (codd. 214 e 251) attribuisce un’opera dal titolo Sulla provvidenza, il destino e la relazione tra la libertà e il governo divino. Da Fozio apprendiamo che nel quarto libro di questo trattato l’autore mira a mettere d’accordo (eij" sumfwnivan sunavgein) con la filosofia platonica i cosiddetti Oracoli caldaici98; 96 Cfr. Saffrey 1992a, p. 157. È opportuno sottolineare che le pagine di Saffrey sono dedicate soprattutto al recupero della tradizione orfica e caldaica mentre sono passate sotto silenzio tutte le esperienze di reinterpretazione di quella omerica. 97 Scritti importanti sulla presenza orfica e pitagorica nel neoplatonismo, già a partire da Porfirio, sono Lewy 1978 e O’Meara 1989. 98 Con questo titolo si designa una raccolta di citazioni o echi lessicali in autori neoplatonici e cristiani attribuiti a Giuliano il Caldeo e/o Giuliano il Teurgo, suo figlio, figure dai contorni molto incerti e vissute sotto l’imperatore Marco Aurelio. Secondo la tradizione essi avevano composto tali oracoli direttamente ispirati dagli dèi o dall’anima di Platone. La loro influenza sulla tradizione platonica fu decisiva a partire da Giamblico. Su questo testo, che costituisce una sorta di teogonia in esametri, fondamentali sono il volume, ormai classico, di Lewy 1978 e le edizioni di Des Places 1971 e Majercik 1989. Cfr. anche più recentemente Van Liefferinge 1999 e Seng - Tardieu 2011. 49 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO mentre nel quinto egli avrebbe collegato i dialoghi del filosofo ateniese ad Orfeo, ad Omero e a tutti gli altri poeti-filosofi conosciuti prima dell’arrivo di Platone99. Dall’epitome foziana si evince dunque che Ierocle condivide a pieno il progetto di realizzare una sumfwniva tra i saperi arcaici e la filosofia platonica portato avanti da Siriano e Proclo, anch’essi, come si sa, allievi di Plutarco. Tale progetto prevedeva la costruzione di una teologia in forma scientifica in cui trovavano spazio tutte le divinità tradizionali insieme con i principi filosofici rinvenibili nei dialoghi platonici. Di Proclo, come si sa, è l’opera somma del neoplatonismo, la Teologia Platonica, scritto enciclopedico nel quale il filosofo dimostra proprio come tutto quanto si possa dire sull’ordinamento divino si trovi scritto prima che altrove nell’intero corpus platonicum100. A Siriano, dunque, come a Proclo, il lessico Suida attribuisce un’opera perduta dal titolo Accordo tra Orfeo, Pitagora, Platone e gli Oracoli caldaici101, così come dall’In Timaeum (I, 95, 26-31) di Proclo sappiamo che il suo maestro compose uno studio dal titolo Luvsei" tw'n ÔOmhrikw'n problhmavtwn, di chiaro interesse filologico-ermeneutico sui poemi omerici. Di Siriano però, nonostante il suo riconosciuto ruolo di prim’ordine all’interno della Scuola – ne fu infatti scolarca dal 431/2 al 437/8 – leggiamo purtroppo veramente poco, ovvero una parte di un commento alla Metafisica e le note al Fedro redatte dal suo allievo Ermia102, oltre che preziosi commenti alle opere retoriche di Ermogene103. Nel 99 Cfr. Phot. Bibl. cod. 214, 173a13, 18. Su questo testo perduto di Ierocle cfr. Hadot 1978, pp. 67-72. Un prezioso percorso di lettura e analisi dell’opera, capitolo per capitolo, è fornito da Abbate 2008. Si può trovare una disamina delle fonti della tradizione platonica cbe individuano i termini di una scienza teologica nel prezioso volume di Dörrie – Baltes – Pietsch 2008. 101 Cfr. Suidae Lexicon s.v. Provklo", vol. IV, p. 210, 12-13 e s.v. Surianov", vol. IV, p. 479, 1-2. La testimonianza del lessico bizantino sulle opere di Proclo e Siriano è molto problematica, poiché attribuisce al maestro e al suo allievo titoli quasi sempre identici soprattutto rispetto ai loro lavori sulla tradizione arcaica, tra i quali quello sopra citato. Ciò ha fatto pensare ad un errore di interpolazione tra le due schede, ora a favore di Proclo, vero autore di queste opere, (è la posizione di Zeller 1903, pp. 700-705), ora invece a favore di Siriano (è la posizione di Praechter 1926; cfr. anche il suo contributo in RE 1932 coll. 1728-1775 s.v. Syrianos 1.). Tenendo conto delle modalità compositive delle opere esegetiche, a volte prodotte sotto forma di scoli a commenti già esistenti (cfr. Mar. Vita Procl. 27), si tende più recentemente a non ritenere così improbabile il fatto che Proclo e Siriano siano autori di opere di argomento affine, di cui l’una rappresenterebbe lo sviluppo dell’altra: cfr. Sheppard 1980, p. 46 e Saffrey 1984, p. 169, n. 28. Per una messa a punto della questione cfr. Manolea 2004, pp. 42-45. 102 Sulla paternità e la natura compositiva dell’In Phaedrum si è prodotto un fervido dibattito. Nel 1909 Praechter ha dimostrato che il testo, tramandato sotto il nome di Ermia, non è altro che una raccolta di appunti ajpo; fwnh'", presi da Ermia alle lezioni di Siriano sul dialogo: Praechter 1909. Negli ultimi anni invece Moreschini ha tentato di difendere, anche contro il giudizio riduttivo degli antichi (cfr. quanto Fozio dice di Damascio in Bibl. cod. 242, 74), l’originalità speculativa di Ermia e quindi la sua indipendenza dalla 100 50 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA Commento alla Metafisica egli fa sovente accenno a fonti orfiche e pitagoriche con le quali non esita a dimostrare il pieno accordo della dottrina platonica; esse, anzi, diventano motivo delle accuse mosse ad Aristotele, colpevole di non aver seguito, come invece fece Platone, la sapienza arcaica104. Esemplare del metodo allegorico utilizzato in chiave metafisica è però l’interpretazione dell’intera guerra di Troia proposta dallo Scolarca di Atene105. Ne abbiamo una testimonianza nel Commento al Fedro (77, 9 – 78, 3): utilizzando il metodo etimologico Siriano parla di Troia come della città della materia, facendo derivare [Ilion da ijluv" «melma», «fango» e da u{lh106, «materia» appunto; i Troiani sono le anime irrazionali immerse nella materia (ta; e[nula ei[dh), e sono chiamati ijqageneve", termine probabilmente legato alla gevnesi"; i Greci, invece, sono le anime razionali (aiJ logikai; yucaiv), coloro che vengono dal mondo intelligibile, la Grecia, e sono chiamati ejphvlude" perché scendono nella materia ma, a differenza dei Troiani, sanno sollevarsi verso la bellezza intelligibile107. Elena, infatti, è simbolo della bellezza intelligibile e il suo nome è riferito a eJlenovh108, «hJ ejfelkomevnh eij" aujth;n to;n nou'n», colei che attira a sé l’intelletto. La guerra di Troia è dunque il combattimento delle anime sulla terra intorno alla bellezza, rappresentata da Elena. Tra queste anime discese nel mondo sensibile, alcune restano affascinate unicamente dalle belle forme corporee, incapaci come sono di elevarsi al di sopra della materia; altre si elevano fino alla vera bellezza, nutrimento non più degli occhi e dei sensi, ma dell’intelligenza, anime logiche che vivono della vita superiore del pensiero109. produzione sirianea: cfr. Moreschini 1992 e Dickie 1993, pp. 436-438. Posizioni tradizionali sono quelle di Cardullo 1995, pp. 26-28 e Manolea 2004, pp. 55-56 che includono il Commento al Fedro tra le opere di Siriano. Per una ricostruzione della letteratura critica sull’argomento cfr. Moreschini 2009, pp. 515-578. 103 Sui commentari sirianei alle opere di Ermogene ritorneremo nel terzo capitolo, § 3.6.1 infra. 104 Cfr. Syr. In Met. p. 60, 28; 83, 12 ed. Kroll. 105 Per una puntuale analisi di tutti i luoghi sirianei in cui viene rievocata e commentata la tradizione omerica cfr. Manolea 2004. Cfr. anche Manolea 2009. 106 Già Giamblico lega u{lh a ijluv" (De myst. VII, 2). Lamberton ipotizza anche che ormai l’adozione dello iotacismo aveva eguagliato la pronuncia del nome della città con quello della materia: Lamberton 1992, pp. 131-132. 107 La vittoria dei Greci sui troiani era interpretata in prospettiva etica già dagli stoici: cfr. Buffière 1956, p. 412. 108 Quello di Siriano sembra essere un hapax; eJlenovh non si trova nel LSJ. Si può trovare un caso precedente di analisi etimologica del nome della figlia di Tindaro in Aesch. Agam. 689, dove esso viene collegato a ejlevna", e[landro" «distruttrice di navi, colei che prende gli uomini». 109 Proclo riprende tale allegoria della guerra troiana in termini simili in In Remp. I, 175, 16 – 176, 5: anche lui, come vedremo nel § 4.2.1 infra, spiega il conflitto combattuto a causa di Elena come la lotta 51 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO Infine, dobbiamo citare un altro passo dell’In Phaedrum per noi particolarmente interessante: nel commentare il luogo del dialogo in cui Platone dice che nessun poeta ha mai cantato degnamente il luogo sopraceleste (247c3-4), Siriano ammette che ciò è vero se si tratta dei poeti umani del mondo sensibile, ma i poeti ispirati dagli dèi, Orfeo e Omero, Esiodo e Museo hanno cantato in maniera conveniente le vite degli dèi, essendo stati istruiti direttamente da Apollo e dal coro delle Muse110. Vedremo come tutto ciò acquisirà un peso enorme in Proclo, che tanto deve al suo maestro – nella sesta Dissertazione egli accenna più volte, infatti, agli insegnamenti di Siriano su questi stessi argomenti111. Omero diventerà finanche maestro di Platone e la loro scrittura sarà la rivelazione della stessa verità proprio perché entrambe ispirate dagli dèi. Quando le divinità omeriche cominciano ad essere tanto lontane da non sembrare più autentiche, da generare uno scarto razionale nel fruitore della Grecia della scrittura, Omero diventa un poeta da salvare112. Sopravvissuto grazie al razionalismo alessandrino, all’allegoria delle letture dei filologi, ritorna a vivere nelle vesti rituali del misticismo dell’ultima Scuola di Atene. I suoi dèi sono rappresentazioni visibili della più alta verità. È necessario recuperare quello stadio archetipale in cui da Omero si apprendeva a pregare, per dare a Platone la medesima autorità religiosa, per fare della sua filosofia una mistagogia113. La verità non può che essere rivelata e realizzare una sinfonia tra il poeta ispirato e il perpetua delle anime intellettive sulle specie più irrazionali della vita, allontanatesi dalle quali esse potranno ritornare a quel luogo da cui si erano separate, ma, a differenza della lettura sirianea, Elena diventa in Proclo simbolo della bellezza sensibile legata alla genesis. Sull’interpretazione sirianea del mito troiano cfr. Buffière 1956, pp. 410-413, Sheppard 1980, pp. 66-67 e Manolea 2004, pp. 149-156. 110 Cfr. Herm. In Phaedr. 146, 25 – 147, 6. Per un commento dettagliato al passo cfr. Manolea 2004, pp. 178-182. 111 Sulla complessa questione della stretta relazione della sesta Dissertazione con la produzione sirianea rimando a Sheppard 1980, cap. II «Proclus’ debt to Syrianus», pp. 39-103, in cui la studiosa arriva a dimostrare, con argomenti puntuali e supportati da testimonianze testuali, come lo scritto procliano, pur conservando la sua autorialità, sia certamente debitore di lezioni di Siriano o di sue opere perdute. 112 È possibile ripercorre forme e contenuti con i quali la filosofia ha salvato il mito, a partire da Platone fino al medioevo, nel noto studio di Brisson 1996. 113 È Marino nella Vita Procli (13) a parlare della filosofia platonica come di una mustagwgiva, una iniziazione ai grandi misteri cui si accede attraverso lo studio di alcune opere propedeutiche (i pitagorici Versi d’oro, il Manuale di Epitteto, gli scritti di Aristotele introdotti dall’Isagoge porfiriana) come se fossero dei sacrifici preparatori ad una vita filosofica che è esercizio spirituale. Nel primo libro della Teologia Platonica Proclo presenta Platone come un sacerdote attraverso il quale si è rivelata la somma verità divina ad anime iniziate e la sua è detta essere una mistica dottrina di contenuto divino «peri; qew'n mustagwgiva»: Theol. Plat. I, 1, pp. 5, 16 – 6, 15 e I, 5 pp. 24, 12 – 25, 2 ed. Saffrey – Westerink. 52 PRIMA DI PROCLO: CENNI SU OMERO E LA TRADIZIONE ARCAICA divino filosofo è la comune risposta all’avvento dirompente del monoteismo cristiano, a quel bisogno dell’infinitamente altro, assolutamente trascendente e separato rispetto al complesso divenire storico. E a tale dimensione tendono, dalla prospettiva neoplatonica, Omero quanto Platone. 53 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME PARTE PRIMA Il nome CAPITOLO 2 Gli dèi, i poeti e l’anima all’origine del nome 2.1. «Seguendo Omero e i poeti ispirati…» Perché cominciare a parlare della poesia arcaica, così come appare allo sguardo procliano, a partire dal concetto di o[noma, e dunque dal linguaggio? La risposta più immediata si trova in una pagina della sesta Dissertazione del Commentario alla Repubblica1, una pagina dedicata specificamente al Cratilo. Proclo ha dimostrato come sia possibile vanificare le accuse socratiche mosse al mito arcaico: lo ha fatto dedicando ad Omero e ai suoi racconti il primo libro del suo trattato sulla poesia. L’esegeta ha analizzato uno per uno i racconti sugli dèi e sugli eroi della tradizione, sottoponendoli ad una lettura allegorica, divinatoria quasi, dalla quale viene ricostruito un Omero privo di figure mostruose, assolutamente scevro di parole empie, e piuttosto portatore di verità. A quel punto lo Scolarca di Atene è passato a discutere di Platone per dimostrare stavolta non solo che il poeta cieco non è colpevole ma che in realtà Platone non lo accusa affatto, non lo bandisce dalla sua città giusta, anzi, il filosofo ateniese lo celebra in più luoghi come sua fonte di ispirazione, in più luoghi cede all’autorità della sua parola. Uno di questi è costituito proprio dal dialogo sul linguaggio. Se infatti pensiamo, per esempio, al Cratilo, dialogo dedicato alla dottrina verissima (ajlhqestavth qewriva), la più corretta, dei nomi, «ci accorgiamo che 1 Si tratta di In Remp. I, 169, 25 – 170, 26. 55 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME Platone prende da Omero i fondamenti stessi della sua argomentazione (ta;" prwvta" uJpoqevsei" tw'n lovgwn)» - così esordisce Proclo2. Poiché esistono due tipi di ojnovmata e se ne possono spiegare le origini in due diversi modi, Omero è testimone (mavrtu") di ciascuno di essi. Si tratta dei nomi di origine umana e di quelli di origine divina. Raffiguriamoci brevemente la scena platonica: Ermogene era rimasto sconfitto dalla sua stessa teoria poiché la riflessione sui nomi era diventata una discussione sulle cose e allora il relativismo di una posizione convenzionalistica, quindi arbitraria delle origini del linguaggio, era sfociata nel relativismo protagoreo dell’homo mensura. A quel punto Socrate così si rivolgeva al suo interlocutore: «Bisogna che tu impari da Omero e dagli altri poeti (par∆ ÔOmhvrou crh; manqavnein kai; para; tw'n a[llwn poihtw'n)»3 e cita i passi dell’Iliade e dell’Odissea in cui del medesimo oggetto, nel caso particolare il fiume della Troade, un uccellino dal piumaggio giallastro, la rupe antistante Troia, Omero attesta l’esistenza di due nomi diversi, l’uno dato dagli dèi, l’altro imposto dagli uomini. Ci soffermeremo più a lungo su questo passaggio del Cratilo nelle prossime pagine; per ora ci basta cogliere l’orizzonte ermeneutico in cui si muove Proclo nella sua riflessione sul linguaggio e il ruolo che questa occupa nel progetto di realizzazione di quella sumfwniva tra il filosofo e il poeta che andiamo analizzando. Ma ritorniamo al testo dell’In Rempublicam. Ebbene, di questi nomi – spiega Proclo – Omero ha testimoniato come quelli nati dagli dèi siano più intellettivi (noerwvtera), aderiscano perfettamente (televw" ajntecovmena) alla natura delle cose di cui sono nomi (th'" fuvsew" tw'n uJpokeimevnwn pragmavtwn) e quanto, rispetto alla loro forma sensibile (kata; to; aijsqhto;n tuvpon), siano più belli e di più piacevole sonorità (eujprepevsterav te kai; eujfwnovtera) di quelli prodotti dagli uomini, del tutto inferiori ai primi. Attraverso la geniale distinzione tra nomi divini e umani, Omero ha dimostrato come i primi risalgano ad un onomaturgo più assennato, ha definito ciò che nei nomi è per natura e ciò che è per 2 Cfr. Procl. In Remp. I, 169, 28. Plat. Crat. 391c8-391d1. Data la natura di questo lavoro, non sarà possibile discutere in questa sede delle diverse problematiche del dialogo platonico; prenderò in considerazione solo alcuni degli argomenti lì trattati e solo in vista dei loro sviluppi nel commento procliano. Sconfinata è la bibliografia a cui poter rimandare per l’approfondimento del testo platonico; vorrei qui solamente citare il recente e dettagliato commento testuale di Ademollo 2011. 3 56 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME convenzione, ha stabilito quando c’è somiglianza tra il nome e la cosa nominata e quando invece c’è dissomiglianza e deviazione lontana dalla cosa significata. Attraverso queste immagini il poeta arcaico, nell’interpretazione procliana, ha indicato a Platone la soluzione ai quesiti fondamentali della riflessione linguistica e come sia riuscito a farlo lo vedremo tra poco. Se pensiamo a nomi divini e nomi umani dello stesso oggetto possiamo capire perché alcuni, quelli divini, sono del tutto connaturati alle cose che nominano, create dal nome stesso, perché quelli umani conservano comunque una somiglianza col reale e altri, i più bassi nella scala gerarchica dell’essere, restano molto al di sotto della verità e di questo tipo di somiglianza. Si può capire allora quanto sia stretto e al tempo stesso naturale il legame che in Proclo viene stabilito tra la poesia e il linguaggio, quanto capire l’una aiuti a capire l’altro. Non ci si meraviglierà allora se l’esegeta conclude il suo breve accenno al Cratilo in questa pagina del suo commento alla Repubblica con queste parole: E in generale, tutta questa indagine (a{pasan ejkeivnhn th;n pragmateivan) è seguendo Omero e i poeti ispirati (ÔOmhvrw/ kai; toi'" ejnqevoi" poihtai'" eJpovmeno") che Platone l’ha realizzata (diepragmateuvsato)4. In questo passo del testo procliano, inaspettata è l’assenza di ogni riferimento alla ricerca etimologica cui sono sottoposti gli ojnovmata nel dialogo platonico. Una delle sezioni più ampie del Cratilo è costituita, come si sa, proprio dal cosiddetto smh'no", dallo «sciame di pensieri sapienti» annidatosi nella mente di Socrate5. Si tratta di una sezione complessa sulla quale ha da sempre pesato la semplificazione di una lettura ironica. Soltanto negli ultimi anni, gli studiosi moderni vi hanno soffermato la loro attenzione per cercare di misurare il grado di maggiore o minore serietà del discorso socratico6. Vedremo, invece, come Proclo nel suo commento ne faccia una chiave interpretativa fondamentale. 4 Procl. In Remp. I, 170, 25-26. Plat. Crat. 401e6. 6 Per una critica alla ‘lettura ironica’ dello sciame etimologico fondamentale sono Sedley 1998 e Sedley 2003, pp. 25-50, 75-98, 123-146, passim. Cfr. infra, p. 67, n. 36. 5 57 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME Nel 2001, in un saggio interamente dedicato al Commento al Cratilo, Michele Abbate cominciava ad argomentare la forte connotazione teologica che l’indagine etimologica aveva finito per acquisire nella tradizione neoplatonica7, dimostrando come ricercare il significato autentico e originario delle parole costituisse per Proclo uno strumento ermeneutico essenziale per costruire quella che nella scuola di Atene del V secolo d.C. si configura essere una vera e propria teologia platonica8. L’indagine sulle origini dei nomi degli dèi coincide per Proclo con la ricostruzione delle potenze e attività degli dèi stessi9: «poiché agli uomini è dato conoscere, almeno in parte, i nomi con cui gli dèi nominano se stessi, proprio attraverso l’analisi etimologica dei teonimi […] è possibile risalire alle proprietà essenziali e caratteristiche di ciascuna divinità»10. Ricostruire il significato originario dei nomi divini significa disegnare la gerarchia delle divinità e inserire il pantheon greco nel sistema metafisico neoplatonico. L’analisi etimologica assume, dunque, una validità scientifica e la fonte, il punto di inizio di tale analisi, sono proprio i poeti o i sapienti divinamente ispirati: da questi due punti, elementi di congiunzione nel nostro discorso tra il linguaggio e la poesia, sarà allora necessario avviare la nostra ricerca. 7 Il commento procliano al Cratilo si inserisce certamente in una tradizione esegetica assai ricca. Come ha dimostrato Daniélou, Proclo deve aver utilizzato dei commenti neoplatonici al Cratilo a lui precedenti. Alcune affinità tra la concezione linguistica di Eunomio e quella di Proclo farebbero ipotizzare che le prime interpretazioni sistematiche del dialogo in chiave neoplatonica, caratterizzate da una prospettiva teologizzante e un uso significativo degli Oracoli caldaici risalgano già a Giamblico e ai suoi allievi: cfr. Daniélou 1956, in particolare pp. 426-427. Per una storia della riflessione linguistica medioplatonica rimando a Van den Berg 2008, pp. 31-59; lo studioso dedica invece le pp. 61-92 del suo volume alle profonde differenze di approccio da parte di Porfirio e Proclo, mentre alle pp. 201-217 è possibile leggere una breve presentazione degli influssi procliani sulle riflessioni dell’ultimo scolarca di Atene, Damascio, e di filosofi alessandrini, quali Ammonio e Simplicio, autori di commenati ad opere aristoteliche, il primo di un Commento al De interpretatione ed entrambi di un Commento alle Categorie. 8 Cfr. Abbate 2001a e 2008, pp. 79-83. Gli interessi per i risvolti teologici della riflessione linguisitica trovano poi spazio in preziosi studi quasi coevi: si vedano, per esempio, quelli di Brisson 2002 e Brisson 2004a, in particolare in riferimento alla ricezione delle teogonie orfiche nell’esegesi tardo neoplatonica; anche Van den Berg dedica un’ampia sezione (pp. 161-199) del suo studio sull’In Cratylum alle etimologie divine, al fine di dimostrare che «Proclus’ interest in these etymologies was particularly motivated by his ambition to compose a Platonic theology»: Van den Berg 2008, p. 173. 9 Cfr. Procl. In Crat. XXX, 11, 4; C, 51,15-17; CLXVI, 90, 24-27. 10 Abbate 2001a, p. 160. 58 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME 2.2. Lo sciame etimologico del Cratilo nell’interpretazione procliana Indagare i nomi delle cose è, per Proclo, fare dialettica: conoscere la correttezza dei nomi significa fare conoscenza delle cose nominate, ed allo stesso tempo, avere conoscenza di qualcosa significa nominarla in maniera corretta11. Il dialogo platonico è insieme un dialogo logico e dialettico – scrive Proclo (In Crat. II, 2, 10)12 – intendendo per dialettica – sottolinea l’esegeta – non quel sapere che si riferisce solo alle cose, ta; pravgamata, come vorrebbe Aristotele13, ma quel sapere che è vera scienza, indagine che fa risalire al Bene, alla Causa prima14 e che, proprio per questo, è destinato solo a chi ha raggiunto la piena purificazione delle sue facoltà intellettive. In questa prospettiva la scienza dei nomi si configura essere una vera indagine filosofica, una tra le più alte perché propedeutica alla conoscenza dialettica15. L’oristica16, ovvero la scienza definitoria, quella che pone i confini semantici di un termine, è una parte della dialettica e – spiega il Diadoco ateniese – la si può distinguere in tre specie a seconda dei tre diversi modi in cui essa si sviluppa: si definisce una cosa per successive specificazioni del genere sommo, per differenziazioni del genere prossimo e per denominazione. Quest’ultimo è il modo più precario (ejpisfalevstato"), dichiara Proclo. Se, infatti, accade che 11 Per Van den Berg il punto focale del Commento al Cratilo è proprio il fatto di credere che il linguaggio sia una questione dialettica, che dare il nome significhi darlo alla cosa di cui si conosce la definizione; dell’Uno non si può dare una definizione perché è assolutamente semplice ed ineffabile, ecco perché i primi ad essere nominati sono gli dèi intelligibli-intellettivi. «The essential point in the whole discussion is that names are supposed to be the products of knowledge and that this implies that only objects that have an identity of their own that can be known can be named»: Van den Berg 2008, p. 165. 12 Prima di Proclo è Alcinoo a fare del Cratilo un dialogo logico e dialettico perché capace di rivelare l’essenza delle cose attraverso oJ ejtumologiko;" tovpo": cfr. Alc. Didask. VI, p. 159, 43 – 160, 3; VI, p. 160, 28-30 ed. Hermann. 13 Arist. Soph. El. 11, 171b6. Sulla relazione tra dialettica neoplatonica e le sue differenze specifiche rispetto a quella platonica e aristotelica cfr. Beierwaltes 1990, pp. 279-291. 14 È Albino a stabilire il principio fondamentale del metodo dialettico, che verrà poi sviluppato dal Neoplatonismo, e cioè che il fine della dialettica è di conoscere l’essere di ogni cosa: Alb. Isag. 156, 21-22 ed. Hermann. 15 Van den Berg 2008 parla di una «pedagogical perspective» della sezione etimologica. Il Cratilo sarebbe rivolto ad un allievo che, come Ermogene, si appresta a diventare un filosofo platonico. Dal momento che non si può fare filosofia senza linguaggio, e quindi senza nomi, il dialogo dà insegnamenti proprio su questi: «In the etymological section, we find that Plato uses the Homeric divine names and myths as a starting point from which he moves to a more philosophical discussion of the gods in an effort to purify our misguided conceptions about them.»: p. 198; cfr. anche pp. 187-192. 16 Cfr. l’oJristiko;" lovgo" di Arist. Met. VIII, 3, 1043b31. 59 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME l’onomatoteta sia, sin dall’inizio, privo di scienza, colui che si servirà del nome da lui imposto non saprà dare una definizione della cosa. Ma non è questo il caso del filosofo, colui che nel Cratilo segue e sovrintende al lavoro del legislatore onomaturgo. Il filosofo, infatti, è il naturale fruitore del nome-strumento e in quanto tale è capace di conoscere più di ogni altro la natura, la funzione delotica del nome rispetto alla cosa nominata17. Egli saprà dimostrare, grazie ai procedimenti dialettici dell’analisi e della dieresi, l’essenza della cosa a partire dal nome ad essa imposto. Per questo, dunque, Platone ora conduce la sua ricerca preliminarmente appunto sui nomi, e per mezzo di questi arriva alle cose18. Proclo ha qui in mente il legame esistente tra definizione, metodo dialettico ed etimologia presentato da Platone già nel Fedro. Lì, infatti, Socrate, nell’illustrare a Fedro le regole di un discorso scritto con tecnica, poneva al principio del discorso la definizione dell’oggetto di ricerca (263c-d). Tale definizione consisteva nell’operare divisioni e ricomposizioni nell’analisi della natura della cosa, ricondotta prima ad un’idea unitaria e poi suddivisa nuovamente per specie. Accingendosi a costruire il suo primo discorso in risposta a quello di Lisia, Socrate esortava il suo interlocutore ad accordarsi su una definizione (o{ro") di e[rw" a partire dalla quale poter cominciare a discutere sull’utilità o sul danno che l’amore, definito da quel nome, procura agli uomini. Ebbene tale definizione si compie attraverso tre fasi nettamente distinguibili: prima si riconduce e[rw" al genere più ampio del desiderio; poi si pone tale desiderio in una coppia diairetica che comprende in antitesi l’opinione razionale, così da mettere bene in luce la natura irrazionale dell’oggetto da definire; infine si divide l’impulso irrazionale nelle varie manifestazioni particolari per far emergere le caratteristiche di specie di e[rw"19. Tale processo dialettico di definizione – questo è l’elemento per noi 17 Cfr. Procl. In Crat. LXI, 26, 27 – 27, 2, in cui viene ribadito che il dialettico è il solo a usare correttamente i nomi e cioè nella loro funzione didascalica e ostensiva dell’essenza della cosa. 18 Procl. ibi, IX, 3, 22-24. 19 Si veda sull’argomento l’analisi di Velardi 2006, p. 31 (v. Bibliografia. Fonti primarie s. v. Platone). 60 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME interessante – si conclude poi proprio con il dare il nome all’oggetto di ricerca20. Così scrive Platone: Il desiderio irrazionale che prevale sull’opinione orientata al giusto, che è spinto al piacere della bellezza e che è a sua volta vigorosamente irrobustito (ejrrwmevnw" rJwsqei'sa) dagli altri desideri, suoi parenti, che hanno come oggetto la bellezza dei corpi, e che riesce vittorioso nella sua condotta, ha assunto la sua denominazione proprio da quella forza ed è stato chiamato amore (ajp∆ aujth'" th'" rJwvmh" ejpwnumivan labou'sa, e[rw" ejklhvqh)21. Facendo derivare il termine e[rw" da rJwvmh, «forza», il nome che è stato dato all’amore finisce per rappresentare la sua essenza, che si configura essere quel particolare tipo di desiderio, quello irrazionale del bello, che è vigorosamente irrobustito da altri desideri dello stesso genere. Questo processo di definizione della cosa che procede per scomposizione e ricomposizione esemplifica il senso in cui dobbiamo intendere lo strumento dell’analisi etimologica come risalita all’oujsiva della cosa nominata. I primi esempi di analisi etimologica citati da Proclo sono presi proprio dal Fedro. Platone dimostra, partendo dal nome, che la mantica è superiore all’oionistica (Phaedr. 244b6-d5), così come distingue l’amore partecipato dei mortali da quello impartecipabile e divino proprio partendo dai due nomi che definiscono i due diversi oggetti (Phaedr. 252b1-c2). In questo modo il filosofo si presenta come uno che, attraverso l’analisi, procede verso l’alto (ou{tw" ajniw;n kai; ajnaluvwn faivnetai, Procl. In Crat. IX, 4, 2): lo studio dei nomi conduce alla conoscenza somma del reale. In Phaedr. 244b6-d5 Platone, nel dimostrare che la maniva non è necessariamente un male, prende a testimonianza la scelta degli antichi onomaturghi di chiamare manikhv la tecnica con cui si discerne il futuro, senza temere così di collegare un’arte di origine divina con la follia ritenuta, proprio per questo illustre legame, per nulla vergognosa né riprovevole. Sono stati poi gli uomini del tempo di Platone che, privi di senso della bellezza, vi 20 Cfr. Plat. Soph. 267d4-9 in cui lo Straniero lamenta la mancanza di nomi da poter assegnare alle cose, dovuta alla pigrizia dei pensatori precedenti che non hanno tentato di operare divisioni attraverso il discorso filosofico. Sull’argomento cfr. Casertano 1996, pp. 87-94. 21 Plat. Phaedr. 238b7-c4. La traduzione è di Velardi 2006. Il corsivo è mio. 61 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME aggiunsero un tau, denominando mantikhv la profezia ispirata dagli dèi. La superiorità della divinazione per ispirazione divina rispetto all’oionistica, tecnica divinatoria che non prevede lo stato di follia, di trance del sacerdote, ma la sua capacità di interpretare il volo degli uccelli o altri segni, è confermata dalla stessa analisi etimologica del termine oijonoi>stikhv: è questo il nome che gli antichi diedero a questo tipo di tecnica divinatoria perché essa procura «all’opinione umana (oijhvsei) comprensione (nou'n) e informazione (iJstorivan)»22. In questo modo la superiorità del nome e dell’attività dell’una rispetto al nome e all’attività dell’altra dimostra che la follia di origine divina è più bella dell’assennatezza di origine umana. L’analisi etimologica si è così rivelata uno strumento epistemico nel processo di definizione della follia23. Il passo 252b1-c2 del Fedro è poi di notevole interesse perché è un’ulteriore attestazione della credenza in un linguaggio degli dèi distinto da quello degli uomini su cui ritorneremo nelle pagine successive. Il desiderio irrazionale e possente per il bello è detto dagli uomini e[rw" Pothnov", «Eros che vola». Gli dèi, invece lo chiamano Ptevrw", da pterovn «ala», perché costringe a mettere le ali. Platone cita a testimonianza di questa notizia sul nome divino due versi di uno sconosciuto poeta appartenente alla cerchia degli Omeridi. L’autenticità di tali versi è fortemente discussa; è possibile che essi siano un artificio creato ad arte dallo stesso Platone24, ma ciò che a noi interessa è il commento che ne dà Proclo nel nostro testo. I due nomi sono immagini di due essenze diverse dell’amore: è detto «volante» l’amore partecipato dai mortali, mentre è chiamato «ptevrw"25» quello impartecipabile e divino, in virtù del fatto che quest’ultimo amore unisce 22 Plat. Phaedr. 244c7-8. Si tratta di un passo molto noto, importante anche per un approccio storicistico alla lingua. Può essere utile ricordare che, se oijonoi>stikhv sembra essere assolutamente un conio di Platone, rispetto al termine storico oijwnistikhv, conio finalizzato a giustificare la sua proposta etimologica, la relazione tra i termini mantikhv e maniva è confermata anche dall’etimologia moderna: cfr. Chantraine, s.v. mavnti". 24 Sull’argomento cfr. Labarbe 1949, pp. 378-383 che considera i versi un’invenzione platonica. 25 Il termine è un conio platonico ricavato da ptevron «ala»; è difficile capire veramente cosa voglia significare questo vero nome di eros (così vuole anche il più recente commento del dialogo platonico: cfr. Bonazzi 2011, pp. 128-129, nn. 160 e 161), ma credo che per Proclo sia sufficiente la parafrasi platonica: il nome divino di eros è Pteros «dia; pterofutor∆ ajnavgkhn», perché costringe a mettere le ali; l’amore non solo è alato, come hanno ben compreso gli uomini, ma inebria della stessa passione, dello stesso “sommovimento interiore” – così lo chiama Bonazzi – chi ne è colpito: nel termine divino, dunque, sarebbero riflesse l’essenza alata di eros e la sua attività che rende alato l’amante. 23 62 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME l’essenza e l’attività del dio (dia; th;n eij" e}n sunagwgh;n th'" te oujsiva" tou' qeou' kai; th'" ejnergeiva", In Crat. IX, 4, 1-2). L’analisi etimologica, dunque, ha per Proclo il fine ultimo di svelare la verità dal nome: tale verità risiede nell’adattamento e nell’accordo (ejfavrmosin kai; sumfwnivan) del nome con la cosa nominata26. Perché ciò accada sono poste però due condizioni: nell’indagine va data maggiore attenzione alla forma più che alla materia fonica del nome e l’oggetto di ricerca etimologica deve essere circoscritto alle cose eterne e non a quelle particolari. I nomi degli dèi, ad esempio, sono custodi del tuvpo", dell’impronta stabile e sacra delle potenze e attività di ciascun dio (ta;" dunavmei" te kai; ejnergeiva" tw'n qew'n ajpotupouvmena, In Crat. XXX, 11, 4), tant’è che – scrive Proclo – anche Socrate li venera nel Filebo, e prova verso di loro un timore «che supera il più grande terrore (pevra tou' megivstou fovbou)»27. Attenersi alla correttezza dei teonimi significa rendere onore agli dèi stessi: ad esempio, si macchiano di empietà coloro che hanno paura di pronunciare i nomi di Persefone e di Apollo, credendoli forieri di morte per ignoranza dell’analisi etimologica dei loro nomi (dia; th;n a[gnoian th'" tw'n ojnomavtwn ajnaluvsew")28. Nel capitolo LXXXIV Proclo ribadisce che i nomi imposti secondo speranza e reminiscenza, che sono i due modi di imposizione umana ad oggetti corruttibili, sono estromessi dalla legge dell’etimologia. Si può dunque fare etimologia dei soli termini posti secondo scienza. Segue quello che rappresenta un vero e proprio manuale della corretta analisi etimologica: è il capitolo LXXXV. Come si apprende dall’apparato critico di Pasquali, molti dei lemmi discussi da Proclo sono presenti nei trattati dei grammatici antichi, ma si trovano tutti in contesti diversi da quello specificamente etimologico. Qui, invece, Proclo sta dimostrando come l’etimologia sia una vera e propria tevcnh e come lo fosse già per Platone. Le regole elencate sono, infatti, una dossografia, una classificazione teorica dei diversi metodi pratici applicati da Platone nelle sue 26 Procl. In Crat. XXXVI, 12, 14-17. È una citazione da Plat. Phil. 12c2. Il riferimento a questo passo del Filebo ritorna ovviamente in Dam. In Phil. 24, 1-4 e in Procl. Theol. Plat. I, 29, p. 125, 3-8 in cui il filosofo licio motiva il grande rispetto di Socrate verso i nomi divini col fatto che essi sono considerati l’ultima eco della divinità: ta; e[scata tw'n qew'n ajphchvmata. Cfr. infra § 2.6.4, pp. 124-126. 28 Cfr. Procl. In Crat. CLXXII, 95, 24-28 in riferimento a Plat. Crat. 404c5-406a3. 27 63 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME proposte etimologiche29. Un principio fondamentale è che il filosofo e il grammatico sono condotti da due diverse prospettive nella loro indagine etimologica: il primo sottovaluta la materia e guarda soprattutto alla forma del nome; in maniera del tutto opposta si comporta, invece, il grammatico. Dalla prospettiva procliana, Platone mostra prima ciò che la cosa si rivela essere in se stessa e poi ciò che ad essa assomiglia (to; pro;" ejkei'no me;n oJmoiouvmenon), di cui rimane traccia nell’aspetto fonico della parola, nelle sue sillabe, in ciò che costituisce la sua materia30. L’esegeta prende ad esempio le etimologie proposte da Platone dei nomi di Oreste e di suo padre Agamennone31. A proposito di ∆Orevsth", Platone prima parla della sua ferinità (qhriw'de") e selvatichezza (a[grion), e poi del suo essere rupestre (o[reion), cosa che si trova nelle sillabe (o{per tai'" sullabai'" e[gkeitai). Allo stesso modo procede a proposito di ∆Agamevmnwn: prima parla del suo essere perseverante e tenace e poi aggiunge che è un uomo ajgastov", «ammirabile», per il suo essere stato saldo, perseverante, per la sua ejpimonhv, «permanenza» davanti alle mura di Troia. Qui Proclo sembra confondersi: nel caso di Agamennone sembra voglia dirci, con Platone, che la reale natura dell’uomo si trovi nella seconda etimologia, e non nella prima come ci aspetteremmo; la più vera, quella che guarda alla natura della cosa è l’etimologia che fa derivare il nome dall’aggettivo ajgastov" e dal verbo ejpimevnw, «restar fermo, perseverare» che è però anche quell’etimologia che è più simile alla materia fonica di cui è composto il nome. Subito dopo, però, specifica: Platone, che guarda alla forma del nome fa derivare il nome ∆Agamevmnwn da ajgastov", 29 Questo capitolo dell’In Cratylum si rivela così una preziosa argomentazione a favore delle più recenti interpretazioni del valore della sezione etimologica del Cratilo, volte a recuperarne il valore serio ed esegetico. Sedley, per esempio, arriva ad elencare venti principi sui quali sarebbe fondato il processo etimologico platonico: Sedley 2003, p. 48. Mark Amsler, nel suo studio dedicato all’etimologia e al discorso grammaticale nella tarda indichità e nel medioevo, spiega come l’etimologia in Platone assuma un valore epistemico. La sua indagine etimologica procede sistematicamente col dividere parole composte nei loro elementi semplici, alla ricerca di quel significato originario, non necessariamente di origine divina, nascosto dietro alle trasformazioni sedimentatesi nel tempo e nell’uso della lingua. Secondo lo studioso la critica di Socrate all’etimologia non nega la portata scientifica della grammatica ma prescrive piuttosto come una scienza debba essere idealmente condotta: cioè svelando la relazione iconica tra il nome e il referente/significato. Con l’analisi etimologica Platone crea un metalinguaggio scientifico con cui misurare la correttezza del linguaggio umano per natura imperfetto. Cfr. Amsler 1989, pp. 31-38. «In the Cratylus Socrates’ account of etymological intervention demonstrates not only the practice of etymologia but also the criteria by which that practice can be considered a science, a grammatical science»: Amsler 1989, p. 38. 30 Procl. In Crat. LXXXIX, 45, 14 – XC, 45, 28. 31 Plat. Crat. 394e8-395b2. 64 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME mentre i grammatici, che, al contrario, si applicano più alla materia del nome e non considerano la forma della vita, lo ricollegano, sbagliando, all’avverbio a[gan, «troppo», termine foneticamente più simile ad ∆Agamevmnwn e segno di tracotanza, di esuberanza. L’esegeta sta evidentemente operando una ricostruzione del pensiero platonico che a volte sembra allontanarsi dal dialogo originale, ma vedremo in realtà che egli sta sviluppando una dimensione linguistica, fondata sulla relazione tra essenza e immagine dell’essenza della cosa, che esiste già in Platone. Ad esempio, anche nella lettura dell’etimologia di Oreste, Proclo va oltre il divino maestro. Platone non si mostra consapevole di alcuna differenza tra un’analisi etimologica che metta in evidenza l’aspetto ferino, selvatico di Oreste e una che mostri piuttosto quello rupestre, a cui rimanderebbe più esplicitamente il suono del suo nome. Ma se guardiamo all’etimologia platonica di Atreo, ci accorgiamo che l’osservazione procliana non è poi così infondata. Platone scrive: E bene sta probabilmente anche il nome ∆Atreuv". […] Però il nome che gli fu posto devia alquanto (smikro;n paraklivnei) ed è come velato (ejpikekaluvptai), così da non rendere a tutti manifesta la natura dell’uomo (w{ste mh; pa'si dhlou'n th;n fuvsin tou' androv"); ma a chi s’intende di nomi ∆Atreuv" dichiara abbastanza ciò che vuol dire, poiché o che si ravvicini all’ajteirev", «inflessibile», o all’a[treston, «intrepido», o all’ajthrovn, «esiziale», il nome gli s’adatta benissimo32. Mi sembra una dichiarazione socratica fondamentale: il nome rivela la natura della cosa nominata, ma ciò è evidente solo a chi s’intende di linguaggio, ne ha esperienza, a chi è capace di andare oltre il velo esterno della materia fonica. Tale aspetto, per così dire, esoterico del nome trova sviluppo naturale nella dimensione metafisico-teologica di Proclo, nella quale l’analisi etimologica del nome Zeuv" è rivelativa della mustikh; ajlhvqeia relativa a questo dio33. In un saggio dedicato alla relazione esistente tra il nome, la sua essenza e quella della cosa nominata 32 Plat. Crat. 395b2-c2. La traduzione è di Martini 1989. Cfr. Procl. In Crat. XCIX, 51, 12-13. Per un’analisi dettagliata delle etimologie dei teonimi proposte da Proclo come rivelazione dell’essenza degli dèi e quindi sull’etimologia come via alla speculazione teologica, rimando ad Abbate 2001a, pp. 87-118 e Van den Berg 2003. Per il ruolo attribuito ai teonimi da Plotino cfr. Beierwaltes 1991, pp. 112-114. 33 65 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME analizzata attraverso l’immagine platonica della spola, Lidia Palumbo arriva a dimostrare con un’argomentazione tenacemente fedele al testo, che «la critica platonica alla etimologia-come-filosofia è la critica ad ogni semiotica che sposta continuamente all’indietro l’ambito della propria indagine: l’etimologia è un’attività che cerca di trovare l’orthotes dei nomi risalendo dalle parole nuove a quelle più antiche, dalle parole composte a quelle semplici, dalle parole semplici alle particelle elementari, laddove la filosofia scopre nei nomi le ragioni dell’articolazione del composto nel semplice ed è in grado di mostrare l’ousia, che è lo schema unitario di ciascuna composizione (syntheke)»34. Da questa prospettiva la critica moderna alla concezione del procedimento etimologico come disvelamento di una verità, come esercizio filosofico in sé sufficiente è la critica all’etimologia di tutti i tempi, quella ancora rudimentale dei tempi socratici e oggi definita paretimologica e quella della modernità condotta invece con strumenti raffinati e sempre più scientifici, che sposta sempre più indietro l’origine di radici linguistiche a cui però non potrebbe mai da sola dare un senso. Ciò che Proclo assume di vero del lungo sciame etimologico socratico è proprio la possibilità che una mente dialettica possa trovare la trama corretta nella quale si intrecciano modelli eidetici e materie foniche. Per Proclo tale trama ha un’origine divina; per Platone, certo, una risposta del genere sarebbe più problematica, e non è negli obiettivi di questa ricerca trovare la risposta platonica alla complessa questione sulle origini del linguaggio, ma le due prospettive non si fondano su un diverso approccio all’uso dell’analisi etimologica. L’etimologia anche per Platone, come per Proclo, può darci la definizione stessa della cosa nominata, ma solo se a condurre la dimostrazione etimologica è il dialettico. È anche per questo motivo che Proclo sa bene di dover giustificare in qualche maniera quel continuo riferimento di Socrate allo stato di possessione divina, di sapienza ispirata che gli sarebbe stato trasferito da Eutifrone di Prospalta, l’«esperto profeta», e che sarebbe il vero autore delle analisi etimologiche35. Il riferimento ad Eutifrone, simbolo quindi di un sapere rivelato e non dialettico, è stato, infatti, da sempre 34 Palumbo 2005, pp. 92-93. È in questo senso allora che la studiosa propone d’intendere uno dei termini cardine del Cratilo, quello di sunqhvkh, tradizionalmente tradotto con «convenzione», come «composizione», «una composizione concordata che stabilisce una regola e crea un’abitudine (cfr. novmw/ kai; e[qei, 384d7-8)»: p. 66, n. 2. 35 Plat. Crat. 396d4-397a1; 399a1-6; 399e4-5; 407d7-9; 409d1-2; 428c7-8. 66 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME ritenuto ironico imponendosi come il punto di forza di una lettura che ha invalidato ogni minima pretesa di scientificità delle etimologie socratiche, o quantomeno la serietà con cui Platone ha creduto di risalire all’essenza delle cose attraverso i loro nomi36. Ebbene Proclo affronta l’argomento spiegando che si può parlare degli dèi in tre modi: immaginifico (fantastikov"), scientifico (ejpisthmonikov") e opinativo (doxastikov")37. La maniera immaginativa è quella di Eutifrone che fantastica in maniera assolutamente irrazionale su battaglie e macchinazioni da parte degli dèi38; Socrate, invece, è colui che ne parla scientificamente; chi, invece, opina sugli dèi è colui che riesce a trovare una modalità intermedia a queste prime due ed è proprio il caso del parlare di Socrate in queste pagine del Cratilo. Da un lato, infatti – spiega Proclo – etimologizzare un nome divino significa risalire, in maniera scientifica (ejpisthmonikw'"), dall’opinione dell’onomatoteta all’essenza del dio nominato, dall’altro significa anche possedere una certa dose d’immaginazione in comune con il saccente Eutifrone. L’uomo ha infatti sugli dèi delle concezioni brutali e allora Socrate si comporta un po’ come Eutifrone, discendendo verso nozioni di livello inferiore, ma allo stesso tempo cerca di sollevare coloro che sono immersi nell’immaginazione verso il livello mediano delle opinioni sugli dèi. Ecco perché Platone ritiene Eutifrone responsabile del sapere socratico sui nomi, non già in quanto sua guida in questo tipo di conoscenza, ma in quanto capace di stimolarlo, 36 Da ultimo, Aronadio 2011, pp. 155-159 con Baxter 1992 secondo il quale è evidente l’«ironic attitude to the whole etymological enterprise» (p. 75) e come il leitmotiv dell’ispirazione eutifronea sia un espediente per mostrare che il metodo etimologico non si fonda su un sapere di tipo dialettico ma è piuttosto un «hybristic desire for divine knowledge through inspiration» (pp. 108-113); contra Sedley autore già nell’articolo del 1998 della ormai nota distinzione tra una correttezza esegetica (exegetically correct) e una correttezza filosofica (philosophically correct) del metodo etimologico: pp. 140-154. Sedley sostiene che l’etimologia in Platone, quando non è uno strumento epistemologico, perché non portatore di un’immagine vera dell’essenza della cosa, sia comunque uno strumento esegetico plausibile attraverso il quale poter risalire alla conoscenza degli antichi che per primi nominarono le cose. Tale convinzione è sostenuta dal fatto che Platone parla comunque di un’imposizione originaria dei nomi alle cose, un’imposizione dovuta ad una conoscenza d’ispirazione divina: cfr. Sedley 2003, pp. 24-34. Anche alcuni esempi di analisi etimologica in Aristotele (De cael. I, 3, 270b16-25 e I, 9, 279a18-28, Meteor. I, 3, 339b16-30) rivelerebbero, secondo Sedley, la concezione della pratica etimologica come ricostruzione di quel sapere arcaico delle autorità poetiche direttamente ispirate dagli dèi: «Both philosophers present divine inspiration, not inheritance, as our ancestors’ principal source of knowledge. Neither Plato nor Aristotle reveals how these distant ancestors might have obtained their divine insights. It is hard not to feel that we are here not entirely in the territory of rational prehistory, and that both are writing under the spell of Golden Age mythological narratives, which had been endemic in Greek culture since Hesiod and which Plato himself occasionally develops in his own myths.»: Sedley, ibi, pp. 32-33. 37 Procl. In Crat. CXVI, 67, 24 – 68, 9. 38 Il riferimento è a Plat. Eutyphr. 7b2-5. 67 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME con la sua mostruosa immaginazione (dia; th'" fantastikh'" teratologiva"39), alla ricerca della verità. Si fanno avanti, così, due elementi su cui ci soffermeremo nelle prossime pagine e che si riveleranno cositutivi del linguaggio come della poesia: da una parte l’immaginazione, intesa come capacità produttiva di rappresentazioni, e la funzione protrettica di apparenze mostruose e paradossali ma foriere di somme verità. 2.3. Il lessico della rappresentazione linguistica: il nome eijkwvn e il nome a[galma 2.3.1. Il nome eijkwvn Una volta definito lo skopos del dialogo, in cui viene chiarita la partecipazione diretta dell’anima umana nella creazione dei nomi40, sembra di ravvisare nell’atteggiamento di Proclo, da subito, una sorta di apprensione per quella che potrebbe apparire, e che davvero sarebbe apparsa agli interpreti successivi, come un’aporia del discorso platonico41, un’aporia legata proprio al valore epistemico dei nomi. Noi non leggiamo, purtroppo, gli scoli42 procliani alla sezione finale del Cratilo, sezione in cui Socrate chiede al suo interlocutore se sarebbe più giusto conoscere le cose a partire dalle loro immagini, quali sono appunto i nomi, piuttosto che dalle cose stesse. 39 Sembra quasi che anche nel nome, come nel mito, Proclo scorga un livello apparente, mostruoso e uno nascosto, vero; che pensi ad un destinatario ingenuo, che si ferma al livello apparente, e ad uno sapiente, che riesce a cogliere il significato autentico. Su tutto ciò cfr. infra, § 3.3.2 e § 4.1.1. 40 Secondo Manetti già in Platone il linguaggio assume una dimensione psichica; tra l’essenza della cosa e l’espressione linguistica di tale essenza si pone l’anima del nomoteta, metaforizzata dalla sguardo, che deve operare, sorvegliata dal filosofo, tale operazione di traduzione del modello intelligibile nel mondo empirico; da questa prospettiva la stessa sezione etimologica dimostrerebbe come i nomi non siano altro che l’espressione del punto di vista dei vari nomoteti succedutisi nelle varie epoche storiche e sotto l’influenza di diversi contesti culturali: cfr. Manetti 1987, p. 96. 41 Sulla fondamentale questione del procedimento aporetico dell’indagine filosofica di Platone rimando a Erler 1991. 42 Quelli raccolti nei Procli Diadochi in Platonis Cratylum Commentaria (ed. Pasquali) sono degli estratti utili (ejklogai; crhvsimoi) dagli scoli procliani al dialogo platonico, scoli o redatti per iscritto dal filosofo tardoneoplatonico e raccolti successivamente da un excerptor, oppure direttamente appuntati ajpo fwnh'" da un suo allievo. La natura non sistematica dell’esegesi si rispecchia nella struttura stessa del commento che non procede kata; lhvmmata e s’interrompe purtroppo alla pagina 407c del dialogo platonico. Sulle questioni relative alla composizione ed alla struttura del testo procliano rimando a Romano 1987, pp. 113-115, Romano 1989, pp. XVII-XVIII e Abbate 2001a, pp. 24-27. Sulla sua tradizione manoscritta cfr. Pasquali 1906. 68 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME Il dialogo platonico si chiudeva con la famosissima e discussa dichiarazione di sfiducia nelle parole; Socrate così parlava a Cratilo: SOCRATE - Pure dobbiamo essere contenti d’aver convenuto almeno su questo: che le cose non dai nomi, ma ben più da se stesse (aujta; ejx auJtw'n), bisogna apprenderle e indagarle; ben più, ritengo, che dai nomi.43 Tale dichiarazione segnava il ritorno alle cose dopo il lungo sciame etimologico, ovvero dopo la gran parte del discorso in cui l’analisi del nome era servita proprio a ricondurre Ermogene all’essenza delle cose a partire dai nomi. Tuttavia Proclo anticipa tale importante questione all’inizio stesso della sua lezione44, risolvendo da subito quell’apparente contraddizione che da sempre ha fatto discutere la critica moderna45. Nel farlo, a mio avviso, non tradisce Platone, piuttosto lo comprende nella sua complessità. Lasciando parlare sempre il testo, Proclo comincia la sua analisi chiedendosi: Perché Platone dice che, se non teniamo molto in conto i nomi, invecchiando diventiamo sempre più saggi46, mentre ora egli stesso avvia la sua ricerca partendo proprio dai nomi?47 Prima di passare alla risposta procliana, è bene sottolineare che tutta la sezione etimologica, interpretata più o meno ironicamente, è un palese esercizio dialettico con cui Socrate dimostra ad Ermogene di poter risalire all’essenza stabile di una cosa partendo dal suo nome. Eppure il nome porta con sé degli inganni ermeneutici che possono mettere in crisi un tale esercizio. Per esempio: se un nome è simile alla cosa nominata, anche le sue parti (ta; stoicei'a) dovranno 43 44 Plat. Crat. 439b6-8. La traduzione è di Martini 1989, lievemente modificata. Sulla filosofia neoplatonica come filosofia d’insegnamento cfr. da ultimo il saggio di Radke – Uhlmann 2010. 45 Dalla generale tendenza a fare del finale del Cratilo il segno di un ritorno platonico all’origine convenzionale del linguaggio, prendeva le distanze già nel 1941 Pierre Boyancé che invitava a non leggere il passaggio dall’una all’altra parte del dialogo platonico come ad una specie di plinodia, ma come l’una lo sviluppo dell’altra: «Il n’y a pas de l’une à l’autre cette espèce de palinodie […]. Mais il y a progrès, approfondissement»: Boyancé 1941, p. 144. Lo studioso francese tentava, inoltre, in maniera assolutamente originale, un’interpretazione delle etimologie socratiche in chiave teologica: ibi, pp. 146-175. 46 Plat. Polit. 261e6. 47 Procl. In Crat. IX, 3, 7-10. 69 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME esserlo, ma il paradigma ‘sklhrovth"’ (durezza) inficia la scientificità di tale assunto; esso, infatti, contiene il suono simile alla mollezza (il lambda) che è però dissimile alla natura della cosa nominata48. E ancora: chi ha posto per la prima volta il nome alle cose deve aver conosciuto l’essenza di quella cosa per poterla rappresentare nel nome da imporre alla cosa stessa; ma se il nome è definizione della cosa, ovvero, se è il nome a dirci l’essenza della cosa, come ha potuto conoscere tale definizione il primo onomaturgo, ovvero colui che non aveva a disposizione il nome da cui apprenderla? A Cratilo, che allora ipotizza un’origine divina del linguaggio, Socrate rispondeva con la teoria delle idee: ci deve essere qualcos’altro al di fuori del nome, che sia stabile e che mostri in modo sicuro qual è la verità delle cose49. Proclo, forse più esplicitamente rispetto al testo platonico, tenta una prima giustificazione a tale – scriviamo ancora – apparente aporia: una risposta che diventa poi fondamentale perché risolutiva. Tra l’abbandono delle parole e il credere che le parole siano le cose stesse, tra l’arbitrarietà del convenzionalismo e l’ingenuità del naturalismo linguistico, c’è una dimensione visiva del linguaggio, ovvero una dimensione che non può farci considerare il nome il doppio della cosa nominata, ma che ci restituisce comunque la relazione che il nome conserva sempre con la cosa, una relazione di rappresentazione. Nel suo saggio dedicato alla mivmhsi" nei dialoghi di Platone e nella Poetica di Aristotele, Lidia Palumbo dimostra come quello del linguaggio descritto nel Cratilo sia un particolare tipo di rappresentazione mimetica, ovvero una mimesis immaginativa50. La parola rappresenta una cosa come lo fa un’immagine pittorica, ma mentre quest’ultima ne riproduce i colori e la figura, quella ne rappresenta l’essenza51. La parola fabbricata dal nomoteta coadiuvato dal dialettico è una parola che rende visibile l’idea, paradigmatica e invisibile; ma ciò che produce tale visualizzazione non sono le lettere e le sillabe, che solo in casi eccezionali possono essere significative di per se stesse, ma la loro composizione in una forma mentalmente invisibile, in 48 Plat. Crat. 434c7-434e9. Tutta la questione è alla pagina 438a8-e1 del dialogo platonico. 50 Cfr. Palumbo 2008a, pp. 147-153; 334-364. 51 Plat. Crat. 423d7-424b7. 49 70 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME un luogo semantico capace di evocare nell’ascoltatore un’essenza52. Tale visualizzazione è prodotta cioè dall’idea del nome, ovvero dalla sua funzione semantica, dalla sua capacità di mostrare, di rendere visibile un’essenza e per questo essa è un’immagine particolare, quella più prossima alle idee; la parola non ha altra funzione che quella rappresentativa, non ha altro compito che quello di stare al posto di un’idea, di essere dell’idea un’immagine, e per questo tra tutte le immagini empiriche, ovvero tra tutti gli oggetti sensibili e le loro copie dipinte, essa conserva il massimo grado di approssimazione al mondo eidetico53. È in questo senso allora che il nome è più importante della cosa, «perché quest’ultima è fatta ‘a immagine del’ mondo delle idee, le parole invece sono direttamente questa immagine»54. L’invito finale del Cratilo a conoscere le cose non dalla loro immagine ma dalla cosa in sé lungi dall’essere un abbandono delle parole, è piuttosto un voler fondare il linguaggio, quello vero, quello dialettico, sulla visione delle idee. Ebbene, la riflessione procliana si poggia direttamente su questo impianto argomentativo. Al quesito iniziale sopra riportato, e cioè alla domanda «Perché Platone inizia l’indagine dai nomi, se si è più sapienti quando si abbandonano i nomi?» - Proclo risponde proprio così: Forse perché egli considera i nomi non già in quanto sono pronunciati, ma in quanto sono immagini (eijkovne") delle cose?55 È un passo fondamentale, una dichiarazione ermeneutica da parte di Proclo che è possibile porre al centro di tutta la questione linguistica. La riflessione sull’etimologia deve quindi partire da questo assunto. A mio avviso esso è imprescindibile per poter comprendere nella sua autenticità l’intera sezione etimologica, il senso e il valore della parte più consistente del dialogo. Bisogna 52 Plat. ibi, 434e5-435a4. Cfr. Palumbo ibi, pp. 344-345. Le parole sono un primo passo della «traduzione» del modello, che sono le idee, nell’immagine che è alla base di tutta la realtà empirica. Le parole raccontano l’essenza delle cose ed ecco perché la via di accesso alle idee è linguistica e discorsiva: «le parole sono immagini verbali – eidola legomena dice il Platone del Sofista – ed è la verbalità, la sonorità, delle parole a consentire, secondo Platone, la creazione di quella scena che costituisce la visività propria dell’invisibile»: Palumbo ibi, p. 338. 54 Palumbo ibi, p. 359. 55 Procl. In Crat. IX, 3, 10-11: «h\ tou'to skopei' ouj kaq∆ o} levgontai, ajlla; kaq∆ o} eijkovne" eijsi; tw'n pragmavtwn…». 53 71 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME tener conto della doppia dimensione del linguaggio - ci spiega Proclo: c’è una parola che viene detta e un parola che è immagine di qualcos’altro. Socrate, quando analizza etimologicamente un nome per partire da esso ed arrivare alla cosa rappresentata, ha come orizzonte ermeneutico il rapporto mimetico che esiste tra una cosa e la sua immagine. Ma cosa intende Proclo per immagine? Cosa significa per lui parlare del nome in quanto eijkwvn della cosa nominata? Negli Elementi di teologia (65, 1-2) Proclo spiega che uno dei modi di sussistere di una cosa è quello per partecipazione a mo’ d’immagine, (kata; mevqexin eijkonikw'"). Nella costruzione triadica del reale ogni cosa esiste in se stessa (kaq∆ u{parxin), oppure nel suo essere contenuta in una causa (kat∆ aijtivan), oppure ancora nel suo conservare la causa in se stessa (kata; mevqexin). L’essere iconico di una cosa descrive quest’ultimo modo di esistenza; è il suo essere in una relazione di rappresentazione con un’altra cosa ad essa superiore che pure si conserva in essa; tale rapporto di partecipazione, di natura evidentemente ontologica, vede il produttore rappresentato nel prodotto (to; paragovmenon) il quale mostra in se stesso (ejn eJautw/' deivknusi) in maniera secondaria (deutevrw") ciò che il produttore (o} to; paravgon) è già in maniera primaria (uJpavrcei prwvtw")56. Ora, nell’In Cratylum tale relazione iconica del nome con la cosa nominata è una relazione naturale: l’uso di eijkwvn è sempre in contrapposizione a quello del termine suvmbolon, usato, in questo commentario e diversamente che in altri testi procliani, ancora nel senso aristotelico di rapporto convenzionale, arbitrario, della cosa col suo nome57. In questo senso, allora, l’essere naturale di tale relazione 56 Cfr. Procl. El. Theol. 65, p. 62, 13-23 ed. Dodds; si veda il commento ad locum di Dodds 1963, pp. 235-236. Per un’analisi dettagliata di tale passo procliano rinvio a Trouillard 1959, p. 312. Anche nel Commentario alla Repubblica l’immagine è sempre chiamata a significare la relazione di appartenenza e di rimando analogico della cosa sensibile rispetto all’idea intelligibile: cfr. In Remp. I, 59, 14; I, 77, 14; 21; I, 86, 17; I, 235,11; I, 246, 9, 17; II, 8, 11; II, 45, 26; II, 48, 22. Per il ruolo che l’iconismo occupa nella riflessione ontologica procliana, sull’uso cioè dell’elemento iconico nella descrizione dei processi di manenza, processione e conversione degli enti in relazione alle loro cause si veda Bonfiglioli 2008, pp. 88-99. 57 Cfr. Arist. Pol. III, 1280; Soph. El. I, 165a7-8; De interpr. 1, 16a3-4; 2, 16a26-27. A proposito della natura del linguaggio così come presentata da Aristotele, per una nuova interpretazione del celebre passo del De interpretatione (1, 16a3-8) si veda lo studio di Lo Piparo 2003. Si ricordi che il valore semantico di suvmbolon come sunqhvkh, «patto, convenzione» gli deriva dal suo uso più originario con il quale si indicava ciascuna delle due parti di un ajstravgalo" o di un qualsiasi altro oggetto che due stranieri, due ospiti o in generale le due parti stipulatrici di un contratto, si dividevano perché ciascuno dei due pezzi fungesse da 72 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME iconica sembrerebbe contrapporsi all’umano, all’artificiale; esso si configurerebbe come una relazione che sussiste eternamente e immutabilmente nella coppia paradigma/immagine contrariamente alla relazione arbitraria, mutevole e fallibile creata dall’uomo58. Ad un’analisi più attenta, però, tale deduzione si rivela insufficiente ad esprimere in maniera perspicua la natura dell’iconismo linguistico. Quella iconica è certamente una relazione vera, a differenza di quella ingannevole e illusoria significata dal termine ei[dwlon59. Ma la sua verità non dipenderà dal suo sussistere per natura contrariamente ad un prodotto umano – si scoprirà infatti, come anticipato dalla definizione dello skopov" del dialogo, che il nome è un prodotto tecnico, artificiale, nato dall’attività dell’anima umana – piuttosto dal suo relazionarsi ad una forma, che è nomos60, ordine, regola rispetto alla quale esso è simile e dissimile insieme61. segno di riconoscimento dell’identità dell’uno e dell’altro; da qui il valore di contrassegno, di segno in generale, di simbolo appunto. Cfr. LSJ s.v. suvmbolon. Cfr. anche Plat. Symp. 191d4 in cui suvmbolon ajnqrwvpou è ciascuna delle due metà in cui resta diviso l’uomo sferico descritto dal racconto di Aristofane su eros. 58 Cfr. Procl. In Crat. XXX, 10, 26-27; XLVIII, 16, 16-19; solo in CXXI, 30, 15-29, il termine suvmbolon è utilizzato come sinonimo di suvnqhma, traccia ineffabile delle cause divine fin negli ultimi enti che da esse discendono, mentre nel capitolo CLXX, è proprio il termine eijkwvn ad essere sinonimo di suvmbolon, utilizzati entrambi nell’accezione semantica di immagine allegorica, significato questo più frequente per suvmbolon soprattutto in contesti diversi da quello linguistico, come in quello poetico ed esegetico delle Dissertazioni V e VI del Commentario alla Repubblica. Per una disamina delle diverse occorrenze di questi tre termini nell’opera procliana cfr. Cardullo 1985. 59 Procl. In Crat. XCIV, 47, 1-2 (cfr. anche eijdwlopoiov": CXXI, 72, 6; CXXVIII, 76, 13); sul rapporto tra eijkwvn e ei[dwlon nel lessico greco cfr. Saïd 1987. Sulla nozione di eidolon in Proclo cfr. Moutsopoulos 1990. Come spiega Anca Vasiliu, l’eidolon, in quanto «visibilité de l’invisible» è sempre ingannevole, mentre l’eikon o l’agalma non lo sono mai. Questi ultimi infatti hanno un’esistenza reale, ontologicamente parlando, grazie alla quale si presentano come una rappresentazione di cose o di esseri viventi, senza pretendere di sostituirsi, in quanto realtà visibili, a realtà invisibili; al contrario, un eidolon, che è un’immagine visiva simile al sogno, all’ombra o al fantasma, del tutto priva di uno statuto ontologico, mostra qualcosa che non esiste realmente, come per esempio l’apparizione all’anima di un fantasma che si sostituisce alla presenza reale di un essere vivente. La studiosa individua, così, la caratteristica propria dell’eikon nella sua natura di «objet référential», di oggetto la cui essenza non si riduce alla sua presenza immanente, ma nella sua relazione alla cosa di cui esso è immagine. L’eikon e l’agalma sono ciò che sono, ma anche qualcosa d’altro, di cui però costituiscono non il doppio, ma «la possibilité d’apparition adéquate à la saisie et à la compréhension de ce dont ils sont les ‘images’»: Vasiliu 2010, p. 147; cfr. Vasiliu, ibi, pp. 141-151. 60 Che l’opposizione natura-convenzione da sempre attribuita al discorso platonico possa dissolversi già in Platone in questi termini è spiegato magistralmente da Dixsaut in alcune pagine del suo Le naturel philosophe dedicate al linguaggio; credo sia importante citarne qualche passo: «Parlando infatti a proposito del nome della natura propria ad una cosa, [Platone] intende per ‘natura’ la forma (eidos) – quella cui guarda il costruttore di spole, che non è una spola in particolare o una spola rotta, bensì la forma che deve avere per adempiere il suo compito, la sua funzione di spola il meglio possibile (389a-b). Indentificando la natura con la forma, necessariamente si smette di definire la natura come ciò che è ‘naturale’ e non è ‘per convenzione’; la si fa dunque uscire dalla coppia physis-nomos in cui ciascun termine può essere definito solo come 73 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME La ricerca sull’origine del linguaggio ci aiuta a capire meglio ciò che vado tentando di dimostrare. Il nome-eijkwvn viene a porsi tra la distinzione tra origine per natura e origine per convenzione della parola. Nel capitolo XVII del nostro commento, Proclo spiega che l’essere per natura, to; fuvsei, si può dire in quattro modi, tetracw'": 1) l’essere naturale delle piante, degli animali e delle loro parti; 2) l’essere naturale delle attività e capacità di tali elementi, come, ad esempio, la leggerezza e il calore del fuoco; 3) l’essere naturale delle ombre o dei riflessi negli specchi; 4) e, infine, l’essere naturale delle immagini artificiali, aiJ tecnhtai; eijkovne", che sono in rapporto di somiglianza con i loro modelli, ejoikui'ai toi'" ajrcetuvpoi" eJautw'n62. L’eccezionalità di tale passo, come si può evincere, risiede nel fatto che Proclo faccia rientrare nell’essere naturale delle cose anche le immagini e che tra queste distingua quelle generate involontariamente (come appunto le ombre o i riflessi negli specchi) e quelle create da una sapienza tecnica63. Se Epicuro intende l’opposto dell’altro. Osservando la natura di ‘quel che è il nome’ (389d), il nomoteta impone il nomos, che a sua volta cambia di senso: nomos diventa il nome dell’ordine e della disposizione in ogni natura. L’opposizione physis-nomos aveva finito per assorbire e veicolare un gran numero di altre antinomie: dal lato della natura si trovava la brutalità del fatto in opposizione alla disponibilità illimitata della parola, la positività della cosa in opposizione al termine che è solo un termine, la verità dell’individuo singolo in opposizione all’ipocrisia delle opinioni morali professate dalla collettività. […] Platone … come d’abitudine si rifiuta di prendere i termini dell’opposizione così come gli vengono dati e rifiuta l’opposizione stessa, lavorandone i due termini fino al punto in cui diventa manifesto che l’opposizione era fittizia e non sufficientemente pensata. Ciascuno dei due termini implica l’altro se li si identifica esattamente: physis a eidos e a ousia, nomos a taxis e a kosmos»: Dixsaut 2003, pp. 230-231. 61 È proprio questa la natura dell’eikon: «montrer à travers la différence … que le modèle est purement intelligible, qu’il est incircoscriptible à quelque substrat matériel … et que le seul moyen de le connaître est de saisir sa signification en tant qu’elle peut nouer une relation, toujours la même,avec celui qui cherche cette connaissance en acceptant la médiation ontologique et logique des eikones ou des agalmata»: Vasiliu 2010, p. 150. Cfr. anche Vasiliu 2008, 183-197 e passim. 62 Van den Berg 2008, p. 107 rintraccia in questa ripartizione una reminiscenza aristotelica, in particolare Phys. B, 1, 192b20-23, in cui il filosofo spiega il termine fuvsi" e lo applica primariamente alle piante, agli animali e alle loro parti e definisce kata; fuvsin qualsiasi attributo inerente a questi elementi primi (compresi aria, acqua, terra e fuoco). È possibile anche pensare in parte ad una relazione con la quadripartizione della settima diaresi del Sofista, in particolare con la produzione divina, da una parte, di tutti i viventi e delle realtà naturali (fuoco e acqua e altri elementi) e, dall’altra, di immagini, come il sogno, le ombre e le immagini riflesse in uno specchio: Plat. Soph. 266a8-c4. 63 Il luogo platonico dell’immagine per eccellenza è, come si sa, il finale del VI libro della Repubblica (509d-513e) dove l’immagine della linea divisa pone le eijkovne" nel primo segmento dell’ojratovn, del visibile; qui esse includono proprio le ombre, i riflessi nell’acqua e negli specchi che invece nel testo procliano costituiscono un gruppo separato di immagini prodotte da fattori casuali rispetto a quelle prodotte direttamente dagli uomini. Per una compiuta discussione e presentazione dei temi legati a tale passo platonico, rimando a Repellini 2003 e, per una «inedita configurazione dei tre livelli ontologici» significati dalla linea, all’interno della quale far rientrare un livello preciso di immagini, quelle filosofiche, cfr. Palumbo 2008a, pp. 102-121. Sull’interpretazione dell’immagine della linea divisa nella tradizione platonica cfr. Ferrari 1999. 74 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME l’origine naturale del linguaggio come attività spontanea e necessaria degli uomini, al pari del tossire o dello starnutire, per Socrate64 non è così. I nomi sono immagini create dall’anima umana, sono figli di una ragione scientifica, wJ" dianoiva" me;n ejpisthvmono" e[kgona (In Crat. XVII, 8, 8-9), e non di un impulso naturale, ma di un’anima fantazomevnh, in stato d’immaginazione; essi cioè sono per natura, non in quanto prodotto naturale o attività istintiva, biologica dell’uomo, e nemmeno come ombra o riflesso in uno specchio, ma come frutto di un atto mentale, che stabilisce un rapporto di somiglianza con l’essenza della cosa nominata. Tale atto mentale, come ogni atto mimetico, avviene, secondo Proclo, necessariamente dietro conoscenza scientifica di due elementi, l’archetipo e l’arte demiurgica65. Sarebbe ingenuo ogni tentativo di introdursi in questa sede nell’annoso dibattito circa la definizione del ruolo svolto dalla fantasiva nel processo epistemico così come descritto nel sistema procliano, ma non posso non sottolineare che il riferimento all’immaginazione qui evocata, e che farà ritorno qualche capitolo più avanti, può risultare di grande interesse al riguardo. Nell’In Cratylum, infatti, la fantasiva si connota per avere un ruolo attivo e non passivo in un processo cognitivo che non è di astrazione del dato sensibile, ma piuttosto di raffigurazione, sempre mentale, delle realtà interiori, delle conoscenze intelligibili. L’immaginazione linguistica permette di attribuire un’immagine, invisibile qual è il nome, ad una natura anch’essa invisibile e questa volta anche incorporea, qual è l’essenza della cosa nominata. Tale natura demiurgica della fantasia si ritrova nel Commento al primo libro degli Elementi di Euclide dove la figura geometrica è appunto la schematizzazione mentale del numero, dato più razionale presente alla nostra diavnoia, e non l’astrazione di un ente sensibile percepito attraverso i sensi66. 64 Il testo originale è purtroppo controverso: a differenza che in altri passi del commento, Proclo sembra qui attribuire a Cratilo e a Socrate la medesima posizione rispetto al valore da dare all’origine per natura del linguaggio; anche Cratilo come Socrate penserebbe ad una natura mimetica ma al tempo stesso scientifica e non spontanea. Per una presentazione dello status questionis cfr. Sheppard 1987, pp. 148-149 e Van den Berg 2008, p. 108, n. 42. 65 Così recita lo scolio XX: ”Oti dei' to;n mimhvsasqaiv ti boulovmenon ejpisthvmona ei\nai duoi'n, tou' te ajrcetuvpou, kai; th'" dhmiourgikh'" tevcnh". 66 Cfr. Procl. In Eucl. 52, 20 – 53, 1; 54, 8-12; 121, 6-7 ed. Friedlein; ma anche In Tim. II, 39, 18. In In Crat. CXXIX, 76, 26 la phantasia è definita nou'" morfotikov", intelletto in-formante, capace di produrre raffigurazioni. Sulla relazione tra la matematica e la mitologia, linguaggi entrambi immaginativi, cfr. Trouillard 1982, pp. 47-51. Sul significato che Proclo attribuisce agli Elementi di Euclide e in generale alla geometria cfr. Cambiano 1985 e Giardina 2008. Dopo gli studi di Breton e Charles, che già individuavano 75 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME Andando più avanti nel lavorio esegetico (capp. XLVIII-XLIX), il filosofo licio dimostra ancor più dettagliatamente come l’icona intessa un legame con la forma della cosa di cui essa è immagine, e come, proprio in virtù di questa sua relazione con l’idea essa possa essere chiamata a rappresentare l’origine per natura del linguaggio. Vediamo come procede Proclo nella sua argomentazione. Capitolo XLVIII. Il nominare è un’azione e, come in ogni azione, l’agente agisce tramite uno strumento. Il nome è tale strumento del nominare. Ora, tra gli strumenti alcuni sono per natura, come la mano e il piede, altri per convenzione, come la briglia e il nome. È evidente come qui la polarità tra natura e convenzione si riferisca ad una distinzione tra creazione di fattura divina e una di fattura umana67. Ma in che senso il nome è un fabbricato umano come lo è la briglia? Proclo spiega che di questi strumenti prodotti dalla tecnica umana, alcuni sono prodotti per dare esistenza a qualcosa, come l’ascia, altri, come il nome, per significare e per insegnare. Il nome è, infatti, strumento didascalico e rivelativo dell’essenza delle cose (o[rganon ejkfantoriko;n th'" tw'n gavr pragmavtwn ejstin didaskaliko;n kai; oujsiva", In Crat. XLVIII, 16, 12-13). Seppure lievemente modificata68, riconosciamo in questa frase la ben nota definizione del nome come o[rganon data dallo stesso Platone in Crat. 388b13-14. A questo punto però interviene la riflessione dell’esegeta. In quanto strumento il nome ha bisogno di un fruitore che se ne servirà per indicare qualcosa, per mostrare qualcosa; ma in quanto immagine esso ha bisogno di riferirsi a un modello di cui rivelerà l’essenza. Leggiamo il passo per intero: una funzione produttrice e cosmopoietica della fantasiva (vd. Breton 1969, pp. 122-123 e Charles 1971), è Trouillard a mettere in evidenza come l’immaginazione non abbia una funzione riproduttrice del dato sensibile, sottolineandone invece l’aspetto attivo capace di raffigurare e proiettare le idee dell’anima (vd. Trouillard, ibi, pp. 41-44). Una posizione intermedia è quella di Beierwaltes che pone l’immaginazione a metà tra le conoscenze prime o «a priori», che hanno in sé l’intelligibile, e le conoscenze ultime o «a posteriori», che sono determinate dai sensi (Beierwaltes 1975, p. 159). Sulla funzione mediatrice della fantasiva tra mondo sensibile e conoscenze intelligibili collegata all’o[chma dell’anima, anch’esso intermedio tra l’immaterialità dell’anima e il suo primo contatto con il corpo, si diffonde in maniera molto chiara Barbanti 1998, pp. 237-251. Sulla difficile interpretazione del rapporto tra fantasiva e dovxa così come mostrato nel Commento al Timeo cfr. più recentemente Lautner 2002. Sulla presenza della dimensione immaginativa in campo ontologico, epistemologico e psicologico nella filosofia procliana cfr. Moutsopoulos 1985a. 67 Cfr. Plat. Soph. 265e3-6. 68 Proclo scrive ejkfantorikovn al posto del diakritikovn platonico: si tratta di una sostituzione solo provvisoria, perché corretta qualche riga dopo (p. 16, 24) . 76 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME C’è, da un lato, il nome assunto da chi se ne serve come strumento, dall’altro, quello rivelativo dell’essenza in quanto proveniente dal modello. Come strumento ha bisogno di chi lo usa; come immagine, invece, ha bisogno del riferimento al modello. Sicché è chiaro da tutto questo che il nome non è simbolo né frutto di una convenzione qualsiasi, bensì connaturale alle cose ed appartenente ad esse per natura69. Ebbene, nel suo essere strumento tecnico, il nome è creato dall’uomo come lo è un’ascia; nel riferirsi al modello, nella sua utilità di strumento atto a mostrare l’essenza della cosa, quindi semplicemente nel suo essere immagine, il nome è connaturato alle cose. Poi continua: Ogni strumento, infatti, è stato coordinato con la sua propria operazione70 e non potrebbe adattarsi ad altro se non a ciò per cui è nato: sicché anche il nome, appunto perché è strumento, possiede una certa potenza congenita e collegata alle cose da esso significate (e[cei tina; sumfua' duvnamin kai; toi'" shmainomevnoi" sunhrmosmevnhn), ed essendo didascalico (kai; didaskaliko;n o]n) possiede un ruolo che è rivelativo degli atti del pensiero (ejkafantorikh;n e[cei tavxin tw'n nohmavtwn), ed essendo sceverativo (kai; diakritiko;n o[n) produce in noi la conoscenza dell’essenza delle cose (th'" oujsiva" gnw'sin hJmi'n ejmpoiei' tw'n pragmavtwn)71. È dunque la funzione semantica del nome ad essere naturale – Proclo lo spiega qui in maniera chiarissima – ed è tale funzione ad essere descritta nella relazione che un’immagine intesse col suo modello. Questa relazione è in grado inoltre di spiegare l’atto didascalico e sceverativo della parola: il nome, grazie alla sua funzione semantica, rende visibile ciò che è invisibile, ovvero il pensiero. L’aggettivo ejkafantorikov", deverbativo da ejk-faivnw, verbo del rivelare, del rendere manifesto, esprime bene questa capacità del nome di portare il pensiero 69 Procl. In Crat. XLVIII, 16, 13-19: «kai; e[stin to; me;n ... paralhfqe;n ajpo; tou' crwmevnou tw/' ojrgavnw/, to; d∆ejkfantoriko;n ajpo; tou' paradeivgmato". dei'tai d∆wJ" me;n o[rganon tou' crwmevnou, wJ" de; eijkw;n th'" pro;" to; paravdeigma ajnafora'": w{ste dh'lon ejk touvtwn o{ti oujk e[sti to; o[noma suvmbolon oujde; qevsew" e[rgon th'" tucouvsh", ajlla; suggene;" toi'" pravgmasi kai; fuvsei oijkei'on». 70 Cfr. Arist. Pol. I, 1252b4-5: ou{tw ga;r a]n ajpoteloi'to kavllista tw'n ojrgavnwn e{kaston, mh; polloi'" e[rgoi" ajll∆ eJni; douleu'on. 71 Procl. In Crat. XLVIII, 16, 19-25. La traduzione di Romano è lievemente modificata. 77 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME all’apparenza, alla visione dall’invisibilità in cui esso per natura risiede. Nel capitolo LXXI Proclo dice esplicitamente che è una relazione iconica quella che lega il nome al pensiero della cosa: […] negli dèi questo nominare è unito al pensare […] Nelle nostre anime (ejpi; de; tw'n hJmetevrwn yucw'n), invece, sono distinti e una cosa è il pensiero (kai; a[llo me;n hJ novhsi"), altra cosa è il nome, (a[llo de; to; o[noma) e questo ha il ruolo di immagine (kai; to; me;n eijkovno") l’altro quello di modello (to; de; paradeivgmato" e[cei tavxin)72. Attraverso il nome dunque rendiamo comunicabile il pensiero della cosa, ma lo rendiamo anche intelligibile. Il nome, infatti, permette di discernere l’essenza della cosa e quindi di apprenderla; esso è lo strumento attraverso il quale è possibile diakrivnein, operare distinzioni, ovvero stabilire relazioni e individuare differenze così da arrivare all’oujsiva dell’oggetto nominato73. Capitolo XLIX. Stabilito che non può intendersi l’origine naturale del linguaggio alla maniera epicurea, ovvero come una produzione biologica e istintiva dell’uomo, Proclo deve a questo punto focalizzare l’attenzione sulla posizione aristotelica. Lo fa proprio puntando sull’elemento della funzione semantica e iconica del nome. Si può convenire - egli ammette - con Aristotele (De interpr. 16b33-17a2) sul fatto che a differenza della voce, movimento naturale del corpo, il nome è il prodotto di un’attività umana; ma se tale deduzione conduceva Aristotele a parlare di convenzione, essa trova in Proclo una rielaborazione che mette in discussione i termini stessi del rapporto tra voce, nome e cosa74. Tale rielaborazione, intrisa di filosofia platonica e linguaggio aristotelico, imposta il discorso sulla relazione, rintracciabile nel nome e nella sua funzione semantica, che esiste, da una parte tra la materia e la forma, e, dall’altra, tra il paradigma e l’icona. Leggiamo il testo procliano. 72 Procl. ibi, LXXI, 33, 33-37. Cfr. anche Procl. In Alc. 205, 18-20 ed. Segonds: o{ti kai; ojnovmata tai'" eijkovsin ajpo; tw'n paradeigmavtwn meta; th'" oujsiva" ejndivdotai. 74 Sulla rielaborazione tutta procliana di alcuni passi del De interpretatione cfr. Ruiz Yamuza 1984. 73 78 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME In effetti, gli organi naturali, quali ad esempio la lingua e le arterie e il polmone e simili, da un lato producono la voce, dall’altro contribuiscono anch’essi a produrre il nome in rapporto al suo aspetto materiale (dia; th;n u{lhn), ma il nome in quanto tale lo produce soprattutto la mente dell’onomatoteta (hJ diavnoia…tou' ojnomatoqevtou), la quale adatta, come si conviene, la materia alla forma e al modello (th;n u{lhn sunarmovzei pro;" to; ei\do" kai; to; paravdeigma)75. La distinzione tra materia e forma del nome trova evidentemente espressione in un linguaggio aristotelico, ma, in realtà, essa nasce da un’attenzione all’aspetto fonico76 della parola che, come si sa, è già platonica. Già Platone faceva dire a Socrate della necessità che il legislatore ponesse nei suoni e nelle sillabe il nome conveniente per natura a ciascun oggetto, così come della inevitabile diversità delle sillabe utilizzate da Greci e Barbari per lo stesso oggetto. Come i fabbri, pur realizzando lo stesso strumento per lo stesso lavoro, non lo costruiscono dello stesso ferro, così anche i nomoteti utilizzano ora il dialetto eolico ora quello dorico purché conservino l’ei\do" del nome adatto a ciascun oggetto77. E come per Platone ciò che deve essere tradotto in sillabe e suoni è la funzione semantica del nome, è la sua natura di strumento, così per Proclo tutte le forme degli strumenti devono ricevere le materie adatte all’operazione per la quale noi abbiamo bisogno di tale strumento78. La funzione semantica è ciò che rimane sempre invariato nella produzione onomaturgica, ed è questa appunto la forma di un nome, ciò che esso è per natura: 75 Procl. In Crat. XLIX, 17, 4-9. Il suono sarà visto come la materia del nome anche da Ammonio, In De Int. 25, 2-4 ed. Busse. Sui numerosi punti di contatto tra l’In Cratylum e il Commento alle Categorie di Ammonio cfr. Sheppard 1987 e Van den Berg 2004. Dagli autori alessandrini, in più luoghi, Proclo è citato come la più importante fonte sulla teoria del linguaggio aristotelica. Sulla sua conoscenza delle Categorie ci parla Elias nel suo commento al testo aristotelico (In Cat. 107, 24-26 ed. Busse), su quella del De Interpretatione cfr. Amm. In De Int. 1, 6-11 e Steph. In De Int. 46, 25-47 ed. Hayduck; sulle teorie procliane in relazione agli Analitici Primi e Secondi cfr. Philop. In An. Pr. 40, 30-31 e In An. Post. 111, 31 – 112, 36 ed. Wallies. La presenza consistente di schemi logici formali nell’In Cratylum è secondo Duvick un segno, insieme ad altre caratteristiche stilistiche, della provenienza alessandrina dell’excerptor degli scoli procliani: cfr. Duvick 2007, pp. 2-3. 77 Cfr. Plat. Crat. 389d4-390a8; 393d1-4. 78 Procl. In Crat. LIV, 23, 26-28: «o{ti ta; ei[dh pavnta tw'n ojrgavnwn oijkeiva" e[cein eJautoi'" dei' ta; uJpodecomevna" u{la" sunhrmosmevna" pro;" to; e[rgon ejf∆ o} deovmeqa tou' ojrgavnou». 76 79 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME Socrate dice anche che i nomi, mentre secondo la forma (kata; me;n to; ei\do") sono tutti identici e hanno un’unica potenza (mivan e[cei duvnamin) e sono per natura (kai; fuvsei ejstivn), invece secondo la materia (kata; de; th;n u{lhn) differiscono l’uno dall’altro79 (diafevrei ajllhvlwn) e sono per convenzione (kai; qevsei ejstivn). Infatti, secondo la forma essi hanno somiglianza con le cose (e[oike toi'" pravgmasi), invece secondo la materia essi differiscono l’uno dall’altro80. Il nome dunque è materia e forma, è aspetto fonico, mutevole, e strumento sempre identico a se stesso, ovvero funzione semantica. Ma così come quest’ultima rimane sempre uguale, e rappresenta perciò, nella creazione dei nomi, l’elemento naturale, ovvero eterno e sempre corretto, anche la materia, quella che Proclo ammette essere per convenzione, non è mai arbitraria, anzi è anch’essa soggetta ad un nomos, ad una regola81; e ancora una volta tale regola è descritta in termini di somiglianza e di somiglianza iconica. È l’arte sia ciò che produce [il nome], sia ciò che se ne serve (to; poiou'n aujto; tevcnh ejsti;n kai; to; crwvmenon). Ma poiché ciò che produce il nome lo produce guardando alle cose, e ciò che se ne serve lo fa attraverso la sceverazione delle cose, allora è per questo che il nome è detto per natura sia in quanto prodotto sia in quanto strumento. E infatti esso viene prodotto come immagine delle cose che esso rivela per mezzo degli atti del pensiero (kai; ga;r ãwJ"à eijkw;n ajpotelei'tai tw'n pragmavtwn kai; ejxaggevllei aujta; dia; mevswn tw'n nohmavtwn). […] E tutto ciò è in funzione del dialettico: fine ultimo e bene [del nominare] è il rendere visibili (to; ejkfaivnein) le cose82. Ebbene, è qui evidente come l’elemento del visibile e quindi dell’immagine sia centrale nell’argomentazione procliana. Il nome è in relazione con un modello, 79 Secondo Palumbo, la stessa cosa si può dire delle idee che sono la cosa più simile ai nomi tra tutte quelle che esistono: cfr. Palumbo 2008a, p. 349. 80 Procl. In Crat. XVII, 8, 11-14. Lo stesso parallelismo tra forma/origine per natura e materia/origine per convenzione si trova anche nel cap. X, 4, 16-18. Ricordiamo che in In Crat. LXXX, 37, 22-25, a proposito dell’analisi etimologica dei nomi ∆Astuavnax e ”Ektwr, la forma e la materia sono visti come i diversi oggetti di analisi da parte del filosofo e del grammatico: il primo guarderebbe alla forma e alla cosa significata e perciò vedrebbe i due nomi pressocché uguali, intesi entrambi come ‘colui che governa/possiede la città’; il secondo, invece, guardando alla materia e alle sillabe, li direbbe assolutamente dissimili. 81 Come scrive Criscuolo «il nous faut préciser que le novmo" selon Proclus ne correspond pas à une convention humaine, mais que son existence dérive du novmo" éternel, qui s’exprime par les lovgoi éternel»: Criscuolo 2005, p. 60. Ciò gli consente di poter considerare il nome come un prodotto della natura e della legge. 82 Procl. In Crat. XLIX, 17, 17-23. La traduzione di Romano è lievemente modificata. 80 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME ovvero con l’essenza stessa del nome e quindi con la sua funzione delotica. Questa relazione icastica permette di fare del nome uno strumento evocativo e didascalico e soprattutto permette di distaccare l’onomaturgia dall’arbitrarietà di una convenzione pur ritenendola un’attività umana. All’origine di tale rappresentazione iconica c’è sempre un’attività umana, una tevcnh, ma è un’arte che è essa stessa modellata sulla natura: E infatti la natura, che fa da modello all’arte (to; th'" tevcnh" paravdeigma hJ fuvsi"), non soltanto si prende cura della forma degli strumenti, ma anche della materia che è loro più appropriata83. Tutto ciò, quindi, ci consente di considerare il nome un prodotto dell’attività umana, ma al tempo stesso, corretto per natura, perché modellato su un’idea immutabile, che è quella del nome in quanto strumento delotico, e modellato attraverso un’arte che è a sua volta immagine di un modello eidetico. Il nome è creato dall’uomo proprio perché svolga la sua funzione naturale: è efficacemente artificiale solo se è naturale. L’elemento iconico diventa così uno strumento attraverso il quale spiegare qualsiasi rapporto di relazione tra gli enti, e tra la dimensione umana, mutevole e corruttibile, e quella divina, eterna e perfetta. Nel capitolo CXXXV Proclo esplicita chiaramente questa relazione immaginativa tra i due piani ontologici ma anche epistemologici dell’umano e del divino. Ciascun dio, in tanto dà sussistenza ai nomi divini, che sono per noi inconoscibili e impronunciabili – anche se psichicamente (yucikw'") ci sono in noi tutti i nomi, e gli intellettivi e i divini -, in quanto conosce se stesso e tutte le altre classi divine, e partecipa di tutte e le definisce secondo la sua propria realtà. Se gli atti di pensiero che sono nella nostra anima non sono dello stesso rango dell’Intelletto divino (eij de; mh; sustoivcw" tw/' nw/' eijsin ejn th'/ yuch'/ ta; nohvmata), ma lo sono in maniera iconica (ajll∆ eijkonikw'") e di rango inferiore (ejn uJyevsei), tanto più la nostra anima si sentirà smarrita a pensare in modo puro gli dèi, essa che è soltanto capace di avere nozioni per immagini e dell’essenza di un dio e della sua denominazione 83 Procl. ibi, LIV, 23, 28-30. 81 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME (eijkonikw'" de; movnon duvnatai periv te oujsiva" qeou' kai; peri; ojnomasiva" labei'n ejnnoiva")84. L’atto mimetico e il criterio di somiglianza esistente tra il nome e la cosa nominata postulano così l’analogia della produzione umana onomaturgica e quella demiurgica degli dèi. A partire da questa premessa, vediamo ora più dettagliatamente come agisce l’onomaturgia umana e in che senso essa diventa, nell’argomentazione procliana, una rappresentazione (mivmhsi") di quella divina. 2.3.2. L’anima assimilatrice e il nome a[galma galma Scopo del Cratilo è mostrare, per mezzo della giustezza dei nomi, l’attività generatrice (th;n ... tw'n yucw'n govnimon ejnevrgeian) che le anime esercitano fin negli ultimi enti, nonché la loro potenza assimilatrice (kai; th;n ajfomoiwtikh;n duvnamin) che esse manifestano, per averla ricevuta in sorte nella loro essenza (kat∆ oujsivan lacou'sai)85. Quanto appena riportato è il primo scolio procliano di commento al dialogo platonico. Il linguaggio - apprende l’allievo della Scuola di Atene di V sec. d.C. appartiene alla dimensione psichica dell’uomo che genera e produce rappresentazioni delle cose attraverso i nomi con cui esse sono designate, e che, allo stesso tempo, è capace, per la sua stessa natura, di assimilare tra loro la cosa ed il nome corrispondente. Fin dal primo scolio di commento, quindi nello stesso momento in cui si apprende qual è lo skopov"86 del Cratilo, ci si rende subito conto dell’inconsistenza, almeno nell’interpretazione procliana, di quella lettura polare della riflessione platonica sul linguaggio, che la letteratura secondaria ha da sempre voluto rintracciarvi, ovvero di quella opposizione tra origine per natura e 84 Procl. Ibi, CXXXV, 78, 13-22; la traduzione di Romano è lievemente modificata. Si veda anche CLXXII, 80, 18-19, in cui Proclo, a proposito delle divinità fontali, suggerisce di «interpretare per via analogica il divino attraverso le sue proprie immagini, ajnalovgw" ta; qei'a di∆ eijkovnwn oijkeivwn ejrmhneuvein». 85 Procl. ibi, I, 1, 1-4. La traduzione di Romano è lievemente modificata. 86 Sulla centralità di questo principio esegetico nei commentari neoplatonici cfr. supra p. 42, n. 76. 82 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME origine per convenzione dei nomi. Nell’attribuire l’attività onomaturgica all’anima umana, infatti, Proclo precisa che tali attività e capacità appartengono all’uomo per natura, alla sua essenza87. Tuttavia, proprio perché si tratta di un’attività umana, essa è per natura fallibile: essa, infatti, è meristhv, è particolare, è cioè partecipe di quella molteplicità che appartiene alle cose sensibili in opposizione a quelle intelligibili. Così continua il primo scolio: Ma poiché l’attività delle anime, che è divisibile, spesso fallisce i suoi propri fini, così come accade anche nella natura particolare, allora è logico che ci siano anche i nomi indeterminati88 e circolanti in maniera fortuita e casuale, e che non tutti i nomi siano figli della scienza intellettiva (ouj pavnta th'" noera'" ejpisthvmh" ejstin e[kgona) e non tutti tendano ad essere connaturali alle cose (kai; th'" pro;" ta; pravgmata suggeneiva" stocavzetai)89. Proprio al tentativo di chiarire questo punto cruciale della riflessione procliana sul linguaggio, ovvero il superamento, cui deve condurre una sapiente e fedele lettura del testo platonico, della storica opposizione tra l’origine per natura e l’origine per convenzione del linguaggio, è finalizzata una breve digressione sulla natura della tw'n ojnomavtwn poihtikh; tevcnh, ovvero sull’arte produttrice dei nomi, che l’esegeta introduce nei capitoli LI-LIII del commento. L’analisi delle cause e dei modelli di tale attività condurrà alla definizione di una stretta analogia esistente tra questa e altre produzioni tecniche, come quella demiurgica e quella artistica. Bisogna concepire i nomi come posti e per legge e per natura: «dei' noei'n kai; ta; ojnovmata ei\nai novmw/ kai; fuvsei» - scrive Proclo (In Crat. LI, 18, 13-14). 87 In greco è kat∆ oujsivan; questa formula è utilizzata da Proclo in opposizione a kat∆ ejnevrgeian, kata; mevtexin e kat∆ e{xin: è quindi un’opposizione tra ciò che una cosa è in se stessa e ciò che essa è nel suo agire o manifestarsi. Cfr. Romano 1989, comm. ad loc. (C3), p. 118. 88 In greco è ta; ajovrista ojnovmata: l’aggettivo ajovriston è particolarmente interessante, perché, come abbiamo visto sopra, l’oristica è per Proclo parte della dialettica e coincide con il metodo definitorio, ovvero quel metodo dialettico attraverso il quale è possibile giungere alla conoscenza dell’essenza di una cosa (III, 2, 7-9). L’onomaturgia ha a che fare con la definizione: un nome corretto definisce l’essenza della cosa, ma allo stesso tempo la scienza intellettiva, ovvero la conoscenza dell’essenza della cosa, permette di imporre il nome corretto alla cosa stessa. 89 Procl. In Crat. I, 1, 4-9. 83 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME Il nome ha infatti due cause: una poietica (dia; th;n poihtikh;n aijtivan) che il filosofo definisce ejpisthmonikhv, ovvero fondata su un presupposto universale90; l’altra paradigmatica (dia; th;n paradigmatikh;n aijtivan): il nome, infatti, è sempre qualcosa di relativo ad un modello. In virtù della prima causa il nome è per legge; in virtù della seconda, il nome è per natura91. La legge che stabilisce il nome non è però arbitraria, come vorrebbe ad esempio Ermogene nel testo platonico92, bensì eterna e posta da ragioni intelligibili, eidetiche. Ma perché, se così è, si chiamerà nome sia quello posto giustamente, sia quello posto ingiustamente? Perché - si chiede Proclo - se ci sono una legge universale e un modello naturale all’origine dell’impositio nominis, si pone anche l’esistenza di un nome ingiusto, di un nome scorretto? È questa la domanda fondamentale della questione sul linguaggio: come si sa, infatti, il sottotitolo del Cratilo era, già secondo gli antichi93, Peri; th'" ojrqovthto" tw'n ojnomavtwn, Sulla correttezza dei nomi94. 90 Cfr. Abbate 2001a, p. 32, n. 21: «È opportuno ricordare che nella prospettiva neoplatonica di Proclo una concezione è ‘scientifica’ se è fondata su presupposti universali». 91 Cfr. Procl. In Crat. LI, 18, 15-17. 92 Cfr. Plat. Crat. 385a6-b1 e d7-e3: in questi passi Ermogene difende proprio l’origine ‘privata’ – e dunque radicalmente ‘convenzionale’- del nome, in base alla quale sarebbe lecito a ognuno porre a ciascun oggetto il nome che più gli sia piaciuto di dargli. A mio parere, però, quello qui preso in considerazione da Ermogene è solo l’aspetto fonico della parola, ovvero il suo significante, quello che, come spiega lui stesso, differisce, ad esempio, tra il dialetto eolico e quello dorico, o tra le lingue greche e quelle dei barbari; poco prima (384c9-385a1), invece, aveva parlato di patto e consenso, di legge e di uso, concetti non così arbitrari, tant’è che Socrate era stato pronto a riconoscergli di aver detto qualcosa (ti). È questo, a mio parere, un segno, evidente già in queste prime pagine del Cratilo, di una solo apparente opposizione tra convenzionalismo e naturalismo dell’origine del linguaggio nella stessa riflessione platonica prima che procliana: a questo riguardo si veda Sedley 2003, in particolare le pp. 51-54 che disegnano una nuova prospettiva di lettura del conventionalism di Ermogene. Non è arbitrarietà quella di Ermogene e non è fonosimbolismo quello di Cratilo. Solo per evidentiam si potrebbe notare come al termine della discussione con Socrate, sarà proprio la legge dell’uso, avallata anche da Cratilo, a far cadere questi in contraddizione (434e). 93 Lo attesta ad esempio Olimpiodoro nel Commento all’Alcibiade Primo, 2, 88-89: «diavlogon ... ejpoivhsen, ejpigravya" ‘Kratuvlo" h] peri; ojrqovthto" ojnomavtwn’». 94 È chiaro fin dall’incipit del dialogo: nel presentare a Socrate lo status quaestionis Ermogene, dubbioso, riporta l’opinione di Cratilo secondo la quale ciascuna cosa ha il nome che per natura giustamente le si addice; il piano della discussione quindi non è, continua Ermogene, quello del pezzetto di voce (fwnh'" movrion) emesso da chi chiama il nome come si è convenuto (sunqevmenoi) di chiamarlo, ma di quella certa correttezza dei nomi (ajlla; ojrqovthtav tina tw'n ojnomavtwn) che è per natura presso i Greci come presso i Barbari, che è insomma in tutti la stessa (th;n aujth;n): Plat. Crat 383a4-b1. Sembra interessante notare che è proprio nella contrapposizione alla mutevolezza fonetica che si esprime l’ojrqovth" di un nome: oggetto del dialogo platonico è infatti il shmaivnein, il significare, ovvero la sola funzione che rende un nome nome e rispetto alla quale nessun nome differisce dall’altro, la funzione cioè di «mostrare», dhlou'n, ciascuna cosa quale essa è. Cfr. Plat. Crat. 389d4-e5; 393d1-4; 394a-c; 422c2-9. Su questo argomento cfr. Palumbo 2008a, pp. 341-350. 84 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME Ebbene, Proclo tenta una prima e rapida soluzione: la legge in base alla quale si danno i nomi alle cose è teoretica, conoscitiva dell’universale (novmo" me;n tou' kaqovlou qewrhtikov") e poiché l’universale, ovvero l’idea, ciò che appartiene al livello ontologico dell’intelligibile, è eterno e immutabile, la conoscenza di esso è una conoscenza scientifica, cioè vera e sempre identica a se stessa; le cose corruttibili, invece, in quanto soggette a mutamento, non possono essere oggetto di una conoscenza scientifica, che per sua definizione non può dirsi di qualcosa che è fenomenico, che diviene nel tempo e nello spazio; e, dunque, i nomi posti a cose eterne (ojnovmata toi'" ajidivoi") sono sempre corretti perché di essi si ha quella conoscenza certa in base alla quale può operare la legge onomatotetica; al contrario, rispetto ai nomi di cose corruttibili (tw'n fqartw'n ojnovmata) non c’è da meravigliarsi che la legge universale non possa essere valida: da qui l’esistenza di nomi scorretti95. Si tratta, però, di una prima risposta, a mio avviso, non conclusiva nemmeno per Proclo, quantomeno perché garantisca una piena comprensione della tesi da dimostrare da parte del lettore ideale o dell’allievo a cui i suoi commentari erano destinati. E infatti l’esegeta ritiene opportuno introdurre a questo punto una sintetica spiegazione (suntovmw" ei[pwmen) della natura dell’arte onomaturgica. È come se, così facendo, egli volesse, a mio avviso, meglio indagare la funzione creativa svolta dalla mente umana all’interno della produzione del linguaggio accanto alla legge universale, di cui, come abbiamo visto, ha appena esplicitato il senso. Ciò è evidente da come Proclo tenga a specificare da subito la non coincidenza formale tra l’onomaturgia e l’intera nomotetica, ovvero tra la produzione dei nomi e quella della legge di tutte le cose che è di solo dominio divino. Vediamo allora come si sviluppa il nostro breve excursus. In queste pagine cruciali dell’In Cratylum il Diadoco di Atene assimila l’onomaturgia alla pittura (hJ zw/grafiva) e ad altre arti del genere (aiJ toiau'tai) in quanto dipendono tutte dalla medesima potenza psichica dell’uomo: dalla eijkastikh; duvnami", ovvero, dalla capacità di costruire immagini. Tale capacità è ajfomoiwtikhv96, ovvero 95 Cfr. In Crat. LI, 18, 20-26. L’elemento della somiglianza e dell’assimilazione è trait d’union tra il nome e la pittura già nel dialogo platonico. A proposito dell’analisi degli stoicei'a, gli elementi primi, vocali e consonanti, di cui si compone 96 85 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME assimilatrice, atta a rendere le cose inferiori simili a quelle superiori, le cose poste in combinazione tra di loro a quelle più semplici; per questo principio, l’anima, dotata di tale potenza, può assimilare se stessa agli enti superiori ad essa, dèi, angeli e demoni – finendo per realizzare così, possiamo credere, la oJmoivwsi" tw/' qew/', fine ultimo dell’attività filosofica97; può inoltre assimilare a sé le cose ad essa inferiori, e, ancora, queste agli enti superiori ad essa, da cui dipende la costruzione di statue di dèi e demoni (qew'n te ajgavlmata kai; daimovnwn dhmiourgei')98. Viene quindi ribadita quella dimensione immaginativa del discorso linguistico di cui abbiamo parlato sopra, all’interno della quale, però, va ora specificandosi la modalità con la quale avviene tale produzione linguistica, pari a qualsiasi altra produzione tecnica, una modalità che procede per assimilazioni, per relazioni analogiche. Questa modalità assimilatrice è capace di intrecciare non solo l’anima con ciò che è ad essa inferiore, ovvero gli enti sensibili e le loro raffigurazioni, e con ciò che è ad essa superiore, ovvero il mondo degli dèi, ma anche lo stesso livello sensibile dell’essere con quello intelligibile. Dalla proposizione 195 degli Elementi di teologia possiamo comprendere meglio da dove venga all’anima tale potenza assimilatrice, scoprendo che è la sua stessa natura a stare al centro99 e soprattutto a contenere più elementi. un nome in Crat. 424d8 l’onomaturgo è detto rappresentare l’essenza di una cosa quando le assegna un nome, e quindi gli stoicei'a che lo compongono funzionano kata; th;n oJmoiovthta, secondo somiglianza, proprio come quando un pittore raffigura il colorito del corpo di una donna mescolando i colori secondo la loro somiglianza con il modello da rappresentare; ancora in 426d5, Socrate utilizza proprio il verbo ajfomoiou'n per indicare l’azione della rappresentazione mimetica attiva nella scelta dell’onomaturgo di utilizzare l’elemento primo r (to; ... rJw' to; stoicei'on) per significare, per mostrare la forav, l’esser portato o il portare, rappresentazione che avviene dunque per somiglianza; infine, in 434a3-5 il nome è detto essere necessariamente simile all’oggetto di cui è nome, nel suo intero come nelle sue parti: «oujkou'n ei[per e[stai to; o[noma o{moion tw/' pravgmati, ajnagkai'on pefukevnai ta; stoicei'a o{moia toi'" pravgmasin...…». 97 Sul ritorno dell’anima al divino come fondamento già della filosofia di Platone cfr. Lavecchia 2006. Il tema dell’assimilazione al divino ricorre in Plat. Theaet. 176b1-2, Resp. VI, 500d1-3, Tim. 90c7-d7 e Leg. 176c1-d4. Come sottolinea Ferrari nel commento al passo del Teeteto, sarebbe possibile dedurre soprattutto da questi due ultimi loci che l’ambito divino cui si riferisce Platone non è rappresentato dagli dèi della mitologia tradizionale, ma dalle idee e, a un livello secondario, dagli astri. Cfr. Ferrari 2011, p. 365, n. 202. Per una presentazione della oJmoivwsi" qew/' come ultima tappa nella dialettica ascensiva in Proclo cfr. Beierwaltes 1990, pp. 330-340; 418-421. Più recentemente l’ascesa all’Uno è indagata come un processo di riconoscimento dell’identità individuale da parte del filosofo nel riflesso che del Principio la sua anima accoglie in sé da Vasiliu 2012, pp. 105-147. 98 Cfr. Procl. In Crat. LI, 18, 29 – 19, 8. 99 In In Alc. 320, 19 Proclo definisce l’anima «mevson kevntron tw'n o[ntwn». 86 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME Ogni anima è tutte le cose, quelle sensibili in qualità di modello (paradeigmatikw'"), quelle intelligibili in qualità di immagine (eijkonikw'"). Essendo, infatti, intermedia (mevsh) tra gli enti indivisibili e quelli che si dividono associandosi al corpo, produce e fa sussistere questi ultimi, ma ha lasciata prima di sé le cause da cui deriva per processione. L’anima dunque, in qualità di modello, precontiene come causa le cose a cui preesiste; possiede, invece, per partecipazione … quei principi da cui deriva la sua sussistenza. […] L’anima è di conseguenze la totalità di ciò che esiste: per partecipazione (kata; mevqexin) – nel caso dei principi primi (ta; prw'ta) – in qualità di modello (paradeigmatikw'") – nel caso di quelli che vengono dopo di lei100. Il linguaggio qui impiegato da Proclo è lo stesso che ci ha descritto la natura iconica del nome. L’anima condivide con il nome la natura partecipativa ad un ente che è ad essa superiore e che da essa è rappresentato. Ciò le permette di produrre immagini, di costruire relazioni, proprio come si costruiscono le statue divine. L’anima volendo (boulomevnh) far sussistere delle somiglianze degli enti (tw'n o[ntwn oJmoiovthta") che siano in qualche modo immateriali (ajuvlou") e figlie solo di un’essenza razionale (movnh" th'" logikh'" oujsiva" ejggovnou"), fa uscire da se stessa, servendosi come sua collaboratrice dell’immaginazione linguistica (th'/ lektikh/' fantasiva/), l’essenza dei nomi (th;n tw'n ojnomavtwn parhvgagen oujsivan)101. È un punto cruciale quello qui esposto da Proclo: è la stessa anima umana, sono le sue potenze razionali a produrre non già la materia ma l’essenza stessa del nome. Il nome sembra avere una consistenza materiale addirittura pari a quella di 100 Procl. El. Theol. 195, p. 170, 4-17. La traduzione è di Faraggiana di Sarzana 1985 lievemente modificata. Cfr. Plat. Tim. 35a-b e il celebre passo della descrizione della composizione dell’anima del mondo come realtà intermedia tra il sensibile e l’intelligibile. Ricordiamo che Proclo riprende la teoria dell’anima mediatrice da Giamblico, di cui abbiamo testimonianza grazie ad una serie di frammenti, in gran parte di Giovanni Stobeo, che costituiscono ciò che resta di un suo trattato De anima: sull’argomento cfr. Steel 2006, pp. 94-107 e D’Ancona 2006. Sulla natura mediatrice dell’anima in Proclo, sulla sua duplice natura di immagine e modello scrive pagine fondamentali Steel 1993 (su questo passo cfr. in particolare p. 20). Sul valore che la homoiotes acquisisce nell’ambito della processione ontologica in Proclo si veda Bonfiglioli 2008, pp. 88-99. 101 Procl. In Crat. LI, 19, 8-12. 87 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME una statua marmorea; l’invisibilità di una rappresentazione dell’invisibile, quale è il nome in quanto rappresentazione immateriale dell’idea della cosa nominata, ha la medesima capacità evocativa posseduta nella telestica dalle statue degli dèi102. È in questo modo che il filosofo licio introduce un ulteriore elemento cardine della sua riflessione linguistica, che, come vedremo, sarà al centro anche del suo discorso sulla poesia. Infatti, ad essere statua, a[galma, di qualcosa non sono soltanto le raffigurazioni antropomorfe degli dèi, ma anche l’o[noma103. In un suo prezioso saggio dedicato alla ‘filosofia del linguaggio’ nel Neoplatonismo e ai suoi sviluppi magico-religiosi, Maurus Hirschle nel 1979 si occupò proprio della relazione che il linguaggio intesse con la dimensione magico-teurgica nella fase tarda della tradizione platonica104. Di suo stretto interesse fu allora la storia dell’uso di questo termine intrinsecamente legato ai riti misterici. Ebbene, il primo filosofo neoplatonico cui è possibile attribuire in maniera certa la teoria del nome-a[galma è Ierocle di Alessandria, quell’allievo di Plutarco di Atene di cui abbiamo già parlato a proposito di una sua opera perduta sulla sumfwniva tra Platone e la tradizione arcaica105. Nel commento ai pitagorici Carmina aurea Ierocle paragona gli onomaturghi ai costruttori di statue: essi, grazie ad una sovrabbondanza di sapienza (dia; sofiva" uJperbolhvn), proprio come degli eccellenti ajgalmatopoioiv, hanno rivelato le potenze degli dèi attraverso i nomi (dia; tw'n ojnomavtwn) come attraverso delle immagini (wJ" di∆ eijkovnwn) e infatti il nome di Zeus è simbolo ed icona nella voce, quindi nella veste fonica, nel suo aspetto sonoro, dell’essenza demiurgica, proprio come lo è 102 È lo stesso metodo analogico a mettere in relazione il nome degli dèi con la loro essenza e un oggetto sensibile con le potenze divine: «Perciò, appunto, anche i telesti, rendendo in virtù di questa proprietà [scil. l’analogia], le cose di quaggiù simpatetiche con gli dèi, si servono di questi strumenti come segni (wJ" sunqhvmasi) delle potenze divine, ad esempio, della spola come segno delle divine potenze separatrici, del cratere come segno delle potenze generatrici dei viventi, dello scettro come segno delle potenze egemoniche, della chiave come segno delle potenze guardiane, e così, a proposito delle altre potenze, attribuiscono loro dei nomi facendo uso dell’analogia (ajnalogiva/ crwvmenoi kalou'sin)», In Crat. LVI, 25, 1-7. 103 In In Remp. I, 48, 26 sarà la poesia ad essere detta ‘statua delle Muse’. Per il commento al passo cfr. infra § 3.3.4. Ricordiamo che l’immagine della statua ricorre potentemente anche nel Timeo platonico, pagina 37c6-7, in cui il mondo sensibile, plasmato dal demiurgo ad immagine di quello intelligibile, è detto a[galma degli dèi eterni. 104 Per un superamento invece della lettura magico-religiosa della riflessione linguistica procliana cfr. Haeseli 2008. 105 Cfr. supra § 1.8. p. 49. 88 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME una sua statua nel suo aspetto visibile106. Allo stesso modo per Proclo, dai nomi divini è possibile risalire alle potenze e alle attività degli dèi medesimi, proprio perché essi sono statue degli dèi: è giusto – spiega il filosofo licio – che Socrate in maniera analitica (ajnalutikw'") risalga (ajnatrevcei) alle potenze e alle attività degli dèi, a partire dai loro nomi (ajpo; tw'n qeivwn ojnomavtwn), essendo questi ajgavlmata tw'n qew'n (In Crat. XCVI, 47, 12-14). Stesso contesto si ritrova anche nel Commento al Fedro di Ermia107. Qui l’esegeta esorta ad onorare i nomi degli dèi in quanto simboli, statue e icone (wJ" suvmbola aujtw'n kai; ajgavlmata kai; eijkovna" o[nta) ad essi consacrati dall’anima108. Notiamo come i tre termini ritornino tutti quanti in questi autori, senza darci la possibilità di coglierne particolari differenze, benché il termine eijkwvn sembri comprendere tutti gli altri. Spostandoci oltre Proclo, per arrivare all’ultimo esponente della scuola di Atene, ritroviamo l’immagine dell’o[nomaa[galma nel Commento al Filebo, attribuito a Damascio109 da Westerink nella sua edizione del 1959. Lo scolarca ateniese si trova a dover commentare il passo in cui Socrate dichiara il suo particolare timore reverenziale nei confronti dei nomi divini; egli collega tale atteggiamento a tre possibili fattori: o per il fatto che tali nomi sono consacrati da sempre agli dèi per cui è impossibile mutare l’immutabile, oppure perché essi, secondo il ragionamento che si legge nel Cratilo, appartengono agli dèi per natura, oppure ancora perché, come sostiene Democrito, essi sono come delle statue sonore (ajgavlmata fwnhventa) degli dèi110. Si tratta di un passo che ha suscitato notevole interesse soprattutto per l’identificazione del Democrito cui Damascio attribuisce l’immagine della statua. L’ipotesi che si tratti dell’Abderita è ormai scartata dalla critica moderna. Diels e Kranz posero questo testo dell’In Philebum, allora ancora attribuito a 106 Cfr. Ier. In carm. aur. 25, 2, 4 – 3, 1. Cfr. Hirschle 1979, pp. 39 ss. Cfr. Van den Berg 2008, p. 112, secondo cui l’immagine del nome-a[galma sarebbe comunque interna al neoplatonismo ateniese. 107 Sulla paternità di questo commento cfr. supra p. 50, n. 102. 108 Cfr. Herm. In Phaedr. 70, 4-6. Già Giuliano parla dei nomi degli dèi come delle immagini dipinte: «ta;" me;n ejpwnumiva" tw'n qew'n w{sper eijkovna" grapta;" oJrw'n», Epist. 89b, 291c, p. 159 ed. Bidez. Più intellettualista e geometrico è l’atteggiamento di un altro neoplatonico vissuto tra Porfirio e Giamblico, e cioè Teodoro di Asine, anch’egli autore di un trattato Peri; ojnomavtwn. Sull’argomento cfr. Criscuolo 1999. 109 Su Damascio fondamentale è Napoli 2008, che indaga sugli esiti paradossali dell’ultimo esponente del neoplatonismo che arriva a ipotizzare l’esistenza di un Primo principio ulteriore persino all’Uno e assolutamente ineffabile. Su questo argomento cfr. anche Vlad 2004. Sull’ineludibile esito aporetico di tutta la metafisica neoplatonica, cfr. Abbate 2012b, pp. 91-101. 110 Cfr. Dam. In Phil. 24, 1-4. 89 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME Olimpiodoro, tra i frammenti democritei e lo accorparono al passo di Ierocle sopra riportato (DK 68 B 142). Già Westerink111, invece, riferì la citazione ad un Democrito neoplatonico di III sec. e lo stesso hanno fatto Hirschle112 e Saffrey113. A sostegno di questa tesi si può citare anche il passo dell’In Cratylum (XVI, 5, 25-27), in cui Democrito presocratico è posto da Proclo accanto ad Aristotele tra i sostenitori della tesi di Ermogene, quindi da tutt’altra parte rispetto a quella concezione dell’origine per natura del linguaggio all’interno della quale sarebbe possibile far rientrare l’immagine del nome-a[galma. In Proclo telestica e onomaturgia sono quindi equiparate sulla base della funzione evocativa svolta rispettivamente dalla statua e dal nome rispetto ad un’immagine concettuale presente alla mente del teurgo e dell’onomaturgo con cui essi assimilano la materia sensibile – il marmo e la veste fonica delle parole – alla forma eidetica degli dèi e dell’essenza della cosa nominata. Come la telestica rende, per mezzo di alcuni simboli (dia; dhv tinwn sumbovlwn) e segni indicibili (ajporrhvtwn sunqhmavtwn), le statue di qui simili agli dèi e adatte a ricevere le illuminazioni divine, così la nomotetica dei nomi114, secondo la stessa potenza assimilatrice (kata; th;n aujth;n ajfomoiwtikh;n duvnamin), fa sussistere i nomi come statue delle cose (ajgavlmata tw'n pragmavtwn uJfivsthsi ta; ojnovmata), riproducendo con questo o quel suono la natura degli enti115. 111 Westerink 1959, p. 15. Hirschle 1979, pp. 57-58; 63-65. 113 Saffrey 1979, pp. 8-9 parla di un Democrito di V sec. d.C. Cfr. anche Romano 1989, p. 6, n. 15. 114 Proclo utilizza qui il termine nomoqetikhv; esso è presente nell’In Cratylum in tre diversi significati: in quello più estensivo, comprendente sia la nomotetica delle leggi sia quella dei nomi (LI, 18, 28); in quello di nomotetica dei nomi, quindi onomatotetica, come in questo caso; e in quello di nomotetica delle leggi (LXIII, 28, 15). Cfr. la nota C37 di Romano 1989, p. 139. 115 Procl. In Crat. LI, 19, 12-19. In un passo del Commento al Parmenide Proclo chiama a[galma qualsiasi nome, come per esempio il nome ‘a[nqrwpo"’, da riferirsi sia all’idea noetica del referente, sia al referente sensibile stesso: «I nomi, se sono statue discorsive delle cose (ajgavlmata tw'n pragmavtwn logikav), lo sono primariamente delle cose immateriali, secondariamente di quelle sensibili (IV, 851, 8-10 ed. Cousin). […] E infatti qui ‘uomo’, il nome ‘uomo’ dico, potresti dirlo in un modo (a[llw" mevn) statua della specie divina (a[galma tou' qeivou ei[dou"), in un altro (a[llw" dev) di quella sensibile (tou' aijsqhtou') (IV, 851, 19-21 ed. Cousin)». Questo passo s’inserisce evidentemente all’interno della fondamentale questione sulla relazione del medesimo nome all’idea, unica, e alle cose sensibili, molteplici, e del dibattito intorno all’omonimia di Arist. Cat. 1a1 ss. Copiosa è la bibliografia prodotta intorno a questo argomento, in particolare sugli sviluppi di questo dibattito nella tradizione neoplatonica cfr. Narcy 1981, Chiaradonna 2002, pp. 227-305 e Chiaradonna 2004. Per un commento dettagliato al passo procliano in relazione ai commentari neoplatonici di Aristotele cfr. Bonfiglioli 2008, pp. 99-113. 112 90 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME È ben noto il ruolo svolto dalle statue degli dèi nella telestica, pratica teurgica, accanto a quella medianica, che permetteva all’uomo di entrare direttamente in contatto con gli dèi, consacrando e animando statue magiche per ottenerne oracoli. Eric Dodds nel 1951 dedicava un’appendice del suo The Greeks and the Irrational alla teurgia116, ricavando una descrizione della telestica proprio da alcuni testi procliani (passi del Commento al Timeo e della Teologia Platonica): le statue degli dèi ricevevano un potere medianico da alcuni elementi (suvmbola) vegetali, animali, minerali che venivano posti al loro interno perché considerati possessori di una certa sumpavqeia, ovvero di una potenza evocativa frutto di una naturale comunione con lo spirito divino117. Ancora una volta il sistema metafisico procliano si manifesta compiuto ed ordinato, mostrandosi nella sua stretta trama che tiene unite tutte le cose. Il principio del legame di simpatia cosmica su cui si fonda l’efficacia dei riti misterici ha a che vedere con quella potenza assimilatrice che è propria dell’anima come degli dèi. Nel sesto libro della Teologia platonica Proclo descrive l’ordinamento divino subito successivo alla realtà intellettiva. Gli abitanti di questo livello metafisico, ormai fuori dalle realtà assolutamente trascendenti e prossime al mondo sensibile, sono i cosiddetti dèi ipercosmici, o, con influenze caldaiche, dèi sovrani o dèi fontali. La funzione propria di queste divinità è quella ajfomoiotikhv, ovvero di assimilare tra loro gli enti sensibili che vanno a formare un insieme unitario a sua volta simile, in quanto eijkwvn, al proprio modello intelligibile originario. Infatti ogni immagine (pa'sa eijkwvn) viene prodotta in base alla somiglianza con il modello (kata; th;n tou' paradeivgmato" ajfomoivwsin), e d’altra parte il rendere simili le entità derivate a quelle originarie (to; ajfomoiou'n ta; deuvtera toi'" prwvtoi"), il legare 116 Si tratta in realtà di una ristampa di un articolo già pubblicato nel 1947 nella rivista «Journal of Roman Studies»: Dodds 2003, p. 366, n. 1. Per una puntuale descrizione e contestualizzazione dei riti teurgici e delle pratiche magiche della tarda antichità cfr. Johnston 2008. 117 Cfr. Dodds 2003, pp. 355-360. Se la redazione definitiva degli Oracoli Caldaici, fonte primaria della ritualità neoplatonica, va molto probabilmente datata già alla seconda metà del secondo secolo d.C., la teurgia diventa una pratica diffusa e intrinsecamente legata all’esercizio dell’ascesi mistica con Giamblico. Il De mysteriis risulta oggi, insieme alla Vita Procli di Marino, un testo fondamentale per la ricostruzione di questi sviluppi magico-religiosi della filosofia neoplatonica, secondo i quali l’unione definitiva con l’Uno era ormai riservata non più alla contemplazione noetica, ma al rito. Cfr. su questi argomenti Trouillard 1972, pp. 49-50; Athanassiadi 1999; Van Liefferinge 1999; Barbanti 1983, pp. 143-195; Linguiti 2002 e Knipe 2012. 91 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME insieme tutte le cose per il tramite della somiglianza (di∆ oJmoiovthto" sundei'n ta; pavnta toi'" qeoi'") si confà soprattutto a questi dèi118. È proprio da questo ordinamento divino che deriva la realizzazione di quella sympatheia cosmica, di quella sumplokhv che lega insieme tutti gli enti dell’universo e che permette a Proclo di citare la celebre espressione attribuita da Aristotele a Talete: «pavnta plhvrh qew'n»119, tutto è pieno di dèi. Ed inoltre questo ordine degli dèi regola in modo specifico il rapporto simpatetico tra gli esseri presenti nel cosmo (th;n sumpavqeian tw'n ejn tw/' kovsmw/) e la loro comunione reciproca (th;n pro;" a[llhla koinwnivan). Infatti è per il tramite della somiglianza (dia; th'" oJmoiovthto") che tutte le cose si uniscono le une alle altre (pavnta ajllhvloi" sunevrcetai) […] e che gli esseri superiori fanno risplendere (ejpilavmpei) con generosità il loro dono su quelli inferiori […], e inoltre che si contempla (qewrei'tai) nel cosmo un intreccio indissolubile (sumplokh; de; ajdiavluto"), una comunione universale fra tutti gli esseri (koinwnivan tw'n o{lwn) ed un legame tra gli esseri attivi e quelli passivi (suvndesi" tw'n poiouvntwn kai; 120 pascovntwn) . In una struttura metafisica, che è quindi anche teologica, così delineata, in un ordinamento caratterizzato da una ininterrotta continuità tra i livelli costitutivi del reale, si dispiega in maniera naturale l’efficacia medianica delle pratiche teurgiche. Suvmbola e sunqhvmata, celati all’interno di statue, in preghiere, nel mondo naturale, sono veri e propri strumenti ascetici, dal momento che custodiscono le tracce di quelle potenze divine che sono in grado di evocare. Proclo dà una lista di erbe, pietre magiche, profumi adatti a vari scopi; ogni elemento animale, vegetale o minerale è in relazione simpatetica con una divinità, è o contiene un suvmbolon della sua causa divina ed è perciò in relazione con 118 Procl. Theol. Plat. VI, 3, p. 14, 19-22. La traduzione è di Abbate 2005, lievemente modificata. Cfr. Procl. Theol. Plat. III, 27, p. 98, 22-24. Aristotele attribuisce tale espressione a Talete in De anim. I, 5, 411a6; tale concetto si trova già in Plat. Leg. IX, 899b9 e in Epin. 991d. Su quest’ultimo testo, ormai tradizionalmente attribuito a Filippo di Opunte, e sulla ricezione e diffusione in ambiente neoplatonico cfr. il recente volume di Alesse - Ferrari 2012. Cfr. Saffrey 1999 per un’analisi dell’uso nei testi tardo neoplatonici dei termini sh'ma/shmei'on in relazione alle pratiche teurgiche e alla relazione tra il divino e l’umano. 120 Procl. Theol. Plat. VI, 4, pp. 22, 25 – 23, 5. Sul commento a tale passo e sul ruolo degli dèi giovani nell’ordinamento teologico dell’universo procliano, così come presentato nella Teologia Platonica, cfr. Abbate 2008, pp. 111-114; 143-149. 119 92 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME essa121. Ricordiamo che ancor prima di Proclo è Giamblico a parlare di continuità (sunevceia) e di parentela (suggevneia) tra gli elementi cosmici, affermando che anche le cose della terra non potevano non godere di una partecipazione al divino, cosa che permetteva agli uomini di entrare in contatto diretto con gli dèi servendosi della qeourgikh; tevcnh122. Nel De mysteriis il filosofo spiega come il rito unisce pietre, piante, animali, sostanze aromatiche e altri oggetti simili e attraverso di essi eleva gli iniziati al potere ineffabile degli dèi123. Ebbene, ritornando al nostro commento procliano, abbiamo visto come l’elemento iconico, quello della somiglianza intrecciato al valore demiurgico dell’anima assimilatrice, anch’essa insieme immagine e modello, racconti il processo di produzione dei nomi parallelamente a quello delle statue degli dèi. L’analogia tra la costruzione di a[galmata e la onomaturgia serve a Proclo per introdurre l’altra componente fondamentale della sua riflessione sul linguaggio, quella di natura metafisica e teologica. Principio causale della potenza creativa dell’uomo sono, infatti, gli dèi. Vedremo come questo ci porterà direttamente a parlare del linguaggio poetico come fonte di conoscenza del linguaggio degli dèi e quindi del linguaggio sempre corretto. 2.4. Il nominare divino e il nominare umano nella gerarchia metafisico-teologica del reale In Crat. 388e7-389a3 Platone fa dire a Socrate che chi dà i nomi alle cose non è un uomo qualsiasi, ma l’artefice dei nomi, ovvero l’onomaturgo124; poiché si era appena stabilito con Ermogene, in questa prima parte del dialogo, che è il novmo" ciò che fornisce agli uomini i nomi di cui essi si servono (388d12-14), tale onomaturgo sarà il nomoteta, che è tra gli uomini il più raro dei demiurghi (tw'n 121 Cfr. Procl. In Tim. I, 273, 11; III, 155, 18. Dodds sottolinea come la pratica di costruire statuette magiche, considerate animate da spiriti divini, non fosse assolutamente nuova all’ambiente mediterraneo, anche prima della svolta teurgica al seguito di Giamblico. Essa era già diffusa soprattutto tra gli Egizi: lo testimonia il tardo dialogo ermetico Asclepius che parla di «statuas animatas, sensu et spiritu plenas», III, 24a, 37a-38a (Corp. Herm. I, 338, 358 Scott). Cfr. Dodds 2003, pp. 357-358. 122 Cfr. Iambl. De myst. III, 20, 149, 13-17; IV, 12, p. 195, 13-16 Des Places. 123 Cfr. Iambl. ibi, II, 2, p. 97, 4-9; V, 23, p. 233, 11-15. 124 Per una disamina delle ipotesi platoniche e preplatoniche sull’originaria impositio nominis cfr. il saggio di Belardi 2001. 93 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME dhmiourgw'n spaniwvtato" ejn ajnqrwvpoi"). Ebbene Proclo, mostrando evidentemente di teologizzare Platone, il quale si stava riferendo, nel suo dialogo, ad un artefice umano, benché il più raro, fa diventare questo onomaturgonomoteta il nou'", l’Intelletto divino, quello che nella sua gerarchia metafisicoteologica del reale125 è l’ultimo degli dèi intellettivi, che potremmo assimilare al demiurgo del Timeo platonico126. Il Demiurgo, che è nomoteta dei nomi, è Intelletto (nou'"), che imprime nei nomi le immagini dei modelli (eijkovna" aujtoi'" ejnqei;" tw'n paradeigmavtwn); […] e a me sembra che Platone, stabilendo il Nomoteta come analogo al Demiurgo universale, […] a ragione gli attribuisca anche la produzione di nomi, poiché il Demiurgo universale è, secondo lui, anche il primissimo onomaturgo. Egli in effetti è, come dice Timeo, colui che chiamò (prosagoreuvsa") i movimenti circolari [dell’universo], l’uno movimento dell’identico, l’altro movimento del diverso. […] Ed è per questo che qui Platone denomina il nomoteta Demiurgo e «il più raro dei demiurghi»127. L’analogia tra il Nomoteta dei nomi e il Demiurgo universale fa sì che quest’ultimo sia anche il primissimo onomaturgo; tale identificazione è dimostrata da Proclo sulla base del passo 36c5-6 del Timeo128: nell’atto di creare l’Anima del mondo, il demiurgo dà, nel racconto di Timeo, un movimento circolare uniforme ai due cerchi che la compongono: 125 Sulla teologizzazione del reale come «esigenza e prospettiva teoretica» imprescindibile per una corretta lettura dell’esegesi procliana e sulla sua piena e ordinata attualizzazione nella Teologia Platonica cfr. Abbate 2008, pp. 7-24; più in generale, sulla fondazione di una teologia nel tardo neoplatonismo a partire dall’esegesi dei dialoghi platonici cfr. Hadot 1987 e Abbate 2010. Sul rapporto tra filosofia e teologia in Proclo cfr. Dillon 1991. 126 Sull’identificazione del demiurgo platonico e l’Intelletto procliano cfr. Abbate 2008, pp. 49-51. 127 Procl. In Crat. LI, 19, 22 – 20, 7. 128 Cfr. Abbate 2001a, pp. 50-51: «Secondo il pensiero metafisico neoplatonico […] le Forme Intelligibili sono contenute nell’Intelletto divino, che viene identificato con il Demiurgo di cui Platone tratta nel Timeo. Pertanto le Idee sono concepite come i pensieri stessi del Demiurgo: attraverso tali pensieri egli modella e plasma il mondo. […] Da ciò consegue necessariamente che nella dimensione divina pensiero ed essenza coincidono: pensare viene a significare dunque far sussistere. Con il solo atto di pensiero la divinità genera le cose». Su questo argomento cfr. Romano 1988a. 94 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME Il movimento del cerchio esterno lo definì (ejpefhvmisen) come proprio della natura dell’identico, il movimento del cerchio interno come proprio della natura del diverso129. L’argomento della dimostrazione verte sull’uso del verbo ejpifhmivzw, riutilizzato da Proclo nella forma sinonimica di prosagoreuvw, con cui Platone significa l’azione dell’attribuire il nome ai movimenti appena creati: la creazione di questi movimenti coincise con la loro definizione130. Ricondotta, dunque, l’azione linguistica dell’uomo a quella demiurgica, così continua Proclo: Bisogna imparare sia a riconoscere le differenze tra i nomi che essi ricevono dalle diverse cause produttrici (ajpo; tw'n poihtikw'n aijtiw'n), sia a farli risalire tutti all’unico Demiurgo che è il dio Intellettivo131. Fin qui l’analogia tra Demiurgo e onomaturgo. Ma se la creazione del mondo sensibile ad opera del Demiurgo universale e l’impositio nominis possono essere comparati su un piano analogico, ciò è possibile anche sulla base del processo di assimilazione come di una copia al suo modello attivo e nella produzione del mondo sensibile in quanto mivmhma del mondo intelligibile, e nella produzione del nome in quanto mivmhma dell’essenza della cosa nominata132. Infatti anche 129 La traduzione è di Fronterotta 2003. Proclo ritorna su questo stesso concetto pochi capitoli più avanti: in In Crat. LXIII, 27, 17-20, nel delineare il rapporto tra il nomoteta, il dialettico e il giudice rispetto al linguaggio, egli stabilisce l’analogia di Zeus Demiurgo con il Nomoteta, ovvero con colui che, come vuole la tradizione platonica, «impone alle anime le ‘leggi fatali’ (Plat. Tim. 41e2-3) e ‘colui che assegna’ (ejpifhmivzonti) i nomi ai movimenti circolari dell’universo (Plat. Tim. 36c4-5)». Sull’identità Zeus-Demiurgo, stabilita da Proclo anche e soprattutto nella Teologia Platonica, cfr. Abbate 2008, pp. 132-134. 131 Procl. In Crat. LI, 20, 16-18. 132 È, come si sa, già Platone a parlare del nome come mivmhma dell’essenza della cosa di cui esso è nome, e lo fa in Crat. 423b1-424a6; ed è sempre Platone a parlare del mondo sensibile plasmato dal demiurgo come immagine del mondo intelligibile e lo fa in Tim. 28a-29b. Illuminanti, riguardo alla natura mimetica della produzione linguistica, sono le pagine del già citato studio di Lidia Palumbo dedicate proprio al Cratilo: cfr. Palumbo 2008a, pp. 334-364. In esse la studiosa dimostra come le parole, quelle filosofiche, siano le immagini più vicine alle idee, «ciò che di meno empirico, ma pur sempre empirico, esiste nel mondo empirico». Le parole sono il solo strumento attraverso il quale poter misurare la differenza ontologica, poter percorrere la distanza tra i modelli e le loro rappresentazioni. «Ciò che rende la parola un caso di mimesis assolutamente unico, e diverso da tutti gli altri casi di mimesis, è il fatto che essa non solamente rappresenta un’essenza (come tutti gli altri enti empirici), ma rappresenta l’atto stesso del rappresentare le essenze»: p. 130 95 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME l’Intelletto demiurgico, come l’anima, svolge un’attività assimilatrice (hJ tou' dhmiourgikou' nou' ajfomoiwtikh; ejnevrgeia) che però è duplice: l’una in base alla quale fa sussistere il mondo nella sua interezza guardando al modello intelligibile (to; nohto;n paravdeigma blevpwn); l’altra in base alla quale assegna a ciascuna cosa il nome appropriato (LI, 20, 22-25)133. Ed è importante, a mio avviso, notare come a fare da trait d’union tra la produzione demiurgica e onomaturgica dell’Intelletto divino sia ancora una volta l’immagine della statua. Nel capitolo XVI dell’In Cratylum (6, 12-13) Proclo parla delle immagini e dei concetti essenziali contenuti nel pensiero dell’Intelletto divino proprio come di statue degli enti, ajgavlmata tw'n o[ntwn. Ma verso cosa guarda il falegname quando costruisce la spola? È questa la domanda, posta da Platone in Crat. 389a6-7, cui Proclo tenta di rispondere nel capitolo LIII del suo commento. Le cause e i modelli (aijjtiva" kai; paradeivgmata) dei prodotti artigianali (tecnhtw'n) e i prodotti artigianali stessi si trovano su due piani opposti: i primi sono dotati di essenza e di misura appropriata, sono in relazione con il tutto e procedono per mezzo della natura; i secondi, invece, sono tutti privi di essenza, mutano in tutte le maniere a seconda dell’uso che se ne fa, non hanno alcun limite per quanto concerne le loro parti e le loro posizioni, e differiscono dalle cose che sussistono per natura. Eppure mondo divino e mondo artistico hanno un processo produttivo analogo134. Se qualcuno definisse le potenze, con cui gli dèi producono e generano, arti (tevcnai) demiurgiche, intellettive, generatrici e perfettrici noi non ci opporremmo135. […] Se qualcuno, scorrendo qua e là queste analogie (kata; tauvta" ta;" ajnalogiva" ejkperitrevcwn), denominasse queste potenze divine (ta;" me;n tw'n qew'n dunavmei") cause di queste arti (aijtiva" tw'n tecnw'n touvtwn), e i prodotti di tali 339, n. 14. Sulla chora come luogo mimetico del mondo intelligibile cfr. nello stesso volume le pp. 302-333 e Palumbo 2008b. Sulla funzione mimetica dei nomi nel Cratilo cfr. anche Fattal 2009. 133 Anche in Theol. Plat. I, 29, p. 124, 12-20 Proclo parla, sempre a proposito della produzione dei nomi divini, di una scienza umana capace di produrre (dhmiourgei') somiglianze (oJmoiwvmata) delle cose, proprio prendendo a modello l’attività produttrice dell’Intelletto, che fa sussistere (uJfivsthsi) sulla materia riflessi (ejmfavsei") delle primissime Forme che esso possiede in se stesso (tw'n ejn auJtw/' prwtivstwn eijdw'n). 134 Mi sono occupata più specificamente di questo argomento in De Piano 2013. 135 Procl. In Crat. LIII, 21, 13-17. 96 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME potenze irradiazioni (ejklavmyei") che circolano per il mondo intero, direbbe il giusto136. Ma quali sono queste analogie cui allude Proclo? Ce le indicano le fonti orfiche: esse parlano delle creazioni divine proprio in questi termini e dicono i Ciclopi «aJpavsh" tecnikh'" poihvsew" aijtivou"», cause dell’intera creazione artistica (LIII, 21, 17-20). Nel fr. 178 K. Atena è detta superiore a tutti gli dèi nel tessere la tela e nell’ispirare le operazioni della filatura. L’analogia si fa però più stringente quando la tessitura cui si riferisce Proclo non è più quella che intreccia la trama con l’ordito, bensì quella che intesse la generazione dei viventi. Sempre secondo la testimonianza orfica, Atena fa parte della catena di Persefone generatrice dei viventi: nel fr. 192 K. si legge che, mentre Persefone permane in alto, il suo coro tesse l’ordinamento della vita (uJfaivnein to;n diavkosmon th'" zwh'"); anche Platone viene letto in questo senso: nel passo 41d1-3 del Timeo, il demiurgo viene rappresentato nell’atto di ordinare ai demiurghi giovani di intrecciare (prosufaivnonte") la specie mortale della vita insieme con quella immortale. Da Atena dunque non dipende solo l’arte tessile di noi umani, ma, prima ancora di questa, quella che opera attraverso la natura e che sunavptei, lega insieme il generato con l’eterno, il mortale con l’immortale, il corporeo con l’incorporeo, il sensibile con l’intelligibile. Ecco che allora ciascuna delle arti umane deve essere fatta risalire alla primissima produzione tecnica che è quella tektonikh; o{lh, quella costruttiva dell’intero137. Perciò, bisogna dire che gli artefici umani operano sotto la guida e la soprintendenza degli dèi senza, per questo, contemplare gli Intelligibili (ta; nohtav). Essi operano, infatti, non guardando verso questi [come fa il Demiurgo universale], ma verso le forme e i concetti (ei[dh kai; tou;" lovgou") che essi possiedono dei prodotti della loro arte, concetti che essi o scoprono da sé o ricevono da altri138. 136 Procl. ibi, LIII, 22, 15-19. Cfr. Procl. In Crat. LIII, 22, 19-25. 138 Procl. ibi, LIII, 22, 28 – 23, 2. 137 97 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME È questo un passo, a mio avviso, fondamentale in cui la produzione artistica assume una dimensione evidentemente nuova rispetto al modello platonico. Proclo sta riprendendo i passi 596b-597e e 601c-602a del decimo libro della Repubblica strettamente legati a Crat. 389a5-b6, in cui Platone si concentra proprio sui modelli del processo mimetico attivi nella produzione degli enti sensibili e delle copie artistiche di questi ultimi139. Il filosofo neoplatonico così commenta: Il primo demiurgo del letto o della spola ha pensato (ejnenovhsen) quale deve essere la spola, volgendo lo sguardo all’uso che se ne debba fare e, facendosi guidare da questo, si costruisce da sé un concetto di spola (lovgon sunesthvsato par∆ eJautw/' kerkivdo"); gli altri, invece, imparando da questo (para; touvtou maqovnte") ne apprendono l’idea (e[gnwsavn te to; ei\do") e in base a questa costruiscono un’immagine della spola (poiou'si to; th'" kerkivdo" ei[dwlon)140. Nella Repubblica e nel Cratilo di Platone l’artigiano e l’onomaturgo, nel costruire la spola e il nome, volgono lo sguardo all’idea della spola e all’idea del nome e, facendosi aiutare dall’utente dei loro prodotti, rispettivamente il tessitore e il filosofo, creano la spola e il nome. Il pittore della Repubblica è invece un mimhthv" che non guarda alle idee ma alle cose, e crea le cose così come appaiono, riflesse in un kavtoptron, in uno specchio, immagini di cui l’artista non ha né conoscenza né corretta opinione trasmessagli da chi usa quelle cose. In questo capitolo del Commento al Cratilo, diversamente, l’artigiano costruisce la spola guardando al concetto mentale di spola che egli avrà concepito facendosi aiutare dal tessitore, ma il pittore, demiurgo quanto l’artigiano, apprende da questi l’idea e in base ad essa costruisce un’immagine mentale141 della spola ad imitazione 139 Per l’approfondimento delle questioni relative alla produzione mimetica indagata da Platone in questi luoghi si veda Palumbo 2008a, in particolare pp. 50-102 e 334-364. 140 Procl. In Crat. LIII, 23, 2-7. 141 La nozione di forma mentale dell’artista è in realtà molto antica; Senofonte l’attribuisce a Socrate in Symp. 4, 21, ma la si ritrova anche in Plat. Gorg. 503e; Arist. Met. I, 6, 988a4; VII, 7, 1032a32-b1. Ne abbiamo un’attestazione anche in Cic. Or. 8-10; secondo Dillon 1996, pp. 93-95, la fonte di Cicerone sarebbe Antioco. Sappiamo inoltre che Plotino, prima di Proclo, approntò un tentativo di riabilitazione della produzione artistica proprio ipotizzando l’esistenza della celebre forma mentale presente alla mente di Fidia nell’atto di scolpire la statua di Zeus (Enn. V, 8 [31], 1-2). Cfr. anche Procl. In Tim. I, 265, 18-24; 266, 11-14; 98 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME della quale modella la sua creazione artistica: il suo modello è una forma, non un ente sensibile142. Ciascun artista (e{kasto" ... tecnivth") possiede della spola il concetto (lovgon) e a somiglianza di quel concetto (pro;" tou'ton) plasma (ajpeikavzei) la materia esterna (ta; ejktov"). L’arte (hJ ga;r tevcnh), infatti, cos’altro è se non il suo prodotto (to; tecnhto;n) esistente nell’anima dell’artefice (ejn th'/ tou' tecnivtou yuch/'), al di fuori della materia (e[xw th'" u{lh")? E puoi vedere come tutto ciò sia la rappresentazione (mimhvmatav ejsti) dell’arte demiurgica e delle Forme Intellettive143. Quello qui descritto da Proclo è lo stesso atto creativo della forma del nome di cui abbiamo detto sopra e tale sovrapposizione è resa possibile da quella struttura analogica fondativa delle gerarchie ontologiche e metafisiche del sistema procliano, secondo la quale l’uomo e il Demiurgo universale finiscono per condividere, sebbene con potenze differenziate, la stessa attività produttrice e generatrice del reale. Nella produzione artistica come nella produzione onomaturgica, mosse dalla stessa potenza produttrice di immagini e assimilatrice dell’anima, l’uomo si rende artefice finanche di una rappresentazione vicinissima In Parm. III, 793, 31 – 794, 1. Sulla natura intelligibile del modello artistico e sullo statuto ontologico dell’opera d’arte in Proclo cfr. Moutsopoulos 1985b e Moutsopoulos 2010, pp. 51-56. 142 È qui che si consuma, a mio avviso, la distanza di Proclo dal suo modello: la pittura intesse un rapporto di stretta relazione con l’invisibile, l’immateriale, che pur non essendo l’idea della cosa rappresentata, è pur sempre una sua rappresentazione presente alla mente dell’artista. Diversa è la posizione di Platone: il nome è sì mivmhma dell’essenza di una cosa così come la pittura è mivmhma del suo colore e della sua forma, ma queste due rappresentazioni mimetiche agiscono su oggetti diversi e in modo diverso: la prima, quella del nome, ha per oggetto un’idea, l’intelligibile, e rappresenta attraverso qualcosa di incorporeo, lettere e sillabe; la seconda ha per oggetto una cosa sensibile e rappresenta attraverso la materia, qualcosa che è necessariamente visibile. In Crat. 430a10-b4 to; o[noma è detto mivmhma tou' pravgmato" proprio come ta; zwgrafhvmata sono mimhvmata pragmavtwn tinw'n, ma in un altro senso. Ritorna anche l’elemento della somiglianza che abbiamo visto essere a fondamento della produzione onomaturgica e artistica: il nome e la raffigurazione pittorica assegnano a ciascuna cosa ciò che le è conveniente e simile: to; prosh'kovn te kai; to; o{moion (430c12-13), ma subito dopo si dice anche della differenza sostanziale tra pittura e onomaturgia: la prima può essere solo giusta o ingiusta, la seconda anche vera o falsa (430d1-6) e questo proprio perché il nome è la rappresentazione dell’essenza di una cosa, quindi di un’idea, mentre la raffigurazione pittorica è la rappresentazione di un ente empirico: «C’è una differenza, nel mondo delle rappresentazioni, tra la correttezza e la verità: la correttezza riguarda la maniera adeguata che ha un’immagine di rappresentare il suo oggetto (ciò di cui è immagine), il suo grado di somiglianza ad esso; la verità, invece, riguarda la possibilità di mostrare l’idea»: Palumbo 2008a, p. 354. Sulla differenza tra correttezza e verità in Paltone cfr. Casertano 2007, pp. 120-123 e, in particolare, sulla differenza del modo di guardare all’una e all’altra da parte di Cratilo e Socrate cfr. Casertano 2005b, pp. 136-143. 143 Procl. In Crat. LIII, 23, 10-15. 99 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME non alla cosa che rappresenta, ma alla sua essenza. L’elemento divino in Proclo si fa causa analogica di una potenzialità creativa umana, non solo filosofica, ma finanche tecnica. La capacità assimilatrice, quella che permette all’anima umana di assimilare se stessa agli enti superiori ad essa, quella dunque che permette al filosofo di realizzare la sua oJmoivwsi" tw/' qew/', è la stessa che consente all’onomaturgo di dare un nome alle cose144, e allo scultore di costruire statue di dèi, perché è la stessa potenza assimilatrice che permette al Demiurgo universale di costruire il mondo assimilandolo alle Forme Intelligibili contenute nel suo pensiero. A conclusione della sua breve digressione sulla natura dell’arte onomaturgica, Proclo ha dato un’ulteriore risposta alla domanda cruciale sulla correttezza dei nomi. Perché esistono nomi scorretti se questi nomi sono per natura? Perché il rapporto fuvsei che esiste tra nome e cosa nominata è lo stesso che esiste tra l’idea della spola e la spola, tra il concetto mentale della spola e la sua raffigurazione artistica. In tutte le produzioni tecniche c’è una distanza mimetica tra il prodotto e il suo modello, da qui la possibilità che si generi un vizio, ma tale modello, in Proclo, anche per la produzione tecnica e per quella artistica ha a che fare con l’elemento eidetico, è cioè il concetto mentale prodotto dalla contemplazione della forma e a cui va fatta risalire la stabilità dell’essenza di nome, di spola e di statua. E se ciò è possibile, se è possibile che la forma-modello delle produzioni artistiche, pur essendo opinativa (doxastikhv), rispetto a quella intellettiva e scientifica, di cui sono mimhvmata rispettivamente gli enti sensibili prodotti dal Demiurgo e i nomi prodotti dall’onomaturgo145 (LIII, 23, 23-25), se tale forma dunque è pur sempre qualcosa di eterno e non fenomenico, pura apparenza come in Platone, è perché la costruzione metafisico-teologica del reale 144 «When we give philosophically sound names based on our contemplation of the Forms, we imitate the divine Demiurge. Thus the very activity of naming makes us like God»: Van den Berg 2008, p. 140. Una puntuale analisi dell’analogia tra la produzione demiurgica dell’Intelletto divino e quella onomaturgica dell’anima umana è alle pp. 139-147; meno interessante il commento al cap. LIII (pp. 147-151) sui modelli della produzione tecnica, che non tiene in alcun conto concetti come quello di analogia tra onomaturgia e arti figurative o quello di rappresentazione mimetica. 145 Così conclude Proclo l’excursus analogico tra produzione tecnica, onomaturgia e demiurgia: «Dunque, ciò che è la spola in rapporto al falegname, i nomi lo sono in rapporto al nomoteta, e tutti gli enti mondani in rapporto al Demiurgo. Le forme, dunque, sono di tre specie (ta; ou\n ei[dh tricw'"), intellettive scientifiche opinative (noerw'" ejpisthmonikw'" doxastikw'"); delle intellettive sono [rappresentazioni] tutti i sensibili, delle scientifiche i nomi, delle opinative le spole»: In Crat. LIII, 23-25. 100 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME richiede, nella prospettiva procliana, una profonda armonia e una stretta analogia tra i diversi livelli ontologici in cui esso si dispiega. Individuato allora il rapporto analogico tra onomaturgia umana e quella divina, passeremo ora ad analizzare in quale punto della riflessione procliana sul linguaggio si situa più specificamente l’attività poetica e in che senso, accanto agli dèi, sono detti da Proclo causa della creazione stessa dei nomi anche i poeti «che sono ispirati e che pervengono alla verace onomaturgia»146. 2.5. L’enthousiasmos del poeta maestro del filosofo I capitoli LXVIII-LXXI dell’In Cratylum ci aiutano a capire qual è il ruolo assegnato da Proclo alla poesia all’interno della sua riflessione linguistica. A mo’ di riepilogo della questione fin lì discussa dal commentatore tardo neoplatonico – e fin qui da noi presa in esame – e a mo’ d’introduzione del nuovo elemento da cominciare a considerare – quello poetico appunto – il capitolo LXVIII così si apre: Poiché i nomi sono rappresentazioni e immagini dell’essenza delle cose (tw'n ojnomavtwn mimhmavtwn o[ntwn tw'n pragmavtwn th'" oujsiva" kai; eijdwvlwn), e sono coordinati con coloro che operano tali rappresentazioni (kai; sustoivcwn toi'" mimhtai'"), a ragione Socrate, nel compiere la sua ricerca sui nomi, fa menzione dell’uno e dell’altro nome di ciascuna coppia (ajmfotevrwn me;n eij" th;n peri; tw'n ojnomavtwn skevyin poiei'tai mnhvmhn)147. Abbiamo visto come il rapporto che lega il nome al suo referente è un rapporto iconico e come l’onomaturgia, proprio in quanto attività di assimilazione di un elemento ad un altro, sia un’attività umana condivisa per analogia con la dimensione divina. Referente, nome e onomaturgo sono dunque strettamente legati, essi appartengono ad uno stesso genere. Ora, essendoci questo rapporto di sustoiciva148 tra l’origine del nome e il nome stesso, è logico, secondo Proclo, 146 Procl. In Crat. LXXXVIII, 44, 8-25. Procl. In Crat. LXVIII, 29, 6-9. La trad. di Romano è lievemente modificata. 148 Sul concetto di sustoiciva come correlazione tra due elementi appartenenti allo stesso genere si veda Arist. Met. I, 5, 986a23 e Top. 114a27. 147 101 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME che Socrate, nella sua ricerca dei nomi, ad un certo punto del dialogo platonico, faccia menzione del nome umano e del nome divino dello stesso referente. Si tratta della famosa sezione omerica del Cratilo, nella quale il poeta dell’età arcaica viene considerato fonte di verità sulla conoscenza dei nomi (391c8393b4). Per meglio comprendere la posizione procliana, è bene riassumere brevemente questa parte del dialogo socratico con Ermogene. Approdati, almeno temporaneamente, alla tesi cratilea secondo la quale le cose ricevono i nomi dalla natura e non tutti possono essere artefici dei nomi, ma solo coloro che sono in grado di guardare all’idea del nome e di porre tale idea nelle lettere e nelle sillabe (390d9-e4), Ermogene, non definitivamente persuaso, propone allora di riflettere su cosa s’intende per quella correttezza dei nomi che, sembra, questi ricevono dalla natura. Socrate comincia con l’abituale dichiarazione di ignoranza. Egli non sa nulla ma volentieri indaga insieme con il suo interlocutore. Propone allora di apprendere da chi già sa e si fa pagare per questo, e cioè dai sofisti; proposta, questa, evidentemente da scartare, ribatte Ermogene, visto che proprio il relativismo protagoreo aveva condotto alla negazione di un’origine per convenzione del linguaggio (391b9-c7). Allora, conclude Socrate, è necessario imparare da Omero e dagli altri poeti e in particolare dai quei passi «grandiosi e bellissimi» (mevgista de; kai; kavllista) in cui, a proposito dei medesimi oggetti, Omero distingue i nomi con cui li chiamano gli uomini e quelli con cui li chiamano gli dèi (391c8-d7). Il nome divino delle cose è infatti necessariamente corretto e allora l’analisi di quei nomi e della loro differenza rispetto ai nomi umani potrà fare chiarezza su cosa s’intende per ojrqovth" tw'n ojnomavtwn. Ebbene le tre coppie di nomi divini e umani cui Socrate si riferisce sono rispettivamente Xavnqo" / Skavmandro" (riferiti al fiume della Troade contro cui si trovò a combattere Efesto, Il. XX, 74), calkiv" / kuvmindi" (riferiti al piccolo uccello di Il. XIV, 291) e Bativeia / Murivnh (riferiti alla rupe antistante Troia, Il. II, 813). Socrate, però, non si sofferma sull’analisi di questa doppia denominazione, si limita a denunciarne l’importanza, quasi ammettendo che di fronte ad un’origine divina del linguaggio non si possono avanzare ragioni dialettiche che ne dimostrino la validità scientifica. «Indagare queste cose forse è 102 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME cosa più grande di me e di te»149, concludeva il filosofo di Atene, passando invece a proporre spiegazioni sulla correttezza dei nomi di sola produzione umana150. Al contrario, è proprio su questa pagina del dialogo platonico che si diffonde il nostro commentatore. Nella lettura procliana, Socrate, nel citare la doppia denominazione, non farebbe altro che confutare dei nomi umani l’opinabilità (th;n dovkhsin) e l’assenza d’immaginazione (to; keno;n th'" fantasiva") e, al contrario, mostrare dei nomi divini il carattere ispirato (to;n ejnqeasmovn) e la loro capacità di indicare l’oggetto della ricerca (th;n peri; tw'n zhtoumevnwn e[ndeixin)151. Deduzione questa assolutamente procliana. Il testo del maestro ha generato ben altra riflessione e l’esegesi è divenuta speculazione filosofica. Se si sottopongono i nomi degli dèi e quelli degli uomini ad un attento confronto risulterà evidente, per Proclo, la superiorità, quanto a correttezza e bellezza, dei primi sui secondi e lo Scolarca ateniese a differenza di Socrate, indugia su tale disamina152. Le conclusioni che da questa derivano sono di massimo interesse: il nome degli dèi è manifestazione di conoscenze attive (drasthrivou") e non passive (paqhtikav") e perciò rivelative delle caratteristiche essenziali e non accidentali della cosa nominata; il nome degli dèi è frutto di conoscenze razionali (logikav") e non naturali (fusikav") come quelle degli uomini, perché contiene in sé la causa originaria e l’essenza di ogni cosa e non solo le sue qualità apparenti, le sue caratteristiche immediatamente osservabili; infine, il nome degli dèi manifesta, anche a livello fonosimbolico, conoscenze armoniose (ejnarmonivou") rispetto a quelle non-armoniose (ajnarmovstou") che ispirano i nomi degli uomini153. Esiste però una possibilità che i nomi imposti dagli dèi alle cose siano rivelati ai mortali e questa possibilità è rappresentata dal poeta in stato di possessione 149 Plat. Crat. 392b1-2. Sulla questione della lingua degli dèi e degli uomini nell’antichità a partire da questi famosissimi passi omerici sono ancora fondamentali gli studi di Lazzeroni 1957 e Gambarara 1984 (di quest’ultimo si vedano in particolare le pp. 120-135); in West 1966, pp. 386-388, nota al v. 831 della Teogonia esiodea, è possibile trovare un utile elenco dei brani della letteratura greca in cui vengono indicati nomi e termini della lingua degli dèi. 151 Procl. In Crat. LXVIII, 29, 9-11. 152 Cfr. Procl. ibi, LXXI, 34, 12 – 35, 13. Per una puntuale ricostruzione di tale indagine procliana sulla differenza tra il nome divino e umano della stessa cosa e sui motivi della superiorità dei primi sui secondi, rinvio ad Abbate 2001a, pp. 73-86. 153 Le tre caratteristiche si deducono dall’analisi delle coppie nome divino / nome umano rispettivamente di Xavnqo" e Skavmandro", Murivnh e Bativeia, calkiv" e kuvmindi". 150 103 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME divina. Proclo lo dice esplicitamente in questi capitoli. La potenza delotica del nome divino può essere trasferita ai filosofi proprio dai poeti. Coloro che sono ispirati (ejnqousiavzonte") hanno il compito di mostrare tale segno del reale oggetto di ricerca, di cui sono a conoscenza per insegnamento divino, agli uomini capaci di sunora'n, a quelli cioè che sanno guardare in maniera complessiva e complessa alle cose154. È noto che saper ricondurre ad un’idea unitaria più elementi è un metodo di ricerca che Socrate nel Fedro attribuisce, assieme a quello della diairesis, proprio all’uomo filosofo, al dialettico155. La poesia si fa fonte di verità proprio per quel modello più alto di conoscenza, che è il sapere filosofico. A questo punto l’arte poetica diventa d’interesse fondamentale per il filosofo licio e ancora una volta l’esegeta si trova a dover sciogliere un possibile segno di inconstantia del discorso platonico156. Anche ora, come nei capitoli precedenti dedicati all’indagine etimologica157, Proclo deve dimostrare la perfetta coerenza del discorso di Platone intorno alla poesia. Egli inizia didatticamente, anche ora, da una domanda: Perché Platone, dopo avere bandito dalla sua repubblica i poeti omerici in quanto imitatori (wJ" mimhtav"), ora li reintroduce come maestri divinamente ispirati della giustezza dei nomi (wJ" ejnqevou"... kaqegemovna" tw'n ojnomavtwn th'" ojrqovthto")?158 154 Procl. In Crat. LXVIII, 29, 11-12. Cfr. Plat. Phaedr. 265d3-266c1. Sul procedimento dialettico in Platone cfr. Dixsaut 2001 e, in relazione a questo passo, Vegetti 2003b, pp. 186-187. 156 A Platone furono mosse da molto presto accuse di inconstantia dalle scuole rivali. Cicerone riferisce di un certo Velleio, aderente alla scuola epicurea, per il quale «de inconstantia Platonis longum est dicere»: Cic. Nat. deor. 1, 30. E da subito l’esegesi accademica, per difendere il corpus platonicum da tale accusa, adottò precise strategie ermeneutiche, quali l’interpretazione ejk (ajpov) proswvpou, che conciliava tesi opposte assegnandole a personaggi diversi, o la classificazione per carattere dei dialoghi che stabiliva per ciascuno di essi oggetto, natura e finalità così da poter fornire al lettore l’atteggiamento ermeneutico più conveniente da adottare nei confronti di ciascun dialogo, e infine la definizione di un preciso ordo lecturae dei dialoghi al quale affidarsi per una corretta interpretazione della filosofia platonica. Sull’inconstantia platonica cfr. Erler 1996, p. 520 e Ferrari 2001, pp. 538 ss.; sulle strategie ermeneutiche della prima esegesi accademica cfr. ancora Ferrari 2010, pp. 56-59. 157 Cfr. supra § 2.3.1, p. 69. Cfr. Procl. In Crat. IX, 3, 7-10. 158 Procl. ibi, LXX, 29, 15-18. In Plat. Crat. 393b1-4, Socrate dichiara di «camminare sulle orme di Omero». 155 104 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME È questa la domanda fondamentale che apre ogni riflessione procliana sulla poesia e sul linguaggio poetico. Nella vasta produzione platonica, che il Diadoco di Atene aveva pienamente sotto mano, erano numerosi i punti contraddittori da rendere conformi, da ridurre ad un sistema coerente ed unitario. Come abbiamo visto sopra, ai tempi di Proclo era ormai norma fondamentale per chi si apprestava a costruire un commento esegetico di un dialogo platonico, individuare per prima cosa lo skopov", l’obiettivo che Platone aveva in mente nel trattare l’argomento del dialogo, quindi l’oggetto del suo discorso. A leggere le pagine di Proclo sulla posizione platonica intorno alla poesia si viene colti dal dubbio che sia lo stesso esegeta ad essere condotto, nella sua trattazione filosofica, da un’idea ben precisa: mettere davanti agli occhi di tutti l’incoerenza in cui Platone finirebbe per cadere se si ammettesse senza appello una sua condanna della poesia. Tale sensazione è suggerita dall’esplicita reiterazione di un interrogativo che Proclo finisce per porre a se stesso e ai suoi allievi appena comincia a parlare della poesia. La quinta Dissertazione del Commentario alla Repubblica, sulla cui indagine ci soffermeremo nel prossimo capitolo, si apre proprio con questo interrogativo: Se l’arte poetica ha qualcosa in sé di divino, come mai Platone la bandisce dalla città divina? Se invece non ha nulla di divino, come mai viene onorata con gli onori che spettano agli dèi?159 Se nell’In Cratylum erano i passi del Cratilo a contraddire le pagine della Repubblica dedicate alla poesia, nella sesta Dissertazione lo sono anche quelli del Fedone: Soprattutto questo bisogna esaminare: il fatto che Platone si contraddica nei suoi discorsi su Omero. Come conciliare il poeta da lui detto divino160 nel Fedone [95a1] con quello mostrato nella Repubblica [X, 597e7] lontano tre volte dalla verità?161 159 Procl. In Remp. I, 42, 8-10. Citerò il testo nella traduzione di Abbate 2004. Sulla presunta stima di Platone nei riguardi di Omero si vedano ad esempio anche il passo ritenuto tradizionalmente ironico di Resp. III, 398a1-8 in cui al poeta vengono riservati onori divini (passo tra l’altro ritenuto assolutamente serio da Proclo e che, come vedremo nel § 3.2, costituisce il punto di partenza della discussione sulla prima questione della quinta Dissertazione) e la celebre dichiarazione socratica di Apol. 41a6-7 in cui il filosofo si augura di morire se, dopo la morte, potrà godere della compagnia di Orfeo, Museo, 160 105 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME Ebbene, alla domanda che ha posto agli allievi del corso dedicato alla lettura del Cratilo, Proclo propone una prima soluzione, suggerendola, come prima a proposito dell’etimologia, sotto la veste di una domanda retorica: Forse perché, mentre lì (scil. nella Repubblica) la varia complessità (to; poikivlon) della rappresentazione poetica (mimhvsew") era sconveniente (ajnoivkeion) alle nature semplici e rette, invece qui (scil. nel Cratilo) e in tutti gli altri dialoghi (pantacou') Platone ama e abbraccia l’ispirazione dei poeti (to; e[nqoun aujtw'n ajgapa/' kai; ajspavzetai)?162 La chiave di volta del nostro discorso sulla poesia diventa così il principio dell’ejnqousiasmov": è proprio quell’ispirazione poetica che Platone nello Ione evoca a dimostrazione dell’ignoranza del poeta, della sua mancata scienza di ciò che racconta, e di conseguenza della sua profonda distanza dal filosofo163, a diventare, invece, nell’esegeta neoplatonico, proprio per il filosofo, uno strumento epistemico e perciò l’elemento di salvezza del linguaggio della poesia. Della poesia ispirata parleremo più a lungo nel quarto capitolo, quando ci troveremo a commentare le pagine della sesta Dissertazione dedicate specificamente a quella forma migliore di arte poetica che è la poesia entusiasta. In questa fase della nostra indagine sui nomi ci basterà sottolineare come la figura del poeta arcaico, proprio perché e[nqeo" sia più prossimo al linguaggio corretto e al tempo stesso al centro tra gli dèi e gli uomini. Esiodo ed Omero. Uomini divini sono detti essere i poeti e i tragici anche in Leg. VII, 817a2-b2. Omero è per Proclo ‘oJ qei'o" poihthv"’ anche in In. Tim. I, 316, 4. 161 Procl. In Remp. I, 70, 16-21. La traduzione è mia. In lingua moderna esiste della sesta Dissertazione solo una traduzione francese di Festugière 1970, tome I (diss. I-VI). 162 Procl. In Crat. LXX, 29, 18-20. 163 L’accusa mossa alla poesia da Platone nello Ione è nello specifico proprio la negazione del suo statuto di tevcnh. Quella di Ione non è un’abilità tecnica – spiega Socrate – frutto di una ejpisthvmh, ma piuttosto una capacità divina (qeiva duvnami", 533d3); il poeta divinamente ispirato è assolutamente inconsapevole (e[kfrwn) e l’intelletto (nou'") non è più in lui; egli, «kou'fon ga;r crh'ma ... kai; pthno;n kai; iJerovn, 534b3-4», non è capace di comporre alcunché se prima non è colmo di divino (e[nqeo", 534b5). Sull’ispirazione poetica nella tradizione arcaica cfr. Tigerstedt 1969 e Murray 1981 (da Omero a Pindaro); sull’ispirazione poetica in Platone cfr. Velardi 1989, Giuliano 2005, pp. 137-218. Sulla possibilità che il sapere prodotto dall’ispirazione divina in quanto istintivo e quindi proprio di chi è incapace di dare ragione, possa essere accostato all’opinione vera, così come accennato in Men. 96e-97c ha scritto Trabattoni 1985-86. 106 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME A mio avviso è necessario leggere già nella scelta esegetica di Proclo di sottoporre ad una spiegazione dettagliata e profonda dei nomi divini delle cose, l’orientamento della lettura procliana in senso teologico-metafisico. Socrate, proprio perché si trattava di nomi divini, aveva esplicitamente espresso l’impossibilità per lui ed Ermogene di proseguire su questo discorso e la necessità, conseguentemente, di passare a parlare di quelli umani. Proclo, invece, proprio perché il discorso s’imbatte nei nomi divini, ritiene necessario soffermarsi un po’ su di essi: «ajll∆ ejpei; peri; qeivwn ojnomavtwn oJ parw;n lovgo", dei' dh; peri; aujtw'n ejpi; smikro;n dielqei'n, In Crat. LXXI, 29, 33-34». Ebbene, l’esegeta comincia con lo spiegare che i nomi costituiscono il terzo tipo di produzione divina, quello che rappresenta gli dèi in quanto potenze intellettive. Dalla prospettiva neoplatonica, ogni creazione divina possiede in sé tracce (i[cnh) della sussistenza triadica della natura divina da cui essa ha origine. Gli dèi, infatti – spiega Proclo – possiedono una realtà ineffabile e unitaria (u{parxin eJnoeidh' kai; a[rrhton), una potenza generatrice (duvnamin gennhtikh;n tw'n oJlw'n) e un’intelligenza perfetta e piena di atti di pensiero (nou'n tevleion kai; plhvrh tw'n nohmavtwn)164. A questa triplice essenza della natura divina corrisponde una triplicità della loro produzione linguistica, che va dalla assoluta indicibilità dei sunqhvmata, a noi visibili solo attraverso figure luminose165 (tou' fwto;" carakth're"), alla forma intermedia dei suvmbola, i suoni inarticolati delle pratiche teurgiche, fino ad arrivare ai veri e propri ojnovmata, nomi con cui gli dèi vengono nominati e celebrati nelle diverse lingue degli uomini166. I nomi divini, dunque, procedono dalle realtà intellettive (ajpo; tw'n noerw'n uJpostavsewn) e giungono fino a noi manifestandosi in tutti i nostri idiomi. Essi, a differenza dei sunqhvmata e dei suvmbola, sono resi visibili dagli stessi dèi (par∆ aujtw'n tw'n qew'n ejkfanevnta) e, come quelli, si fanno per noi strumento di risalita verso la loro origine (eij" aujtou;" ejpistrevfonta) conducendoci alla conoscenza di quanto nelle nature divine è visibile. Spiegata la loro origine, bisogna ora 164 Procl. In Crat. LXXI, 29, 28 – 32, 17. Cfr. Or. Ch. fr. 145 des Places e si veda, per un interessante commento su tale immagine di ascendenza caldaica, Pépin 1981, pp. 50-53. 166 Su tale classificazione triadica della processione e produzione linguistica degli dèi si vedano Trouillard 1975, pp. 243-248, Criscuolo 2005, pp. 64-65 e Van den Berg 2008, pp. 162-172. 165 107 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME domandarsi in che modo questi nomi divini circolano per l’universo e qual è la loro essenza. Seguendo la rigorosa gerarchia metafisico-teologica procliana, apprendiamo che non tutti gli dèi sono nominabili. Il primo dio, l’Uno, è, come si sa, assolutamente trascendente e perciò ineffabile167. Tra l’Uno e i primi dèi dicibili ci deve essere una classe intermedia; non è possibile che l’assolutamente ineffabile sia in diretto contatto con l’assolutamente dicibile. E perciò, dalla prospettiva procliana, anche gli dèi intelligibili devono avere qualcosa in sé di inconoscibile e di indicibile. Eppure nella loro dimensione intermedia essi contengono le caratteristiche delle classi a loro superiori e inferiori. Ecco perché il primo dicibile (to; prw'ton rJhtovn) si trova comunque nella classe degli dèi intelligibili. Lì infatti anche la natura intellettiva degli Intelligibili irradia secondo le prime forme168. Gli dèi, dunque, superiori a tale natura intellettiva sono immersi nel silenzio; in realtà essi comunicano tra di loro, ma l’atto del comunicare, essendo in loro unito a quello del pensare, si risolve in un elemento luminoso, pura luce che procede da un ordine all’altro. Ma questi nomi, che pure esistono in maniera nascosta (krufivw") presso gli dèi, sono rivelati a chi tra gli uomini ha una certa affinità con gli dèi (tw'n ajnqrwvpwn toi'" suggenevsi pro;" tou;" qeouv", LXXI, 33, 19-20). È ovvio che tra questo particolare genere di uomini sono da considerare anche i teurghi, i sacerdoti, così come intermediari tra il divino e l’umano, ancor prima degli uomini, sono i demoni169. Proclo dice che gli dèi a volte comunicano direttamente con gli uomini, ad esempio nei riti e nei misteri (LXXVI), altre volte si servono di intermediari, come accadde ad esempio ad Eleno nell’episodio iliadico170, che «sentì il volere di Apollo e di Atena non già per mezzo degli enti 167 Cfr. Romano 1988b e Abbate 2001b. Procl. In Crat. LXXI, 32, 27-28: ejkei' ga;r kata; ta; ei[dh prw'ta kai; hJ noera; tw'n nohtw'n fuvsi" ejxevlamyen. 169 Che la comunicazione tra i demoni avvenga per irradiazioni, senza uso di voce e suoni, è un fatto già noto ai medioplatonici: cfr. per esempio Plut. De gen. Socr. 20, 589b dove troviamo utilizzato lo stesso verbo procliano (ejllavmyein). Sulla demonologia in ambito neoplatonico cfr. da ultimo il ricchissimo volume di Timotin 2012. 170 Hom. Il. VII, 44. 168 108 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME più elevati, bensì di quelli a lui immediatamente vicini e che sono di natura demonica171». Ma che i poeti condividano con queste misteriose figure la natura di congeneri, veri parenti degli dèi è altrettanto esplicito. Nell’interpretazione procliana ci sono dei primissimi nomi che sono agli uomini rivelati dagli dèi, e ci sono dei nomi, di rango inferiore nella scala gerarchica, prodotti dagli uomini stessi. A loro volta, i nomi creati dagli uomini possono essere prodotti o dall’ispirazione o da conoscenza scientifica. Così spiega l’esegeta: Ma consideriamo che altri nomi sono di secondo o di terzo rango, e cioè quelli che le anime individuali producono (o{sa aiJ meristai; yucai; parhvgagon), ora ricevendo ispirazione sugli dèi (tovte me;n ejnqousiavzousai peri; tou;" qeouv"), ora operando secondo scienza (tovte de; kat∆ ejpisthvmhn ejnergou'sai), cioè o mettendo in comunicazione il loro proprio pensiero con la luce divina (koinwsavmenai th;n eJautw'n novhsin tw/' qeivw/ fwtiv), e da quel momento sono rese perfette, o affidando il compito di produrre i nomi alla loro propria facoltà razionale (th/' logikh/' dunavmei th;n dhmiourgivan ejpitrevyasai tw'n ojnomavtwn)172. Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, l’onomaturgia è attività umana quanto divina e quella umana è una produzione dello stesso tipo di qualsiasi altra produzione tecnica. Nell’essere demiurgo dei nomi, l’uomo è un artefice, quindi possessore di una tevcnh, al pari di un pittore o di un fabbro. Accanto alla figura di un demiurgo umano, che ricordiamo, agisce analogamente a Zeus Demiurgo, Proclo pone ora la figura del poeta, artefice quanto l’uomo, di un nome, ma questa volta, di un nome sicuramente corretto. Quando, infatti, l’anima umana entra in diretto contatto con la luce divina, essa è resa perfetta, come si legge nel passo citato, si completa nella sua perfetta essenza (ejkei' teleiwqei'sai, LXXI, 34, 5-6). Il poeta ci rivela i nomi degli dèi e quelli degli uomini, apprendendo gli uni dall’ispirazione (ejx ejnqousiasmou'), gli altri dalla percezione sensibile e 171 Procl. In Crat. LXXIX, 37, 19-21; cfr. anche il capitolo CXXII, 72, 10-15 dove si fa un esplicito riferimento ai «Teurghi nati sotto Marco Aurelio» ai quali gli dèi hanno tramandato i nomi «che ci informano sulle proprietà degli ordinamenti divini». 172 Procl. In Crat. LXXI, 34, 2-7. 109 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME dall’opinione (ejk th'" aijsqhvsew" kai; dovxh")173. È questo il motivo per cui la poesia, in quanto strumento di mediazione tra il divino e l’umano, diventa in Proclo fonte di verità, maestra di conoscenza. Tutto ciò è ancora più chiaro qualche capitolo più avanti: accanto alla causa (aijtiva) divina della correttezza dei nomi c’è quella poetica174. Leggiamo il passo per intero: Ora, questa è una delle cause della giusta creazione dei nomi che Platone introduce, l’altra è quella dei poeti che sono ispirati (eJtevran de; th;n tw'n poihtw'n ejnqeazovntwn) e che pervengono alla verace onomaturgia (ejpiballovntwn th/' ajlhqei' ojnomatourgiva/): essi contemplano i risultati delle azioni, fanno per mezzo di essi, per quanto è possibile, delle sagaci analisi, e scoprono i nomi appropriati (eujriskovntwn ta; oijkei'a ojnovmata). Che cosa in effetti impedisce ai poeti, che hanno sotto gli occhi la temerità di Oreste contro la madre, di chiamarlo con questo nome jOrevsth" in quanto montanaro (o[reio") e violento e sterile, giacché ha reciso il principio della sua propria nascita, e di trasmettere questo nome ai Greci, i quali assumendolo come imposto bene a proposito, lo sanciscono con l’uso (kurw'sai dia; th'" crhvsew")?175 Oltre al carattere rivelativo del linguaggio poetico, Proclo ne individua poi anche una valenza esoterica. Si tratta di una funzione da sempre attribuita all’invenzione mitica e vedremo come essa rappresenterà anche per Proclo un argomento fondamentale per la difesa della poesia soprattutto nel Commentario alla Repubblica. Nel capitolo CXVIII dell’In Cratylum l’esegeta neoplatonico 173 Procl. ibi, LXXI, 34, 11-12. Già in Erodoto (II 53) Omero ed Esiodo sono detti coloro che «hanno dato i nomi agli dèi dividendo gli onori e le prerogative e indicando il loro aspetto (toi'si qeoi'si ta;" ejpwnumiva" dovnte" kai; timav" te kai; tevcna" dielovnte" kai; ei[dea aujtw'n shmhvnante")». Sulla possibilità che già in Platone il nomoqevth" dei nomi sia il poeta si veda il contributo di Palumbo 2004 in cui, a partire dall’originario significato musicale del termine novmo", la studiosa argomenta la stretta relazione esistente nella produzione onomaturgica tra parola e canto musicale: «in questo contesto, fra le componenti semantiche del termine nomos non poteva non risuonare, per il lettore antico, oltre a quella di ‘legge’ anche quella di ‘canto’, di quella specifica forma di canto che, restituendo la musica ai canti narrativi dopo un intervallo durante il quale essi erano stati soltanto recitati, ne restituisce il valore fondativo in fatto di memorizzazione, di ritmicizzazione, di codificazione. È il lettore moderno che, invece, trova difficoltà a cogliere nel termine nomos qualcosa di diverso dalla legge. […] Ciò da cui gli uomini derivano l’uso dei nomi non è la legge, ma è una tradizione poetica e linguistica – in termini ‘antichi’ musicale – che grazie al lavoro dei maestri viene insegnata ai Greci e diventa linguaggio corrente. Tale tradizione linguistica per tutti i Greci del V secolo comincia con la poesia omerica. Omero è per i Greci di quel secolo non soltanto il più grande dei poeti, non soltanto il testo educativo per eccellenza, ma il fondatore della linguistica greca»: pp. 406-407. 175 Procl. In Crat. LXXXVIII, 44, 21 – 45, 4. 174 110 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME spiega il nome poetico come un velamento della realtà divina: «i miti ricoprono le cose attraverso l’omonimia, oiJ mu'qoi ou\n dia; th'" oJmwnumiva"176 ta; pravgmata sugkaluvptousi, 69, 11-12». In questo passo Proclo utilizza il concetto aristotelico per tradurre in termini linguistico-semantici la distanza ontologica tra una divinità principale ed una derivata. È la stessa processione dell’essere, la derivazione dei molti dall’Uno, della realtà intelligibile nella sua struttura triadica di essere intelligibile, intelligibile-intellettivo e intellettivo ad essere coperta, velata in un sistema perfetto di omonimie poetiche. Ciascun dio, preso in se stesso, trascende gli dèi che vengono dopo di lui, ma al tempo stesso, ha con questi un elemento in comune, qualcosa che permette la processione degli dèi di rango inferiore da quelli di rango superiore. Come si sa, dalla prospettiva procliana ciascun dio presiede una catena (seirav), una serie dalla quale l’essere divino procede dal trascendente al sensibile senza creare alcun vuoto nella gerarchia ontologica del reale177. Ebbene il linguaggio poetico rappresenta tale struttura gerarchica servendosi di ominimi, ovvero denominazioni che sono le stesse per gli dèi, cause principiali della loro propria catena (th'" eJautw'n seira'" ajrcikoi'" aijtivoi") e per gli enti intermedi che da questi dèi derivano e che in questa parte del commento al Cratilo Proclo chiama pneuvmata178, ma che corrispondono ad essenze con diversa definizione. È così spiegato il motivo per cui i poeti parlano di dèi che si uniscono a donne mortali o di uomini che si uniscono a dee; in realtà essi non fanno altro che velare un principio metafisico più complesso: Se avessero voluto parlare in termini chiari e precisi (diarrhvdhn kai; safw'"), avrebbero detto che Afrodite e Ares e Teti e gli altri dèi producono, ciascuno cominciando da quello che sta più in alto fino 176 Sull’omonimia in Arist. Cat. 1a1 ss. ed il fecondo dibattito sorto in ambito neoplatonico cfr. supra, p. 90, n. 115. 177 Cfr. Procl. In Remp. I 78,1-6. Proclo espone la successione gerarchica degli ordinamenti divini nei libri III, IV e V della Teologia Platonica. Sulla divinizzazione e la gerarchizzazione dell’intelligibile in quest’opera procliana, cfr. Abbate 2008, pp. 11-16, 107-11. Sulla struttura gerarchica dell’intero sistema metafisico procliano ancora fondamentale è lo studio di Beierwaltes 1990. 178 Con questo termine Proclo si riferisce proprio a quegli enti intermedi a contatto con le anime; si possono perciò associare a figure come spiriti ed eroi: essi sono inferiori ai demoni che si collocano ancora al di là della relazione con le cose e vivono intorno alla terra e sono particolari e «aiutano a generare alcune cose, ma non certo mescolandosi fisicamente con le cose mortali, ma stimolando la natura e portando a compimento la potenza generatrice»: In Crat. CXVIII, 69, 6-9. 111 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME agli ultimi enti (e{kasto" a[nwqen ajrcovmeno" mevcri tw'n teleutaivwn), la sua propria catena comprendente tutte le molteplici cause (proavgei th;n oijkeivan seira;n perievcousan polla;" aijtiva"), che sono diverse l’una dall’altra, pur nella medesima essenza (diaferouvsa" ajllhvlwn th/' oujsiva/ aujth/'), quali, ad esempio, le cause che sono angeli, demoni, eroi, ninfe e simili179. Dopo questa spiegazione di ordine generale, Proclo si dilunga nella descrizione dell’origine e della natura di queste cause seconde che derivano dagli dèi e che pure manifestano delle caratteristiche comuni con gli uomini. Esse infatti si trovano al limite tra il superiore (gli enti primari, ovvero gli dèi) e la generazione degli enti secondari, ovvero eroi, uomini, ma anche ninfe, piante, sorgenti, cervi e serpenti. Da qui la spiegazione etimologica del termine h{rw", «eroe». Tutti gli eroi, infatti, spiega Platone (Crat. 398d1-e3), sono nati da un innamorato (ejrasqeiv"), o da un dio innamorato di una mortale, o da un mortale innamorato di una dea. Ecco perché la radice del termine h{rwe" è strettamente connesso al nome dell’e[rw", dell’amore, da cui appunto sono nati gli eroi. Nello scolio CXIX, di commento proprio a questo passo platonico, Proclo inquadra tale spiegazione nella gerarchia metafisico-teologica del reale: gli eroi ricevono la loro denominazione (ejpwnumivan) da Eros, dio dell’amore. Si tratta però di una divinità intermedia: nel Simposio egli è detto «grande demone» – ricorda correttamente Proclo – elemento intermedio, cui il filosofo neoplatonico è solito ricorrere per dare dinamismo ad un sistema che altrimenti imploderebbe nella sua eccessiva articolazione. Egli è a metà tra il mortale e il dio, spiega Diotima180, ed è per questo che gli eroi non solo nascono dai demoni, ma ne ricevono anche, per analogia (ajnalovgw"), le proprietà: poiché Eros è generato da Poros, che è migliore, e da Penia, che è peggiore181, anche gli eroi contengono in sé questi generi differenti. 179 Procl. In Crat. CXVIII, 69, 14-20. Lo stesso principio è chiarito in El. Theol. 125. Cfr. anche In Tim. I, 361, 1 ss.; III, 166, 12 ss.; In Remp. I, 91, 15 ss.; 147, 6 ss. dove le ingiurie di Achille nei confronti di Apollo si spiegano col fatto che non è ad Apollo che l’eroe omerico si rivolge, ma al suo demone che da lui deriva e che porta il suo stesso nome. Che esistessero dei demoni che portano lo stesso nome degli dèi è già detto chiaramente da Plutarco in De def. orac. 21, 421e. Cfr. anche Iambl. De myst. IX, 9, p. 284, 3-7. 180 Plat. Symp. 202d11-e1. 181 Plat. Symp. 203b1-e5. 112 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME Se dunque il linguaggio poetico, in quanto ispirato, è sempre rappresentazione vera della realtà, vediamo allora alcuni esempi in cui la poesia tradizionale diventa nel Commento al Cratilo maestra dei sommi principi sull’essere. 2.6. La verità del linguaggio poetico 2.6.1. Il silenzio degli dèi intelligibili In questo paragrafo prenderò in esame alcuni esempi di lettura teologica e metafisica del mito arcaico proposti da Proclo nel suo corso di lezioni sul Cratilo. Come ormai ci aspettiamo, lo strumento ermeneutico che permette di volta in volta il passaggio dal racconto mitico alla teorizzazione di principi metafisici resta sempre l’analisi etimologica che abbiamo presentato all’inizio della nostra indagine sul nome. Nei capitoli CXIII-CXV Proclo cerca di individuare l’ordine gerarchico a partire dal quale si comincia a dare un nome alle singole divinità. Ad una prima lettura sembra che il primo dio ad essere nominato sia Urano, dio intelligibileintellettivo, sebbene alcuni identifichino tale denominazione con simboli ineffabili non essendo capaci di dirne né la natura, né la figura, né la forma. Sicuramente tutti gli dèi che sono al di là del livello intelligibile-intellettivo sono nominati solo per analogia, in quanto ineffabili e incomprensibili182. Questi, però, appartenendo ad una categoria liminare, affine sia all’Uno sia alla prima derivazione dall’Uno, quella cioè della sfera dell’Intelligibile, possiedono in sé delle caratteristiche dell’Uno: questi dèi sono ancora detti del luogo sopraceleste e sono dicibili e 182 In In Parm. VII, 512, 33 - 513, 6 ed. Steel, Proclo sostiene che il primo dio ad essere chiamato è Fanes, che nella teologia orfica genera Urano, e aggiunge che tutto ciò che è anteriore ad esso e cioè Tempo, Etere e Chaos non sono nomi reali, ma sono stati assegnati per analogia. Ora, anche nel capitolo LXXI dell’In Cratylum Proclo farebbe pensare a Fanes come primo nome divino, ma subito dopo dice che in quegli esseri, ancora in contatto con gli enti intelligibili, il pensare e il nominare sono la stessa cosa e il segno linguistico di Fanes sembrerebbe identificarsi in un elemento luminoso. Anche in CXXVI, 74, 26 si legge che le cause degli intelletti, e quindi, gli intelligibili che sono prima di Urano sono impronunciabili. Per una schematizzazione, anche grafica, della nominabilità delle gererchie divine in Proclo si veda Van den Berg 2008, pp. 166-168. Sul passo dell’In Parmenidem citato cfr. Steel 2004, pp. 617-618. 113 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME indicibili insieme, pronunziabili e impronunziabili, conoscibili e inconoscibili allo stesso tempo183. Ma perché Proclo si sofferma su tale argomento? Il passo platonico cui si riferiscono questi scoli dell’In Cratylum si trova alla pagina 396c3-d1. Socrate ha appena terminato la sua indagine etimologica sui nomi di Zeus, Crono e Urano quando afferma: E se io mi ricordassi della genealogia di Esiodo, quali egli, risalendo ancora più in su, dice siano stati i progenitori di questi, non smetterei di mostrare come giustamente ad essi fossero posti i nomi. Tale reticenza socratica non ha però nulla a che vedere, tiene a sottolineare il nostro esegeta, con una diffidenza nei confronti del mito: Socrate, in effetti, trova come scusa la sua capacità di ricordare, non perché egli non creda nei miti (ouj toi'" muvqoi" ajpistw'n) che collocano al di sopra di Urano certe cause superiori, o non ritenga affatto degni di menzione quei miti (oujde;n mnhvmh" ajxivou" aujtou;" nomivzwn) - egli infatti nel Fedro celebra il luogo sopraceleste (aujto;" ga;r ejn Faivdrw/ to;n uJperouravnion tovpon ajnumnei'), bensì perché i primissimi enti non possono essere richiamati alla mente e conosciuti per via di immaginazione o di opinione o di ragione184. Non possiamo certo tacere l’assoluta autonomia dell’esegesi procliana, che pure si genera dalla complessità del discorso platonico, ma che da essa si distacca completamente. Socrate nel Cratilo sospende il suo discorso sulla teogonia mitica e, così come, a proposito dei nomi divini e umani, era passato a discutere direttamente dei nomi posti dagli uomini ritenendo discorso troppo ambizioso il parlare dei nomi di origine divina, ora tace su quanto era prima di Urano e passa alle etimologie dei nomi degli eroi e degli uomini. Nel Fedro, citato esplicitamente da Proclo, a proposito dell’iperuranio, il luogo sopraceleste qui introdotto dal filosofo licio a testimonianza del rispetto di Socrate nei confronti 183 Del luogo sopraceleste come il livello più alto della realtà intelligibile-intellettiva e dunque prossimo all’Intelligibile Proclo parla in Theol. Plat. IV, capitoli 6-18. 184 Procl. In Crat. CXIII, 66, 5-11. 114 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME del mito, l’ammirazione socratica verso i poemi teogonici non è invece così scontata. Anzi, nell’apprestarsi a comporre quello che alla fine della palinodia Socrate stesso definirà un inno mitico185, il filosofo ateniese dichiara con estrema fermezza: «Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai celebrato né mai celebrerà in modo appropriato questo luogo iperuranio»186. Tuttavia Proclo avverte la necessità di colmare quest’assenza delle divinità sopracelesti nel dialogo commentato e per farlo si affida proprio a quelle fonti arcaiche che Socrate invece aveva considerato inadeguate: Omero, Orfeo ed Esiodo. La teogonia omerica – spiega l’esegeta neoplatonico – si mostra fedele all’autentico ordinamento divino sebbene non si spinga mai oltre Crono: il racconto sugli dèi diventa anche in Omero un discorso metafisico-teologico nel quale l’epiteto cronide187 attribuito a Zeus starebbe ad indicare proprio la diretta derivazione da Crono del Demiurgo detto anche «Padre degli uomini e degli dèi»188; in questo discorso teologico Era, Poseidone e Ade, fratelli di Zeus, sono a quest’ultimo coordinati (suvstoica), e Crono ajgkulomhvth"189 è un dio realmente ricurvo in se stesso, come dice il suo epiteto, ed egli né opera né pronunzia alcunché190. Proclo collega così l’attributo omerico all’attività principale del dio che è quella dell’Intelletto «che trascende la coordinazione con le cose sensibili», 185 Plat. Phaedr. 265b8-c3. Se si pensa al passo del decimo libro della Repubblica nel quale Socrate conclude che le uniche forme di poesia da ammettere nella kallipolis siano gli inni agli dèi e gli encomi degli uomini valorosi (607a3-5), passo introduttivo al mito di Er, si può pensare all’inno mitico del Fedro come esempio paratico di poesia riformata: cfr. Cerri 2000. Sulla composizione dell’inno in prosa nella letteratura greca cfr. Velardi 1991. 186 Plat. Phaedr. 247c3-4. Socrate prepara con tono solenne il suo secondo discorso su Eros, come a voler dimostrare che celebrare il luogo sopraceleste, dove gli dèi e gli uomini contemplano meritatamente la verità e se ne cibano, sia permesso solo al filosofo. Cfr. Velardi 2006, p. 190, n. 136. 187 Cfr. Hom. Il. I, 492, 502; II, 211 e passim. 188 Si tratta della nota formula omerica frequentissima in entrambi i poemi omerici (Il. I, 544; IV, 68; V, 426; XVI, 458; Od. XII, 445 e passim); gli scoli antichi elencano l’intera genealogia derivata da Zeus, ma, come nota Gostoli si trattava evidentemente di una dichiarazione della assoluta preminenza del figlio di Crono su tutti gli altri esseri, divini e umani: vd. Cerri – Gostoli 1999, p. 161, comm. a Il I, 544. 189 L’epiteto accompagna spesso il nome della divinità arcaica sia in Omero che in Esiodo. Cfr. Hom. Il. II, 205, 319; IV, 59, 75 e passim; Hes. Theog. 178-182; 459-462. Il termine è tradizionalmente inteso come «dai pensieri oscuri», «astuto» perché collegato al più tardo sjgkulovmhti". Cerri traduce infatti «dai pensieri nascosti». In effetti è la radice *ank- a dare l’idea dell’essere ricurvo, ritorto e infatti Chantraine (s.v. ajgk-) suggerisce, accanto alla traduzione tradizionale di «à l’esprit retors» anche una originale interpretazione come «à la faux recourbée», collegando l’aggettivo alla radice *mē- che traduce l’idea del tagliare, del mietere (cfr. il greco ajmavw/ajmavomai). Tale ipotesi troverebbe un interessante collegamento con il mito di Urano e Crono, entrambi evirati. 190 Cfr. Procl. In Crat. CXIV, 66, 21-27. 115 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME completamente «immateriale e separato» dalla realtà fenomenica, a differenza di Zeus, Intelletto demiurgico che è invece causa di tutto ciò che esiste materialmente e vive191. Orfeo, invece, ha sfruttato molto di più la licenziosità del mito arrivando a nominare anche gli dèi superiori a Urano, fino alla primissima causa. Egli ha identificato in Chronos, il Tempo, la causa preesistente ad Urano (Orph. Fragm. 68) perché - spiega il filosofo neoplatonico - Orfeo presenta come divenienti le cose che realmente sono, le pone sempre nel tempo così da mostrare un ordine della trascendenza delle cose universali rispetto a quelle temporali, da identificare il tempo con la causa, e la generazione con la processione192. Nell’esaminare, infine, i nomi attribuiti agli dèi da Esiodo, Proclo, con una sorprendente trovata esegetica, arriva a fare del padre della teogonia greca l’antesignano di alcuni degli sviluppi concettuali del Neoplatonismo inerenti l’origine della realtà intelligibile, identificando con ciò che è al di sopra dei principi costitutivi dell’Intelligibile quello che Esiodo chiamò Chaos. Esiodo, invece, venera molte cose anche col silenzio e non nomina assolutamente il Primo Principio; ma il fatto che ciò che viene dopo Urano proviene da altra causa, lo indica con queste parole: «In verità Chaos generò entità primissime»193. È assolutamente impossibile, infatti, che si dia generazione senza una causa. Ma chi fa sussistere Chaos (tiv" oJ uJpostavth" tou' Cavou"), egli non lo dice, e passa sotto silenzio ambedue i Padri degli Intelligibili, e quello trascendente e quello ad esso coordinato: essi, infatti, sono assolutamente ineffabili (a[rrhtoi gavr eijsin pantelw'")194. Se i primi dèi ad essere nominati sono quelli intellettivi e Urano, in quanto intermediario tra l’ordinamento intelligibile e quello intellettivo, è il primo ad avere un nome, Chaos è una divinità, in quanto anteriore ad Urano, strettamente in contatto con la primissima fase di determinazione dell’essere. Il riferimento procliano a due Padri degli Intelligibili, l’uno trascendente, l’altro ad esso 191 Cfr. Procl. ibi, CVII, 57, 5-11. Cfr. Abbate 2001a, pp. 104-106. Cfr. Procl. Theol. Plat. I, 28, p. 121, 6-11. Si può trovare una puntuale disamina delle fonti orfiche rinvenibili nei testi procliani in Brisson 1987. 193 Hes. Theog. 116: «h\ toi me;n prwvtista Cavo" gevneto». 194 Procl. In Crat. CXVI, 67, 7-14. La traduzione di Romano è lievemente modificata. 192 116 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME congenere ma evidentemente più vicino alla determinatezza dell’essere, fa pensare qui alla ‘primissima triade intelligibile’ del sistema metafisico procliano. Il filosofo licio la descrive nel terzo libro della Teologia Platonica a partire dai concetti del Filebo platonico di limite (pevra"), illimitatezza (ajpeiriva) e misto (miktovn)195: il limite e l’illimitato costituiscono la prima forma di dualità e la causa prima di ogni molteplicità, essendo il limite, più vicino all’Uno, ciò che rende determinato e l’illimitato, assiologicamente inferiore al limite, ciò che rende molteplice. Il prodotto di tale diade, ovvero to; miktovn, è l’essere, ma l’essere nella sua purezza, la prima determinazione del Principio assolutamente originario e semplice. Il misto è l’essere nella sua unità che contiene potenzialmente la pluralità degli enti. A sostegno di tale ipotesi è il fatto che nell’interpretazione di Proclo l’Uno e la diade fanno comparsa anche nel poema arcaico: l’esegeta arriva ad individuare nella teogonia esiodea la successione di due ordini divini, quello che appartiene all’Uno e quello che appartiene alla diade. Egli (scil. Esiodo) tramanda col silenzio (siwph/' paradivdwsi) gli enti che appartengono al primo ordine (ta; me;n tw/' eJni; suvstoica), mentre indica per via genealogica (dia; th'" genealogiva" ejkfaivnei) soltanto quelli che appartengono alla Diade indefinita (ta; de; th/' ajorivstw/ duavdi)196. Il momento primissimo di individuazione dell’essere, quella fase protologica in cui dall’Uno in sé, assolutamente trascendente e indeterminato, procede l’Uno che è nel suo graduale determinarsi, è così differenziato in uno stato silenzioso, quello dei primi principi e dell’Intelligibile, e in uno dicibile, quello che ha inizio con la commistione dell’unità e del primissimo ordinamento molteplice di dèi. Alle fonti arcaiche da consultare, da prendere a testimone, mancano ancora gli Oracoli caldaici che però, a chiusura dell’excursus procliano, si presentano a rinsaldare l’accordo delle voci antiche con quella platonica. Tutti gli dèi superiori 195 Cfr. Procl. Theol. Plat. III, 8-9, pp. 30, 15 – 40, 9. Per un commento a tali pagine del testo procliano rimando ad Abbate 2008, pp. 94-98, 107-111 e alla bibliografia ivi citata. 196 Procl. In Crat. CXVI, 67, 15-17. 117 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME ad Urano sono indicati dai ta; lovgia197 come a[fqegktoi, «impronunciabili» e l’oracolo 132 aggiunge: «Mantieni il silenzio, o iniziato!». Anche Platone, e Proclo cita di nuovo il Fedro198, chiama iniziazione (muvhsin) o visione epoptica (ejpopteivan) quello stato di pura contemplazione in cui si trova l’intelletto quando opera con ciò che è ineffabile e indicibile199. 2.6.2. Zeus ed Era Com’è possibile che Zeus, il Demiurgo, la causa produttrice del sensibile, d’improvviso rivolga a gran voce ad Era tali parole: «Come ti desidero ora!»200? Siamo nel libro XIV dell’Iliade, il libro dell’inganno a Zeus: versi d’amore e di passione sono quelli raccontati da Omero, cantore di una dea ammaliante e ingannevole e di un dio ingenuo e debole alle lusinghe di una donna. Era, desiderosa di prestare aiuto all’esercito acheo, si presenta accompagnata da profumi e fiori sulla cima del monte Ida, dimora divina, e qui seduce Zeus perché non si curi di quanto accade nel campo di battaglia. Racconti certo pericolosi ad orecchi platonici, eppure anche questi pienamente riutilizzati dallo Scolarca di Atene. Il rapporto amoroso tra Zeus ed Era non è che una delle tre specie di congiungimento dell’Intelletto demiurgico con le cause generatrici dei viventi. Proclo lo spiega nel capitolo CLXIX del suo commento. Ha appena spiegato l’etimologia del nome di Persefone ed ora si sofferma sulle tre donne, compagne 197 Con questo termine si definiva l’insieme degli oracoli composti, secondo la tradizione, per rivelazione da parte degli dèi (qeoparavdota lovgia / qeoparavdotai fh'mai) o della stessa anima di Platone, da Giuliano il Caldeo e/o Giuliano il Teurgo, suo figlio. Sugli Oracoli caldaici cfr. supra, p. 49, n. 98. 198 Il riferimento è a Plat. Phaedr. 250c4. Rimando a Velardi 2006, p. 200, n. 151 per una sintetica rassegna degli spunti mistici nel Fedro e alla bibliografia ivi citata. Cfr. invece Rotondaro 1989 per una indagine sulla «telestikh; ejpivpnoia» a cui allude Platone alla pagina 265b4 dello stesso dialogo. 199 Proclo commenta lo stesso passo del Fedro dedicato alla contemplazione delle Idee da parte dell’anima prima della sua caduta nel mondo sensibile anche in Theol. Plat. IV, 9, pp. 30, 9 – 31, 5. Il filosofo licio spiega che queste visioni avvengono attraverso la mediazione degli dèi intelligibili-intellettivi, connettivi tra l’Intelligibile e l’anima. Le teofanie avvengono attraverso sunqhvmata mistici e la bellezza indicibile e ineffabile dei caratteri medianici (a[gnwsta kai; a[rrhta kavllh tw'n carakthvrwn): «ed infatti l’iniziazione (hJ muvhsi") e la visione conclusiva (hJ ejpopteiva) sono simbolo (suvmbolon) del silenzio ineffabile (th'" ajrrhvtou sigh'") e della unificazione con gli intelligibili (th'" pro;" ta; nohta; eJnwvsew") per il tramite di visioni mistiche (dia; tw'n mustikw'n fasmavtwn)». La trad. è di Abbate 2005. Cfr. Or. Ch. fr. 2, 3; 108, 1; 108, 2; 109, 3 Des Places. Ermia in In Phaedr. 178, 13 distingue tra telethv, muvhsi" e ejpopteiva presentando la prima come una purificazione preparatoria, la seconda come il momento di contatto con la divinità per mezzo dell’intelletto senza più intermediari sensibili (in questa fase infatti l’iniziato chiude gli occhi, da muvein, «tenere gli occhi chiusi») e, infine, la terza con la fase finale della rivelazione divina vera e propria. 200 Hom. Il. XIV, 328. 118 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME di Zeus Demiurgo, ovvero Demetra, Core ed Era. L’Intelletto demiurgico è in contatto diretto con le fonti generatrici che stanno prima di lui, è unito per identità di natura a quelle che fanno parte del suo stesso ordine gerarchico ed infine coopera con quelle a lui inferiori. Ebbene, con Demetra che è prima di lui, l’Intelletto demiurgico si unisce in modo epistrofico (ejpistreptikw'" suggivnetai), con Core, che è dopo di lui in modo provvidente (pronohtikw'"), con Era, che è del suo stesso ordine, in modo amoroso (ejrasmivw"). E perciò si dice che Zeus è innamorato di Era: «come ti desidero ora!». Quest’ultima è l’amante legittima, mentre le altre due appaiono amanti illegittime201. Il contesto di riuso è evidentemente stravolto: non c’è nessun dio debole né tanto meno una dea astuta e menzognera. Era produce da sé, accoppiandosi con Zeus, tutti i generi delle anime, gli dèi ipercosmici ed encosmici, sia quelli celesti che sublunari, sia quelli divini che angelici, demoniaci e individuali. Inoltre la dea è insieme divisa e unita al Demiurgo. In questo senso – continua Proclo – Omero dice: «Dormi tra le braccia dell’ottimo Zeus»202. Zeus infatti contiene in modo unitario la Causa paterna e la Causa materna del mondo203, e la fonte delle anime si dice che è in Zeus, come a sua volta si dice che il pensiero di Zeus è partecipato per prima da Era: nessun altro dio, infatti, dice Zeus in Omero, conosce il mio intelletto prima di Era204. Anche in questo caso Proclo riesce a riutilizzare il verso omerico in maniera davvero suggestiva. Nei poemi omerici Era conosce i pensieri di Zeus prima di chiunque altro dio e prima degli uomini205; qui, nel testo procliano, è la fonte della generazione delle anime ad essere contenuta nella fonte della generazione dell’Intelletto. Il linguaggio omerico è pienamente coerente con la metafisica 201 Procl. In Crat. CLXIX, 93, 3-6. Hom. Il. XIV, 213. 203 A partire dalla nascita di Eros da Poros e Penia, nella Teologia Platonica (I, 28) Proclo indaga su come bisogna intendere le cause paterne e quelle materne al livello degli dèi il cui carattere è ingenerato. 204 Procl. In Crat. CLXIX, 93, 13-19. 205 Hom. Il. I, 546-547. 202 119 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME neoplatonica: è dalla comunione di questi dèi che, da un lato, il mondo partecipa delle anime intellettive, dall’altro, le anime portano in sé tracce dell’Intelletto, rendendo così completa l’opera demiurgica. 2.6.3. Era Nel capitolo CLXX dell’In Cratylum Proclo descrive la natura di Era partendo ancora una volta dai versi omerici. La dea è detta ‘signora dell’aria sublunare’206. Ricorrendo ad un’interessante simbologia fisica, il filosofo neoplatonico dice l’aria simbolo dell’anima - motivo per cui l’anima è detta pneuma - il fuoco, immagine dell’intelletto, l’acqua, simbolo della natura a cui dà nutrimento e accrescimento, ed infine il corpo, simbolo della terra, in virtù della sua densità e materialità207. Ora, tale relazione di Era con l’aria sarebbe ben rappresentata da un’immagine omerica. Si tratta della punizione inferta alla dea olimpica da Zeus in seguito all’inganno di cui abbiamo scritto sopra. Nel libro XV dell’Iliade Zeus si vendica dell’inganno subito e, ricordando un’altra occasione in cui il padre degli dèi e degli uomini aveva già dovuto difendersi dagli stratagemmi della moglie e sorella, così le parla: Non ti ricordi quando pendevi dall’alto, e ti attaccai due incudini ai piedi, e ai polsi ti misi catena di solidissimo oro? Te ne stavi appesa per aria, in mezzo alle nuvole; sull’alto Olimpo gli dèi smaniavano, ma non potevano avvicinarsi e scioglierti208. Zeus fa qui allusione ad un altro litigio, probabilmente quello seguito all’inganno tramato da Era quando pure fece cadere nel sonno il signore degli dèi per poter scatenare, senza ostacoli, il suo odio su Eracle209. Ebbene la punizione 206 Era è già legata all’elemento dell’aria in Empedocle DK 31 B 6, 2 e nella testimonianza 31 A 23 che attribuisce tale lettura allegorica anche a Parmenide. 207 In questa simbologia degli elementi naturali Romano, seguendo Bidet 1913, riconosce un sicuro influsso di Porfirio il cui Peri; ajgalmavtwn altro non è che una serie di allegorie fisiche o una fusiologiva, secondo la definizione che ne dà Eusebio: Romano 1989, p. 159, nota C3. 208 Hom. Il. XV, 18-22. Cito il testo omerico nella traduzione di Giovanni Cerri (vd. Cerri – Gostoli 1999). 209 L’episodio è menzionato anche in Il. XIV 250-256 e raccontato nel dettaglio in Il. V, 640-651. 120 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME inflitta ad Era, che nell’antichità era riservata agli schiavi, appesi per le mani a una trave e con i piedi gravati da pesi210, diventa in Proclo una raffigurazione veritiera dell’essenza della dea. Il fatto che Omero la rappresenti sospesa e con due incudini sotto i suoi piedi simboleggia, nell’interpretazione procliana, l’elemento naturale dell’aria a cui è toccato di avere sotto di sé i due elementi più pesanti, l’acqua e la terra. Sempre secondo questa stessa trama allegorica, Omero dice anche: «fitta nebbia Era versava»211, o ancora, «Era veneranda … spinse l’infaticabile Sole | verso le acque dell’Oceano»212 perché nella lettura procliana il poeta chiamerebbe tramonto quella nebbia densissima che si forma all’orizzonte, sul mare, in virtù di Era. A questo dato di ordine poetico, tradizionale, Proclo aggiunge, come di consueto, quello etimologico. Il fatto che, nel ripetere di seguito il nome di Era, l’inizio coincida con la fine mostrerebbe la capacità che ha questa dea di far convertire a se stesse le anime razionali che da lei derivano (th;n tw'n ejx aujth'" logikw'n yucw'n eij" eJauta;" ejpistrofhvn). Infine, il nostro esegeta ricorda che anche la voce è consacrata a questa dea, proprio perché in fondo essa non è che aria percossa (ajh;r peplhgmevno"): fu proprio Era, infatti, a far parlare anche il cavallo di Achille213. 2.6.4. Afrodite Chiudiamo ora questi esempi di lettura neoplatonizzante della poesia arcaica con la raffigurazione di un’Afrodite purificata da un percorso ermeneutico, a mio avviso, davvero esemplare delle nuove istanze religiose che ispirano il nostro filosofo. Siamo nel capitolo CLXXXIII. Che Afrodite sia nata dalla schiuma (ajfrov") formatasi dai genitali di Urano gettati da Crono nel mare è una concezione scherzosa (paigniwvdh" e[nnoia) – dichiara da subito il filosofo licio; da essa però si può essere ispirati a trovare ragioni più profonde e in maniera più intelligente. 210 Plaut. Asin. 303-304. Cfr. Gostoli – Cerri 1999, p. 808, comm. a Il. XV, 249. Hom. Il. XXI, 6-7. Riporto qui la traduzione di Cerri del verso omerico. Quella proposta da Romano nell’In Cratylum così recita: «Era spandeva l’aria in profondità», traduzione che trovo più fuorviante rispetto all’idea che Proclo vuole qui comunicare. 212 Hom. Il. XVIII, 239-240. 213 Cfr. Hom. Il. XIX, 407. 211 121 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME Solo apparentemente la dea è legata a volgari idee materialistiche che riconducono la schiuma del mare al piacere sessuale; al contrario, dietro a cose infime e corruttibili di tal fatta si celano le Cause prime ed eterne. Ed è per questo, infatti, che Socrate chiama a testimone Esiodo, perché noi richiamiamo alla mente la sua concezione divinamente ispirata (th'" ejnqeastikh'" ejpibolh'"), facendo cadere quella divulgatasi in epoca a lui posteriore214. Ora, è chiaro che il contenuto mitico esiodeo215 a cui fa riferimento Proclo e realmente evocato da Socrate (Crat. 406c5-d2) non presenta alcuna differenza rispetto a quel racconto a cui la concezione scherzosa iniziale si riferisce. È però l’origine ispirata di quella fonte arcaica a suggerire al lettore di Platone l’idea che da quel racconto, insufflato al poeta dagli stessi dèi, dovrà apprendere le più grandi verità. Qual è allora questa concezione divina rivelata dal mito arcaico? Proclo parla di un’Afrodite primissima (prwtivsth) generata da due specie di cause, la prima vista come strumento di generazione, la seconda come vera e propria causa generatrice. In questo senso Crono rappresenterebbe lo strumento che provoca la potenza generatrice del padre, e Urano, invece, sarebbe la vera e propria causa in quanto manifesta, rende visibile (ejkfaivnei) questa dea per sovrabbondanza della sua potenza generatrice (ejk th'" eJautou' gennhtikh'" periousiva"216). Non poteva essere diversamente perché solo dalla potenza assemblatrice di Urano (ejk th'" sunoixikh'" tou' Oujranou' dunavmew") doveva trovare la sua esistenza la divinità che è sunagwgov", guida che unisce insieme i diversi generi di enti secondo un unico desiderio di bellezza (kata; mivan e[fesin tou' kavllou")217. 214 Procl. In Crat. CLXXXIII, 110, 2-4. Esiodo ne parla in Theog. 195-198. 216 Cfr. Procl. Elem. Theol. 126, p. 112, 19-24: «Gli dèi più particolari hanno origine (gennw'ntai) dagli dèi più universali, senza che questi ultimi siano divisi (infatti sono enadi), né subiscano un cambiamento (infatti sono immobili), né si moltiplichino per il loro modo di essere in relazione con altro (con niente infatti si mescolano), ma perché gli dèi più universali generano (ajpogennwvntwn) da se stessi, per sovrabbondanza di potenza (dia; dunavmew" periousivan), le processioni derivate, che sono ad un livello inferiore rispetto a ciò che le precede». La traduzione di Faraggiana di Sarzana 1985 è lievemente modificata. 217 Per l’immagine di Afrodite come potenza assemblatrice nei riguardi della bellezza cfr. Procl. In Remp. I, 109, 1 e II, 221, 18. 215 122 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME Oltre alla primissima Afrodite esiste, però, una seconda Afrodite che è invece generata da Zeus e Dione. Come si sa, già nei poemi omerici, in particolare nel libro V ai versi 370-371 dell’Iliade218, era attestata questa variante mitica. Da questa duplice versione derivavano anche due culti differenti: quello di Afrodite Urania o Celeste e quello di Afrodite Pandemia219. Lo stesso Platone ne parla nel Simposio dove il discorso di Pausania (180c2-185c3) è tutto incentrato, anche se con intenti più sofistici che filosofici, sulla differenza tra eros dell’Afrodite Urania, quindi amore dell’anima, e eros dell’Afrodite Pandemia, quindi amore del corpo220. Proclo, però, non fa alcun accenno né ad Omero né a Platone; cita invece una versione orfica del mito che unisce elementi del racconto esiodeo con quello omerico. Il frammento 183 Kern parla, infatti, di un’Afrodite nata ancora dalla schiuma, formatasi sempre in mare, ma questa volta dal seme di Zeus. Le due divinità si distinguono allora in base alle cause da cui provengono, ai ruoli e alle potenze che Urano e Zeus conferiscono loro. Afrodite primissima è ipercosmica ed ‘elevatrice’ (ajnagwgov") verso la bellezza intelligibile e tiene separati gli enti dalla generazione; Afrodite appartenente a Dione (Proclo non riporta l’epiteto Pandemia) tiene uniti tra loro tutti gli enti del mondo celeste e della terra e porta a compimento le loro processioni generazionali attraverso l’accoppiamento per identità d’intelletto (dia; th'" oJmonohtikh'" suzeuvxew"). Esse però hanno in comune la loro sussistenza (kata; th;n oJmoiovthta uJpostavsew"): la prima deriva dalle potenze generatrici di Urano, principio unitario (hJ me;n tou' sunocevw"), la seconda da quelle di Zeus, il Demiurgo (hJ de; tou' dhmiourgou'). Elemento significativo è anche il mare. Presente in entrambe le genealogie, esso indica la vita che è illimitata e il suo procedere in profondità; la schiuma, dal canto suo, è simbolo di purezza, di luminosità, di potenza generatrice. Completato il suo 218 Questo è il solo punto dove viene ricordata Dione come madre della dea cipride, mentre formula omerica è Dio;" qugavthr ∆Afrodivth (Il. V, 312, 820). 219 Cfr. Paus. I, 14, 7; I, 19, 2; I, 22, 3 e VI, 25, 1. Probabilmente l’epiteto di Pandemia distingueva la dea più conosciuta da quella che si diffuse successivamente, Afrodite Urania, un’immagine un po’ inconsueta della divinità dell’amore, dalle semnbianze mascoline a cui venne attribuita un’antichità maggiore. Cfr. Settis 1966. 220 Si ricordi che anche Socrate nel Simposio senofonteo (VIII, 9) allude ad Afrodite Urania come colei che ispira l’amore dell’anima, dell’amicizia e delle opere belle e a quella Pandemia come colei che ispira l’amore dei corpi. 123 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME tentativo di difendere il mito da una possibile lettura scherzosa, Proclo può così concludere: Afrodite, dunque, è apparsa come una dea che rappresenta l’aspetto più unitario (to; eJnoeidevstaton) e più puro (kaqarwvtaton) di tutta la vita221. La riflessione procliana sul linguaggio è divenuta allora una ricostruzione del sapere arcaico e soprattutto una sua rielaborazione all’interno delle nuove istanze metafisiche e teologiche di ispirazione neoplatonica. In un contesto di forte dialogo con la dimensione divina, nel quale l’onomaturgia umana intesse un rapporto mimetico con quella divina, nel quale l’indagine etimologica svela le proprietà degli dèi, nel quale è possibile riconoscere la correttezza eidetica e formale del nome divino, la figura del poeta entusiasta, e con lui la storia dell’intera tradizione arcaica, si eleva a guida sicura e sapiente nella difficile, ma bellissima222, questione del nominare e del conoscere. Che il Cratilo sia considerato un dialogo di forte interesse per Proclo, e soprattutto all’interno di quel progetto di costruzione di una sola verità che includesse le voci del pensiero arcaico insieme con Platone è dimostrato anche da una pagina della Teologia Platonica dedicata proprio all’indagine dei nomi visti come strumento ermeneutico per la riflessione metafisico-teologica sul reale. Siamo alla fine del primo libro, quello in cui Proclo espone i criteri fondamentali in base ai quali poter ricostruire le concezioni platoniche intorno alla struttura gerarchica della realtà e degli ordinamenti divini da cui ogni livello è governato223. Ebbene il nome divino è anch’esso strumento di conoscenza e venerazione degli dèi; esso viene presentato proprio come un’eco, l’estrema eco della 221 Procl. In Crat. CLXXXIII, 111, 19-20. È con queste famosissime parole che Socrate avvia il suo dialogo con Ermogene: «è un vecchio proverbio che le cose belle son difficili a capire come stiano»: Crat. 384a8-b1. Si tratta di un proverbio della tradizione gnomica attribuito a Solone (Plut. Vit. Sol., 14) e ricordato da Platone anche nella Repubblica (IV, 435c8; VI, 497d10) e a chiusura dell’Ippia Maggiore (304e8). 223 Cfr. Abbate 2008, pp. 61-83 dedicate alle premesse metodologiche e alle strutture ermeneutiche dell’opera e in particolare le pp. 79-83 che sviluppano proprio l’argomento della riflessione linguistica come strumento di riflessione teologica nella filosofia procliana. Sul ruolo del Cratilo nella Teologia Platonica si veda anche il contributo di Van den Berg 2006. 222 124 GLI DÈI, I POETI E L’ANIMA ALL’ORIGINE DEL NOME processione divina, e perciò immagine, realizzata con il massimo livello di approssimazione, dell’essenza stessa degli dèi: Infatti bisogna celebrare anche gli estremi echi (ta; e[scata ajphchvmata) degli dèi e, venerando anche questi, fondarli sui loro primissimi paradigmi224. In questa pagina ritornano i concetti fondamentali della teoria procliana del linguaggio che abbiamo visti esposti nel Commento al Cratilo. Proclo distingue tre ordini di denominazione225: il primo, posto al livello degli dèi stessi; il secondo, che comprende i nomi sussistenti come immagini intellettive dei primissimi nomi e che appartengono alla classe demonica; infine, il terzo, che comprende i nomi che da un lato sono «terzi a partire dalla verità» - scrive Proclo, citando la famosissima espressione della Repubblica platonica riferita in quel caso alle immagini artistiche226 - dall’altro, sono plasmati a livello del discorso razionale e conservano gli ultimi riflessi delle realtà divine. Il filosofo licio parla anche di analogia tra demiurgia divina e onomaturgia umana227, del nome a[galma e quindi della relazione tra onomaturgia e arte ieratica228. Il nome è immagine, eijkwvn, rappresentazione intellettiva di un modello divino, è statua degli dèi. E come la teurgia (kai; w{sper hJ qeourgiva) attraverso determinati simboli (dia; dhv tinwn sumbovlwn) invoca la bontà generosa degli dèi ad illuminare le statue prodotte dall’arte umana (eij" th;n tw'n tecnhtw'n ajgalmavtwn e[llamyin), allo stesso modo (kata; ta; aujtav) appunto anche la scienza intellettiva delle entità divine (kai; hJ noera; tw'n qeivwn ejpisthvmh) con combinazioni e distinzioni dei suoni (sunqevsesi kai; diairevsesi tw'n h[cwn) fa apparire (ejkfaivnei) la celata essenza degli dèi (th;n ajpokekrummevnhn oujsivan tw'n qeivwn)229. 224 Procl. Theol. Plat. I, 29, p. 125, 5-8. La traduzione è di Abbate 2005. Cfr. supra § 2.5. 226 Plat. Resp. X, 597e7. 227 Cfr. supra § 2.4. 228 Cfr. supra § 2.3.2. 229 Procl. Theol. Plat. I, 29, pp. 124, 23 – 125, 2. Cfr. anche In Crat. LI, 19, 12-19. Cfr. supra, § 2.3.2, pp. 90-93. 225 125 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE PRIMA – IL NOME Il nome, dunque, è simbolo di questa stessa processione gerarchica degli dèi e per questo motivo riflettere sul linguaggio significa apprendere la natura dei vari ordinamenti divini. L’individuazione dei tre ordini dei nomi, così ben delineati in questa pagina della Teologia Platonica, rende molto chiara la duplice dimensione del linguaggio, visto da una parte come prodotto di origine divina, dall’altra come elemento di unione e appartenenza dell’umano al divino. Il nome si configura proprio nella sua natura mimetica, relazionale, gerarchica appunto: una natura che prevede l’esistenza di un modello e di una rappresentazione di questo modello che pure rimane sempre presente in essa sebbene distribuito gerarchicamente. Proclo tiene a specificare che il nome usato dagli uomini è sì terzo a partire dalla verità, ma è anche ultimo riflesso, l’ultima derivazione (ejscavtw" katadecovmena) di quella verità, riflessi che si fanno dunque strumento di risalita verso gli esseri del primissimo livello, fine ultimo della vita filosofica. E in una visione del linguaggio così profondamente intrisa di divino, in una comunicazione così intrinsecamente tesa tra un ordine superiore ed uno inferiore, acquista tutto il suo potere medianico la forza dell’ejnqousiasmov", dell’essere posseduti dal dio. I nomi del terzo ordine, quelli degli uomini che però contengono gli ultimi riflessi delle realtà divine sono infatti prodotti direttamente dall’ispirazione poetica. Essi sono rivelati da parte dei sapienti, che operano ora in modo divinamente ispirato (oJte; mevn ejnqevw"), ora in modo intellettivo (oJte; de; noerw'") e che generano immagini messe in movimento dalle loro visioni interiori (tw'n e[ndon qeamavtwn eijkovna" ejn kinhvsei feromevna" ajpogennwvntwn)230. L’ispirazione è allora l’elemento cruciale di una produzione e trasmissione linguistica che si individua nella sua correttezza eidetica, nel suo contenuto veritativo; il nome si costituisce nella sua funzione mediatrice, immagine invisibile di essenze eidetiche e statua sensibile di entità divine. Vedremo ora, nei prossimi capitoli, come l’entusiasmo e la natura rappresentativa racconteranno il mito arcaico nelle pagine procliane più specificamente dedicate alla critica platonica ad Omero. 230 Procl. Theol. Plat. I, 29, p. 124, 10-11. Ho lievemente modificato la sintassi del testo per adattarla alle esigenze della citazione. 126 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA PARTE SECONDA La poesia CAPITOLO 3 Come leggere correttamente le pagine della Repubblica sulla poihtikh; tevcnh 3.1. Le Dissertazioni V e VI nel Commentario alla Repubblica: natura e destinatario Quella procliana è l’unica opera neoplatonica di commento alla Repubblica che ci sia pervenuta. Il dialogo politico del filosofo ateniese, forse per ragioni di ordine pedagogico, non rientrava nel canone dei dialoghi letti e commentati nella scuola1: troppo complesse ed eterogenee erano le tematiche affrontate nei dieci libri perché potessero essere sviluppate compiutamente in un ciclo di lezioni. L’argomento politico, inoltre, poteva essere considerato un approfondimento delle tematiche affrontate già nel Gorgia, secondo dialogo da studiare, subito dopo il Filebo, e la cui lettura nel curriculum era finalizzata, infatti, proprio all’acquisizione della ‘virtù politica’2. Tuttavia è stato dimostrato, sulla base di varie testimonianze e di rimandi al dialogo rinvenibili in testi giamblichei, che la Repubblica fu certamente letta nelle scuole neoplatoniche e, almeno in parte, commentata3. Sicuramente il finale del sesto libro, da cui la metafisica neoplatonica traeva il suo principio fondamentale, ovvero l’identificazione del 1 Come si sa, si deve a Giamblico la definizione di un vero e proprio ordine di lettura dei dialoghi platonici che seguisse le tappe di perfezionamento dell’allievo e di graduale approssimazione ai vertici della speculazione metafisico-teologica di Platone. Su tale argomento fondamentali sono gli studi di Festugière 1969, O’Meara 1989, pp. 97-99 e Mansfeld 1994. 2 Su tale possibile spiegazione dell’assenza della Repubblica dal canone giamblicheo cfr. O’Meara 2003, pp. 36-39 e Abbate 2004, pp. XLIII-XLV. 3 Cfr. O’Meara 1999. 127 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA Bene con l’Uno4, costituiva la parte più interessante ed evidentemente imprescindibile: Plotino fa citazioni dirette del VI libro della Repubblica nelle Enneadi, mentre sappiamo che Porfirio dedicò opere di commento a parti di questo dialogo; anche a Teodoro di Asine, a Siriano e a Damascio sono attribuiti scritti relativi a parti del dialogo platonico, ma quanto oggi possiamo leggere di questo lavoro esegetico è solo lo scritto del filosofo licio5. La sorprendente assenza della Repubblica nel curriculum scolastico e la solitudine del commento procliano all’interno della produzione esegetica neoplatonica possono forse spiegare, almeno parzialmente, il carattere eterogeneo di quello che comunemente chiamiamo Commento alla Repubblica, ma che più correttamente dovremmo chiamare Commentario alla Repubblica, come scelgo di fare in questo studio, o anche Commentari alla Repubblica, come già Kroll faceva nel 1899-1901, titolando la sua edizione Procli Diadochi in Platonis Rem Publicam Commentarii. Come spiega Abbate nel saggio introduttivo alla sua traduzione dell’opera procliana6, tale titolo non rispecchia quello originale riportato dal codex unicus7 in capo all’indice della materia e cioè: Eij" ta;" Politeiva" Plavtwno" uJpovmnhma. Quest’ultimo ci fornisce due indicazioni interessanti: la prima è l’uso del plurale Politeias in riferimento al titolo del dialogo platonico; la seconda è la definizione di hypomnema della tipologia di commento prodotta da Proclo8. Come già dimostrava Gallavotti9 nel 1929, l’uso del plurale aiJ Politeivai per indicare la Repubblica era attestato nell’ambito della scuola alessandrina e contraddiceva l’uso costante del singolare in Proclo. Ciò farebbe supporre che il titolo non è autentico e che sarebbe invece stato apposto da un possibile compilatore, probabilmente alessandrino, che avrebbe raccolto in un’unica opera diversi studi procliani intorno alla Repubblica. Quanto al termine 4 Cfr. Plat. Resp. VI, 509b8. Per una rassegna degli autori neoplatonici che si occuparono della Repubblica cfr. Dörrie – Baltes 1993, pp. 206-208. Il lessico Suida attribuisce a Siriano l’opera Eij" th;n Politeivan bibliva tevssara: s.v. Surianov", vol. IV, p. 478, 24-25. 6 Cfr. Abbate 2004, pp. XLV-XLVI. 7 Tale codice di più di 400 fogli fu diviso in età umanistica in due parti conservate l’una a Firenze (Laur. LXXX 9) l’altra a Roma (Vat. Gr. 2197); in Gallavotti 1971, pp. 41-44 si può leggere una dettagliata descrizione e una puntuale ricostruzione della tradizione medievale e umanistica del volume in pergamena. Per una bibliografia sul codice fiorentino-vaticano cfr. Perria 1991, pp. 68-70. 8 Sulla struttura dei commentari neoplatonici cfr. Romano 1983, pp. 49-66; su quella degli scritti procliani cfr. Lamberz 1987. 9 Cfr. Gallavotti 1929. 5 128 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA uJpovmnhma, esso risulta qui inadeguato, poiché, a differenza dei commenti procliani all’Alcibiade, al Timeo e al Parmenide, quello alla Repubblica non è affatto un commento kata; lhvmmata10. Il titolo è solo uno degli elementi che fa dubitare di un’origine unitaria del nostro testo. Oggi si deve proprio a Carlo Gallavotti, autore di due articoli dedicati specificamente al ‘commento’ procliano, l’uno del 1929, l’altro del 1971, una ricostruzione convincente della struttura di questo scritto. Egli considera l’intero commento come «un corpus di opere varie scritte da Proclo in tempi diversi, e con diversi intendimenti, con maggiore o minore maturità di pensiero»11. In particolare, sarebbero sei gli scritti raccolti: un’opera di base e cioè una sorta di Introduzione alla Repubblica che comprenderebbe quelle che oggi sono note come le Dissertazioni I-V, VII, VIII, X-XII, XIV, XV; il trattato dedicato al rapporto Omero – Platone, ovvero la Dissertazione VI; una nota su Teodoro di Asine intorno al problema dell’educazione delle donne (Dissertazione IX); l’esegesi del «Discorso sulle Muse» del libro VIII della Repubblica (Dissertazione XIII); il commento al mito di Er (Dissertazione XVI); ed infine la disamina delle critiche mosse da Aristotele a Platone nel II libro della Politica (Dissertazione XVII). Gallavotti sottolineava, a riprova di una siffatta composizione dell’opera procliana, le ripetizioni e a volte le contraddizioni anche esegetiche rinvenibili nelle diverse Dissertazioni. Anche una fonte antica invita a tale ipotesi: il lessico Suida12 attribuisce a Proclo, tra le altre opere, anche una dal titolo Eij" th;n politeivan Plavtwno" bibliva d∆, ovvero un commento alla Repubblica in quattro libri. Gallavotti ipotizzava, allora, che questi quattro libri fossero proprio l’Introduzione, il trattato Omero e Platone, il Discorso delle Muse e il Mito di Er. A queste quattro opere sarebbero stati aggiunti in un secondo momento la nota di approfondimento su Teodoro di Asine e lo scritto su Aristotele e Platone, inserendoli nel corpus secondo l’ordine dei libri del dialogo platonico a cui i vari argomenti rimandavano13. Secondo tale ricostruzione, dunque, i nostri due testi incentrati sulla poesia, ovvero le Dissertazioni V e VI, sarebbero indipendenti l’uno dall’altro, l’uno 10 È uno uJpovmnhma solo la Dissertazione XVI, sul mito di Er, che deve essere considerata una monografia a sé stante. 11 Gallavotti 1971, p. 45. 12 Suidae Lexicon s.v. Provklo", vol. IV, p. 210, 11. 13 Gallavotti discute tale ordine delle diverse opere del corpus nel suo articolo del 1971 alle pp. 47-49. 129 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA appartenendo all’opera di base, l’altro costituendo un vero e proprio trattato autonomo; essi avrebbero dunque finalità assolutamente eterogenee e risalirebbero a due momenti diversi della maturità esegetica e filosofica di Proclo. Gallavotti fornisce tre motivi a dimostrazione della indipendenza delle due Dissertazioni l’una dall’altra e rispetto al resto del commentario: 1) esse parlano dello stesso argomento adottando un metodo esegetico diverso – la sesta Dissertazione avrebbe un intento più polemico – e guardandolo da una diversa prospettiva; 2) nel manoscritto è ripetuto il nome dell’autore all’inizio di ciascuna delle due Dissertazioni; 3) infine, non c’è nessun rimando interno alla VI ed alla XV Dissertazione quando entrambe parlano dell’accusa rivolta dall’epicureo Colote a Platone. Nel 1980, in un volume interamente dedicato alle Dissertazioni in questione, Sheppard ha approfondito le riflessioni di Gallavotti dimostrando ancor più accuratamente la natura autonoma dei due testi procliani dedicati alla poesia14. La studiosa inglese argomenta la sua tesi secondo la quale Proclo deve aver scritto con maturità e intenti diversi le due Dissertazioni, a partire dall’analisi contenutistica e formale dei due testi. Quanto al contenuto, una prima differenza di approccio all’argomento sarebbe da individuarsi nel ruolo svolto dall’allegoria nella difesa del mito arcaico: essa risulta centrale nel disegno apologetico della sesta Dissertazione, mentre figura, in maniera abbastanza marginale, solo in due (la quinta e l’ottava) delle dieci questioni affrontate nella quinta Dissertazione. Ciò non costituisce, però, spiega Sheppard, una debolezza argomentativa procliana nel senso di una sua contraddittorietà; piuttosto si spiega con la natura diversa delle due Dissertazioni. D’altro canto, è invece possibile individuare segni di coerenza interna: per esempio, in entrambi gli scritti la poesia che parla degli eroi viene criticata perché mente simpliciter, senza far ricorso ad un suo valore allegorico, ad entità metafisiche nascoste dietro ai suoi personaggi proprio come, invece, accade quando si tratta del racconto sugli dèi; in tutte e due le Dissertazioni, inoltre, Proclo mostrerebbe, secondo Sheppard, la sua condanna della tragedia in accordo con la posizione platonica15. Ciò che più ha alimentato 14 Cfr. il capitolo «The Form of the Essays and their Scholastic Context» in Sheppard 1980, pp. 15-38. «Proclus’ rather surprising hostility to tragedy is equally clear in both essays and in both is linked with Plato’s hostility to it»: Sheppard ibi, p. 18. 15 130 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA dibattiti è invece una diversa classificazione della poesia presentata da Proclo nelle due Dissertazioni di cui tratterò più a lungo nelle pagine successive (§§ 4.4 e 4.5). Per ora basterà sottolineare questo scarto, solo apparente, che si viene a creare tra i due scritti nel momento in cui il filosofo licio tenta di salvare il mito arcaico, ora ponendolo al di sopra di qualsiasi altro racconto sugli dèi, ora conciliandolo con i miti di Platone. Nella quinta Dissertazione Proclo definisce la poesia ispirata e mimetica (I, 58, 3-5; I, 67, 7); nella sesta tale descrizione si complica, si specializza per andare ad individuare nuove categorie poetiche: è la ben nota tripartizione della poesia in ispirata, epistemica16 e mimetica, quest’ultima a sua volta distinta in eicastica e fantastica (I, 177, 7 – 179, 32). Come conciliare le due classificazioni? Sheppard, seguendo Gallavotti, ricorre all’argomento della diversa maturità esegetica e filosofica posseduta da Proclo quando scrive la sesta Dissertazione. Gallavotti dimostrava la posterità di questo saggio anche rispetto al Commento al Timeo in cui Proclo distingue tra poesia ispirata (e[nqou") e poesia tecnica (tecnikhv)17, l’una di origine divina, l’altra frutto dell’ingegno umano. La stessa distinzione si trova anche nel commento di Ermia al Fedro (97, 29 ss.), ma intorno a questo elemento c’è da dimostrare se si tratta di una riflessione dell’esegeta alessandrino o piuttosto la presentazione della posizione di Siriano, maestro sia di Proclo che di Ermia, possibile fonte per entrambi. Anche nella XVI Dissertazione (In Remp. II, 316, 6 ss.) si legge di una mousikhv ispirata o tecnica. Tutto ciò dimostrerebbe un’evoluzione nel pensiero procliano, una riflessione dinamica, in dialogo con la temperie culturale, intorno alla poesia, di cui la quinta Dissertazione, parte integrante dell’opera di base, introduttiva alla lettura della Repubblica, registrerebbe una fase intermedia, preparatoria all’ultimo passaggio di tale evoluzione segnato dalla composizione di un vero e proprio trattato estetico su Omero e Platone. 16 Sulla scelta di questo appellativo per il secondo genere poetico cfr. § 4.4.3, infra. Cfr. Procl. In Tim. I, 64, 13 – 65, 3 ed. Diehl; in questo stesso passo c’è anche un riferimento al concetto di u{yo" (presente anche in In Parm. I, 646, 21 – 647, 24), del tutto assente nel Commentario alla Repubblica, e che sarebbe, secondo Sheppard, una probabile traccia della discussione dello Pseudo-Longino, Origene e Porfirio intorno alla pagina 19d-e del Timeo. Ciò dimostrerebbe l’evoluzione della posizione procliana su concezioni estetiche che nel tempo acquisivano sempre più autonomia rispetto ai dibattiti tradizionali: cfr. Sheppard 1980, pp. 20-21. 17 131 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA Accanto al contenuto, Sheppard sottolinea anche la differenza formale della struttura argomentativa delle due Dissertazioni. Esse infatti sviluppano la questione poetica rispondendo a finalità e a pubblici differenti. La quinta ha la struttura di un vero e proprio corso di approfondimento per studenti; essa affronta dieci questioni, elencate da Proclo ad apertura dello scritto e poi riprese e risolte singolarmente. Benché questo lavoro esegetico non possa definirsi un commento kata; lhvmmata della Repubblica, in particolare dei libri II e III, gli argomenti affrontati sono strettamente legati allo sviluppo dialogico, come se nascessero proprio dalla necessità di superare momenti equivoci nel corso della lettura dell’opera platonica. Sheppard individua nel genere delle luvsei" il modello di tale commento: si tratta di vere e proprie risposte a quesiti scolastici, ai cosiddetti problhvmata o zhthvmata diffusi nella filologia omerica, per esempio, e poi estesi anche ad opere di argomento filosofico. La studiosa inglese pensa ai Platwnika; zhthvmata di Plutarco e alle Quaestiones di Alessandro di Afrodisia di argomento aristotelico, come esempi, anteriori a Proclo, di opere esegetiche costruite intorno alla soluzione di aporie testuali, di ordine non direttamente filologico, come nella tradizione alessandrina di argomento omerico, ma più squisitamente filosofico-speculativo18. Mentre, però, Plutarco e Alessandro, nelle loro opere, risolvono questioni più ampie, relative a diverse opere di Platone e di Aristotele, Proclo ovviamente limita le questioni alle sole pagine della Repubblica, pur richiamando sempre nella spiegazione gli altri dialoghi del corpus platonicum. La modalità esegetica, però, è la stessa: si tenta di risolvere possibili contraddizioni del testo, di sviluppare ciò che è solo accennato e di mettere in luce quanto è dato per scontato. Ricorrono le stesse formule tipiche usate dai filosofi per introdurre i problhvmata e le possibili luvsei"; per esempio le particelle interrogative pw'" e tiv dhvpote aprono le questioni19, mentre la formula povteron...h[ è usata abitualmente da Plutarco per introdurre le sue soluzioni; in Proclo il segno evidente che dalla esposizione del problema si sta passando alla 18 Riguardo allo sviluppo del genere in ambiente neoplatonico e soprattutto porfiriano cfr. Dörrie 1959, pp. 1-4. 19 Proclo usa la prima congiunzione in In Remp. I, 42, 16; 51, 27; 54, 3; la seconda invece introduce la seconda e la quarta questione (I, 42, 10 e 42, 22). 132 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA sua soluzione è la formula me;n ou\n20. Il fatto che Proclo faccia continui rimandi anche ad altri dialoghi è prova del fatto che il pubblico era costituito da studenti della Scuola di Atene: Sheppard sottolinea, inoltre, giustamente che l’individuazione di diverse tappe nell’argomentare, i frequenti riassunti e le ripetizioni sono anch’essi una peculiarità del contesto scolastico. Alla fine della sua indagine sulla struttura compositiva dei due scritti, la studiosa conclude dichiarando che la quinta Dissertazione sarebbe stata scritta da Proclo21 «to expound Plato»22 e che, nonostante nella parte finale (questioni IX e X) s’intraveda un Proclo più autonomo, in generale egli si dimostrerebbe sempre dipendente da Platone, più di quanto non lo sia nella sesta Dissertazione. Il Proclo mostratoci da questo scritto, che giustamente Gallavotti inseriva nell’opera di base, nell’Introduzione alla Repubblica, sarebbe quello immerso nel suo ruolo di «teacher of philosophy rather than in the complementary one of original philosopher»23. La sesta Dissertazione s’inserisce nella tradizione delle questioni più specificamente omeriche; anch’essa, come la quinta, presenta formule tipiche del genere delle luvsei", come ajporivan parevcein, «presentare la questione» o provblhma poiei'n, «porre il problema», ma a differenza di quella, propone e sviluppa argomenti con una varietà maggiore e una struttura meno rigida. Non troviamo, per esempio, lo stesso rigore nella presentazione e nella soluzione delle aporie, così come l’oggetto della questione si sposta spesso da Omero a Platone, e molto frequentemente i due piani s’intrecciano. Essa è divisa in due libri, il primo composto da diciotto capitoli, il secondo da sei. Ebbene, se nel primo Proclo offre esempi di corretta interpretazione dei miti omerici, nel secondo egli dimostra, attraverso l’esegesi di alcuni miti platonici, come tale interpretazione è in pieno accordo con la dottrina platonica e come entrambi, il poeta arcaico e il divino 20 Accade per esempio in In Remp. I, 61, 2; 65, 19; Su tutto ciò cfr. Sheppard 1980, p. 21-25. Scritta direttamente da Proclo e non da un suo allievo presente alle lezioni; il manoscritto non presenta nessun riferimento ad un commento ajpo; fwnh'"; inoltre non è possibile riscontrare nel testo nessuno degli errori comuni a questo tipo di commento affidato alla cura di uno studente. Su questo tipo di commento, sulla difficile interpretazione dell’espressione ajpo; fwnh'" fondamentale è l’articolo di Richard 1950; un più recente studio sulla composizione sotto dettatura si trova in Dorandi 2007, pp. 47-64. Sugli errori tipici di un commento ajpo; fwnh'" si veda Westerink 1962, p. X, n. 4 e p. XXXIX (vd. Bibliografia. Fonti primarie s.v. Anonimi). 22 Sheppard 1980, p. 25. 23 Sheppard, ibidem. 21 133 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA maestro, siano consapevoli della tripartizione dell’attività poetica sopra ricordata. L’intero discorso ha dunque una maggiore autonomia e, se la quinta Dissertazione appare più strettamente legata al testo della Repubblica rispetto al quale si pone come una vera e propria guida esegetica, la sesta costituisce un’opera separata, in sé compiuta, inserita comunque nel Commentario alla Repubblica in un secondo momento, probabilmente perché vista come un approfondimento delle questioni affrontate nella quinta Dissertazione e perché riconducibile nel suo contenuto alla critica alla poesia esposta nel dialogo platonico24. Se si può essere d’accordo con Sheppard sulla possibile evoluzione della riflessione estetica procliana di cui sarebbero testimoni le due Dissertazioni, non è sufficiente valutare l’originalità dell’esegesi del filosofo licio in base alla natura più o meno scolastica dei due scritti. Proclo dimostra evidentemente di star spiegando Platone nella quinta Dissertazione, ma fin da subito, come sarà possibile dedurre già a partire dal prossimo paragrafo, inserisce tale spiegazione in una autonoma e feconda rielaborazione ermeneutica che fa del discorso sulla poesia un discorso di profondo interesse filosofico. 3.2. Le dieci questioni peri; poihtikh'" della quinta Dissertazione L’indagine procliana sull’arte poetica prende avvio dalla constatazione della posizione aporetica di Platone sull’argomento: come abbiamo visto già nel capitolo precedente, nel contesto cratileo, si tratta di un inizio tradizionale, per un 24 «Elle peut très bien avoir formé un ouvrage séparé, avec son Introduction majesteuse (69, 23 ss.) et sa Conclusion non moins empreinte de solennité»: così scrive Festugière nella sua Préface al primo volume della sua traduzione dell’intero commento procliano: Festugière 1970, p. 7. Lo studioso francese, però, pur considerando la sesta Dissertazione un’opera separata, «une leçon d’apparat donnée dans une occasion plus solennelle» (p. 8), presenta una divisione dell’intero commento procliano diversa da quella di Gallavotti; egli infatti considera riunite in un unico tomo le dissertazioni I-VI dal momento che le dissertazioni IV-VI, argomentando la difesa di Omero contro Socrate, formano «un tout continu». Ricordiamo che la quarta Dissertazione commenta la sezione del II libro della Repubblica (377d-381b) riguardante i tuvpoi peri; qeologiva", ovvero gli schemi teologici delineati da Platone sulla base dei quali bisogna rappresentare gli dèi. L’esegesi procliana di queste pagine del dialogo platonico, che pure aprono la riflessione sul mito arcaico, si muove su questioni di ordine più specificamente metafisico-teologico, intorno alla natura dell’idea del Bene e dei mali, e che per questo si allontanano dall’interesse specifico di questo studio. Gli schemi teologici sono affrontati da Proclo, negli stessi termini e nello stesso ordine, anche nel primo libro della Teologia Platonica (capitoli 4 e 17). 134 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA commentario neoplatonico. L’esegesi nasce proprio dalla necessità di vanificare l’apparente inconstantia del divino maestro25. Ebbene, nel leggere il III libro della Repubblica il pubblico di studenti presenti alla lezione procliana avrà trovato difficoltà – diaporevw è proprio il verbo utilizzato da Proclo26 – nel riconoscere i motivi per i quali Platone non accetta l’arte poetica. L’interrogativo iniziale della quinta Dissertazione rappresenta la prima delle dieci questioni che il commentatore neoplatonico dovrà risolvere nel suo discorso interamente dedicato - come recita il kefavlaion, il titolo ciò che sta all’inizio, alla testa del corpo del lovgo" - a «le opinioni di Platone sull’arte poetica, sulle sue sottospecie, sulla forma migliore di armonia e di ritmo»27. Nella sistematicità dell’esegesi procliana non stupisce la struttura stessa di tale discorso: anticipa l’analisi del testo platonico l’elenco delle dieci questioni in esame. Alla prima seguono in ordine: perché Platone rifiuta soprattutto la tragedia e la commedia; perché un individuo non può essere al tempo stesso autore o attore e di commedie e di tragedie; perché Socrate sostiene di non conoscere le armonie benché ammetta di aver appreso da Damone qualche insegnamento a proposito dei ritmi; qual è, secondo Platone, l’autentica musica e perché egli ora definisce la poesia una forma di musica, ora, invece, la distingue da essa; quali sono l’armonia e il ritmo adatti all’educazione; quali errori compie il poeta e perché, invece, le Muse non errano mai; qual è il poeta migliore secondo Platone; qual è il fine dell’arte poetica; qual è il poeta che è nel tutto, modello di ogni poeta del mondo sensibile. È lampante a mio avviso, già da questa semplice sequenza, il forte orientamento del pensiero procliano, l’intenzionalità della oJdov" interpretativa scelta da Proclo: l’allievo è condotto su una via di evidente impronta neoplatonica, si parte dal tecnicismo di questioni ritmiche, retoriche, musicali per arrivare, attraverso un processo di graduale ascesa verso livelli epistemologici e ontologici superiori, espressi in concetti e figure di ‘modello poetico’, ‘ispirazione divina’, ‘telos della poesia’, alla configurazione di un poeta che è nel Tutto, un 25 Cfr. supra, p. 104, n. 156. Procl. In Remp. I, 42, 3. 27 Cfr. Procl. In Remp. I, 42, 1-2: «Peri; poihtikh'" kai; tw'n uJp∆ aujth;n eijdw'n kai; th'" ajrivsth" aJrmoniva" kai; rJuqmou' ta; Plavtwni dokou'nta». La traduzione, quando non specificato altrimenti, è di Abbate 2004. 26 135 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA poeta che siede accanto al filosofo che è nel Tutto, traguardo quanto mai lontano dalla prospettiva platonica. Proseguendo nella lettura del testo, ancor più significativa si rivela essere la scelta del passo platonico da cui Proclo inizia a parlare della poesia: Un uomo dunque, a quanto pare, capace per una sua sapienza di trasformarsi in ogni sembianza e di imitare tutte le cose – se venisse in città da noi volendosi esibire con i suoi poemi, ci prosterneremmo davanti a lui come persona sacra e ammirevole e gradevole, ma gli diremmo che non esiste nella nostra città un uomo siffatto e neppure è lecito che vi sopraggiunga, e cosparsogli il capo di mirra e incoronatolo di bende, lo manderemo via verso un’altra città. Noi però ci varremo, per giovarcene, di un poeta e di un narratore di miti più austero (aujsterotevrw/) e meno piacevole, il quale ci imiti le forme espressive dell’uomo valente e modelli i suoi discorsi secondo le tracce che fin dall’inizio abbiamo legiferato, quando abbiamo intrapreso l’educazione dei soldati. È il passo 398a1-b4 del III libro della Repubblica28: per Platone è una prima conclusione, dopo aver parlato della poesia già per circa ventidue pagine. Per Proclo è il punto di partenza. Ciò che costituisce il luogo platonico da uJpæ o[yin a[gein suscolavzousin29, da mettere sotto gli occhi dei compagni filosofi, perché diventi loro chiaro il parere del divino filosofo intorno alla tradizione mitica, è l’eventualità considerata da Platone, in maniera più o meno ironica, di offrire alla poesia profumi e onori, corone e bende, culti destinati abitualmente alle statue divine, a ciò che in una città è immagine più vera del sacro. Se la poesia ha in sé qualcosa di divino, perché bandirla dalla città? Se non ha in sé qualcosa di divino, perché tributarle onori che non merita? Nella lezione procliana la condanna platonica non s’inserisce nello spazio di una città giusta, di un progetto politico; essa ha a che fare con l’uomo e gli dèi, prospettiva da subito profondamente neoplatonica. Proclo ha bene in mente il testo della Repubblica, quello che, ha dichiarato nella prima pagina della prima Dissertazione, un esegeta non deve perdere mai di vista, anzi deve impegnarsi a sottoporre sempre all’attenzione dei 28 Tale passo costituisce l’inizio anche delle Allegorie Omeriche dello Pseudo-Eraclito (Quaest. Hom. IV). La traduzione è di Vegetti 2007. 29 Procl. In Remp. I, 5, 20-21. 136 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA suoi allievi, per far dire a Platone quel che Platone dice, ma l’intenzione con cui a quel testo egli guarda è quella di un interprete ormai lontano da Platone, di un interprete che della poesia è pronto a dare ben altra immagine. 3.3. Questione I: l’indagine sui poemi omerici tra leggi retoriche e istanze metafisiche 3.3.1. La poesia degli eroi e la poesia degli dèi: una muqopoii?a mimetica È aporetico - spiega Proclo - il tentativo di rintracciare i reali motivi per cui Platone non accetta la poihtikh; tevcnh se si considerano gli onori che pure il filosofo finisce per tributarle. Eppure nello sviluppo di tale questione, l’esegeta darà prova di capacità interpretative e conoscenze retoriche che gli permetteranno senza troppe difficoltà di andare ben oltre tale apparente aporia. Egli concentra subito l’attenzione, rispettando in ciò fedelmente il testo platonico, sul processo mimetico attivo in una muqopoii?a. Ogni produzione poetica è necessariamente mimetica: ciò che caratterizza un processo creativo di questo tipo è il fatto che il prodotto che ne deriva è sempre rappresentazione di qualcosa, esiste solo e sempre in relazione a qualcosa di cui esso è mivmhma, implica necessariamente l’esistenza di un oggetto che si configura essere paradigma dell’atto creativo. Come scrive Stephen Halliwell30, nel suo volume dedicato alla mimesi in Platone e in Aristotele, le teorie neoplatoniche della mimesis, quella di Plotino e quella di Proclo, vanno considerate come lo sviluppo più radicale e più importante della tradizione mimetica postplatonica e postaristotelica. Benché entrambi i filosofi neoplatonici abbiano finito per elaborare una visione della rappresentazione mimetica non sempre coerentemente e autenticamente platonica, 30 Cfr. Halliwell 2009. Le pp. 267-291 sono dedicate proprio all’evoluzione del concetto di mimesis in ambito neoplatonico. Sulla centralità dell’elemento mimetico nella filosofia platonica, sulla necessità di cogliere il rapporto di rappresentazione tra un oggetto e il suo paradigma per comprendere la riflessione platonica sul reale, sul linguaggio e sulla poesia cfr. Palumbo 2008a. 137 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA essi la inseriscono in un quadro filosofico tanto ampio da abbracciare ogni ambito del pensiero, riportandola alle sue radici più autentiche31. Non sarebbe possibile ricostruire in queste pagine la posizione più specificamente plotiniana rispetto a questo argomento, ma risulta necessario, per una visione più compiuta degli sviluppi procliani, ricordarne almeno tre aspetti. In primo luogo, il termine e il concetto di mimesis pervadono la struttura metafisica costruita da Plotino: la sistemazione gerarchica della realtà, divisa in livelli ontologici superiori ed inferiori, giustifica la concezione di una mimesis come espressione di quel rapporto di rassomiglianza che ogni cosa di un livello inferiore intesse con ogni cosa di quello superiore e al tempo stesso come espressione della tensione della cosa rappresentata ad assimilarsi all’archetipo. Plotino parla del logos umano come rappresentazione di quello divino (Enn. I, 2 [19], 3, 28), di un’anima umana mivmhma di quella divina (II, 1 [40], 5, 8), di mivmhsi" tra anima e nou'" (V, 3, 7, 33), tra il nou'" e l’Uno (II, 9 [33], 2, 3), tra il mondo sensibile e il mondo intelligibile (II, 4 [12], 4, 8; IV, 8 [6], 6, 28; VI, 2 [43], 22, 38; VI, 7, [38], 7, 21). Ecco perché Halliwell introduce l’idea di una ‘mimesis metafisica’ a proposito di Plotino, una mimesis che spiega addirittura un principio cardine della filosofia neoplatonica e cioè quello che regola il processo non solo di derivazione di ogni cosa dall’Uno, ma anche di ritorno di ogni cosa alla sua origine. In questo senso, e qui viene fuori il secondo aspetto cui accennavo, le produzioni artistiche si fanno oggetto di una riabilitazione rispetto alla posizione platonica: esse, infatti, nella loro natura mimetica, non fanno che riprodurre un’attività poietica che procede per assimilazione e che è già dell’Intelletto e dell’anima; è con Plotino che si sviluppa l’idea secondo la quale la produzione artistica non ha a che fare solo con le apparenze, ma con una forma ideale presente alla mente dell’artista, che può aggiungere qualcosa alla natura meramente sensibile della materia scolpita o dipinta (Enn. V, 8 [31], 1-2)32. Infine, si deve sottolineare, e qui sta la differenza con Proclo, che Plotino non parla mai in maniera esplicita di mimesis a 31 Così si esprime lo studioso: «In questo come in altri casi, il Neoplatonismo si dimostra tanto revisionistico da richiedere che il rapporto con il platonismo venga inteso non già come una filiazione statica ma piuttosto come una specie di spirito filosofico capace di rinnovamenti continui e tuttavia ogni volta sottilmente diversi. Ed è in effetti allettante considerare le due estetiche neoplatoniche … come due esempi di mimesis intellettuale, due modi complessi e altamente consapevoli di rispondere, riadattandole, alle forme del ragionamento platonico»: Halliwell 2009, pp. 267-268. 32 Per gli sviluppi di tale questione in Proclo cfr. supra § 2.4, p. 98, n. 141. 138 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA proposito della poesia – limitandosi ad utilizzare il verbo mimei'sqai in riferimento alla tragedia (Enn. III, 2 [47], 17, 32) – pur accennando ad un valore allegorico del mito, ad una sua capacità di condurre l’anima oltre la sfera umana e verso i livelli più alti della realtà (Enn. I, 6 [1], 8, 17-20), cosa che potrebbe suggerire comunque una sua natura rappresentativa33. In queste pagine del Commentario alla Repubblica, invece, Proclo, in maniera esplicita, definisce mimetica qualsiasi forma di produzione poetica. Infatti Platone sembra consapevole, dato che l’opera dei poeti è tutta quanta imitativa (mimhtikh'" aJpavsh" ou[sh" th'" tw'n poihtw'n pragmateiva"), che essi commettono questi due errori nelle loro imitazioni34. La poesia è sempre rappresentazione, è sempre immagine, proprio come lo è l’o[noma, qualsiasi sia il modello cui il poeta guarda nel disegnare le sue figure. Nella sesta Dissertazione, come vedremo, ci sarà una più complessa classificazione dell’arte poetica, distinta in ispirata, epistemica e mimetica, ma in questa fase introduttiva Proclo tiene a sottolineare come la mimesis vada intesa nel senso di una categoria comprensiva di tutta la rappresentazione poetica. Non si tratta della mimesi drammatica contrapposta al racconto diegetico, cui pure farà riferimento in altri passi del commento35, ma di quella natura mimetica, rappresentativa, relazionale che appartiene ad ogni forma di poiesi, sia essa demiurgica, linguistica o poetica. Nel comporre i suoi miti il poeta ha una scena da allestire, un linguaggio da costruire, delle azioni da far agire. Egli si relaziona con un’immagine invisibile, il suo progetto o il suo modello, da «mettere davanti agli occhi»36 dello spettatore o del lettore. Nel prossimo capitolo, quando si 33 Plotino parla più volte dell’interpretazione allegorica del mito ma solo in Enn. VI, 9 [9], 11, 26-27 sembra accennare ad essa in relazione alla mivmhsi". Dopo aver descritto l’unione mistica con l’Uno, dice che tutte le sue metafore sono solo «riflessi mimetici» (mimhvmata) e spiega che, proprio per questo, il saggio ricorre all’allegoria nel tentativo di esprimere «come quel dio viene visto» al livello più alto della contemplazione. 34 Procl. In Remp. I, 44, 1-2. Anche nella XV Dissertazione la poesia è detta essere tutta mimetica (In Remp. II, 87, 8-10). Il poeta è un mimhthv" in I, 67, 12-13 e 18, nella nona questione; cfr. infra § 3.7.1 per il commento a tale passo. 35 Cfr. In Remp. I, 14, 15 – 15, 19; 66, 19-26; 67, 7-25; 160, 16-25; cfr. infra, p. 152, n. 69. 36 «To; pro; ojmmavtwn poiei'n»: è la nota formula sinestetica utilizzata da Aristotele in Rhet. III, 11, 1411b22-25 (e, a proposito della metafora, in Poet. 17, 1455b23 con la variante del verbo tiqevnai al posto di 139 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA saranno raccolti tutti gli elementi della riflessione estetica procliana, ritorneremo sulla fondamentale questione dell’interpretazione da dare alla dimensione mimetica della poesia. Per ora è importante osservare come, in questa Dissertazione, la mimesi e l’ispirazione divina siano due principi teorici assolutamente complementari nella valutazione e descrizione della poesia omerica e nell’ermeneusi della critica di Platone a questa stessa poesia. Ebbene da questa natura mimetica dell’arte della poesia si generano due clamorosi errori nel poihthv", che ne motiverebbero la condanna platonica: la non somiglianza dell’oggetto rappresentato con il paradigma e l’eterogeneità dei paradigmi rappresentati37. 3.3.2. La dissomiglianza tw'n paqw'n e tw'n ojnomavtwn Compito del poeta è rendere simili agli dèi e agli eroi le immagini costruite nei versi e nei ritmi del suo mito: tale somiglianza deve realizzarsi nelle parole, nelle azioni e nei pensieri. Deve esserci un coerente rispecchiamento dei pensieri degli dèi e degli eroi nelle loro parole e dunque nelle loro azioni. Con la chiarezza di chi sta dettando le regole stilistiche a chi si appresti a comporre un corretto racconto mitico, Proclo così scrive: Infatti bisogna che il mimetes conformi i pensieri ai fatti (ta;" ejnnoiva" oijkeiva" parevcesqai toi'" pravgmasin), in quanto i fatti vogliono essere immagini (eijkovna") di quelli, e deve scegliere i poiei'n) per definire il modello stilistico dell’epica omerica, capace di pronunciare parole che indicano qualcosa in azione (energounta), che allora si apprestava a diventare il modello stilistico dell’oratoria. Cfr. su questo argomento Spina 2005, pp. 202-203: «Chiunque voglia fare della parola la sua arma di presenza sociale e culturale (poeta, oratore, filosofo, storiografo) avrà sicuramente la necessità di usare le parole per ‘far vedere’ quello di cui sta parlando». Sulla evidentia come strumento retorico e persuasivo cfr. anche Spina 2008. 37 Halliwell 2009, pp. 276-277 sottolinea che nel presentare come separati questi due ‘errori’ poetici sembra quasi che l’aspetto estetico della condanna platonica non coincida con quello etico. In effetti in Platone il rappresentare gli dèi e gli eroi in maniera somigliante al modello significa già rappresentare solo modelli virtuosi ed eccellenti. Per Proclo, invece, rappresentare personaggi dissoluti, vili accanto a quelli giusti non significa rappresentare in maniera dissimile dèi ed eroi. Tale separazione è tra l’altro discutibile perché l’esegeta sembrerebbe contraddirsi, quando alcune righe dopo, nel presentare l’errore della poikiliva parla ancora e comunque di dissomiglianza (I, 46, 6-13). Tuttavia se pure tale discrepanza costituisse un elemento di distanza tra Platone e l’esegeta neoplatonico, a mio avviso essa non basta a far credere che l’aspetto psicologico del giudizio platonico non sia sufficientemente valutato nell’indagine procliana. 140 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA termini che si confanno ai pensieri (kai; ta; ojnovmata prevponta tai'" ejnnoivai" ejklevgesqai)38. Il racconto dei massimi poeti, Omero ed Esiodo, si rivela invece un racconto fatto ajnomoivw", senza somiglianza. Platone lo dimostra molto chiaramente nelle pagine della Repubblica: gli dèi sono rappresentati da Omero e da Esiodo in maniera assolutamente falsa, tant’è che, nel discorso di fondazione della città giusta, si rende necessario segnare le tracce di come si deve parlare e scrivere a proposito degli dèi: si tratta dei famosi tuvpoi peri; qeologiva". Ma Proclo non dà, nel suo disegno difensivo di Omero, la descrizione di tali tupoi, di cui, solo in parte, e con finalità più direttamente teologiche che poetiche, parla nella quarta Dissertazione39; preferisce, invece, a partire dal testo platonico, proporre criteri e regole di lettura e interpretazione del testo omerico evidentemente nuovi, frutto di quelle acquisizioni retoriche, filologiche, esegetiche che nel frattempo si erano ben consolidate nella scuola di Atene. Da subito, infatti, pone sue due piani l’errore di ajnomoivwsi"40: il ritratto degli eroi e degli dèi deve necessariamente misurarsi con la diversa natura dei due soggetti del racconto; il primo è un errore di lovgo", un errore relativo a cosa si è raccontato, un errore che ha a che fare con i pavqh attribuiti al carattere-eroe; il secondo è un errore di levxi", un errore relativo a come si è raccontato, agli ojnovmata scelti per parlare degli dèi41. La rappresentazione degli eroi, spiega Proclo, ingenera nel poeta una confusione di piani ontologici che lo induce a non considerare quella coerente corrispondenza di fatti e pensieri, pravgmata e 38 Procl. In Remp. I, 44, 20-23. Sugli schemi teologici di Resp. II, 377d-381b cfr. supra, p. 124, n. 24. 40 Platone ne parla in Resp. III, 392b9-c5. Per la nozione di ajnomoivwsi" in Proclo si veda anche In Tim. I, 265, 10-16 dove Proclo, a proposito della creazione per opera del Demiurgo del mondo sensibile come immagine del modello intelligibile, distingue tra una mimesis oJmoivw" e una mimesis ajnomoivw": la prima rappresenta a partire dal modello intelligibile e crea così un’immagine bella, essendo l’intelligibile la sede primaria del bello; la seconda, invece, manca di somgilianza non rappresentando affatto dall’intelligibile e creando così copie non belle. 41 Come si sa, Platone nella Repubblica affronta la questione poetica prima sul piano del contenuto – il cosa si deve dire degli dèi e degli eroi (lovgoi) – e poi su quello della forma – il come si deve parlare degli dèi e degli eroi (levxi"). Si tratta delle pagine, rispettivamente II, 379a7 – III, 392a6 e III, 392c7-398b9. Una distinzione tra aspetto formale e aspetto contenutistico di un testo si trova anche in Plat. Phaedr. 235c-e su cui si veda Migliori 2008, p. 90. Quella cui si riferisce qui Proclo non è però la stessa distinzione presentata da Platone, nel senso che se la forma espressiva indagata da Platone è la nota distinzione tra forme narrative e drammatiche su cui Proclo si soffermerà nella seconda questione (cfr. infra 3.4) qui, invece, il filosofo licio si occupa più specificamente dello stile allegorico della scrittura poetica in generale. 39 141 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA e[nnoiai42, di cui dovrebbe invece tener conto. Il personaggio-eroe finisce per essere assimilato agli uomini: il mimhthv" utilizza ojnovmata ejmpaqh', parole patetiche per figli di dèi, parole che attribuiscono passioni umane, troppo umane, quali la cupidigia, l’avarizia, l’arroganza, la smoderatezza a dei semidei quali appunto sono gli eroi. La rappresentazione degli dèi, invece, è espressione di un errore mimetico ancor più ingannevole perché si insinua nella stessa veste retorica del discorso (to; provschma), nell’apparato letterario con cui viene abbellito il racconto mitico. È l’abito allegorico, questa volta, a causare l’errore: esso, proprio nella sua potenza semantica, nella sua capacità di proliferare i sensi della parola scritta, esige dal lettore o ascoltatore la capacità di spostarsi abilmente da un piano semantico all’altro, cosa che rende oscuro, ma solo ai più giovani, il vero senso del discorso sugli dèi. Proclo, però, specifica subito che il racconto sugli dèi necessita di parapetavsmata43, velamenti, coperture difensive di una realtà intraducibile nel linguaggio umano. Parapetasma è termine impiegato nel greco classico per indicare tappeti, tende, veli, sipari; Protagora, nel dialogo platonico che da lui prende il nome, chiama parapetavsmata i veli con cui l’arte sofistica è stata nascosta, per paura dell’invidia che avrebbe potuto suscitare, da quanti prima di lui l’hanno praticata: e questi veli sono la poesia, le profezie, la ginnastica e la musica44. Riferito qui ad un discorso, il velo retorico è il senso da dispiegare (petavnnumi) accanto, ma anche al posto di un altro senso da difendere, da coprire per custodirlo45. Quando si parla degli dèi si deve mentire ed allora è necessario 42 Il concetto di e[nnoia nel senso di pensiero in opposizione al fatto è di natura retorica e si trova teorizzato nelle opere di retorica di Ermogene attivo nel II-III sec. d.C. (Greek-English Lexicon 1951 s.v. e[nnoia III). Sull’origine retorica di queste riflessioni procliane mi soffermerò nel § 3.6.1. 43 «This is a standard term in Greek thought about allegory for a myth requiring allegorical interpretation», scrive Sheppard 1980, p. 16. Più avanti la studiosa aggiunge: «Poetry about the gods is bound to be fictional, that is, in Proclus’ terms, allegorical», p. 17. Nella sesta Dissertazione, in In remp. I, 73,15, Proclo distinguerà proprio tra un aspetto esteriore del mito e il suo senso nascosto; vividissima è l’immagine di una parte interna (to; ejntov") del mito in I, 85, 22. Cfr. anche In Tim. III, 246, 4-7: oJ de; ge Plavtwn di∆ ejpivkruyin toi'" maqhmatikoi'" tw'n ojnomavtwn oi|on parapetavsmasin ejcrhvsato th'" tw'n pragmavtwn ajlhqeiva", w[sper oiJ me;n qeolovgoi toi'" muvqoi", oiJ de; Puqagovreioi toi'" sumbovloi". 44 Cfr. Plat. Prot. 316d3-316e5. 45 Già Macrobio parla di velamenti mitici: in Somn. 1, 2, 11 egli osserva che talvolta «sotto il casto velo delle invenzioni vengono fatte conoscere … le cose sacre (sacrarum rerum notio sub pio figmentorum velamine …enuntiatur)»; si riferisce qui prima ai miti di Platone, diversi da quelli scandalosi sugli dèi, poi (2, 10, 11) estende tale osservazione anche ad Omero «fonte e origine di ogni sapienza divina», che «sotto il velo 142 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA che lo si faccia kalw'", attraverso ojnovmata kalav. Il senso estetico della menzogna entra in gioco solo nel racconto degli dèi, ovvero quando c’è un senso nascosto (uJpovnoia46) coperto e custodito da un senso esteriore che deve perciò trovare forma di corretta bellezza. Pertanto, - scrive Proclo - in un caso, quando occorre dire la verità, <i poeti> mentono, a causa dell’inverosimiglianza delle passioni (dia; th;n ajnoikeiovthta tw'n paqw'n) che attribuiscono agli eroi, nell’altro invece, quando si deve mentire, non in bel modo mentono, a causa dell’inverosimiglianza dei termini (dia; th;n ajnoikeiovthta tw'n ojnomavtwn) che adoperano nelle opere mitologiche in riferimento agli dèi47. Ma quali sono gli ojnovmata kalav cui si riferisce Proclo, quelli che si rendono necessari per parlare degli dèi? Sono le parole apprese da chi, fin dall’infanzia, è stato ben abituato, le parole che sono soliti utilizzare coloro che prendono positivamente parte al governo della città, quelle che nelle forme di governo giuste vengono ripetute in ogni occasione, come, ad esempio, ‘diritto’, ‘giustizia’, ‘legge’, ‘semplicità’, ‘pudore’ et similia. Ebbene, solo uno stile di vita volto, fin da subito, al buon governo, alla virtù e al ben operare può contrastare una falsificazione errata della divinità. Platone l’ha detto - scrive Proclo - nel Timeo, quando Socrate, a conclusione della ricapitolazione del discorso fatto qualche giorno avanti intorno alla kallivpoli", esprime, con la consueta dichiarazione di ignoranza48 preparatoria, in realtà, ai più grandi apprendimenti, il senso di inadeguatezza che prova davanti ad una possibilità di concretizzazione del disegno politico espresso, molto banalmente, solo a parole; lo fa chiamando in della finzione poetica aveva fatto capire la verità ai sapienti (sub poetici nube figmenti verum sapientibus intellegi dedit)». Sulla fortuna del concetto di velamento nella costruzione poetica in epoca medievale e in età moderna cfr. Ginzburg 1996 e la bibliografia ivi citata. Un esempio curioso è quello offerto dalla Dissertazione con la quale Frédéric de Castillon risultò vincitore al concorso bandito nel 1777 dalla Reale Accademia Prussiana di Scienze e Lettere sul tema «È utile ingannare il popolo?». Castillon diede una risposta affermativa osservando che il quesito riecheggiava passi della Repubblica in cui Platone aveva riconosciuto ai governanti il diritto di mentire per il bene comune. La verità «è per gli occhi d’aquila; a tutti gli altri, per non accecarli, deve apparire circondata da veli che smorzino il suo eccessivo splendore»: p. 227. 46 Cfr. Plat. Resp. II, 378d6. 47 Procl. In Remp. I, 45, 1-6. In effetti qui Proclo si allontana in parte dal testo platonico in cui non compare affatto una distinzione dell’errore di rassomiglianza a seconda che si tratti di dèi o di eroi: cfr. Plat. Resp. II, 377e1-3. 48 Il luogo più celebre di tale atteggiamento socratico è certo Plat. Apol. 23a-e. 143 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA causa una sua naturale incapacità, dovuta proprio al modo in cui è stato allevato, agli atteggiamenti che lo hanno circondato, di chi - sembra dire tra le righe probabilmente ha preferito il progetto alla sua realizzazione pratica. È così anche per i poeti: egli non li disprezza in generale, ma è evidente – continua Socrate – che la loro trofhv, il modo in cui sono stati cresciuti, lo stile di vita, il mondo che si sono ritrovati intorno li avrà condizionati non poco; in quanto e[qno" mimetico, è naturale che essi rappresentino più facilmente e nel miglior modo possibile (rJa'/sta kai; a[rista) ciò che è stato loro familiare, mentre è difficile che sappiano rappresentare bene nei fatti, e ancor più nelle parole, ciò che è stato loro estraneo49. I poeti non riescono, così, ad attribuire azioni che si confanno agli eroi, e cioè imprese coraggiose e sagge decisioni, così come non conoscono i discorsi che i figli degli dèi rivolgerebbero ai loro padri e agli uomini stessi, finendo per destinare agli dèi parole empie e agli uomini false lusinghe o ignobili arroganze. Dunque egli ha biasimato, per questi motivi, la mimesi dissimile che è duplice, in quanto essa opera alla stessa maniera che se un pittore, intendendo rappresentare Achille, dipinge Tersite, oppure sì Achille, ma un Achille che non bada alla vita valorosa; il che nelle Leggi, Platone ha chiamato la buona fattura (to; eu\) <non> congiunta a corretta rassomiglianza (<ouj> meta; th'" ojrqovthto")50. Nel secondo libro delle Leggi (669a7-b3) Platone spiega che giudicare un’immagine, sia essa pittorica, musicale o di altro tipo, significa riconoscere prima di tutto la natura dell’oggetto rappresentato (o{ tev ejsti), poi in che misura esso sia riprodotto correttamente (wJ" ojrqw'"), infine quanto bene (wJ" eu\) sia realizzata l’immagine nelle parole, le melodie e i ritmi. È ragionevole pensare che sia proprio questo il sottotesto della riflessione di Proclo, quando l’esegeta parla di una duplice dissomiglianza mimetica: da un parte c’è una dissomiglianza scorretta, quella che un pittore produrrebbe se intendendo dipingere Achille, finisse per dipingere Tersite, se cioè rappresentasse degli eroi come se fossero 49 Proclo riprende tutto ciò da Plat. Tim. 19b3-e2; è da questo testo platonico che il filosofo licio recupera l’immagine dei poeti come to; mimhtiko;n e[qno"; è bene ricordare il ruolo centrale che tale immagine aveva acquisito in Aristotele: il carattere naturale del processo mimetico, il suo essere connaturato all’uomo, tanto che i poeti costituiscono quasi una stirpe, una etnia mimetica, è ribadito in Poet. 4, 1448b4-9. 50 Procl. In Remp. I, 46, 1-7. Si tratta di un passo lacunoso: cfr. Abbate 2004, comm. ad loc., p. 251, n. 3. 144 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA degli uomini; dall’altra parte, c’è una dissomiglianza non bella, quella che realizzerebbe un pittore se dipingesse sì Achille ma dandogli figura, forma, colori non conformi alla verità, se insomma rappresentasse degli dèi rivestendoli di parole sconvenienti. 3.3.3. Poikiliva mitica e incoerenza linguistica Il potere che la poesia invece esercita sull’educazione dei fanciulli è al centro del secondo motivo di condanna platonica ai miti della tradizione greca. Proclo chiama poikiliva quella che Omero non si è preoccupato di evitare nel raccontare le vicende degli uomini: una varietà di caratteri e di forme di vita di ogni genere. I poeti arcaici rappresentano i vili, i dissoluti, gli stolti accanto ai coraggiosi, i temperanti e gli assennati51. Essa non aiuta chi si impegna nell’educazione dei giovani, chi si impegna a «modellare i caratteri degli educandi, solo in ciò che è bene sia in rapporto alle azioni che alle parole»52. Questa volta il processo mimetico pericoloso è quello attivo non già nella creazione poetica, bensì nella sua fruizione. Nel lettore o ascoltatore di un mito, soprattutto nel fruitore giovane, fanciullo, s’innesca un’immedesimazione nel soggetto protagonista del racconto che è connaturata alla sua anima. Proclo sviluppa qui la dimensione psicologica da cui già in Platone il discorso sul mito non può prescindere. Nelle pagine 602c-608b della Repubblica Platone spiega come tutto ciò che ha a che fare con la mimesis smuove, attrae, affascina la parte peggiore dell’anima umana, quella passionale, quella lontana dalla frovnhsi", dall’intelligenza che ne rappresenta invece la parte migliore; ecco perché l’uomo prova naturalmente piacere ad ascoltare i miti omerici che raccontano di dèi avidi, rissosi, collerici, vendicativi, tanto che persino l’uomo valente, ejpieikhv", può uscirne corrotto; ed ecco perché il poeta deve necessariamente raccontare di tali moti dell’animo per esser sicuro di piacere alle folle variopinte di uomini. Un 51 Nella sesta Dissertazione (I, 159, 25 – 161, 7) Proclo mostrerà come questa varietà di caratteri appartenga alla stessa scrittura platonica. Si tratta di quella somiglianza vitale, simile alla vivacità della vita, una zwtikh; oJmoiwvsi", come la chiama in queste pagine della quinta Dissertazione (I, 46, 9), che è una rappresentazione inappropriata, secondo Proclo, perché verosimile ma filosoficamente contestabile. L’aggettivo zotikos era normalmente utilizzato per elogiare la rassomiglianza mimetica: cfr. Xenoph. Mem. 3, 10, 6; Call. Imag. 2, 3; 5, 4; 7, 2; 8, 1; Plot. Enn. VI, 7 [38], 22, 30. Cfr. Halliwell 2009, p. 388, n. 742. 52 Procl. In Remp. I, 46, 11-13. 145 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA uomo coerente, assennato, equilibrato non ha la stessa potenza mimetica di un uomo folle, lunatico, invidioso, ovvero non stimola nell’anima del fruitore quel desiderio di immedesimazione che rende piacevole lo spettacolo poetico. Infatti per natura la nostra anima gode di fronte alle rappresentazioni, poiché siamo tutti amanti delle narrazioni mitiche (filovmuqoi53), e, quando siamo bambini (pai'de" o[nte"), qualora ci abituiamo a passare la vita con rappresentazioni di ogni genere (mimhvmasi pantodapoi'"), da un lato ci facciamo simili ad esse (ejxomoiouvmeqa me;n aujtoi'") per la passione che nutriamo, dall’altro veniamo noi stessi ad assumere praticamente le stesse loro caratteristiche e finiamo per diventare, nel carattere, eterogenei (ajpobaivnomen ta; h[qh poikivloi) per il fatto di compiacerci di quanto è eterogeneo (dia; to; caivrein toi'" poikivloi"), dato che siamo plasmati dalle rappresentazioni eterogenee (uJpo; tw'n poikivlwn plattovmenoi mimhmavtwn)54. Ebbene, se la poesia risulta particolarmente gradita ai fanciulli, essa non è al contempo utile alla virtù, perché quanto più è gradita, tanto più è dannosa. Bisognerà, allora, scegliere, proprio come ammoniva Platone, la Musa più austera (aujsterotavthn), ma soprattutto quella che conduce direttamente alla virtù. Infatti, come ammiriamo la medicina non perché crea piacere, ma perché dà salute, così ammireremo la poesia, strumento educativo di cura dell’anima, non perché diletta, ma perché indirizza moralmente i giovani. Antidoto, favrmakon, di una mimesis così pericolosa, è ancora una volta, per Proclo, come già per Platone, la paideia, medicina dell’anima (tw'n yucw'n ijatrikhv), capace di raddrizzare (ejxorqou'sa) l’irregolarità (th;n ajnwmalivan) e la distorsione (diastrofhvn) delle passioni. Sicché la sola poesia accettabile nella città giusta sarà quella eticamente virtuosa, quella cosmopoietica (o{sa kosmei'), quella capace di dare ordine e armonia alle anime dei giovani55. 53 Il testo procliano richiama decisamente Arist. Poet. 4, 1448b4-9, ma è verosimile che Proclo conoscesse anche solo il trattato perduto Sui poeti. Sull’argomento cfr. Laurenti 1984, pp. 58-63. Il termine philomythoi ricorda ancora Arist. Met. I, 2, 982b18. Sul piacere che il mito procura all’anima dell’ascoltatore cfr. anche Dam. In Phaed. I, 525, 1-5; II, 130, 1-7 ed. Westerink, e per il commento a tali passi Pépin 1990. 54 Procl. In Remp. I, 46, 14-19. La traduzione di Abbate è lievemente modificata. 55 Cfr. Procl. ibi, I, 47, 9-14. 146 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA 3.3.4. La poesia agalma: mito e teurgia nella prima difesa procliana Come da manuale, la difesa va completata con la recapitulatio56 degli argomenti fondamentali. Pertanto, due sono i motivi per cui non si deve ammettere l’arte poetica in una corretta educazione: procedendo à rebours, nei casi in cui si imita secondo verità (ajlhqw'" mimei'tai), ovvero quando si imitano le vicende umane (ta; ajnqrwpikav), la natura eterogenea dell’imitazione (to; poikivlon th'" mimhvsew"); nei casi in cui si imita in modo falso (yeudw'" mimei'tai), il disaccordo dell’imitazione rispetto alla verità (to; ajpa/'don th'" mimhvsew"); quest’ultima poi si rivela essere di duplice carattere: o il disaccordo è solo nei nomi (ejn toi'" ojnovmasin), quando si parla degli dèi, oppure anche nei fatti (kai; toi'" pravgmasin), quando si parla degli eroi57. Interviene a questo punto un elemento cruciale, che fa da snodo argomentativo: la poesia è sacra alle Muse e tramite l’ispirazione essa si fa passaggio dal divino all’umano. È questo il motivo per cui Platone bandisce sì la poesia dalla kallipolis, ma lo fa non dopo averla disprezzata, bensì dopo averla onorata come cosa sacra. Del resto, giacché tutti quanti abbiamo ammesso che, assolutamente, la poesia è sacra alle Muse (th;n poihtikh;n iJera;n ei\nai tw'n Mousw'n) ed il suo passaggio agli uomini è avvenuto fin dall’origine per via dell’ispirazione di quelle (kata; th;n ejkeivnwn ejpivpnoian), a buon diritto, a mio giudizio, Platone, anche se le allontana dalla propria città per le ragioni suddette, non ritiene di doverla allontanare dopo averla disprezzata (ajtimavsa"), ma, piuttosto, dopo averla onorata come sacra alle Muse con onori simili a quelli che si tributano alle statue (tai'" oJmoivai" timai'" tw'n ajgalmavtwn), con profumo e corona58. C’è una dimensione in cui la poesia non è tecnica mimetica, non è retorica, non è educazione per l’uomo valente, ma formulario sacro di ispirazione divina59. Il punto di partenza è di nuovo l’interrogativo posto all’inizio; sono gli onori 56 Sull’epilogo come sezione più emotiva di qualsiasi discorso retorico, come il momento oratorio più emotivamente coinvolgente cfr. Lausberg 1969, pp. 51-53. 57 Cfr. Procl. In Remp. I, 47, 14-19. 58 Procl. ibi, I, 47, 20-26. 59 Il rito, scrive Jean Trouillard, «est le mythe en acte»; tra teurgia e mito vi è una relazione molto stretta: «Quand le mythe s’écarte du rite et devient conscient comme tel, il transforme en représentation une partie de sa force primitive»: Trouillard 1977, p. 23. 147 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA tributati ai poeti come a delle cose sacre. E questa volta è il potere del simbolo, il potere teurgico di una statua divina a segnare la traccia tutta neoplatonica, e soprattutto procliana, di una riflessione nuova sulla poesia. Il linguaggio poetico, espressione simbolica delle realtà divine, è cultuale, il suo ascolto (hJ ajkrovasi") contribuisce all’arte ieratica (suntelei' pro;" th;n o{lhn iJeratikhvn): «la vita dei fruitori della poesia omerica - scrive Proclo - è ormai saldamente fondata sugli dèi e con sicurezza (ajsfalw'") ascolta tali discorsi»60; anzi questi discorsi che rappresentano in modo falso le cose divine si fanno strumento di risalita (ejpanavgetai) verso ciò che è superiore, verso gli spiriti di ultimo livello (ta; teleutai'a tw'n pneumavtwn); ciò che essi producono è un incantamento61 - e questa parola non fa più paura come un tempo ne avrebbe fatta ad un educatore di età classica - è un incantamento attraverso il quale quell’ispirazione divina da cui il poeta è trascinato procede da quegli spiriti a noi, che quel poeta, incantati, ascoltiamo62. Fanno qui comparsa, già nella prima questione della quinta Dissertazione, termini chiave della riflessione di Proclo sulla poesia arcaica. Quanto è detto in maniera necessariamente falsa sugli dèi è detto simbolicamente (ta; sumbolikw'" legovmena). La maniera poetica di raccontare gli esseri superiori si addice alla qeravpeia divina e i simboli di cui essa si compone sono colmi (ajpoplhsqevntwn) di nomi e di fatti (ojnovmasin kai; pravgmasin) di cui gli dèi gioiscono (caivrousin)63 e attraverso i quali l’ispirazione divina (th;n qeivan ejpivpnoian) si trasferisce da essi a noi uomini. Se questa forma di poesia di argomento divino, benché prodotto di una finzione espressiva che si serve di simboli, può essere utile in qualità di oggetto rituale, allora anche la poesia rappresentativa di caratteri eterogenei può trovare, nella prospettiva procliana, un suo posto nella città platonica. Il filosofo licio introduce un elemento nuovo, di assoluta originalità quando prospetta un uso politico del racconto sugli eroi e sugli uomini. La poesia 60 Procl. ibi, I, 48, 5-7. Qevlgw è il verbo qui utilizzato da Proclo, verbo che prima di avere un utilizzo specificamente retorico, dove indica la forza persuasiva della parola, designava in Omero l’azione di dèi che incantano uomini o altri dèi (Il. XIII, 435; Od. V, 47; X, 291). 62 Cfr. Procl. ibi, I, 48, 1-10. 63 Cfr. Procl. ibi, I, 48, 10. Il testo procliano è in questo passo molto complesso. Seguo l’interpretazione di Abbate il quale, chiarendo la portata teurgica di tale immagine, riferisce ai simboli mitici il fatto di essere riempiti di nomi e cose capaci di far risalire gli uomini fino agli dèi. Cfr. Abbate 2004, p. 351, n. 4. 61 148 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA eterogenea diventa utile lì dove ciò che è eterogeneo risulta meno dannoso di ciò che non lo è; questo accade nelle città tiranniche dove domina in maniera esclusiva un solo modello etico, quello del tiranno, la peggiore forma di vita. In questa città la poesia, che abbraccia allo stesso modo i costumi migliori e quelli peggiori, introduce anche un indirizzo morale di natura diversa che deriva appunto dalla rappresentazione di caratteri variegati, negativi quanto positivi. Così, se l’eterogeneità sembra dannosa per la forma di governo regale e divina, potrebbe essere vantaggiosa per quella ultima e tirannica all’interno della quale essa va a introdurre anche dei modelli positivi. Si fa avanti allora un argomento che Proclo esprimerà più diffusamente nella sesta questione64, ovvero la relazione della poesia con ciò che è semplice (to; aJplou'n). Nelle proposizioni 58-59 degli Elementi di teologia il filosofo licio parla di una gradualità della semplicità vista come una qualità che si distribuisce in maniera proporzionata nei vari livelli ontologici del reale, dall’Uno fino alla materia; tale semplicità finisce per trovarsi al massimo grado nell’Uno e nella materia, nel primo in quanto principio primissimo, incausato e assolutamente trascendente a qualsiasi forma di molteplicità, nella seconda in quanto realtà ontologica indistinta, assolutamente priva delle qualità di intelletto, vita ed essere. L’Uno è semplice perché al di sopra di ogni composizione, la materia perché al di sotto di essa65. Ebbene, dal momento che c’è una duplice forma di semplicità (ditto;n to; aJplou'n), quella migliore e quella peggiore dell’eterogeneità (h] to; krei'tton h] to; cei'ron tou' poikivlou), nel primo caso entrare in contatto con l’eterogeneità significherà subirne un danno perché ci si sarà riempiti ineluttabilmente di ciò che è peggiore, nel secondo, invece, se ne potrà ricavare un vantaggio, poiché ci si sarà riempiti di ciò che è migliore. Ad ogni modo, se anche per certe altre forme di governo la poesia è utile, da un lato bisogna respingerla (ajpopemptevon), in quanto non si accorda con la prima forma di governo in assoluto (wJ" me;n th/' 64 Cfr. infra § 3.5.3. Già per Plotino sia l’Uno che la materia sono semplici, perché entrambi sono l’estremo risultato di un’astrazione (Plot. Enn. VI, 7 [38], 13), ma come sottolinea Dodds, nel commento al passo procliano citato sopra, è Proclo a fornire una compiuta spiegazione teoretica di cosa significhi questo principio nel processo di individuazione dell’essere (cfr. anche In Tim. I, 386, 25 – 387, 5; I, 437, 2-25): Dodds 1963, pp. 232-233. 65 149 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA prwtivsth/ mh; prosa/vdousan), dall’altro bisogna onorarla (timhtevon), in quanto è statua delle Muse (wJ" de; Mousw'n a[galma ou\san)66. La poesia, in una dimensione tutta diversa da quella platonica, in una dimensione intrisa di divino, non può essere oggetto di condanna, piuttosto è strumento mistico, teurgico quasi, linguaggio di rivelazione divina. Lo conferma la sfragiv", il sigillo di assoluta ascendenza procliana: Proclo affronterà più a lungo la relazione del linguaggio poetico con le pratiche teurgiche67, ma già in calce alla prima questione la poesia è detta Mousw'n a[galma, statua delle Muse, visione plastica di enti intelligibili, simulacro di legame tra l’umano e il divino, è velamento simbolico di un senso altrimenti intraducibile, e in una concezione della filosofia come ascesa mistica verso ciò che è assolutamente trascendente, essa è fonte di rivelazione divina. È in questo senso, allora, che nel Commento al Cratilo, è il nome divino ad essere a[galma degli dèi, e nel Commentario alla Repubblica lo è la poesia; il linguaggio poetico, proprio quello che parla degli dèi, quello che mente, che deve coprire la verità su di essi, è in relazione simpatetica con essi, si fa strumento di quel diretto contatto col divino che è fine ultimo della vita filosofica. In questo senso allora, nel suo essere vicinissima agli dèi, la poesia viene presentata da Proclo come alternativa alla filosofia e proprio per questo pericolosa. L’arte poetica condivide con il sapere filosofico la capacità di guardare agli dèi, e soprattutto la possibilità di ricondurvi gli esseri inferiori. A differenza della filosofia, però, essa introduce nell’animo degli uomini un aspetto variegato della natura eroica ed umana, cosa che la rende pericolosa per la città regale, diversiva per i fuvlake" della città perfetta. Al tempo stesso la poesia non va comunque annoverata tra le tevcnai: queste infatti, pur essendo sacre ciascuna ad una qualche divinità, restano sottoposte alla filosofia e non vi entrano mai in contrasto. Le tecniche sono utili strumenti per il politico ma non potrebbero mai porsi al posto della filosofia; il politico, il guardiano della città, non potrebbe mai essere un tecnico perché finirebbe per avere due occupazioni, da una parte il bene della città, dall’altra l’esercizio della sua arte. 66 67 Procl. In Remp. I, 48, 24-26. La traduzione di Abbate è lievemente modificata. Cfr. infra § 4.1.2. 150 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA Pertanto Platone a buon diritto ha relegato le tecniche nella città bassa (eij" th;n kavtw povlin), mentre la poesia in un’altra città (eij" a[llhn)68. C’è nella poihtikh; tevcnh una superbia didattica che la rende pericolosa, perché potrebbe insinuare in chi la possiede un desiderio sinistro di mettersi al posto del filosofo; e in quel caso la città non sarebbe più governata da uomini che hanno come unica occupazione la salvezza della città, ma cadrebbe in mano a poeti che mescolano all’attività poetica la pratica salvifica della loro arte. Si conclude così la prima questione, che chiedeva una soluzione al carattere aporetico dell’atteggiamento platonico di fronte alla poesia, diviso tra un severo giudizio critico e una venerazione sacrale. Da una parte, dunque, c’è una poesia insidiosa perché soggetta a regole espressive intrinseche alla sua natura mimetica, dall’altra c’è una poesia portatrice di verità perché proprio grazie a quella stessa natura mimetica conserva una traccia dell’ispirazione divina da cui essa si origina. 3.4. Questioni II e III: sulla tragedia e sulla commedia 3.4.1. La prospettiva di Aristotele nella risposta di Proclo alla condanna platonica del teatro Le questioni seconda e terza (I, 49, 13 – 54, 2) sono dedicate più specificamente a quella forma di poesia che, nella distinzione platonica tra discorso diegetico e discorso mimetico, si pone tutta dalla parte della mimesi, ovvero della totale identificazione dell’autore e del lettore nel soggetto rappresentato: lo scopo di Proclo è spiegare allora il perché della condanna platonica della tragedia e della commedia. Dopo aver discusso sul cosa deve raccontare la poesia (logos), Socrate dispone su come debba esprimersi il poeta (lexis) della città giusta. La poivhsi", altrimenti detta muqologiva, - spiega Platone – non è che un racconto (dihvghsi") di eventi passati, presenti e futuri. Tale racconto può avvenire o per narrazione semplice (aJplh'/ dihghvsei), o per mimesi (mimhvsei) oppure per entrambi i modi (di∆ 68 Procl. In Remp. I, 49, 2-3. 151 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA ajmfotevrwn). Omero utilizza entrambe le forme espressive, a volte narrando i fatti e introducendo i personaggi, altre volte lasciando la parola ai protagonisti del racconto, identificandosi in loro nella voce e nell’aspetto (tov ge oJmoiou'n eJauto;n a[llw/ h] kata; fwnh;n h] kata; sch'ma). Il poeta tragico invece scrive soltanto attraverso l’immedesimazione drammatica, la mivmhsi" appunto, mentre il poeta ditirambico riporta sempre in terza persona ciò che accade e ciò che viene detto69. Platone conclude questa sezione del terzo libro del dialogo dicendo che la poesia accolta nella kallivpoli" procederà per una narrazione di tipo misto, raccontando attraverso l’immedesimazione del poeta nel soggetto rappresentato solo quando quest’ultimo è buono e valente (ejpieikhv"), e lasciando invece al racconto tout court azioni deplorevoli nelle quali, per un senso di vergogna, il poeta eviterà di identificarsi. Da una prima conclusione di questo tipo, dalla quale si riprenderà il discorso all’inizio del decimo libro della Repubblica, appare evidente che gli autori tragici e comici non possano essere ammessi dal governo dei filosofi. Ebbene il commento procliano ha dietro di sé queste pagine platoniche, ma esso prende avvio dagli sviluppi che tali pagine ebbero nell’allievo più celebre del divino maestro, e cioè in Aristotele. Nel proporre, infatti, la sua ermeneusi all’argomento in questione, il filosofo licio allude a quella funzione catartica che lo Stagirita attribuisce proprio al racconto tragico nella Poetica. Questa pagina del Commentario alla Repubblica è infatti molto nota, proprio perché può rappresentare una fonte utile per la ricostruzione del concetto aristotelico di kavqarsi". La seconda questione della nostra Dissertazione viene posta proprio in questi termini: Perché mai non accetta soprattutto la tragedia e la commedia, e ciò benché esse contribuiscano alla purificazione delle passioni (tau'ta suntelou'san pro;" ajfosivwsin tw'n paqw'n), le quali non è possibile 69 Plat. Resp. III, 392c7-b9. È ormai nota la novità e l’importanza di tale riflessione platonica sull’aspetto formale del testo: si tratta di pagine fondamentali della storia della critica letteraria; si veda a tal proposito Gastaldi 1998, p. 362 e Giuliano 2005, p. 24. Proclo sviluppa questo argomento nella prima Dissertazione del Commentario alla Repubblica, dedicando il secondo dei sette kefavlaia, ‘punti capitali’, introduttivi alla lettura del dialogo platonico, proprio alla forma narrativa (tw'n lovgwn to; ei\do") utilizzata da Platone nei suoi scritti (I, 14, 15 – 16, 25). È interessante sottolineare che l’esegeta classifica il dialogo platonico all’interno della forma mista di discorso e che ne riconosce lo statuto di perfetta rappresentazione mimetica (th'" ajkrotavth" ejsti; mimhvsew"). Sull’aspetto drammatico, e quindi mimetico, della poesia arcaica, della tragedia e soprattutto del dialogo platonico cfr. Palumbo 2008a, pp. 237-301. 152 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA eliminare in modo radicale né è sicuro, al contrario, soddisfare completamente, per quanto abbiano certo bisogno al momento opportuno di uno sfogo (deovmena dhv tino" ejn kairw/' kinhvsew") che, se soddisfatto nel momento dell’ascolto di queste forme di poesia (h}n ejn tai'" touvtwn ajkroavsesin ejkplhroumevnhn), ci può rendere liberi dalle passioni per il resto del tempo (ajnenoclhvtou" hJma'" ajp∆ aujtw'n ejn tw/' loipw/' crovnw/ poiei'n)70. Sarebbe impossibile ricostruire in questa sede l’annoso dibattito sull’interpretazione di quella katharsis ton pathematon che la rappresentazione drammatica, come vuole il citatissimo passo della Poetica, realizza nello spettatore attraverso la paura e la pietà71. Ciò che però è doveroso notare è la chiarezza esegetica di un lettore molto più vicino ad Aristotele di quanto non possano esserlo gli studiosi moderni che, tra la lettura più tradizionale inaugurata da Lessing secondo la quale la catarsi è una purificazione delle passioni violente e smisurate dell’animo umano72, e una invece, relativamente più recente, che, con spunti presi dal linguaggio medico, pensa ad essa come ad uno svuotamento di emozioni pericolose73, rafforza, proprio a sostegno di questa seconda ipotesi ermeneutica, l’idea di una katharsis che è movimento di liberazione da passioni eccessive74. Nel 1933 Carlo Gallavotti titolava un capitolo della sua Dissertazione sull’estetica procliana: Ancora dal ‘Commento alla Repubblica’: ricordi aristotelici75. Che Proclo sia stato un attento lettore delle opere dello Stagirita è 70 Procl. In Remp. I, 42, 10-16. Arist. Poet. 6, 1449b24-28. Ricordiamo che un ulteriore accenno alla teoria della catarsi, questa volta in ambito musicale, si trova anche in Polit. VIII, 1341b32. Discussioni e bibliografia al riguardo si possono trovare in Flores 1984, Halliwell 1986, in particolare pp. 350-356, Halliwell 2003, Destrée 2003 e Donini 2004, pp. 53-66. In generale, per una storia delle interpretazioni moderne della catarsi aristotelica cfr. la raccolta di Luserke 1991; per un aggiornamento dello status quaestionis cfr. Guastini 2010, pp. 160-175 (v. Bibliografia. Fonti primarie s. v. Aristotele) 72 Un’interpretazione ripresa tra gli altri da Janko 1992. 73 Si tratta di una lettura proposta a metà del XIX secolo da Jacob Bernays in suo noto studio del 1857 (in bibliografia Bernays 1857) e recentemente ripresa da Hössly 2001. 74 Il primo a porre l’attenzione sul passo procliano a sostegno di una interpretazione «medica» del termine greco fu proprio Barneys già nel 1857, poi ripreso da Rostagni e Gallavotti all’inizio del novecento nei loro studi sull’estetica antica. Recentemente Pierre Destrée riprende la tesi di un’interpretazione etica della catarsi corroborata dal confronto col linguaggio medico e cita il passo procliano a favore di tale scelta ermeneutica così commentando: «quand il parle de catharsis, il n’hésite pas à utiliser le terme particulièrement fort de ‘vomissement’». Cfr. Destrée 2003, pp. 522-523. 75 Gallavotti 1933, pp. 25-34. 71 153 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA attestato da Marino il quale nei capitoli 9 e 12 della sua Vita Procli informa che il suo maestro prima studiò la filosofia aristotelica ad Alessandria, istruito da un certo Olimpiodoro (da non confondere con il commentatore alessandrino di VI secolo, allievo di Ammonio), e poi, arrivato ad Atene, seguì i corsi sul De anima. Dopo la morte di Plutarco, in meno di due anni, lesse, sotto la guida di Siriano, successore di Plutarco allo scolarcato, tutti i trattati di Aristotele seguendo un ordine didattico che prendeva avvio dalla logica per culminare, attraverso la morale, la politica e la fisica, nella «scienza teologica», ossia nella metafisica76. In effetti è inequivocabile la conoscenza di Aristotele mostrata da Proclo in queste pagine. Egli ha presente, probabilmente, il frammento Peri; politikou' (fr. 81 Rose) in cui il principio della catarsi costituiva uno strumento di difesa della tragedia dall’accusa platonica. Proclo infatti allude ad un attacco aristotelico contro Platone costruito proprio sulla possibilità che la tragedia, nel permettere allo spettatore di soddisfare a pieno le sue passioni e dunque nel curarlo dalle afflizioni che da queste derivano, fornisca a questo stesso spettatore, al contrario di quanto afferma Platone, condizioni favorevoli all’educazione (ajpoplhvsanta" eujerga; pro;" th;n paideivan ejcein)77. Gallavotti78 è fortemente contrario alla possibilità che Proclo possa qui riprendere la tesi aristotelica per mostrare la sua personale adesione a tale teoria. Lo stesso fa Sheppard la quale è convinta non solo dell’ostilità platonica a tragedia e commedia, ma anche dell’assoluta fedeltà dell’esegeta tardo neoplatonico al divino maestro. A mio avviso non è così netta né la condanna platonica né la posizione procliana, e lo si vedrà nello sviluppo argomentativo di questa questione. Inoltre il riferimento ad Aristotele, e a questo 76 La successione delle opere oggetto di studio nella scuola platonica seguiva l’articolarsi delle virtù, da quelle di livello più basso, etiche e politiche, fino ad arrivare a quelle catartiche e teurgiche. Nello studio curriculare si era ormai consolidata la lettura dei testi aristotelici come propedeutica alla dottrina di Platone. Le opere logiche di Aristotele erano considerate i ‘piccoli misteri’ introduttivi ai ‘grandi misteri’ rappresentati dai dialoghi di Platone, espressione della verità divina. La canonizzazione avviene in maniera definitiva con Giamblico, ma sul modello offerto già da Albino nel II sec. d.C. nella sua Introduzione ai dialoghi platonici. Su questo argomento cfr. Donini 1982, pp. 53-63, Hadot 1990, pp. 21-47 (v. Bibliografia. Fonti primarie s. v. Simplicio), Mansfeld 1994, pp. 94-95 e Reis 2007. 77 Cfr. Procl. In Remp. I, 49, 13-19. Che la Poetica fosse nota ai tardo neoplatonici è dimostrato anche da Herm. In Phaedr. 241, 21-3 in cui si fa riferimento alla pietà e alla paura come passioni suscitate dalla tragedia. Già Giamblico fa accenno alla katharsis in De myst. I, 11, 39, 14 – 40, 8 dove l’effetto catartico prodotto sull’animo umano dalla pietà e dalla paura è paragonato a quello prodotto sugli iniziati dai riti teurgici detti vergognosi (aijscrav); tale fonte neoplatonica è invece stata utilizzata dagli studi moderni a sostegno di un significato religioso-sacrale del termine: cfr. Janko 1992. 78 Gallavotti 1971, pp. 49-54. 154 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA elemento Sheppard accenna, si deve piuttosto far rientrare in quell’atteggiamento di conciliazione tra Platone e lo Stagirita rinvenibile in tutto il tardo neoplatonismo e nella scuola di Atene79. Gallavotti conduce la sua argomentazione partendo da una puntuale discussione filologica sul senso di quell’ «eJpomevnw" toi'" e[mprosqen» con cui Proclo introduce la sua soluzione al problema. Leggiamo il testo: «Le seconda questione invece – cioè il fatto assurdo di bandire tragedia e commedia, […] - che ha offerto ad Aristotele un importante punto di partenza per un attacco a Platone ed ai difensori di queste forme di poesia un pretesto per i loro discorsi contro Platone, noi la risolveremo eJpomevnw" toi'" e[mprosqen»80. Gallavotti mostra come quest’ultima espressione, in diverse varianti, ritorni come formula di passaggio da una questione all’altra, a segnare semplicemente il «seguitare del discorso secondo l’ordine indicato inizialmente, e come essa non si riferisca affatto ad Aristotele, agli ajgwnistai; che difesero la tragedia e la commedia contro Platone»81. Al noto filologo si deve senz’altro l’aver evitato conclusioni avventate, e soprattutto orientate, come quelle di Rostagni, che volendo trovare a tutti costi in Proclo un testimone della propria interpretazione della catarsi aristotelica, intendeva il passo come: «noi la risolveremo seguendo chi ci ha preceduto»82. Più recentemente Abbate aderisce, a mio avviso più correttamente, all’interpretazione di Gallavotti, ma con una lieve variante, considerando cioè l’espressione come una dichiarazione di adesione, piuttosto che all’ordine delle questioni prima presentato, al metodo già precedentemente utilizzato e così traduce: «noi la risolveremo quasi sulla stessa scia dei ragionamenti sviluppati precedentemente»83. Dall’analisi dell’esegesi che ora andrò finalmente a presentare sarà evidente proprio questa coerenza 79 Sui rapporti tra Platonismo e Aristotelismo all’interno della Scuola di Atene cfr. Chiaradonna 2012b, pp. 96-99. 80 Procl. In Remp. I, 49, 13-20. 81 Gallavotti 1971, p. 52. 82 Rostagni 1955, vol. I, p. 278, n. 1. 83 Abbate 2004, p. 81. Festugière così traduce: «nous la résoudrons, quant à nous, à peu près ainsi en accord avec la doctrine précédente», lasciando l’ambiguità su quale delle teorie precedenti si tratti, se quella di Proclo stesso presentata nella questione precedente o quella di Aristotele e dei detrattori di Platone appena accennata. 155 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA argomentativa utilizzata da Proclo, coerenza che ancora una volta evidenzierà tutta la complessità della posizione platonica rispetto alla poesia drammatica, evitando la semplificazione di una condanna tout court; è come se l’allievo platonico potesse cercare, senza misconoscere la forza della risposta aristotelica al giudizio di Platone sul teatro, una via argomentativa nuova che pure s’intreccia con il linguaggio dello Stagirita. Il compito morale della poesia, e cioè quello di indirizzare i giovani alla virtù, non può essere soddisfatto – spiega Proclo – da un discorso che imita caratteri di ogni sorta. Per il fatto di essere mimetica la poesia in generale penetra facilmente nei pensieri degli ascoltatori; un’anima presa dalla passione per gli oggetti della rappresentazione tende naturalmente ad assimilarsi ad essi. Ecco che allora la virtù non può identificarsi nella poikiliva etica portata sulla scena dai poeti tragici. Infatti la virtù è cosa semplice (aJplou'n) ed estremamente simile (mavlista proseoikov") al dio stesso, cui diciamo si addice in modo particolare l’unità (diaferovntw" proshvkein to; e{n). Dunque chi si avvicina a tale condizione deve evitare la vita contraria alla semplicità, sicché egli dovrà purificarsi da ogni forma di eterogeneità (kaqareuvein poikiliva")84. Proclo, dunque, mette in gioco i principi fondamentali della filosofia neoplatonica, quali quello dell’assoluta trascendenza della natura divina rispetto alla molteplicità delle cose sensibili e quello dell’assimilazione al dio, fine ultimo della vita filosofica. La tragedia e la commedia piuttosto che una misurata purificazione delle passioni, come vorrebbe Aristotele, occultano l’unità e la semplicità, qualità della vera virtù. In accordo con la posizione platonica e con gli argomenti già utilizzati nella luvsi" precedente, Proclo ricorda la pericolosità di modelli così eterogenei e soprattutto la ricaduta di tali forme poetiche sulla parte più irrazionale dell’anima, quella succube delle passioni. La commedia eccita la parte presa dal piacere e la induce a risate sconvenienti; la tragedia trascina l’anima portata alla tristezza e provoca lamenti indecorosi. Il filosofo licio, però, indulge al dibattito aristotelico ammettendo la necessità di uno sfogo (ajpevrasi") 84 Procl. In Remp. I, 49, 26-30. 156 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA delle passioni al quale il politico deve far fronte, uno sfogo che non si realizzi attraverso un’eccitazione delle passioni stesse, ma mettendo a freno e contenendo i moti dell’anima irrazionale. A questo punto Proclo sembra rivolgersi proprio agli aristotelici ai quali spiega in che senso bisogna intendere la purificazione e lo fa, inaspettatamente, servendosi proprio di un concetto tutto peripatetico qual è quello della metriovth". La tragedia e la commedia sono pericolose non solo per la loro eterogeneità di caratteri, qualità che condividono, come abbiamo visto sopra, con ogni forma di rappresentazione poetica bandita da Platone, ma anche per la loro dismisura (to; a[metron); esse portano lo spettatore a familiarizzare con rappresentazioni (tai'" mimhvsesin) che, non solo sono lontane dalla semplicità e unicità, ma moltiplicano (pollaplasiazouvsai") anche tale disordine etico. Infatti le purificazioni (aiJ ga;r ajfosivwsi") non si trovano negli eccessi (oujk ejn uJperbolai'" eijsin), ma in attività controllate (ejn sunestalmevnai" ejnergeivai") appena simili (smikra;n oJmoiovthta) a quelle attività di cui sono purificazioni85. A mio avviso una tale interpretazione è molto più vicina ad una possibile posizione aristotelica di quanto non lo sia la rinascimentale lettura della kavqarsi" come purificazione, liberazione dalle passioni. La purificazione è un contenimento, una delimitazione di eccessi, di dismisure. Ovviamente la dimensione in cui si inserisce questa metriovth" è pur sempre una dimensione teologica: essere virtuosi significa essere simili a ciò che è semplice e unitario, e cioè essere simili al dio, tant’è che se si esclude la sola occorrenza del verbo kaqareuvein in I, 49, 29, l’aristotelico kavqarsi" è sempre sostituito dal procliano ajfosivwsi", termine greco che condivide la radice con to; o{sion86, ciò che è stabilito dalla legge divina, ciò che è santo. L’elemento divino interviene in maniera ancora più esplicita proprio nell’ultima parte dell’argomentazione. La poesia drammatica non si astiene dal dare un’immagine empia degli dèi e una altrettanto indegna degli eroi. Essa nutre una a[qea qantasiva, un’immaginazione che è fuori dalla divinità, è negazione del dio e proprio il suo essere lontana dalla 85 Procl. In Remp. I, 50, 24-26. La traduzione di Abbate è lievemente modificata. Per una dettagliata analisi dei significati etimologici di questo termine, oggetto d’indagine, ricordiamo, del platonico Eutifrone, cfr. Dover 1983, pp. 411-412. 86 157 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA verità su questioni fondamentali, come sono quelle teologiche, non le permette di avvicinare una città anche su cose per le quali avrebbe una certa utilità87. Ecco dunque i tre motivi per cui Platone non concede il coro ai poeti: una perversità di opinioni (doxw'n ponhriva"), in particolare sugli dèi e sugli eroi, un eccesso di passioni (paqw'n ajmetriva") e un’eterogeneità in tutta la vita (th'" ejn th/' pavsh/ zwh/' poikiliva")88. 3.4.2. La fenomenologia dell’anima: una questione di metodo Nella terza questione Proclo affronta un argomento molto tecnico che potrebbe risultare un puro esercizio esegetico ma che invece presenta spunti interessanti per il progredire dello studio curriculare intorno alla poesia e a Platone. Ancora una volta si tratta di risolvere una contraddizione interna al corpus dei dialoghi, quella rintracciabile tra le pagine 395a1-5 della Repubblica e 223d1-6 del Simposio. Nell’intento di classificare le forme del discorso poetico (diegetico, drammatico e misto), Platone nella Repubblica sostiene che uno stesso poeta non è capace di praticare bene quei due tipi di rappresentazione, la commedia e la tragedia, che sembrano essere vicini, ma si occupano di situazioni e personaggi diversi. Nel Simposio, invece, proprio a conclusione del dialogo, Socrate è intento a convincere Agatone e Aristofane che la stessa persona deve saper comporre tragedie e commedie e che chi è poeta tragico per arte è anche poeta comico. La critica moderna ha tentato di risolvere tale contraddizione evidenziando i diversi contesti in cui rientrano i due passi platonici. Nel Simposio Platone afferma che dal punto di vista retorico chi possiede la tecnica della mimesis deve controllarne entrambi i generi. Letture molto note come quelle di Clay e di Gaiser suggeriscono che qui Platone stia individuando nella figura del poeta esperto di commedia e tragedia proprio l'uomo dialettico, ovvero Platone stesso che nella mimesis del personaggio socratico trova l’oggetto serio e comico della sua rappresentazione89. Nella Repubblica invece, secondo Vegetti, il filosofo farebbe 87 Cfr. Procl. ibi, I, 51, 10-12. Quella che sembrava essere una lieve apertura di Proclo ad una funzione positiva della poesia drammatica non trova quindi sviluppo nel seguito della trattazione, né come vedremo, nella sesta Dissertazione. 88 Cfr. Procl. ibi, I, 51, 20-25. 89 Cfr. Clay 1975, p. 252, Gaiser 1984, p. 67 e Centrone 2009, pp. XLII-XLIII. 158 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA riferimento alla situazione letteraria storicamente esistente nella quale le figure del commediografo e del tragediografo sono fortemente specializzate, come quelle di attore e di rapsodo90. La soluzione procliana è invece tutta incentrata sulla natura umana, quella che Platone nella Repubblica dice essere frazionata in tante piccolissime parti (395b5), sull’anima di ciascuno che ha una specifica funzione, tanto che non esiste nella kallivpoli" un uomo diplou'" né pollaplou'" (397e1-2). Si apre così una bellissima pagina del Commentario alla Repubblica in cui viene descritta la discesa dell’anima dal grado ontologico più alto, quello cosmico, al grado più basso, quello dell’anima particolare ulteriormente determinata dalle qualità di ciascuno91. L’anima umana, separatasi dalla vita autentica e caduta fino al grado più basso, è discesa dall’attività universale a quella più parziale. L’attività universale la rendeva cosmica (kosmikhvn), in quanto contemplava l’universo e governava insieme agli dèi il Tutto; da lì volgeva il suo sguardo al divenire come a cosa di poco conto proprio come il sole, corifeo di questo nostro mondo92, osserva la terra come cosa trascurabile. L’attività parziale, invece, è diventata la discesa di quest’anima condotta dall’universo e dal Tutto verso ciò che è più particolare (eij" to; merikwvteron): qui l’anima sceglie di passare dalla dimensione cosmica a quella propria dell’essere mortale (to;n tou' qnhtou' zw/vou); da questa passa ad un’altra dimensione ancora più particolare, quella umana (merikwvteron a[llon to;n ajnqrwvpeion). C’è una progressiva moltiplicazione dell’unità o specificazione della molteplicità: l’anima smette di prendersi cura provvidenzialmente (provnoia) dell’essere vivente inteso come unità (wJ" eJnov") e si determina nella forma dell’essere vivente umano; poi abbandona la forma unitaria, complessiva dell’uomo (to;n koino;n tou' ajnqrovpou lovgon), e conforma la propria esistenza ad una determinata forma di vita umana, per esempio quella di un filosofo. Da qui, poi, si veste nella vita in un determinato clima, in una determinata città e in una tale determinata stirpe divenendo merikhv ajnti; th'" oJlikh'", particolare invece che universale; poi ancora nella sua estrema caduta (pesou'sa th;n teleutaivan ptw'sin) ottiene ulteriori qualità (ejpithdeiovthta" 90 Vegetti 2007, pp. 464-465, n. 47, commento a Resp. III, 395a4-5. Cfr. Procl. In Remp. I, 52, 7 – 53, 10. 92 Plat. Resp. VI, 509b. 91 159 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA a[lla") derivanti ora da cause contigue, come genitori e discendenze, ora dall’ambiente e dalla sua natura specifica, ora dalle condizioni di vita proprie dei luoghi in cui è stata posta. Infatti in conseguenza di questi eventi la natura dell’anima, divisasi nella sua essenza in parti (katakekermatismevnh), ha ristretto il proprio ambito di competenza nelle differenti tecniche, conoscenze ed occupazioni, ed una è portata per natura a certe attività, un’altra ad altre (a[llh pro;" a[lla pevfuken), e neppure a queste nel loro complesso (kai; oujde; pro;" tau'ta o{la), in quanto ha ripartito in base alle proprie facoltà le varie forme di vita corrispondenti a questi ambiti di competenza (dielou'sa tai'" eJauth'" dunavmesi ta;" peri; aujta; zwav"). Dunque quanto ho riportato è tra tutte la cosa più vera (pavntwn ejsti;n ajlhqevstaton)93. Così si conclude questa sorta di fenomenologia dell’anima94 con la quale si è accennato il motivo per cui alcuni sono in grado di comporre commedie, altri tragedie, ed anzi alcuni non sono in grado nemmeno di comporre una tragedia o una commedia nella loro interezza. 3.4.3. Competenza tecnica e capacità d’immedesimazione del drammaturgo Partendo dal presupposto che ciascuna anima circoscrive il suo ambito di competenze e attività per ragioni intrinseche ora alla sua natura ora alle condizioni in cui si è posta nella sua ultima caduta, vanno considerati ancora altri due elementi per comprendere il motivo per cui Platone si è espresso in maniera apparentemente contraddittoria rispetto allo stesso oggetto. Se il primo argomento della luvsi" procliana rientra in una dimensione strettamente ontologica, quest’ulteriore precisazione al testo platonico si origina invece, ancora una volta, dalle competenze letterarie e retoriche del filosofo licio. Comporre poesia 93 94 Procl, In Remp. I, 52, 29 – 53, 4. Cfr. Abbate 2004, p. 352, n. 9. 160 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA drammatica significa possedere conoscenza (gnw'si"95) e vita (zwhv). Così infatti argomenta Proclo: Coloro che realizzano queste forme di poesia [scil. la commedia e la tragedia] hanno bisogno di queste due cose, di conoscenza ed anche di visione penetrante della vita: della prima per avere una competenza tecnica (o{pw" a]n e[cwsi tevcnhn) di come bisogna affrontare ciascuna delle due (tou' pw'" eJkatevran metaceiristevon) e di quante parti deve constare (ejk tinw'n merw'n diaskeuastevon) e come devono essere disposte (pw'" tetagmevnwn) e quali i personaggi (oJpoivwn proswvpwn), cose che appunto anche coloro che hanno scritto intorno a tali questioni (oiJ peri; aujtw'n gravfonte") sogliono affermare. Della seconda hanno, invece, bisogno per produrre una rappresentazione dei caratteri (th;n tw'n hjqw'n mivmhsin) conforme ai fatti e ai personaggi che ne costituiscono il soggetto, e per non diventare imitatori infedeli (mh; ajnovmoioi gevnwntai mimhtaiv) dei soggetti che si sono trovati innanzi96. Come ha giustamente sottolineato Sheppard97, con la perifrasi «oiJ peri; aujtw'n gravfonte"» l’esegeta si riferisce molto probabilmente agli autori di manuali di retorica e di poetica: le parti di un discorso, la loro disposizione e i tipi di personaggi sono argomenti specifici della retorica antica e se non sorprende che Proclo abbia familiarità con la primissima critica letteraria intorno alla Repubblica, non è scontato che un filosofo esegeta impieghi abitualmente teorie e termini dell’arte retorica98. Ebbene, la competenza tecnica può essere unica sia per la tragedia che per la commedia, mentre l’esperienza di vita è propria di ciascun autore drammatico e mentre la prima ha a che fare con la costruzione di un discorso, la seconda riguarda quella complessa natura del discorso che è il rapporto mimetico esistente tra autore e personaggio, tra realtà e fatti rappresentati, tra personaggio e spettatore. La mivmhsi", infatti, non è altro che una costruzione di caratteri (mavlista ga;r hjqopoiov" ejstin hJ mivmhsi", I, 53, 23-24) – scrive Proclo – e allora uno stesso autore è impossibile che possa saper rendere simile la scena ora 95 Per gnw'si" nel senso di conoscenza tecnica, si veda anche I, 54, 6 e, nella sesta Dissertazione, I, 147, 5. Procl. In Remp. I, 53, 10-16. 97 Sheppard 1980, pp. 117-118. 98 Sull’influenza della retorica sulla formazione di Proclo mi soffermerò più avanti. Cfr. infra § 3.6.1. 96 161 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA ad una tragedia, che suscita il pianto, ora ad una commedia, che stimola il riso. Di tutto ciò – continua l’esegeta – si trova conferma nel testo stesso: nella Repubblica Platone nega che la stessa persona possa scrivere commedie e tragedie proprio perché sta parlando delle modalità di rappresentazione mimetica, mentre nel Simposio non dice che la stessa persona le rappresenta, ma che la stessa persona «sa comporre» (ejpivstasqai poiei'n) commedia e tragedia99. Alla fine della discussione la distinzione tra gnw'si" e zwhv diventa una distinzione tra tevcnh ed h\qo": Sicché Socrate, avendo giustamente distinto l’aspetto tecnico da quello relativo al carattere (dielw;n oJ Swkravth" to; tecniko;n tou' hjqikou'), ora diceva che la medesima persona sa comporre entrambe le forme di poesia, ora che la medesima persona non è in grado di rappresentarle entrambe100. Tale traslazione terminologica ha fatto pensare a Gallavotti101 che dietro le parole procliane ci fosse ancora una volta la Poetica di Aristotele, dove si legge della nota distinzione tra tevcnh e fuvsi", tra una grandezza poetica frutto di studio, di sapienza tecnica e una, invece, prodotta da puro ingegno, da dote naturale102. In realtà in Proclo, se gnw'si" può essere sovrapposto perspicuamente a tevcnh, non vale lo stesso principio per zwhv/h\qo" e fuvsi"103. In Aristotele effettivamente sono messi in relazione il saper fare poesia o per capacità acquisite o per un’attitudine naturale; manca quella dimensione etica che invece in Proclo, e ancor prima in Platone, è al centro dell’attenzione. La seconda componente che si richiede ad un poeta, cioè la sua vita, il suo carattere morale, è strettamente legata a quella fenomenologia dell’anima presentata da Proclo perché preparatoria a tale 99 L’interpretazione del passo del Simposio proposta da Proclo sembra essere più fedele al testo di quanto non lo sia la critica moderna; in effetti in questa pagina del dialogo non c’è nessun riferimento alla mimesi e, nel confronto con la pagina della Repubblica, l’uso della perifrasi ejpivstasqai poiei'n sembra veramente riferirsi più all’aspetto formale che a quello contenutistico. 100 Procl. In Remp. I, 53, 26-28. 101 Gallavotti 1933, pp. 30-31. 102 Arist. Poet. 8, 1451a23-24; della feconda ricezione di tale principio estetico ricordiamo almeno Hor. Ars poet. 409-411 e An. De subl. 36, 4. 103 Sheppard dimostra infatti come Proclo, se veramente ha in mente Aristotele, pensa più verosimilmente al passo 1448b24 ss. dove lo Stagirita associa il carattere dello scrittore con il genere di scritto a cui egli lavora; la stessa idea è già in Aristofane che si divertiva all’idea che i poeti fossero simili ai personaggi da loro stessi creati (per es. Ach. 393 ss.; Thesm. 63 ss.): cfr. Sheppard 1980, p. 117. 162 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA riflessione. Ad essere messe in gioco sono le competenze, le attività determinate dalle qualità di un’anima che da cosmica si è frammentata in uomini, tipi, caratteri particolari; perché è la capacità posseduta da quest’anima di rendersi simile ad altre anime di cui rappresenterà attività e qualità morali ad essere necessaria in una creazione mimetica quale è quella della poesia tragica o comica. Non si tratta di un’indole naturale contrapposta ad una competenza tecnica, ma di una competenza tecnica contrapposta ad un’altra competenza, quella etica, quella dell’anima. D’altronde già Platone parla di un’anima frammentata che non può dedicarsi bene a più occupazioni contemporaneamente, e tanto meno rappresentare molte cose con abilità mimetica: la stessa anima saprà rappresentare personaggi solo tragici o solo comici e tra quelli solo alcuni uomini e non altri. Perciò i guardiani della kallivpoli" dovrebbero non saper fare altro che condurre la città alla libertà, ma se poi si fanno produttori di immagini devono esserlo guardando ad un solo valore etico, quello della virtù: Se poi rappresentano, che rappresentino fin da bambini ciò che loro si addice (touvtoi" proshvkonta), uomini coraggiosi, saggi, pii, liberi e così via; ma quanto alle cose indegne di uomini liberi, non dovrebbero né farle né esser abili ad rappresentarle (mhvte deinou;" ei\nai mimhvsasqai), e così nient’altro di vergognoso, perché dalla rappresentazione non finiscano per derivare il loro modo di essere104. Lo sviluppo argomentativo di queste due questioni che di primo acchito potrebbero costituire una digressione, un mero esercizio esegetico sulla tragedia e la commedia, presenta a mio avviso due caratteristiche strutturali importanti che ritorneranno nelle questioni successive e che può essere utile così sintetizzare: a) la lettura del dialogo platonico si muove sempre tra l’orientamento neoplatonico, la fedeltà al testo e l’orizzonte di una tradizione filosofica imprescindibile quale quella aristotelica; b) esegesi, critica letteraria e retorica costituiscono gli strumenti ermeneutici fondamentali per una ricostruzione della littera platonica che si confronti sempre con la dimensione del divino. 104 Plat. Resp. III, 395c3-8. La traduzione di Vegetti è lievemente modificata. 163 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA 3.5. Questioni IV, V e VI: De musica 3.5.1. Socrate e Damone: il politico e il musico Dopo aver trattato del contenuto e dello stile del racconto poetico, Platone, nel terzo libro della Repubblica, passa a parlare dell’arte delle Muse concernente il canto melodico105. L’educazione musicale ha a che fare con la parola, l’armonia e il ritmo106. Perché si arrivi a configurare la migliore forma di poesia bisognerà stabilire, quindi, quali sono i tipi corretti di lovgo", aJrmoniva e rJuqmov" che ogni canto (to; mevlo") dovrà possedere. La legge generale, spiega Platone, vuole che la musica tenga seguito al contenuto del discorso, motivo per cui sarà semplice dedurre dai tuvpoi, esposti precedentemente, quali armonie e quali ritmi saranno accolti nella città giusta. Come non sono accettabili pianti e lamenti degli eroi, così non si accoglieranno le armonie mixolidia e sintonolidia107; come agli uomini non si attribuiscono atteggiamenti molli e femminei così non si dovranno utilizzare armonie conviviali come quelle ioniche; saranno invece da preferire le armonie dorica e frigia perché adatte a uomini coraggiosi e solerti108. Allo stesso modo saranno da evitare tutti gli strumenti a molte corde e panarmonici, come trigoni o pettidi o l’aujlov", strumento poliarmonico per eccellenza simile al nostro oboe109, preferendo invece la lira e la cetra, e la siringa per i pastori. A proposito dei ritmi, Socrate, rifacendosi alla regola generale dell’accordo armonico e ritmico 105 Cfr. Plat. Resp. III, 398b-403c, ma anche Leg. II, 652a-656c. Si devono a Damone di Oa, maestro di Draconte, a sua volta maestro di Platone, le prime riflessioni teoriche sugli influssi della musica sulla psicologia. Diverso fu l’approccio pitagorico, con cui pure fu in contatto Platone attraverso Archita di Taranto, approccio di stampo più specificamente matematico. In Resp. IV, 424c (= fr. 14 Lasserre) Platone attribuisce a Damone anche un giudizio sul rapporto tra musica e politica: un mutamento dei modi della musica sconvolge anche le leggi politiche. La paranomia è d’altronde il sovvertimento del nomos, «legge» ma anche «norma musicale». Sul rapporto tra musica ed educazione cfr. Bélis 2007. 106 Cfr. Plat. Resp. III, 398c1-403c6. 107 Nel trattato Peri; mousikh'", la cui paternità plutarchea, sebbene avallata dalla tradizione manoscritta, è ormai generalmente respinta dalla critica moderna, viene spiegato che Platone rifiuta l’armonia lidia perché acuta e adatta ai canti di lamentazione. In Resp. III, 398e Platone, infatti, parla della syntonolydia, ossia della lidia «acuta» o «tesa» (suvntono"), rispetto a quelle calaraiv, «rilassate», citate subito dopo, adatte invece ai simposi. Cfr. Plut. De mus. 15. 108 Già Damone (fr. 8 Lasserre) affermava che l’armonia frigia e quella dorica erano le sole armonie ad avere una funzione paideutica positiva per il comportamento valoroso in guerra e saggio e moderato in pace. 109 Pindaro definisce infatti l’aujlov" ‘pamphonos’: Ol. VII, 12. Erroneamente siamo soliti tradurre aujlov" con «flauto»: lo strumento moderno più vicino all’aujlov" è invece proprio l’oboe essendo ad ancie (glovttai). Da sempre fu considerato uno strumento poco adatto all’educazione di uomini liberi, se non in casi eccezionali: Ateneo ci racconta che Alcibiade ed Epaminonda appresero da illustri maestri i primi rudimenti dell’auletica (Athen. IV, 184d-e). Sulle varietà di aujloiv e sui loro usi cfr. Comotti 1991, pp. 72-76. 164 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA con le parole, invita Glaucone a disprezzare i ritmi variati e irregolari per ricercare invece le melodie adatte a vite ordinate e coraggiose. Tralasciando dettagli tecnici, che sarà invece compito del musico Damone approfondire, si può vedere – spiega Socrate – nella buona grazia, l’eujschmosuvnh, l’effetto melodico da raggiungere, ovvero quella euritmia ben accordata con un’espressività discorsiva che è a sua volta immagine formale di un carattere morale rivolto al bello e al buono. Così Platone riassume allora il principio base della sua educazione musicale: Dunque il buon discorso (eujlogiva), la buona armonia (eujarmostiva), la buona grazia (eujschmosuvnh) e il buon ritmo (eujruqmiva) dipendono da un buon carattere (eujhvqeian110): non si tratta di quella stupidità che chiamiamo eufemisticamente ‘semplicità’, ma di una intelligenza (th;n diavnoia) veramente disposta in modo buono e bello (wJ" ajlhqw'" eu\ te kai; kalw'") rispetto al carattere (to; h\qo" kateskeuasmevnhn)111. Ebbene, queste pagine del dialogo platonico dedicate alla musica propriamente detta, ossia quella tecnica che ragolamenta il ritmo e la melodia, sono oggetto di ben tre questioni del commento procliano. Prima di passare ad una trattazione dotta e davvero feconda del testo originale112, il filosofo licio s’interroga però, nella quarta questione, sulla dichiarazione di Socrate di non conoscere a fondo le differenze tra le armonie, lasciando a Glaucone prima e a Damone113 poi un approfondimento più tecnico delle questioni musicali. Come ha già sottolineato Sheppard114, Proclo sta qui trattando una questione tradizionale, probabilmente un vero e proprio problema scolastico, dal momento che prima di lui ne aveva parlato anche l’autore del già menzionato trattato di età imperiale, il De musica attribuito 110 Platone utilizza qui il termine eujhvqeia nel suo significato originario di ‘buona moralità’ e diversamente dall’uso tradizionale, che era stato anche quello di Trasimaco in Resp. I, 348d, che lo intendeva nel senso di ‘semplicità, dabbenaggine’. Cfr. Vegetti 2007, comm. ad. loc. 111 Plat. Resp. III, 400c10-e3. 112 Contra Rangos che tralascia interamente queste pagine della quinta Dissertazione, considerandole una nota esegetica prodotta da un’affermazione socratica più o meno casuale: cfr. Rangos 1999, p. 256, n. 19. 113 Platone menziona Damone con lo stesso riguardo riservatogli nella Repubblica anche in Lach. 200b e Alc. I, 118c. 114 Sheppard 1980, pp. 115-116. La studiosa definisce factitious questa questione e sottolinea, giustamente, l’importanza di inserire la discussione di Proclo all’interno del dibattito scolastico per meglio comprendere le finalità didattiche della quinta Dissertazione e l’orientamento dell’esegeta nella sua lettura e nella scelta delle domande da porre al testo platonico. Come si vedrà più avanti, anche la settima questione affronterà un argomento ampiamente dibattuto nell’ambito della scuola platonica. 165 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA dalla tradizione manoscritta a Plutarco, la cui paternità è però oggi dibattuta115. Nel capitolo 17 di quest’opera si legge infatti di un’accusa d’ignoranza musicale mossa a Platone dall’allievo di Aristotele, Aristosseno: nel secondo libro del suo Ta; mousikav questi, rifacendosi probabilmente proprio ad Aristotele che nella Politica sosteneva l’utilità di tutte le harmoniai, ciascuna per un fine diverso e proprio116, avrebbe rimproverato al filosofo ateniese di aver rifiutato le armonie lidia e ionica senza riconoscerne il valore etico utile allo stato. A Platone, inoltre, già lo Stagirita aveva obiettato anche di aver accolto l’armonia frigia, tradizionalmente legata ad occasioni orgiastiche, adatta ad accompagnare le danze sfrenate dei culti estatici come quelli di Dioniso, e suonata con l’aulos, prima bandito dalla kallivpoli"117. Ebbene, anche gli studiosi moderni come gli antichi hanno cercato una motivazione plausibile all’ambiguità della posizione di Socrate rispetto a queste questioni così tecniche. Anderson118 spiega che l’incertezza platonica potrebbe risalire a due ipotetiche motivazioni: o Platone si sarebbe rifatto alla somiglianza strutturale tra la frigia e la dorica, oppure a suo tempo i culti dionisiaci non prevedevano più riti estatici e frenetici e avevano assunto un aspetto più sobrio e composto. Vegetti119 interpreta, invece, la cautela socratica nel nominare le armonie per lasciarle alla competenza di Glaucone proprio come un modo per non esporsi alle controversie degli specialisti ed alle possibili obiezioni come quella aristotelica. Ritornando alle testimonianze antiche, l’autore del De musica difende puntualmente Platone dall’accusa di Aristosseno ricordando la sua formazione in ambito musicale appresa da Draconte di Atene e Megillo di Agrigento; nel capitolo 22 cita addirittura i passi del Timeo in cui Platone espone la teoria della creazione dell’anima del mondo fondata su rapporti musicali (35c-36b), per dimostrare che il filosofo ateniese fu un vero esperto di scienza armonica (e[mpeiro" aJrmoniva" h\n). 115 Oggi la critica moderna sembra essere concorde nel respingere la paternità plutarchea di questo testo, scritto comunque da un personaggio non così lontano dall’epoca plutarchea e sicuramente fine conoscitore dello scrittore di Cheronea. Alcune particolari cifre stilistiche lo collocano plausibilmente nella seconda metà del II secolo d.C. Cfr. Ballerio – Comotti 2000, pp. 9-10. 116 Cfr. Arist. Pol. VIII, 7, 1342a1 ss. 117 Arist. Pol. VIII, 7, 1342b1ss. 118 Cfr. Anderson 1966, pp. 105-107. 119 Vegetti 2007, p. 478, n.58, commento a Resp. III, 399a5. 166 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA Proclo, nel rigore che gli è proprio, trova una sua motivazione forse più raffinata, inserendo le conoscenze musicali di Socrate, quelle di Damone e di Glaucone in un sistema di saperi gerarchicamente organizzato. È necessario che sia il politico-filosofo che il musico conoscano l’arte delle armonie e del ritmo, ma non nello stesso modo. Al primo compete la definizione della corretta forma di armonia utile al governo e educativa per i giovani; al secondo, invece, spetta l’analisi specifica di tutte le forme di armonia, compresa quella utile alla città, e delle loro differenze specifiche; il musico dovrà, quindi, conoscere quale armonia risveglia la parte dell’anima incline al dolore, quale affievolisce quella incline al piacere, quale infine modera entrambe. Perciò è giusto che il politico non debba essere inesperto di musica, né il musico inesperto di politica; l’uno, infatti, se inesperto di musica, non saprà dell’esistenza di armonie che possono contribuire all’educazione; l’altro, se inesperto di politica, accoglierà tutte le armonie, sia quelle che conducono all’ignoranza, sia quelle che contribuiscono all’educazione. Socrate, dunque, in quanto politeiva" dhmiourgov"120 fa ciò che si addice ad un politico, ovvero stabilisce in maniera generale quali sono le armonie paideutiche e quali non lo sono, lasciando invece un’analisi più dettagliata a Damone, esperto di teorie musicali121. Con il musico il filosofo deve comportarsi come con lo stratega, il medico e l’oratore: a ciascuno di questi egli indicherà in maniera complessiva le linee generali del loro impegno all’interno della città e cioè contro chi combattere, chi bisogna guarire senza prolungare l’attesa della morte, quale sapere deve essere alla base di un discorso persuasivo, ma a ciascuno di essi demanderà il compito di assolvere a tale impegno facendo affidamento sulle proprie conoscenze tecniche e cioè sulle tattiche belliche, le modalità di guarigione, le leggi retoriche122. 120 Procl. In Remp. I, 54, 25. Cfr. Plat. Resp. III, 440b1-c6: «Ma per queste cose – dissi io – ci consiglieremo anche con Damone, su quali siano i piedi convenienti alla meschinità e all’arroganza e alla follia e al resto dei vizi, e quali ritmi si debbano riservare ai loro rispettivi contrari. […] Ma queste cose, come dicevo, rimettiamole a Damone, perché analizzarle richiederebbe un discorso tutt’altro che breve, non credi?». 122 Può essere interessante notare come queste figure di esperti, il poeta-musico, lo stratega, il medico e l’oratore ritornino nel commento procliano come protagonisti nella costruzione della kallivpoli" alla fine della Dissertazione: nella decima questione (I, 68, 3 - 69, 19) vedremo come essi hanno le corrispettive divinità protettrici nella dimensione teologica del sistema procliano, come se le loro competenze disegnassero, sotto la guida del politico-filosofo, l’insieme delle tecniche necessarie e sufficienti per una città che guardi alla cosa giusta come all’utile. 121 167 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA Se poi Socrate dichiara di conoscere qualcosa a proposito dei ritmi ciò non autorizza il lettore di Platone a ritenerlo autocontraddittorio. Se Socrate prima affida la trattazione delle armonie e delle loro differenze a Glaucone123 e poi dichiara di aver appreso qualcosa a proposito dei ritmi direttamente da Damone124, è perché Glaucone ammette esplicitamente di non sapere nulla sui ritmi125 obbligandolo, allora, per completare il discorso sulla musica, a dare un’indicazione di fondo anche su questo argomento, al fine di stabilire almeno che anche nei ritmi c’è qualcosa di educativo e di utile alla virtù. Potrebbe sembrare, e forse lo è, una noiosa pedanteria lo sforzo procliano di dare una spiegazione a questo atteggiamento socratico che tutto sommato non ha nulla di inaspettato, ma credo vada ricordato a questo punto che tale sforzo di armonizzazione del testo platonico rientri perfettamente nel progetto esegetico che Proclo stesso ha dichiarato all’inizio del suo Commentario alla Repubblica. La prima Dissertazione di tale commento è, in questo senso, un vero e proprio manuale ermeneutico da cui non è possibile prescindere se s’intende approssimarsi il più possibile alle vie esegetiche del filosofo licio. Il settimo punto capitale di quello che è un vero e proprio scritto preparatorio126 alla lettura della scrittura platonica suggerisce, con palesi reminiscenze del Fedro platonico, proprio la necessità per un esegeta di rendere chiara la consequenzialità delle concezioni che corrono lungo tutto il dialogo e di mostrare, così, come la loro elaborazione arrivi a formare un tutto armonico alla maniera di un essere vivente le cui parti e membra sono in perfetto accordo tra loro127. Dunque Socrate si esprime sui ritmi per soccorrere l’ignoranza di Glaucone, ma dice di non conoscere a fondo le armonie perché compito del politico è orientare la musica al giusto ed alla paideia, e non di fissarne le regole tecniche 123 In Plat. Resp. III, 398e1 così Socrate si rivolge a Glaucone: «Quali sono dunque le armonie lamentose? Dimmi, visto che tu sei un esperto di musica (su; ga;r mousikov")»; qualche riga dopo (339a5) dichiara ancora di non conoscere le armonie (oujk oi\da ta;" aJrmoniva"). 124 Cfr. Plat. Resp. III, 400b4. 125 Cfr. Plat. ibi, III, 400a5-8. 126 Proclo chiama provlogo" il discorso preliminare con cui introduce la sua lettura della Repubblica, discorso nel quale segnerà le tracce-modello da seguire per l’analisi di qualsiasi altro dialogo platonico. Sull’importanza e la natura dei prolegovmena nella scrittura filosofica cfr. Untersteiner 1980, pp. 220-222; più specificamente in relazione a tale modalità introduttiva o isagogica nell’ermeneutica neoplatonica cfr. Tarrant 2001 e Tarrant 2010. 127 Cfr. Procl. In Remp. I, 6, 24 – 7, 1 e Plat. Phaedr. 264c2-3. Per un’analisi dettagliata del passo platonico cfr. De Vita 2009. 168 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA com’è invece richiesto al musico. Occorre ricavare dal dialogo di Socrate e Glaucone dedicato al canto melodico un unico principio di fondo, spiega Proclo a chiusura della sua quarta questione: l’educatore deve tendere alla bellezza del linguaggio, dell’armonia e del ritmo tenendo lo sguardo fisso, anche in questo caso, sull’anima. Se è attraverso la bellezza del linguaggio che si perfeziona la parte razionale di ciascuno di noi, è con la bellezza della melodia che trova il suo ordine, la sua armonia (kosmei'tai) la parte irrazionale dell’anima128. 3.5.2. Ta; ei[dh th'" mousikh'" La quinta questione mette a fuoco, sulla scia della discussione platonica intorno alla musica un punto di osservazione sulla poesia davvero proficuo e stimolante. L’esegeta appronta un’indagine ricca di suggestioni interrogandosi sul posto occupato dalla poesia rispetto all’intera mousikh; tevcnh. Quando Platone avvia la sua discussione sulla poesia nel secondo libro della Repubblica lo fa, com’è ben noto, perché deve stabilire la corretta educazione dei guardiani della nuova città giusta. Tale paideiva ha a che fare con i corpi – oggetto di cura della ginnastica – e con l’anima – oggetto di cura della musica. Platone comincia dall’educazione dell’anima: parlare di musica significa parlare dei discorsi, di quelli veri e di quelli falsi, e cominciare da questi ultimi perché ai bambini si raccontano prima di ogni altra cosa dei muvqoi, e tra questi quelli più grandi (meivzone"), i discorsi di Omero e di Esiodo129. La trattazione dell’educazione musicale comincia dunque proprio dalla poesia. Che cosa allora si deve conoscere della musica e che cosa della poesia? Qual è il loro rapporto e quante sono le forme di musica? Queste sono le domande che Proclo pone a se stesso e ai suoi allievi. Dalla lettura dei dialoghi sembra che Platone dia alla musica diverse accezioni, come d’altronde voleva l’intera tradizione greca. Ora, infatti, collega la poesia alla musica quando per esempio dice che il Poeta ‘sta assiso sul tripode delle Muse’ (Leg. IV, 719c4) oppure quando parla della poesia nata da un’anima posseduta dall’ispirazione divina, prodotta dalle Muse (Phaedr. 245a1-8); ora invece sembra 128 129 Cfr. Procl. In Remp. I, 56, 10-14. Cfr. Plat. Resp. II, 376e1-377d5. 169 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA che le distingua come quando nella gerarchia dei generi di vita acquisiti dall’anima nella sua caduta pone al primo posto la vita del musico, come di qualsiasi amante del bello, e al sesto quella del poeta e di ogni altro imitatore (Phaedr. 248d1-e3). Quindi, avendo considerato molteplici forme di musica (polla; th'" mousikh'" ei[dh qeasavmeno"), Platone sembra far rientrare tutto il genere della poesia nella categoria della musica, mentre non sembra ridurre tutto il genere della musica alla poesia130. Nello stabilire allora qual è per Platone il genere di musica che può definirsi poesia, l’esegeta neoplatonico si propone di distinguere tutte le forme di mousikh; tevcnh contemplate dal divino maestro. Ebbene, esiste la forma più alta di musica che è quella filosofica. Proclo cita i passi del Fedone (61a3), in cui la filosofia è detta essere «una forma elevatissima di musica»131 e del Lachete (188d3) dove è detta essere la forma più intensa di amore perché accorda non già la lira, ma l’anima stessa con la perfetta armonia132; non cita invece esplicitamente il Fedro che pure è sotteso a tutte le dichiarazioni qui fatte dall’esegeta, e ce ne accorgeremo subito. Questa pagina del Commentario alla Repubblica è di estrema importanza per quel che dice proprio intorno alla filosofia. La capacità di guardare al piano intelligibile, al piano universale, al Tutto, viene al filosofo direttamente dalle Muse. In queste righe il filosofo licio afferma con estrema chiarezza che la forma di musica divinamente ispirata si trova primariamente proprio presso il filosofo (th;n e[nqeon mousikh;n para; tw/' filosovfw/ prwvtw" a]n ei\nai) e che, infatti, il filosofo è e[nqeo", divinamente ispirato, sebbene i più lo ignorino (kai; ga;r oJ filovsofo" ejnqousiavzwn levlhqe tou;" pollouv")133. Proclo sta pensando qui a quella forma 130 Procl. In Remp. I, 57, 3-6. Cfr. In Crat. CLXXVII, 103, 7-10 dove Proclo spiega la relazione tra filosofia e musica presentata nel Fedone dicendo che la filosofia «fa muovere le nostre potenze psichiche in modo armonioso e sinfonico rispetto agli enti e ai movimenti ordinati dei suoi propri cicli». 132 I passi platonici in cui viene istituito un legame tra ricerca filosofica e musica intesa come arte delle Muse sono numerosi: oltre a quelli qui citati da Proclo ricordiamo anche Phaedr. 248d3 e 259d4; Resp. VIII, 548b8-c2 e Crat. 406a3-5. Sull’argomento cfr. Moutsopoulos 2002. 133 Cfr. Procl. In Remp. I, 57, 16-18. La filosofia di Platone è detta divinamente ispirata in Theol. Plat. I, 2, p. 8, 22. Può essere significativo registrare che già nel primo neoplatonismo il filosofo appare come ispirato dagli dèi. In un episodio della Vita Plotini (15, 1-6) Porfirio dice di aver parlato da ispirato 131 170 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA terrena di vita più alta acquisita dall’anima che prima della sua incarnazione ha potuto contemplare più a lungo e meglio le idee nel mondo sopraceleste. Si tratta di quell’uomo «che aspira alla sapienza (filosovfou) ovvero un amante della bellezza (h] filokavlou), devoto alle Muse (h] mousikou'), dedito all’amore (kai; ejrotikou')» descritto da Platone in Phaedr. 248d3-4134. Nella Teologia Platonica è proprio il Platone autore del Fedro quel filosofo che ha rivelato molte dottrine sugli dèi, ejnqevw/ stovmati, con bocca divinamente ispirata135. Da questa immagine del filosofo entusiasta, però, non è così lontana quella del poeta. Il filosofo, quando si trova in questo stato di possessione divina, diventa capace – nell’interpretazione procliana – di imitare il poeta per eccellenza, quello che alla fine di questa Dissertazione sarà detto il modello del poeta del mondo senibile, e (met∆ejnqousiasmou') in un linguaggio mistico (mustikw'") e iniziatico (ejpikekrummevnw") tanto che uno del pubblico lo disse preso da maniva. Allora Plotino, rivolgendosi all’allievo, rispose in modo che tutti sentissero: «Ti sei rivelato nello stesso tempo poeta, filosofo e ierofante». Per una discussione sulla natura esegetica e mistica degli scritti porfiriani cfr. Girgenti 1997, pp. 3-32. 134 Sulla relazione del filosofo con la mania e l’ispirazione divina così come Socrate stesso la presenta in queste pagine del Fedro cfr. Casertano 1987 e Capra 2008. 135 Procl. Theol. Plat. I, 4, p. 18, 2. Si tratta di una delle quattro famose modalità espositive di contenuto teologico individuate da Proclo in Theol. Plat. I, 4, p. 17, 18-24 e attribuite a Platone. Secondo la lettura ermeneutica procliana, Platone parlerebbe degli dèi a volte in maniera ispirata (ejnqeastikw'") come in Phaedr. 243e9-257b7; a volte in maniera dialettica (dialektikw'"), come in Soph. 242b6-245e2 e Parm. 137c1-155e3; altre volte ancora in maniera simbolica (sumbolikw'"), come in Gorg. 523a1-524a7, Symp. 203b1-e5 e Prot. 320c8-322d5; infine, ricorrendo ad immagini (di∆ eijkovnwn) come in Tim. 53c4-55c6 e Polit. 269c4-274e4. Il divino maestro avrebbe sintetizzato le modalità proprie di altri filosofi e sapienti: se la maniera dialettica è espressa al massimo grado da Platone stesso, sono gli iniziatori ai misteri a parlare per ispirazione, i poeti a utilizzare miti e simboli, e infine i Pitagorici a servirsi di immagini matematiche. Se tale passo può risultare problematico nel presentare come distinti il linguaggio ispirato e quello simbolico, è necessario precisare due considerazioni. La prima ha a che fare con il contesto esegetico di questa pagina della Teologia Platonica, in cui Proclo sta discutendo questioni eminentemente stilistiche e retoriche come dimostra lo stesso linguaggio tecnico utilizzato (cfr. Pépin 2000, pp. 3-10 e Dillon 1992, p. 38). Ciò gli permette di considerare ispirato il linguaggio platonico anche quando questo, pur costruendo discorsi mitici, non procede per simboli, non presenta cioè, secondo la definizione che Proclo dà del simbolo nella sesta Dissertazione (cfr. In remp. I, 198, 13-24 e infra § 4.4), immagini del tutto opposte al divino. Da questa prospettiva è interessante notare che nel classificare ulteriormente i quattro trovpoi, Proclo ponga da una parte quello dialettico e ispirato come espressione di un linguaggio privo di velamenti (ajparakaluvptw") e, dall’altra, i modi simbolico e iconico come espressione di un linguaggio che si serve di segni (di∆ ejndeivxew"): ibi, I, 4, p. 20, 1-5. La seconda considerazione deriva direttamente da questa prima e rientra nello stretto legame che la poesia, dalla prospettiva procliana, ha con la teurgia e l’iniziazione mistica (su questo aspetto cfr. supra § 3.3.4 e infra § 4.1.2): entrambe sono rivolte a un pubblico di iniziati ed entrambe rivelano le somme verità sugli dèi sulla base di quel principio di sympatheia che collega tutti gli elementi del reale, l’umano al divino, l’immagine al modello. Tale legame suggerisce di non separare nettamente il linguaggio simbolico da quello ispirato, o almeno di separarli soltanto quando si tratta di come lo stesso contenuto trovi espressione in maniera diversa: l’uno, quello teurgico, in maniera immediata, l’altro, quello poetico, attraverso enigmi, allusioni. Sulla relazione di questo complesso passo procliano con quello dell’In Parm. I, 646, 21-34, si diffonde il prezioso saggio di Pépin 2000. Cfr. anche Gersh 2000. 171 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA cioè Apollo Musegeta136. Il filosofo, quando è ispirato dalle Muse, diventa capace di dare ordine a tutto ciò che riguarda gli uomini e di comporre inni di lode alle divinità, imitando così Apollo che, celebrando Zeus con i canti intellettivi, tiene legato insieme l’intero universo, muovendo nello stesso tempo ogni cosa137. Ne sarebbe una dimostrazione l’etimologia del nome di Apollo in quanto divinità della musica, proposta da Socrate nel Cratilo (405c6-d5) e ripresa da Proclo nel commento allo stesso dialogo. Il prefisso aj- sarebbe equivalente all’avverbio oJmou' «insieme»138 e quindi il teonimo significherebbe oJmou' povlhsi" «il moto insieme», cioè concorde, tanto dei cieli quanto dei suoni; Apollo presiederebbe perciò all’armonia oJmopolw'n, «muovendo insieme» tutte le cose che si trovano e presso gli dèi e presso gli uomini139. Nell’ordinamento teologico di Proclo, infatti, Apollo, trovandosi al limite estremo dell’ordinamento ipercosmico, riconduce verso una certa unità l’ordinamento ontologico cui appartiene e la molteplicità determinata e particolare che da esso deriva, facendola convergere verso la realtà intellettiva140. L’attività ispirata del filosofo sembra dunque coincidere con quella del poeta. Il confronto del filosofo con Apollo in questa parte del commento è preparatorio alla conclusione della Dissertazione, nella quale, come si vedrà, Apollo diventa la via di accesso della poesia al Tutto, al paradigma eidetico. Prima di passare agli altri generi di musica, Proclo aggiunge (In Remp. I, 57, 15-20) che presso questo filosofo, imitatore di Apollo musico, si trovano i beni della musica educativa, e cioè tutto quanto della musica è degno della massima attenzione da parte di tutti. Questa poesia didattica (paideutikhv), sempre corretta, di cui è autore il filosofo, è stata fatta coincidere con quella poesia che nella sesta Dissertazione del Commentario alla Repubblica si caratterizza per trovare la sua origine nella conoscenza e non nell’ispirazione: da qui la netta separazione posta dagli studiosi moderni tra la poesia dei poeti arcaici e quella dei filosofi141. 136 Cfr. Procl. In Remp. I, 68, 21 – 69, 1. Per il commento a tale passo cfr. infra, § 3.7.2. Cfr. Procl. ibi, I, 57, 10-15. 138 È il cosiddetto valore copulativo di aj- proprio come in ajkovlouto" “compagno di vita” e a[koiti" “coniuge, sposa”. 139 Per la lunga e dettagliata analisi procliana dell’etimologia di questo teonimo in In Crat. CLXXIV, 96, 12 – CLXXVI, 103, 5 rimando ad Abbate 2001a, pp. 108-114. 140 Tale attività, per le ragioni che sopra abbiamo dimostrato a proposito della teoria del nome, sono riflesse nel suo stesso nome. Per Apollo come divinità capace di riunire il molteplice in un’unità cfr. anche Theol. Plat. VI, 12, pp. 60-62 e al riguardo Abbate 2008, pp. 156-158. 141 Su tutto ciò ci soffermeremo più a lungo nel capitolo successivo, § 4.4.3. 137 172 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA In queste pagine, invece, è chiaro come la filosofia si caratterizzi per essere direttamente ispirata dalle Muse, e che proprio quando è ispirata acquisisce le stesse capacità di produzione poetica di coloro che sono guidati da Apollo: ciò, a mio avviso, autorizza a trovare quantomeno difficile e problematico pensare di separare, nella riflessione procliana sulla poesia, Platone da Omero, la filosofia da qualsiasi forma di sapere ispirato, di natura tradizionale e finanche divina, sulla base del valore didattico da riconoscere all’una e all’altro. Dopo aver presentato il musico per eccellenza che è identico all’autentico filosofo142, Proclo passa a presentare la seconda forma di mousikhv. Come la prima, anche questa proviene dalle Muse, ma questa volta essa spinge le anime verso la poesia divinamente ispirata (eij" th;n e[nqeon poihtikh;n ta;" yucav", I, 57, 25)143. Il testo di riferimento è, questa volta esplicitamente, il Fedro, in particolare il passo in cui Platone dichiara che non esiste poeta perfetto che non sia posseduto dalle Muse e che colui che compone poesie rimanendo in senno verrà inesorabilmente oscurato dall’autentica poesia (Phaedr. 245a1-8). Questa volta è la poesia a coincidere con la filosofia e soprattutto con quella parte della filosofia ispirata e imitativa di Apollo, celebrativa degli dèi, ordinatrice del reale. Anche qui la musica giunge allo stesso risultato della poesia, in quanto la musica divinamente ispirata rende chi è divinamente ispirato perfetto poeta: infatti (Platone) afferma che chi è posseduto dalle Muse è divinamente ispirato non per altro se non per divenire poeta (ouj ga;r eij" a[llo tiv fhsin to;n ejk Mousw'n kavtocon ejnqeavzein h] eij" to; poihth;n genevsqai), cantore delle nobili imprese compiute anticamente, risvegliando inoltre attraverso queste lo zelo per l’educazione in coloro che vengono dopo144. L’evoluzione naturale della musica sembra essere dunque la composizione poetica, e in entrambi i casi con scopo didattico. Se però il politico educa attraverso le leggi, dicendo con chiarezza chi è il buon cittadino, il poeta educa creando dei modelli esemplari (dia; paradeigmavtwn) attraverso i quali ispirare gli 142 Proclo scrive proprio in questi termini: «o{ ge tw'n mousikw'n ajkrovtato" ou|tov" ejstin, oJ aujto;" w]n wJ" ei[retai tw/' wJ" ajlhqw'" filosovfw/», In Remp. I, 57, 21-22. 143 Anche in In Remp. II, 313, 23ss. (Dissertazione XVI) Proclo distingue una mousikhv ispirata e una umana, la prima personificata in Orfeo, la seconda in Tamiri. 144 Procl. In Remp. I, 57, 29 – 58, 6. 173 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA uomini alla virtù. Proclo cita dei passi omerici in cui protagonisti sono proprio uomini antichi, autori di imprese gloriose, uomini fortissimi, presentati dal poeta agli uomini perché da essi apprendano a comportarsi secondo virtù. Il raffronto della modalità educativa della poesia con quella politica si riferisce proprio a quella musica educativa di cui è esperto e autore il filosofo divinamente ispirato. In molti passi dell’In Rempublicam il politico coincide con il filosofo e lo vedremo, ancora una volta, nell’ultima questione. Possiamo allora concludere che la prima e la seconda forma di musica sono entrambe ispirate ed entrambe paideutiche, sebbene procedano con strumenti e modalità differenti. La terza specie di mousikhv è questa volta una forma non divinamente ispirata. Come giustamente interpreta Abbate145, tale forma di musica sembra essere riferita da Proclo a quella ejpisthvmh preparatoria per il filosofo all’esercizio della dialettica di cui parla Platone nel settimo libro della Repubblica146. Insieme all’aritmetica, alla geometria, alla stereometria e all’astronomia, Platone dà ad una particolare forma di musica, quella che egli chiama aJrmoniva, lo statuto di scienza capace di far compiere la conversione dell’anima (yuch'" periagwghv, Resp. 521c6) da ciò che diviene verso ciò che è. Lo studio del moto armonico (ejnarmovnio" forav, 530c7), come quello delle altre scienze matematiche, orienta l’anima verso la dimensione noetica, oggetto di conoscenza del metodo dialettico, a condizione però che non si limiti all’osservazione tecnica degli intervalli minimi delle note intermedie, ma che orienti l’ascolto e lo studio dei ritmi alla ricerca del bello e del buono (pro;" th;n tou' kalou' te kai; ajgaqou' zhvthsin, 531c6-7). Proclo ricorda, dunque, anche questa forma di musica contemplata da Platone, musica che pur non avendo una natura ispirata, a differenza delle due precedenti, «eleva dalle armonie manifeste alla bellezza invisibile dell’armonia divina»147. Ed 145 Cfr. Abbate 2004, p. 353, n. 16. Plat. Resp. VII, 530d6-531b8. La presenza della musica nel sistema scientifico previsto da Platone risale in realtà già ad Archita pitagorico (DK 47 B 1 e 2). Sul posto delle scienze matematiche nel percorso conoscitivo segnato da Platone nel libri VI e VII della Repubblica e sul rapporto della riflessione platonica sulle scienze e i testi pitagorici cfr. Di Benedetto 1986, pp. 5-34. Per una descrizione della teoria musicale così come viene esposta da Platone in queste pagine, esaminata anche in relazione alla tradizione pitagorica cfr. Meriani 2003, pp. 85-113. 147 Procl. In Remp. I, 58, 28 – 59, 1: «levgei de; a[ra kai; to; trivton mousikh'" ei\do", oujkevti tou'to kaqavper to; prorrhqe;n ejnqeastikovn, ajnagwgo;n de; o{mw" ajpo; tw'n fainomevnwn aJrmoniw'n eij" to; ajfane;" th'" qeiva" aJrmoniva" kavllo"». In In Remp. I, 54, 22-24 Proclo parla della musica come uno strumento capace «di mettere l’anima, da un lato, in sintonia con le cose belle, dall’altro in una condizione di ripulsa per quelle turpi». 146 174 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA è proprio questa relazione con il bello ad accomunare anche questa forma di musica alla filosofia. Abbiamo visto come nel Fedro l’uomo amante del sapere è quello che più degli altri riesce a riconoscere la presenza del modello intelligibile nelle cose sensibili da lui osservate, e come questa sua capacità sia legata contemporaneamente alle Muse e all’amore. Il filosofo risulta essere posseduto da una maniva di origine divina, al pari dell’indovino, del sacerdote e del poeta, da quella follia in virtù della quale, riuscendo a riconoscere nella bellezza di un corpo del mondo sensibile la bellezza assoluta contemplata nel mondo sopraceleste, egli è preso da ciò che gli uomini chiamano amore. Il primo genere di vita, quello erotico (Phaedr. 248d3), quello che fa volgere l’anima dalle cose più basse a quelle che sono in alto, causa e modello di tutte le altre, è dunque proprio del filosofo, dell’innamorato e del musico – scrive Proclo148. Il musico agisce sulla bellezza delle armonie e dei ritmi e da questa s’innalza a quei ritmi non sensibili che non sono più conoscibili attraverso l’udito, ma si rivelano per mezzo del pensiero discorsivo (tw'/ th'" dianoiva" logismw')149; l’innamorato agisce sul bello che è nel sensibile e attraverso di questo è capace di richiamare alla memoria la bellezza in assoluto; infine, il filosofo, partendo dalle forme sensibili si prepara alla visione di quelle intelligibili, di cui le sensibili sono immagini (eijkovne"), e realizza in anticipo l’obiettivo del musico come anche quello dell’innamorato150. A questo punto, però, Proclo compie, rispetto a Platone, un passo ulteriore concessogli dal rapporto analogico in cui si strutturano i livelli del reale e scrive: 148 Lo stesso concetto ritorna nel commento al primo libro degli Elementi di Euclide. Cfr. In Eucl. 21, 4-7 Friedlein: «oJ de; ejn tw/' Faivdrw/ Swkravth" trei'" hJmi'n paradivdwsi tou;" ajnagomevnou" oi} kai; to;n prwvtiston aujtou' sumplhrou'si bivon: to;n filovsofon, to;n ejrwtikovn, to;n mousikovn». Sul rapporto tra la filosofia e la forza anagogica di Eros nell’ambito del Neoplatonismo alessandrino cfr. il recente studio di Motta 2012. 149 Il termine aJrmoniva deriva da aJrmov", «legame, congiunzione» ed infatti le prime forme di armonie musicali si ebbero con l’assemblamento di due tetracordi in un solo eptacorde, facendo coincidere le due corde centrali in una sola, la mevsh, e con l’aiuto di un gancio materiale, l’harmos appunto. L’armonia per Proclo, come per Aristotele (De mundo, 5, 396b7 ss.), è dunque concordanza di elementi opposti in una stessa entità unitaria, in qualsiasi campo, dalla musica, alla cosmologia, alla psicologia: la presenza del bianco accanto al nero, in pittura per esempio, può sembrare armonica allo stesso modo della coesistenza di colori brillanti o scuri: In Remp. II, 223, 23-27. Sul concetto di armonia musicale in Proclo cfr. Moutsopoulos 2010, pp. 199-238. 150 Cfr. Procl. In Remp. I, 59, 3-16. Nel Commento all’Alcibiade primo (328, 11 Segonds), il filosofo neoplatonico, collega il bello ai verbi kalei'n e khlei'n, «chiamare» e «affascinare», proprio per dimostrare l’intrinseca capacità di to; kalovn di richiamare a sé per richiamare ad altro. 175 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA Infatti il bello particolare è comunque, a mio avviso, bello (to; ga;r ti; kalo;n pavntw" dhvpou kai; kalovn ejstin), e la forma particolare è comunque forma (to; ti; ei\do" pavntw" kai; ei\do"). Pertanto chi contempla ogni forma conosce entrambi (oJ toivnun panto;" ei[dou" qeath;" oi[den a[mfw), sia, da un lato, il bello in assoluto (kai; to; aJplw'" me;n kalovn), e, dall’altro, una sua forma particolare (ti; de; ei[do"), sia la specifica cosa bella (kai; to; ti; kalovn): sicché il musico siffatto rientrerebbe nella stessa categoria del filosofo (w{st∆ ei[h a]n oJ toiou'to" mousiko;" tw'/ filosovfw/ suvstoico")151. Qualsiasi forma di visione anagogica, sia essa di natura sensibile, scientifica o dialettica, se condotta in ascesa verso ciò che è universale, se condotta riconoscendo la natura sensibile come rappresentativa di ciò che sta più in alto, è filosofia. La quarta ed ultima forma di musica è quella che si occupa più tecnicamente delle armonie e dei ritmi, proprio quella di cui si è occupato Socrate nel III libro della Repubblica insieme con Glaucone. È quella parte educativa della musica che è posta sullo stesso piano della ginnastica152, quel genere che educa i caratteri attraverso le armonie e i ritmi utili alla virtù, che stabilisce quali sono i ritmi e le armonie capaci di regolare le passioni delle anime o al contrario di renderle completamente stonate esasperandole o indebolendole eccessivamente153. Questo genere di musica, osserva Proclo, è proprio quello che Platone esclude dai saperi matematici, perché si fonda su un sapere tecnico, sulle regole che definiscono la correttezza formale del canto melodico. Così infatti parla Glaucone nel VII libro della Repubblica, nell’atto di individuare quelle scienze capaci di far volgere l’anima al vero, cioè all’intelligibile: 151 Procl. In Remp. I, 59, 16-20. Segno eloquente dell’armonia nell’esistenza umana è la salute (Plat. Prot. 326b) e la salute dipende, secondo l’antico precetto ippocratico, proprio dall’armonia esistente tra le parti dell’anima e quelle del corpo e, in generale, tra l’anima e il corpo considerati distintamente. 153 In Plat. Tim. 47d la musica e il ritmo sono detti doni offerti dalla divinità agli uomini capaci di servirsene con intelligenza perché attraverso di essi sia possibile riportare all’accordo e all’ordine la nostra anima (eij" katakovsmhsin kai; sumfwnivan). Poiché l’armonia musicale riproduce la struttura razionale dei movimenti dell’anima del mondo e ha dei movimenti analoghi a quelli dell’anima umana, ascoltarla permette di accordare con essa un movimento dell’anima divenuto discordante (ajnavrmoston yuch'" perivodon). Allo stesso modo il ritmo aiuta a correggere le nostre disposizioni che mancano di misura e grazia. 152 176 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA Ma quella (scil. la musica) era il contrappunto della ginnastica, se ben ricordi: educava i difensori con le abitudini, forniva loro, grazie all’armonia, una buona armonicità, ma non la scienza, e grazie al ritmo, una buona ritmicità; nella parte parlata poi, che fosse di tipo favoloso oppure veritiera, presentava certe altre abitudini affini a queste. Di sapere però che potesse condurre a quello scopo che tu ora ricerchi, in essa non ve n’era affatto154. La classificazione degli ei[dh th'" mousikh'" così delineata da Proclo solleva importanti dubbi e allo stesso tempo feconde riflessioni sul posto da assegnare alla poesia nella città giusta di cui l’esegeta tardo neoplatonico ha parlato fino ad ora e sui cui ancora concentrerà l’attenzione nella seconda parte della sua Dissertazione. In effetti egli risolve il quesito di questa questione, posto all’inizio, e cioè quale sia il rapporto tra la poesia e la musica, nelle pochissime ultime righe del discorso e lo fa in questi termini: Pertanto, […], è ormai chiaro (h[dh fanerovn) come si debba subordinare la poesia alla musica (o{pw" th;n poihtikh;n uJpo; th;n mousikh;n taktevon), sia a quella divinamente ispirata sia a quella che non lo è155 (ei[te th;n e[nqeon ei[te th;n mh; toiauvthn) e da quale forma di musica bisogna distinguerla, vale a dire da quella che si leva in alto (th'" ajnagomevnh"). Infatti questa è la forma di musica che apparteneva al supremo genere di vita (oJ prwvtisto" bivo") e Platone la distingueva dalla poesia, in quanto arte imitativa (wj" mimhtikh'"), poiché essa non vuole vivere come semplice forma imitativa, ma elevare se stessa dalle rappresentazioni ai modelli esemplari delle armonie e dei ritmi di questo mondo qui156. Ma qual è questa poesia che va subordinata alla musica, sia a quella ispirata (e cioè la prima e la seconda forma di musica), sia a quella non ispirata (e cioè la terza forma di musica, ovvero l’harmonia del settimo libro della Repubblica)? È 154 Plat. Resp. VII, 522a3-9. La traduzione di Abbate è lievemente modificata. Se infatti lo studioso sceglie di conservare l’ambiguità del testo originale traducendo «sia quella divinamente ispirata sia quella che non lo è», credo sia verosimile pensare che la distinzione tra ispirata e non ispirata sia da riferire alla musica e non alla poesia, dal momento che nell’elenco dei quattro generi di arte musicale appena proposto, Proclo non distingue mai tra poesia ispirata e poesia non ispirata, piuttosto parla di musica ispirata e musica non ispirata. Più esplicita in tal senso è la traduzione di Festugière: «qu’il s’agisse ou de la mousiké inspirée des dieux ou de celle qui ne l’est pas». 156 Procl. In Remp. I, 60, 6-13. 155 177 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA evidentemente una poesia che non è anagogica, che non conduce dal sensibile all’intelligibile; è una poesia che si arresta al livello della rappresentazione, che non riesce a cogliere il legame che l’immagine intesse con il paradigma e che per questo non aspira ad elevarsi fino ad esso. A mio avviso lo stretto legame che lo sviluppo dell’argomentazione ha costruito tra la prima e la seconda forma di mousikhv, la filosofia e la poesia, non permette di riconoscere nella seconda forma di musica contemplata da Platone questa espressione musicale da relegare nella sfera della mivmhsi" lontana tre volte dalla verità. Come abbiamo già visto nella prima questione, e come sarà ancor più evidente nell’ultima, nella riflessione procliana si concede alla poesia proprio un potere anagogico157, rappresentativo e perciò evocativo dell’universale. È più probabile che in questa parte finale della questione, l’esegeta neoplatonico si riferisca piuttosto all’ultima forma di poesia, quella che si occupa delle questioni tecniche del ritmo o della musica senza ricercarne un legame diretto con l’armonia universale. La sesta Dissertazione potrà chiarire meglio queste righe, quando la mivmhsi" smetterà di essere, come in questa Dissertazione, una categoria ermeneutica relativa a tutta la produzione poetica, per diventare una modalità espressiva nella quale far rientrare una specifica attività poetica, quella drammatica che appunto si arresta alle rappresentazioni sensibili senza mostrarne il legame con il modello intelligibile, quella cioè che produce immagini poetiche presentandole come le realtà sensibili di cui esse sono immagini. Insomma la poesia, se solamente mimetica, si ferma al mondo delle apparenze, se ispirata è lo sviluppo ultimo dell’ispirazione delle muse158. 157 Nella sesta Dissertazione, come vedremo nel prossimo capitolo, Proclo scrive esplicitamente che quella di Omero è una iniziazione anagogica delle anime degli ascoltatori (teleth;n ajnagwgovn tw'n ajkouovntwn)»: In Remp. I, 80, 22-23. Per il commento a tale passo cfr. infra § 4.1.2, pp. 214-215. 158 In effetti questo è l’unico punto della quinta Dissertazione in cui Proclo sembrerebbe alludere alla teoria dei tre generi poetici presentata nella sesta Dissertazione. Ciò dimostrerebbe che lo scritto più recente non sia una sostituzione più matura di quello più antico, ma solo un suo più dettagliato sviluppo. A mio avviso, è possibile ipotizzare che Proclo avesse già presente una gerarchia tra attività superiori e inferiori della poesia mentre scriveva questa prima opera sul rapporto di Platone con il mito arcaico, benché rinunciasse ad esporla nei particolari forse per la natura introduttiva dello scritto esegetico. Halliwell suggerisce che siano state le finalità più ambiziose e ‘teologiche’ della sesta Dissertazione a richiedere e consentire di esporre lo schema tripartito dei generi poetici con il conseguente declassamento della mimesis che ne deriva: cfr. Halliwell 2009, p. 278. Sulle differenze contenutistiche e formali delle due dissertazioni cfr. supra § 3.1. 178 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA 3.5.3. I ritmi e le armonie adatti all’educazione dei giovani Definiti così gli ei[dh th'" mousikh'", nella sesta questione, l’ultima che si occupa della mousikh; tevcnh, Proclo ritorna al testo della Repubblica e stabilisce in maniera definitiva qual è la melodia veramente paideutica. All’interno della grande varietà musicale che il poeta arcaico ha a disposizione, andranno necessariamente individuate delle melodie che evitino quell’eterogeneità di carattere, quella poikiliva etica che è estranea alle Muse159. Ebbene, tra i ritmi vanno accolti l’enoplio, perché ispira un’indole virile, pronta ad affrontare ogni azione inevitabile e improvvisa, e il dattilo eroico perché adatto a produrre ordine, equilibrio e altri benefici di questo tipo. Da ambedue l’anima è resa pronta (eujkivnhton) ed al tempo stesso quieta (hjremaivan); questi due ritmi, ben mescolato l’uno all’altro (kalw'" ajllhvloi" sugkraqevnta), introducono l’autentica educazione (paideivan th;n wJ" ajlhqw'" ejntiqevnai)160. Il principio della bella mescolanza fa da criterio nella scelta dei ritmi, perché a prevalere non sia alcun eccesso, ma piuttosto una misurata combinazione. Anche nel Politico (309b) – ricorda Proclo – Platone afferma che non si deve preferire solo il carattere vivace, in quanto troppo eccitabile ed instabile, né quello quieto, in quanto troppo pigro ed inerte. Entrambi i ritmi, invece, combinati tra loro (ajllhvloi" sumplekovmenoi), assicurano il giusto equilibrio tra questi due temperamenti (th;n ajmfotevrwn metriovthta proxenou'sin). Quanto alle armonie, bandite quelle trenodiche e simposiache, le une troppo lamentevoli, le altre troppo festose, si accoglieranno invece la Frigia e la Dorica. Proclo, però, ritorna sulla questione dell’armonia frigia che, come abbiamo già ricordato sopra, aveva suscitato qualche polemica in ambito aristotelico. Sulla sua validità paideutica pesava, infatti, l’uso dell’aulos, fondamentale in una melodia di questo tipo. Il filosofo licio, allora, si serve di altri due luoghi platonici per 159 In Procl. In Remp. I, 195, 5-6 la mousikhv più semplice è detta essere propria delle Muse (th'" aJploustevra" mousikh'" tai'" Mouvsai"). 160 Procl. In Remp. I, 61, 11-14. 179 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA dirimere la questione, ovvero Lachete 188d e Minosse 318b161, in cui invece l’armonia dorica, in quanto unica armonia autenticamente greca, è riservata all’educazione, mentre la Frigia è riservata alle pratiche religiose essendo particolarmente adatta a indurre uno stato di esaltazione in quanti sono portati all’ispirazione divina162. Nella maniacale tensione a risolvere contraddizioni, forse anche banali sbavature del testo platonico, Proclo ripensa anche la posizione socratica rispetto ai ritmi per inserire il tutto in un ordine coerente e assolutamente armonico. Socrate sembra esporsi in maniera favorevole sia rispetto all’armonia frigia che a quella dorica, così come a proposito dei ritmi, sembra accogliere sia l’enoplio che il dattilo eroico. In realtà, a ben guardare, come delle armonie la sola vera armonia educativa è la dorica, così dei ritmi il solo verso veramente educativo è il dattilo. Dell’enoplio egli conferma la funzione parenetica, la sua utilità nell’incitare ad azioni belliche, proprio come dell’armonia frigia ammette la funzione religiosa, utile nel predisporre l’anima ad entrare in contatto con la divinità. La funzione paideutica è invece espletata più specificamente dall’armonia dorica e dal ritmo dattilico. Ed infatti fra il dattilo ed armonia dorica v’è uno stretto legame (koinwniva) in rapporto al discorso dell’uniformità (kata; to;n th'" ijsovthto" lovgon)163. In effetti il metro dattilico e l’armonia dorica rispettano il principio armonico dell’isocronia, dell’equivalenza metrica nella successione di tesi ed arsi e di toni e semitoni. Così, in conclusione alla sesta questione e alla lunga parentesi sulla musica, la riflessione estetica s’intreccia di nuovo con quella etica e non solo. L’uniformità, principio melodico, è criterio di giudizio critico sulla corretta musica. Come nell’imitazione dei caratteri degli uomini e degli eroi è richiesta una perfetta corrispondenza tra le parole, i fatti e i pensieri, e soprattutto il rispetto di una omogeneità a dispetto di una eccessiva varietà nelle abitudini e nei 161 Sull’autenticità del Minosse, mai messa in discussione dagli antichi a differenza che dai moderni, rinvio a Brisson 2011. 162 Nella sesta Dissertazione Proclo, sull’esempio di una possibile distinzione tra miti didattici e miti iniziatici, definisce infatti la dorica un’armonia mimetica e quella frigia un’armonia ispirata: In Remp. I, 84, 12-17. Cfr. infra § 4.1.3. p. 220, n. 42. 163 Procl. In Remp. I, 62, 19-20. 180 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA comportamenti, così nell’armonia e nei ritmi bisogna evitare qualsiasi forma di eterogeneità. Lo stesso disprezzo per l’aujlov" rientra in questo orientamento eticostilistico; per via della grande quantità di fori di cui esso, insieme ad altri strumenti panarmonici come trigoni e pettidi, è fornito, questro strumento a fiato riesce a produrre ogni specie di armonia e ciò lo rende pericoloso. Ma perché l’omogeneità, l’isocronia diventano così essenziali nell’esegesi procliana? Nella Teologia platonica (I, 24, p. 106, 12) Proclo, seguendo Plotino (I, 6 [1], 1, 37-40), individua nella summetriva, nella proporzione armonica, una forma particolare del bello, ma tale principio estetico viene superato da un ulteriore criterio che questa volta ha una natura teologica. Il fine ultimo della poesia, e della musica nel cui genere essa rientra, è quello dell’educazione dell’anima; educazione che è via al divino, strumento di assimilazione dell’anima a ciò che è ad essa superiore; e ciò che ad essa è superiore si muove dal determinato all’indeterminato, dalla molteplicità a ciò che è assolutamente semplice: Dunque, per dirla in breve, bisogna che il poeta (poihthvn), a suo giudizio, faccia attenzione (blevpein), in ogni ambito, sia in quello delle rappresentazioni (ejn tai'" mimhvsesin), che in quello delle armonie e dei ritmi (ejn tai'" aJrmonivai" kai; ejn toi'" rJuqmoi'"), a questi due aspetti (eij" duvo tau'ta), al bello e al semplice (to; kalo;n kai; to; aJplou'n), dei quali l’uno è intelligibile (to; me;n ejsti noero;n), l’altro divino (to; de; qei'on)164. Quest’ultima specificazione chiarisce il senso e l’orientamento procliano nella sua interpretazione della poesia, del suo posto all’interno della città dei filosofi. La poesia, quella che rispetta i dettami platonici, nel contenuto e nella forma, nel racconto e nella musica, trova una dimensione non solo estetica, ma addirittura teologica. Il bello appartiene alla sfera dell’intelligibile, ma il poeta si eleva oltre questa sfera per guardare al divino, a ciò che è semplice, e per sollevare l’anima del suo pubblico verso ciò che è ad essa superiore. Fine ultimo dell’anima umana, nella sua risalita verso ciò che è prima di lei, è rendersi simile al dio. Contemplare ciò che ha natura e carattere divino, ovvero ciò che è armonico, misurato e 164 Procl. ibi, I, 63, 9-13. 181 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA semplice, le permette di compiere tale assimilazione che la poesia non ostacola, ma anzi veicola. E Platone ha ragione – conclude Proclo. Infatti bisogna che l’anima divenga simile (oJmoiwqh'nai) a queste realtà che vengono prima di lei (tou'toi" pro; aujth'" ou\sin); ed infatti dopo essa vengono corpo e materia (met∆ aujth;n sw'ma kai; u{lh), quest’ultima in quanto è vizio (ai\sco"), il corpo, dal canto suo, in quanto è composto (suvnqeton)165. Il Bello appartiene dunque al livello intelligibile dell’essere, al quale l’anima risale proprio grazie al cammino anagogico ispirato dal bello sensibile in quanto oggetto d’amore; il musico, sia esso filosofo o poeta, nella sua tensione al bello non dovrà, però, mai perdere di vista ciò che è semplice e superare la varietà e molteplicità della materia, del corpo, dell’anima, dell’intelletto per arrivare a ciò che è massimamente divino166. Nel capitolo 20 del primo libro della Teologia Platonica il filosofo spiega qual è la semplicità degli dèi. Essa non deve essere intesa come la semplicità dell’uno numerico, né del genere e della specie, né come la forma propria della natura, e neppure come la realtà intellettiva. L’Intelletto, infatti, pur essendo indiviso e uniforme, possiede in sé la molteplicità e la processione, avendo chiaramente relazione con le realtà seconde che riconduce a sé, divenendo così uniforme e multiforme insieme, e cioè, come si sa, uno-molti (e}n pollav)167. Questi dèi, invece, si trovano in una realtà inaccessibile (ejn ajbavtoi"), in una semplicità sovrasemplificata rispetto a tutte quante le cose che sono nell’universo (tw'n o{lwn uJperhplwmevnoi) e nel loro eterno elevarsi al di 165 Procl. ibi, I, 63, 13-15. Il Bene è oltre il Bello come il Dio è oltre le Forme anche in In Crat. LX, 26, 16-18: «oJ mevga" Plavtwn ... oi\den kai; to; ajgato;n ejpeivkena tou' kalou' kai; to;n qeovn ejpeivkena th'" tw'n eijdw'n oujsiva"». Nel Commento all’Alcibiade primo Proclo scrive che la fonte delle cose buone, supera e trascende per semplicità la totalità del Bello: hJ de; phgh; tw'n o}lwn ajgaqw'n uJperhvplwtai panto;" tou' kalou', In Alc. 320, 5-6. Prima di Proclo già Plotino chiarisce in Enn. I, 6 [1], 9, 34-43 che l’Intelletto è il luogo del Bello e che invece il Bene è ciò che è al di là (to; ejpeivkena), il Principio e la fonte del bello (phgh; kai; ajrch; tou' kalou'). Abbate, in virtù di questa ulteriorità del principio del Bello e di ciò di cui il bello si dice, parla di metaestetica neoplatonica: cfr. Abbate 2012a. 167 Cfr. Procl. Theol. Plat. I, 20, p. 95, 17-22: «Dunque <la realtà intellettiva> ha ottenuto in sorte una essenza inferiore rispetto alla primissima forma di semplicità. Gli dèi invece per l’appunto hanno essi solamente la loro autentica esistenza ben determinata in una sola e medesima semplicità (ejn aJplovthti), da un lato trascendendo ogni forma in molteplicità, nella misura in cui sono dèi, dall’altro stando al di sopra di ogni distinzione, divisione, separazione o relazione e combinazione (kai; pavsh" sunqevsew") con le realtà seconde». 166 182 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA sopra di tutti gli enti (pa'sin ejpocouvmenoi toi'" ou\sin168). Eppure da essi promanano delle irradiazioni (ejllavmyei")169 che conservano un rapporto di somiglianza con le loro cause, perciò – scrive Proclo - «non ci si deve meravigliare se, benché l’essenza degli dèi si costituisca in modo superiore in un’unica e sola forma di semplicità, si sono prodotte delle immagini (fantavsmata) di varia natura della loro presenza». Ed è a queste immagini che l’anima deve guardare per risalire dal mondo di qui a quello divino, ed è su questa somiglianza della musica e della poesia alle irradiazioni del divino che si misura la correttezza e il valore etico dell’arte delle Muse. Il nome stesso delle figlie di Mnemosyne racconta di questa assimilazione dell’anima alle leggi uniformi e semplici dell’universo e degli enti ad essa superiore: to; mw'sqai, da cui deriva il nome delle Muse, è il verbo del ricercare, dell’investigare e le ricerche non sono che la materia (u{lh) rispetto al fine (to; tevlo") che viene dalla scoperta (ajpo; th'" euJrevsew"), - spiega Proclo nel Commento al Cratilo - così come la molteplicità (to; plh'qo") è materia rispetto all’unità (pro;" to; e{n), e la varietà (hJ poikiliva) lo è rispetto alla semplicità (pro;" th;n aJplovthta)170. Apollo Musegeta, causa di ogni armonia, è la realtà unitaria e separata a cui è ricondotta tale varietà della ricerca e nel suo essere principio unificatore, lui che è Poeta cosmico, esprime la sua somiglianza col Bene, ossia la sua semplicità, to; ga;r aJplou'n171. Da quanto osservato fin qui si possono dunque dedurre almeno tre ordini di osservazioni: principi estetici, quali la conformità, l’uniformità e il bello regolano qualsiasi espressione, ispirata o non ispirata, dell’arte delle Muse; quest’ultima, per la sua funzione intrinsecamente anagogica, è conoscenza, matematica e 168 Espressione ripresa da Plot. Enn. I, 1[53] 8, 9. Come vedremo Proclo utilizza il linguaggio mistico dell’illuminazione per parlare della produzione poetica ispirata nella sesta Dissertazione (I, 180, 18-30). Cfr. infra § 4.4.2. 170 Cfr. Procl. In Crat. CLXXVII, 103, 18-23. La derivazione del nome delle Muse dal verbo mosthai è ovviamente già platonica (Crat. 406a3). Cfr. il poeta Teognide (vv. 769-772) secondo cui al servo e messaggero delle Muse, che non deve affatto custodire gelosamente i doni della saggezza, spetta ricercare (mw'sqai), insegnare e comporre. Damascio nel Commento al Fedone (I, 282 e II, 28 ed. Westerink) nel riportare alcuni passi della teoria di Plutarco di Cheronea sulla reminiscenza ricorda che alle Muse viene confermato il ruolo di dispensatrici del dono della ricerca e a Menomosine quello della scoperta. 171 Cfr. Procl. ibi, CLXXVI, 101, 13-16. Proclo oppone alla monade intellettiva cui Apollo è riconducibile alla molteplicità delle Muse che secondo la tradizione erano nove. Anche in In Remp. II, 4, 1122 ritorna l’immagine delle Muse come una pluralità nata da un solo Musegeta. La stessa dottrina si trova in Herm. In Phaedr. 90, 22-27 in cui si ricorda Apollo a cui è consacrata la monade per la sua attività che contiene tutte le armonie e tutti i rapporti rappresentati dall’enneade delle Muse. Per il ruolo delle Muse nella produzione scientifica di Proclo cfr. Saffrey 1992b. 169 183 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA dialettica; la poesia, in quanto prodotto più immediato dell’ispirazione, oltrepassa per certi versi quella gradualità ontologica ed epistemologica che è invece necessaria al processo anagogico, ed è sintesi armonica del tutto perché oggetto del suo sguardo non è più solo il bello intelligibile ma anche la semplicità divina e trascendente alla quale quel bello va uniformato. Ecco così disegnato il cammino di risalita dell’anima verso il principio assolutamente trascendente che è massimamente semplice e divino, cammino nel quale il filosofo e solo il filosofo, sarà prima un innamorato, poi un matematico, poi un dialettico e infine un poeta, cantore dell’ordine divino. 3.6. Questioni VII-VIII: Platone critico letterario Dopo le due digressioni sulla poesia drammatica e sulla musica, il discorso sulla poesia ritorna su questioni generali e Platone viene presentato da Proclo come l’ottimo giudice dell’arte poetica (a[risto" krith;" poihtikh'", I, 43, 11). Restando ancora sul piano storico, prima di passare a quello eidetico, paradigmatico, l’esegeta, nel seguire la traccia del dialogo platonico, appronta un vero e proprio saggio di critica letteraria costituito da una pars destruens e una pars construens. Nella prima – la questione VII – vengono presentati gli aJmarthvmata, gli errori compiuti dal poeta, che invece lasciano spazio, nella seconda parte – la questione VIII – alla delineazione del poihth;" a[risto", l’ottimo poeta qualificato da doti superiori sia dal punto di vista del contenuto che della forma espressiva. Vediamo nel dettaglio a quali sviluppi della questione sulla poesia tale argomentazione conduce l’allievo neoplatonico. 3.6.1. Questione VII. Pars destruens: gli aJmarthvmata del poeta Nelle questioni precedenti si è appena dimostrata l’appartenenza della poesia alla somma categoria della mousikh; tevcnh, in quanto arte divinamente ispirata. Tale appartenenza dovrebbe conferire garanzia di verità a ogni forma poetica, dal momento che le Muse ispiratrici, in quanto entità divine, non potrebbero mai errare e generare errori. Se però Platone addita colpe ai poeti, è perché questi 184 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA violano le leggi dell’autentica musica e orientano il loro sguardo non alla musica in sé, ma al piacere che essa procura alla maggioranza della folla (eij" th;n to;n polu;n o[clon). Nel tentativo di spiegare quella che potrebbe sembrare una contraddizione platonica, Proclo si allontana solo per poco dalla Repubblica per riprendere alcune pagine del II libro delle Leggi dedicate all’educazione dei giovani attraverso la poesia e la musica172. Dopo aver stabilito che il piacere non è un criterio valido per giudicare la correttezza di un’opera d’arte, sia essa arte figurativa o poetica, o almeno non l’unico criterio valido, Platone, tra le qualità richieste al giudice corretto predisposto alla valutazione, annovera la sua capacità di riconoscere «quanto felicemente una certa rappresentazione sia stata eseguita tramite le parole, le melodie e i ritmi»173. Può esserci utile leggere, prima di seguire l’esegesi procliana, quanto l’Ateniese spiega a Clinia riguardo a questa capacità rappresentativa che il giudice deve pretendere dal poeta: Le Muse … non commetterebbero mai lo sbaglio di assegnare un colore e una melodia femminei a parole composte per uomini o di combinare melodie e movenze elaborate per individui liberi ritmi adatti a schiavi e a persone senza libertà o, all’inverso, di abbinare a movenze e ritmi dignitosi una melodia o un testo dissonanti, né mai esse mescolerebbero insieme, all’interno della stessa opera, voci di animali e di uomini e di strumenti e ogni sorta di suoni, come se intendessero imitare un unico referente; invece i poeti umani, intrecciando a piene mani questi elementi e confondendoli senza criterio, susciterebbero il riso degli uomini a cui – dice Orfeo - toccò la stagione del diletto174. Sono proprio la non corrispondenza tra parole e ritmi da una parte e parole e caratteri dall’altra, insieme con la mescolanza impropria delle armonie utilizzate, 172 In Leg. II, 659a-c, l’Ateniese critica l’abitudine dei giudici delle gare poetiche di giudicare in base al piacere procurato dalle singole opere sugli spettatori, e soprattutto in base al piacere ‘del primo venuto’. Bisogna infatti giudicare in base alla Musa più bella «quella che diletta coloro che sono moralmente migliori e posseggono un’adeguata formazione e, soprattutto, chi si distingua per virtù e cultura»: II, 658e8-659a1. La traduzione è di Ferrari – Poli 2005. 173 Plat. ibi, II, 669b2-3. 174 Plat. ibi, II, 669c3-d5. 185 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA il bersaglio dell’accusa platonica di queste pagine delle Leggi, di Repubblica III, 398d-403c e quindi del commento procliano175. Nel testo del nostro esegeta sono riprese quelle stesse categorie retoriche esposte fin dall’inizio della quinta Dissertazione, che sembrano essere realmente criteri tecnici fondamentali per un poeta perché di quella rivelazione che egli riceve per ispirazione divina possa offrire al suo pubblico l’autentica immagine. Nella prima questione Proclo ha parlato, come abbiamo visto, di ajnomoivwsi" e di poikiliva, ossia di quella mancata corrispondenza mimetica tra fatti e pensieri e della varietà di caratteri portati sulla scena. È quanto ci ritroviamo esposto anche in queste pagine. Perché un poeta componga autentica musica, è necessario che faccia seguire (e{pesqai) i pensieri ai fatti, le e[nnoiai ai pravgmata, così come ai pensieri seguono i discorsi (lovgoi), ai discorsi le armonie (aJrmonivai), alle armonie i ritmi (rJuqmoiv). È questo un principio principe della retorica e la sua centralità nel testo procliano ci obbliga, a mio avviso, a soffermarci su quanto questa disciplina fosse diventata nella tarda antichità un sapere diffuso. Gli studi di George Kustas176 hanno dimostrato come l’arte retorica in epoca tardo-antica e bizantina non solo abbia assunto un aspetto nuovo, accentuando influenze mistico-religiose177, ma abbia anche intessuto relazioni ancora più 175 Quando invece c’è corrispondenza tra carattere, azione e parola, tra discorso, armonia e ritmo si realizza una corretta produzione mimetica, quindi una corretta poesia. Questo è il senso del testo platonico nell’ottica di Proclo e ciò sarà ancor più evidente quando il filosofo licio parlerà di poesia mimetica eicastica e fantastica, trovando proprio in queste pagine delle Leggi la descrizione della forma virtuosa di poesia mimetica che non mira al piacere ma alla corretta somiglianza tra il paradigma e la copia. Cfr. infra § 4.4.4. 176 Cfr. Kustas 1973 e Kustas 2001. 177 A Jacqueline de Romilly si devono gli studi pionieristici sull’elemento magico-religioso presente già nella retorica antica: cfr. de Romilly 1975. A tal proposito vorrei solo accennare, per suggestivi punti di contatto con il nostro discorso sul sapere ispirato, ad un momento interessante della storia della retorica di età imperiale e della prima età tardo-antica (da Dione a Menandro retore e oltre), quando il modo di vedere la retorica s’intreccia con i temi dell’ispirazione poetica, quando le regole dell’arte oratoria vengono fatte risalire ad un sapere sacro, quando il loro apprendimento diventa una sorta di iniziazione, la declamazione e l’ascolto del discorso una sorta di rito iniziatico. Sull’argomento cfr. Pernot 1993, pp. 625-635. Elio Aristide (II sec. d.C.) ci offre l’immagine più viva di questi aspetti mistici della retorica del suo tempo. Nell’orazione 28 Keil, egli deve difendersi dall’accusa di autoelogio e tra gli argomenti addotti a sua discolpa annovera proprio l’ispirazione divina. Nell’enunciare le sue qualità, il retore non sarebbe stato colpevole perché completamente preso da invasamento divino: «questa è l’unica fonte dell’eloquenza, questo fuoco davvero sacro e divino, proveniente dal focolare di Zeus, a causa del quale l’iniziato, condotto nel mezzo dell’agone, non può trattenersi»: § 110; «Dico infatti che quando arriva la luce del dio […] e la luce si riversa nell’anima dell’oratore, come se arrivasse acqua da bere dalle fonti di Apollo, subito si riempie felicemente di vigore e di calore, alza gli occhi al cielo e i capelli gli si drizzano»: § 114. L’arte retorica stessa è spiegata in termini mistici, frequentata da iniziati e profani; così il retore si rivolge al suo accusatore: «Ma temo di parlare ad un sordo, e di stare in qualche modo profanando i misteri mostrandoli a un non iniziato. Tuttavia, come in un mito, un discorso segreto sarà pronunciato per i soli che possono ascoltarlo, per te invece basti così»: § 113. 186 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA stringenti con la filosofia. La popolarità di Ermogene, retore vissuto a cavallo tra il II e il III secolo d.C., sulle cui opere si soffermeranno molti retori e filosofi, dal III secolo fino al Rinascimento178, ne è una palese dimostrazione. Filosofia e retorica non sono più in contrasto e gli oggetti d’indagine dell’una vengono interpretati con gli strumenti ermeneutici dell’altra. Il fascino del misticismo, la relazione sotterranea tra universale e particolare, la percezione di una totalità costituita da più parti, il traguardo del sublime sono elementi che permeano le speculazioni metafisiche dei filosofi quanto le teorie dell’arte e del linguaggio. Non è certo un caso che uno dei principi chiave dell’arte retorica che s’impone in epoca tardo-antica proprio in ambito esegetico è l’oscurità179, contro le regole tradizionali del dire in maniera corretta180, quell’ajsavfeia che i commentatori neoplatonici riconoscevano come qualità intrinseca agli scritti di Platone perché si distinguesse l’allievo dotto da quello impreparato181, quella obscuritas da cui prende avvio tutta l’esegesi neoplatonica come riscoperta della verità contenuta nei dialoghi del divino maestro182. Secondo Kustas, che dedica la prima parte della sua monografia proprio al ruolo centrale svolto dai neoplatonici nella diffusione della retorica nella tarda età imperiale e in epoca bizantina, il loro interesse per gli scritti di retorica deve essere ricondotto, da una parte, alla generale tendenza del Neoplatonismo ad Addirittura il retore, noto per essere in contatto diretto con Asclepio, arriva a spiegare cos’è la follia divina: «Posso riferirti anche un discorso sacro, che ascoltai di notte da un dio […] su quale sia l’essenza della follia divina: […] l’intelletto sulle prime è necessariamente mosso, disse, da ciò che è consueto e comune, ma una volta messo in movimento e raggiunta la consapevolezza della propria superiorità, esso è in unione col dio ed è in condizione di eccellenza. Ma ciò, disse il mio Maestro, non fa meraviglia, poiché eccelle chi è al di sopra della gente comune ed è in rapporto stretto con la divinità»: § 116. Il discorso rivelato da Asclepio in sogno si ritrova anche nel quarto discorso sacro (50, 52) e la mania è discussa anche nella prima delle orazioni platoniche (2, 50-57). La traduzione dei passi qui riportata è di Miletti 2011 a cui si rimanda anche per il commento e una dettagliata ricostruzione dei riferimenti impliciti ed espliciti al Fedro platonico: pp. 48-50 e 190-197. 178 Non è superfluo notare la non casualità del fatto che l’interesse per Ermogene cresce proprio in seno alle scuole platoniche, prima in epoca tardo-antica e poi in età rinascimentale: Kustas 1973, p. 6, n. 1. Su Siriano commentatore di Ermogene cfr. Manolea 2004, pp. 67-122. 179 Dox. In Aphth. 2, 226, 8 ed. Walz 1835: «ouj pa'sa de; ajsavfeia h]dh kai; kakiva lovgou: toujnantivon me;n ou\n pollavki" kai; ajrethv»; Cfr. anche An., In de ideis, 7, 487, 7; 951, 28 ed. Walz 1833. Kustas dedica a questo argomento il terzo capitolo del suo volume: Kustas 1973, pp. 63-100. 180 Arist. Rhet. III, 2, 1, 1404b2 e Poet. 22, 1458a18. 181 Così scrive David, commentatore tardo neoplatonico di VI-VII sec. di ambiente alessandrino, nel suo commento all’Isagoge di Porfirio: «tou;" gnhsivou" ejk tw'n novqwn diakrivnein», In Porph. Isag., 106, 25. Su questo filosofo dall’identità ancora molto dibattuta e sulla difficile attribuzione delle sue opere cfr. Westerink 1962, pp. XX-XXV. 182 Cfr. Ferrari 2010, pp. 62-64. 187 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA occuparsi dei diversi aspetti della cultura tradizionale (religione, scienze, letteratura), dall’altra, alle maggiori possibilità di occupazione per i filosofi proprio in ambito retorico, basti ricordare che Damascio insegnò per ben nove anni retorica prima di diventare Scolarca di Atene183. Il primo neoplatonico ad interessarsi ad Ermogene che si distinse non solo per aver trattato l’arte retorica nella sua interezza inserendola in un contesto assolutamente originale, ma anche per averlo fatto in un linguaggio semplice ed ordinato184, fu Giamblico185. Di Siriano è l’opera di commento agli scritti di Ermogene più vasta: di questa conserviamo il commento al De statibus e al De ideis, editi dalla Teubner nel 1892-1893 nell’opera Syriani in Hermogenem commentaria. Proprio in un passo del suo commento (In. Herm. I, 9, 10-18) il filosofo neoplatonico cita un’opera perduta di Giamblico dal titolo «Peri; krivsew" ajrivstou lovgou» che testimonia l’interesse dello Scolarca di Apamea per l’arte del discorso. Il commento di Siriano ad Ermogene è il più antico e completo. Secondo Kustas186, esso costituisce un documento importante nella storia della retorica per tre motivi: in primo luogo, perché, come abbiamo visto, fa cenno ad altri neoplatonici che s’interessarono alla retorica, ad esempio a Porfirio e a Giamblico; in secondo luogo, perché spesso si rivolge ad altri retori contemporanei di Ermogene, testimoniandone dunque la conoscenza in ambito neoplatonico; infine, perché gli scoli di epoca bizantina sono fortemente influenzati da questo testo tanto da inserire spesso nelle loro opere intere sue parti. Se le opere di Ermogene mostravano una maggiore sintonia con gli interessi retorici di epoca tardo-antica, 183 Lo attesta Phot. Bibl. Cod. 181, 126b41. Cfr. Kustas 1973, pp. 8-12. «Hermogenes bacame popular at a time when the Neoplatonists sought not to continue the old conflict but to find an accommodation between philosophy and rhetoric. […] Philosophical analysis was applied to rhetorical questions and philosophical terminology used to define rhetorical issues. […] The philosophical commentaries of the Neoplatonists invariably include as part of their assessment of Plato and Aristotle an analysis of the style of the two authors, and naturally use the yardsticks of contemporary rhetoric»: Kustas 1973, p. 11. 184 Giovanni Siceliota (XI sec. d.C.) considerava Ermogene un filosofo oltre che un retore proprio per il suo stile metodico: «mhde; rJhvtwr aJplw'" oJsafh;" ÔErmogevnh", ajlla; meqodiko;" rJhvtwr, tou;" de; toiouvtou" pavntw" filosovfou" ejgkritevon ajlhqei' krivsei», Prol. Syll., 402, 2-4. Può essere curioso sapere che lo stesso faceva J. Sturm, professore di retorica al Collegium predicatorum di Strasburgo nel 1571, che addirittura lo diceva un filosofo platonico: «Hermogenem fuisse non solum rhetorem sed etiam philosophum et Platonicum philosophum», Sturm 1571, p. 12. 185 Di Porfirio sappiamo che fu, invece, autore di un commento a Minuciano «Eij" th;n Minoukianou' tevcnhn» (Suidae lexicon, s.v. Porfuvrio", vol. IV, p. 178, 29), rivale di Ermogene, che si distingueva per avere una formazione di stampo aristotelico. 186 Kustas 1973, p. 20. Sugli influssi della retorica neoplatonica di matrice sirianea su Sopatro, retore di IV sec. d.C. cfr. lo studio di Maggiorini 2008. 188 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA la Retorica di Aristotele non godette di grande successo. Tuttavia Olimpiodoro, neoplatonico attivo in ambiente alessandrino connotato da una maggiore predilezione per gli studi aristotelici, la cita non così raramente nel suo commento al Gorgia e ne fa menzione nel commento all’Alcibiade primo187. Dei contatti, invece, che Proclo può aver avuto con la retorica, sappiamo che seguì gli insegnamenti del retore Leonade ad Alessandria e che giunto ad Atene frequentò il retore Nicola188. Ebbene, il principio di corrispondenza, di stretta correlazione tra i generi di vita rappresentati (ta; ei[dh th'" zwh'") e i pensieri dei personaggi ad essi attribuiti sembra riprendere proprio un passo del commento sirianeo al De ideis di Ermogene. Siriano così definisce l’idea di un discorso: «la qualità di un discorso in cui ci sia coerenza tra i personaggi e i fatti rappresentati (toi'"...proswvpoi" te kai; pravgmasi) secondo il pensiero, la forma espressiva e l’intero intreccio delle armonie (katav te e[nnoian kai; levxin kai; th;n o{lhn th'" aJrmoniva" diaplokhvn)»189. Per cercare di intuire il motivo per cui tale categoria retorica diventa centrale nell’esegesi procliana del testo omerico, superando senza dubbio la riflessione platonica o almeno dando un altro linguaggio alle parole di Platone, può essere interessante presentare brevemente la teoria delle forme del discorso approntata da Ermogene che così tanto fascino esercitò sui commentatori neoplatonici190. Per ‘forma’ Ermogene intende una categoria stilistica che definisce la tonalità di un discorso; sette sono le principali forme del discorso (chiarezza, grandiosità, 187 Kustas 1973, p. 7, n. 3 accenna, su suggerimento di Westerink, alla possibilità che il modo in cui la Retorica di Aristotele viene citata da Olimpiodoro dimostri che l’opera fosse un testo curriculare nella formazione all’interno della scuola. L’assenza di veri e propri commentari sarebbe da ascrivere ad una perdita accidentale o ad una selezione nella tradizione successiva. 188 Marin. Vit. Procl., 8; 10. Dal racconto di Marino risulta che fu proprio Nicola, retore autore di Progymnasmata, ad accogliere Proclo al Pireo e che all’arrivo del filosofo licio ad Atene, i retori se lo contendevano come se fosse giunto proprio per loro. 189 Syr. In Herm. Comm. I, 2, 16-19 (ed. Rabe): «ijdeva de; ejsti poiovth" lovgou toi'" uJpokeimevnoi" aJrmovdio" proswvpoi" te kai; pravgmasi kata; te e[nnoian kai; levxin kai; th;n o{lhn th'" aJrmoniva" diaplokhvn». Sheppard fa notare che la stessa relazione tra e[nnoia, levxi", aJrmoniva e rJuqmov" è anche in Aristide Quintiliano (II, 7), autore di un trattato De musica nel III sec. d.C. e, a suo avviso, ciò sarebbe una dimostrazione che la retorica era già penetrata in ambiente platonico. «This suggests not only that the rhetorical doctrine was widespread but that it had already been conflated with Plato before Proclus, for Aristides Quintilian is also something of a Platonist»: Sheppard 1980, p. 118. 190 Per un profilo storico di questo personaggio e per una più ampia presentazione delle sue opere cfr. Pernot 2006, pp. 160-165. 189 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA bellezza, vivacità, carattere, sincerità, abilità), a loro volta distinte in diverse sottospecie. Ciascuna di esse è ottenuta attraverso dei mezzi ripartiti su otto livelli. Il sistema ermogeniano, che deve permettere di saper giudicare le opere altrui e al contempo di diventare un artefice di discorsi belli ed eccellenti, si presenta come una sorta di griglia nella quale intervengono da un lato le qualità stilistiche da ottenere, le forme appunto, dall’altro gli elementi costitutivi di queste qualità. Tra questi elementi costituitivi troviamo proprio l’e[nnoia, la mevqodo" concernente il pensiero, ovvero il modo di presentazione del pensiero, che può essere inteso come l’insieme delle figure di pensiero, la levxi", ovvero la forma espressiva, le nostre figure di parola, e il rJuqmov". Ad esempio la mevqodo" che organizza il pensiero degli dèi in un discorso la cui forma è la grandiosità è l’allegoria191. L’analisi stilistica, compresa in questa tavola di principi, diventa qualcosa di quasi scientifico, a disegnare un vero e proprio sistema delle forme. Eppure essa, come sottolinea Pernot192, ha potuto esercitare per lunghi secoli tutto il suo potere didattico proprio perché, nonostante la sua natura capillarmente tassonomica che aveva condotto ad una moltiplicazione della categorie stilistiche, non risulta mai astratta. Pensiero e parola, forma e contenuto sono sempre strettamente irrelati e, inseriti in una griglia stilistica, configurano ancor più concretamente il potere espressivo del loro intrecciarsi. Inoltre, Ermogene fa continuamente riferimento a esempi pratici, guardando ai retori del passato, a Demostene soprattutto, ma anche a storici, filosofi, poeti a cui si rivolge direttamente alla fine del trattato, a dimostrazione di come il sistema da lui sviluppato possa servire da arte produttiva e teoria critica in ogni ambito della comunicazione parlata e scritta. Credo, inoltre, che non saremmo troppo ingenui se riflettessimo, proprio in risposta a quella condivisione di orizzonti di cui si parlava sopra, su quegli elementi propri dell’approccio tassonomico di Ermogene che richiamano da molto vicino alcune peculiarità del sistema filosofico neoplatonico, e soprattutto procliano: pensiamo alla moltiplicazione delle specie e sottospecie stilistiche come a quelle dei piani ontologici, quasi a voler ordinare un’eccessiva pluralità; o anche all’attenzione di 191 Cfr. Herm. De id. 242, 22 – 246, 23. Pernot 2006, pp. 164-165. Si può trovare anche un’utile rappresentazione grafica della griglia stilistica a p. 162. Una descrizione puntuale della teoria delle idee in Ermogene si trova anche in Kustas 1973, pp. 1319. 192 190 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA Ermogene di considerare il discorso nella sua interezza così come nelle sue parti, presentandolo come un organismo costituito da membra che sono in rapporto armonico e naturale tra di loro, attenzione che fa da controparte a quella maglia di relazioni tra universale e particolare che caratterizza le analogie neoplatoniche193. In generale, al di là di suggestioni più o meno verificabili, Proclo dimostra di saper usare molto bene gli strumenti retorici che gli forniva il suo tempo, e soprattutto giudica Platone e il suo saper fare critica letteraria proprio in base a quegli strumenti: Il primo rimprovero – cioè il fatto che i discorsi, le armonie ed i ritmi non risultano in accordo con i caratteri e le forme di vita corrispondenti […] – è di chi ci insegna (didavskonto" hJma'" ejstin) che bisogna ricondurre ai fatti l’uso di questi elementi e la loro disposizione. […] Se d’altra parte abbiamo constatato che queste cose sono veramente affermate nelle Leggi, è evidente, a mio avviso, che chi si serve di queste definizioni per la poesia e stabilisce i giusti rapporti per tutti questi elementi, discorsi, armonie e ritmi, sì, certamente, potremmo stabilire che sia eccellente giudice dei poeti194. A mio avviso è evidente che il filosofo licio abbia fatto dunque ricorso agli scritti di retorica e che lo stia dichiarando esplicitamente con l’espressione «didavskonto" hJma'" ejstin»195; le leggi retoriche, che Platone, secondo Proclo, dimostra di conoscere molto bene dal momento che ne parla lui stesso nel suo dialogo, sono dunque la prova palese delle competenze letterarie del filosofo ateniese che può dirsi, a buon diritto, il migliore giudice dell’arte poetica (krith;" poihtw'n a[risto")196. 193 Kustas fa notare come corra lungo tutto il De ideis l’immagine di una naturale armonia tra gli elementi del discorso, sottolineata anche dall’uso molto frequente del termine pevfuke: cfr. Kustas ibi, p. 16, n. 3. Ancora, a p. 19, lo studioso così scrive: «Hermogenes … is developing for the world of the literary logos a scheme of interplay between universals and particulars which will have its counterpart in Neoplatonic and Christian speculations about the divine logos». 194 Procl. In Remp. I, 64, 19 – 65, 2. 195 Un’espressione molto simile a quella già utilizzata da Proclo nella quarta questione quando aveva scritto «oiJ peri; aujtw'n gravfonte"» (I, 53, 13) per riferirsi agli scrittori di retorica e di poesia. 196 Alla fine della questione Proclo fa riferimento ad una polemica sorta intorno al giudizio inaspettatamente positivo che Platone avrebbe dato di Solone in Tim. 21c3 da cui gli sarebbe venuta l’accusa di essere kivbdhlo" da alcuni suoi oppositori. La questione viene trattata in maniera più esaustiva in In Tim. I, 89, 27 ss. Cfr. Gallavotti 1933, pp. 31-34. 191 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA 3.6.2. Questione VIII. Pars construens: l’ a[risto" poihthv" secondo Platone L’ottava questione presenta una struttura molto rigorosa e ordinata e sembra davvero la parte conclusiva e riassuntiva della trattazione dedicata al poeta storico, prima di passare alla poesia eidetica e al poeta che è nel Tutto. Proclo deve definire qual è il poihthv" davvero degno di lode secondo Platone. È chiaro che la possibilità stessa di definire l’ottimo poeta significa già smentire quella lettura della critica platonica ad Omero che prevedeva l’esclusione assoluta della poesia dalla città giusta. Ebbene, il poeta migliore lo sarà sia rispetto a ta; pragmatikav, sia rispetto a ta; lektikav, e cioè sia nei contenuti che nelle forme espressive. Si tratta di una distinzione che, come abbiamo visto, corre lungo tutta la Dissertazione e che è senz’altro platonica, ma anche e soprattutto di natura retorica197. È Dionigi di Alicarnasso a definire in maniera scientifica i due ambiti di esercitazione richiesti nella composizione di discorsi: Infatti è duplice la pratica di tutti, per dir così, i discorsi (ditth'" ou[sh" ajskhvsew"): quella che riguarda i concetti (peri; ta; nohvmata), e quella che riguarda i nomi (peri; ta; ojnovmata), di cui l’una si può dire che tratti più dell’ambito contenutistico (hJ me;n tou' pragmatikou' tovpou ma'llon ejfavptesqai), l’altra di quello stilistico (hJ de; tou' lektikou')198. A questa prima distinzione segue quella tra una poesia che parla di dèi e una poesia che parla di eroi e di uomini. Proclo comincia col parlare di ta; pragmatikav in riferimento alla divinità. Cosa dirà degli dèi l’ottimo poeta? Questi dovrà rispettare quei tuvpoi che Platone stesso ha illustrato, gli schemi teologici, le tracce che i poeti devono seguire per comporre i loro miti. I tuvpoi, così come sono presentati da Socrate ad Adimanto, sono due: il dio è autore solo dei beni e di nessun male (I) ed egli non 197 198 Cfr. LSJ sub voces pragmatikov" III e levktikov" II.2. Dion. Hal. De Comp. verb. I, 4, 6-9 ed. Usener – Radermacher. 192 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA muta e non inganna, in quanto è semplice e veridico (II)199. Proclo sdoppia il secondo schema, facendo così diventare tre le tracce platoniche: la forma di poesia veramente degna di lode (ejpaineth;n poihtikhvn) deve celebrare gli dèi come autori solamente di bene (wJ" ajgaqopoiw'n movnw") (I), come immutabili (wJ" ajmetablhvtwn) nelle essenze, nelle potenze e negli atti (II), come dotati di quella verità (wj" ajlhvqeian ejcovntwn) sempre identica (ajei; th;n aujthvn) che ha la stessa natura unitaria degli dèi (sumfua' tai'" eJnwvsesin) (III)200. È come se questi tupoi fossero però delle leggi ideali della vera poesia e che invece intorno agli dèi si fosse costretti, in alcuni casi, a comporre solo e semplicemente dei muvqoi: Anche qualora si costruiscano dei miti (muvqou") intorno ad essi, come, appunto, bisogna costruire (anche l’elaborazione di miti Platone affida ai poeti: infatti afferma che «il poeta, se davvero vorrà essere poeta, deve costruire miti ma non ragionamenti»201), bisogna costruirli (plavttein) in modo che siano simili (oJmoivou") in rapporto ai soggetti trattati, ma non bisogna essere disposti ad occultare (kruvptein) questi soggetti con l’inserimento di elementi dissimili (dia; ajnomoivwn)202. Sembra quasi, a mio avviso, che gli schemi teologici facciano da linea guida, sì alla poesia degna di lode, ma che siano comunque superati, almeno in parte, da altre ragioni quando si è costretti ad allontanarsi dalla verità scrivendo racconti mitici che per se stessi sono frutto di invenzione. L’espressione procliana potrebbe, forse, essere accostata a quel «veramente falso» di cui parla Platone nella Repubblica. Una vera menzogna, quella espressa in parole (ejn toi'" lovgoi" yeu'do"), quella che può essere anche utile, è per esempio la menzogna dei racconti (ejn tai'" muqologivai") che i poeti costruiscono su eventi lontani e per questo non verificabili; in questo caso essi cercano di approssimare il più possibile 199 Plat. Resp. II, 379a-381b. Per un commento a queste pagine platoniche cfr. Ferrari 1998, Ferrari 2006, pp. 38-41 e la bibliografia ivi citata. 200 Procl. In Remp. I, 65, 19-25. Come ho già scritto sopra (cfr. n. 24, p. 134) Proclo tratta più estesamente dei tuvpoi peri; qeologiva" nella quarta Dissertazione del Commento alla Repubblica e nei capitoli IV e XVII del primo libro della Teologia Platonica. 201 La citazione platonica è di Phaed. 61b3-4. Sulla dialettica mito/logo nell’intreccio di questo dialogo cfr. Casertano 2000b. 202 Procl. In Remp. I, 65, 25-29. La traduzione di Abbate è lievemente modificata. 193 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA la menzogna alla verità, di renderla il più possibile simile al vero (ajfomoiou'nte" tw' ajlhqei' to; yeu'do" o{ti mavlista) 203. Come fare, allora, a scrivere racconti simili agli dèi? Proclo distingue tra i termini che si riferiscono alla natura, e quelli che rientrano nell’ambito etico. In tutti e due i casi il poeta dovrà necessariamente trarre questi nomi dalle realtà che vengono dopo gli enti divini per attribuirli ad essi, nomi quindi già di per se stessi inappropriati, ma dei primi – cioè di quelli ajpo; tw'n fusikw'n - sceglierà sempre e solo quanti sono kata; fuvsin, secondo natura, e non hanno nulla a che vedere con tutto ciò che è mostruoso (to; teratwvde"), per esempio parlerà di nozze, parti, nutrimento dei neonati e unioni avvenute secondo natura; dei secondi – cioè dei termini ajpo; tw'n hjqikw'n – sceglierà solo quelli legittimi e degni di ciò che è sempre ornato del buono e del bello, come per esempio legge, giustizia, onori resi dai figli ai padri e trasmissioni del potere dai padri ai figli. Solo così si sarà fatto ricorso ai velamenti convenienti (parapetavsmata prevponta) del modo di intendere il divino. Si tratta ancora una volta di quella necessaria copertura di cui hanno bisogno le realtà superiori per essere raccontate senza errore, quella copertura di cui abbiamo già parlato proprio nella prima questione di questa Dissertazione e di cui parleremo più a lungo nel prossimo capitolo. Cosa, invece, l’ottimo poeta deve dire degli eroi e degli uomini? Dovrà attribuire agli eroi l’impassibilità che è propria dei semidei, mentre degli uomini dovrà lodare sempre le azioni nobili e biasimare sempre quelle malvagie, così che siano di utilità ai giovani; dovrà sempre insistere sui discorsi che concernono i migliori (peri; tw'n ajmeinovnown) e rappresentare il carattere semplice (to; aplou'n h\qo") invece di quello eterogeneo (ajnti; tou' poikivlou). Questo deve essere secondo Platone il tipo di soggetto (to; me;n pragmatiko;n th'" poihtikh;") che la poesia deve trattare204. Quanto allo stile, fedelmente agli errori additati al poeta nella questione precedente, Proclo stabilisce due regole fondamentali: la coerenza interna tra la forma espressiva e i pensieri, soprattutto nella parte diegetica e, in quella 203 204 Plat. Resp. II, 382c7-d4; su questo argomento cfr. Casertano 2000c e Ferrari 2006, pp. 32-38. Procl. In Remp. I, 66, 18-19. 194 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA drammatica, l’esclusione della poikiliva, l’eterogeneità linguistica e musicale, coerentemente con la scelta di caratteri eticamente omogenei. Così come l’ h\qo" da preferire ad ogni altro personaggio è quello dell’uomo valente, nobile e buono, così il linguaggio e la musica, quindi l’armonia e il ritmo si adegueranno oijkeivw", in modo appropriato, a tale modello virtuoso. Se poi il poeta sarà costretto a rappresentare un uomo travolto dalle passioni, dovrà biasimarlo e disprezzare l’armonia che pure dovrà necessariamente usare affinché l’intera composizione non manchi di coerenza stilistica. Insomma, dal racconto mitico dovrà apparire sempre chiaro il valore supremo della virtù e il biasimo di ciò che è turpe e riprovevole. Proclo ha così regolamentato il potere pericoloso della mivmhsi" su cui si fonda qualsiasi produzione poetica. Il poeta, in quanto costruttore di miti, è necessariamente mimetico, ma dovrà guardare ad un orizzonte sempre visibile, che è quello etico. Alla fine della ottava questione l’esegeta neoplatonico può allora fornire ai suoi allievi la sua definizione di poesia. Sicché, secondo Platone, l’arte poetica sarebbe un abito mimetico (e{xi" mimhtikhv) che si serve di miti e discorsi, in combinazione con armonie e ritmi, capaci di disporre in modo conforme a virtù (kat∆ ajreth;n diatiqevnai dunamevnwn) le anime degli ascoltatori (ta;" tw'n ajkouovntwn yucav")205. 3.7. Questioni IX e X: L’argumentum neoplatonico. L’ultima parola La definizione di poesia appena riportata ci conduce direttamente verso la parte finale della Dissertazione, che si apre ad una dimensione nuova, di ascendenza neoplatonica, nella quale anche il linguaggio utilizzato da Proclo va 205 Procl. In Remp. I, 67, 6-9. La traduzione di Abbate è lievemente modificata. Secondo Kuisma 1996, p. 72 tale definizione della poesia è una prova del fatto che si può attribuire a Proclo una vera e propria teoria estetica. Di questa definizione Platone in Leg. II, 672e-673a aveva già messo in evidenza la componente musicale della poesia, mentre Plotino in Enn. IV, 4 [28], 31, 20-22 aveva sottolineato l’impatto dell’arte sull’anima. 195 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA allontanandosi dal testo di Platone, da categorie ermeneutiche letterarie e retoriche, per assumere una connotazione sicuramente più speculativa. È rispetto a questa figura di poeta perfetto e completo appena delineato che si deve giudicare l’arte poetica. In queste pagine il poeta di Proclo, che fino a questo momento restava, seppure con inevitabili forzature ermeneutiche, anche il poeta di Platone, comincia ad acquisire un’identità assolutamente nuova. L’esegeta ha risolto, con palese abilità argomentativa, contraddizioni interne alla posizione platonica intorno alla poesia, ha affrontato polemiche tradizionali sorte in seno al problematico rapporto del divino maestro con la produzione poetica tentando di vanificarle, ha sviluppato e difeso l’idea di una poesia mimetica e perciò costituzionalmente pericolosa dimostrando invece la possibilità di una sua regolamentazione. L’esito di tale ermeneusi si trova, allora, in queste due questioni conclusive nelle quali la poesia scopre, inaspettatamente, il suo fine ultimo nel bene e il poeta approda ad una dimensione addirittura teologica. È quello che ho chiamato l’argomento neoplatonico, perché se fino a questo momento Proclo ha spiegato Platone, ora la sua spiegazione diventa una produzione propria andando ad esprimere a pieno la natura della speculazione tardoantica che trovava nell’esegesi il principio stesso del fare filosofia206. 3.7.1. Il tevlo" della poesia I detrattori della produzione poetica e in generale dell’arte, sono soliti accusare il poeta di avere come mira il piacere. Tuttavia, già Platone ha dimostrato che il fine del poesia non è procurare diletto al pubblico. Lo ha fatto in un passo del secondo libro delle Leggi (667b5-c7) che qui Proclo parafrasa dandogli una forma sillogistica (sullogizovmeno"). 206 «I platonici (ma analoga considerazione si dovrebbe fare a proposito degli interpreti di Aristotele) svilupparono attraverso l’esegesi una filosofia teoreticamente impegnativa, escogitando soluzioni spesso brillanti e stimolanti. Se è vero che la filosofia rischiò di trasformarsi in filologia, si trattò comunque di una filologia filosofica, che gettò le basi per la grande stagione del neoplatonismo»: Ferrari 2010, p. 73. Su questo aspetto della filosofia tardoantica fondamentali sono, per l’età imperiale, Donini 1982, pp. 31-69, Donini 1994 e, per il tardo neoplatonismo, Romano 1994. Sulla produzione esegetica di testi aristotelici cfr. Donini 1995 e in particolare per l’ambito allessandrino cfr. Sorabji 1990. 196 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA Il poeta è un imitatore; ogni imitatore ha come scopo il fatto di rendere una cosa simile al modello, voglia o non voglia recare piacere a qualcuno; è dunque evidente che anche il poeta non ha come scopo il fatto di recare diletto a qualcuno207. La struttura paralogistica carica di maggiore forza persuasiva il discorso platonico. In effetti, dalla prospettiva procliana Platone arriva a dimostrare che il poeta non mira esclusivamente al piacere, partendo dalla dichiarazione che il godimento può certo accompagnare un’azione o un oggetto, ma non si identifica necessariamente con la funzione e l’utilità di quell’oggetto stesso. Così il bere e il mangiare, oppure l’apprendere possono recare diletto, ma non è certo questo a costituire il fine di quelle azioni che, invece, sono volte rispettivamente alla salute a alla verità. Lo scopo va individuato nella funzione caratteristica delle azioni. Ebbene dell’arte poetica, in quanto mimetica, la funzione caratteristica, la ijsovth", è rendere un oggetto simile al suo modello, rappresentare nella quantità e nella qualità il modello nella sua immagine. Dunque è questo il suo fine e non il piacere208. Come abbiamo visto sopra, Platone parla, in questo libro delle Leggi, della forma corretta di poesia e incita a giudicare il valore della mivmhsi" proprio in base all’oggetto della sua rappresentazione che deve coincidere col bello (to; kalovn)209; l’Ateniese critica l’abitudine dei giudici delle gare poetiche di giudicare in base al piacere procurato dalle singole opere sugli spettatori, e soprattutto in base al piacere del primo venuto, lo abbiamo già visto. Bisogna infatti giudicare in base alla Musa più bella, «quella che diletta coloro che sono moralmente migliori e posseggono un’adeguata formazione e, soprattutto, chi si distingua per virtù e cultura»210. Proclo prende avvio proprio da questa ricerca di Platone. Nella presentazione delle questioni da affrontare, all’inizio della Dissertazione, il filosofo licio, riprendendo le Leggi, spiega che la riuscita di un’attività deve essere 207 Procl. In Remp. I, 67, 18-21. La traduzione di Abbate è lievemente modificata. Cfr. Plat. Leg. II, 668b6-7. 209 Plat. ibi, II, 668b1-2. Cfr. p. 185, n. 172. 210 Plat. ibi, II, 658e8-659a1. 208 197 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA riferita ad uno scopo e sulla base di esso, a seconda che sia realizzato o meno, si stabilirà qual è la forma corretta e quale quella distorta di ogni attività211. È dunque chiaro che il poeta non ha come fine il divertimento e – aggiunge Proclo – è altrettanto evidente che invece è il bene ad ispirarlo. Ogni azione che sia conforme a virtù (kat∆ ajrethvn), imitativa o meno, non ha altro fine se non il bene (oujk a[llo ti fhvsomen ei\nai tevlo" plh;n tou' ajgaqou'). La poesia diventa così anagogica verso to; ajgatovn, conduce al vero, facendo risalire l’anima umana dalla realtà sensibile a quella intelligibile, essendo preparatoria alla vita politica: Vale la pena capire di che cosa si tratta: cioè di una forma preliminare alla vita politica (provdromon ei\do" th'" politikh'" zwh'"), in quanto non eleva l’anima al fine teoretico (oujk eij" to; qewrhtiko;n ajnavgon th;n yuch;n tevlo"), ma a quello politico. Perciò dicevamo che il politico deve delineare al poeta i giusti limiti delle sue attività, come deve fare per lo stratega, per il medico e per l’oratore, mentre il poeta che rispetta i confini che il politico impone, deve operare nel modo indicato, indirizzando i propri poemi a quel fine212. Preparatoria alla vita politica, la poesia occupa uno dei posti capitali all’interno della città giusta governata dai filosofi. Nel disegno platonico di una città dove i retori, gli strateghi, i medici operano guidati dal politico-filosofo213, la poesia ispira i giovani alla virtù e al bene. Nel processo di risalita dell’anima dalle realtà inferiori a quelle superiori e divine, la mimesi, regolamentata dall’uomo musico, si riappropria del ruolo etico che solo la lettura corretta del testo platonico poteva restituirle. 211 Procl. In Remp. I, 43, 19-21. Procl. In Remp. I, 67, 25 – 68, 2. 213 Si deve a Dominic O’Meara il più compiuto studio sugli aspetti politici della filosofia neoplatonica. Lo studioso ha mostrato come per i neoplatonici la produzione di una teoria politica vada comunque inserita in un contesto teologico. Il politico della città ideale, la Platonopolis della Vita Plotini (12, 3-9), è quell’uomo filosofo che, attraverso l’esercizio delle virtù prima etiche e poi catartico-teurgiche, è riuscito ad assimilarsi al dio, per poi ridiscendere nel mondo sensibile, proprio come raccontato nel mito della caverna da Platone (Resp. VII, 514a-517d), per assimilare le città umane alla realtà divina perfettamente ordinata e armonica. La questione della politica diventa allora una questione di ‘politica teologica’: «the greatest imaginable political success cannot therfore go beyond the realization of a general condition of a ‘political’ virtue, as a first, preparatory stage leading to higher levels of divinization»: O’Meara 2003, p. 138. Sugli aspetti etico-politici della Repubblica nel commento procliano cfr. Abbate 1999. 212 198 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA 3.7.2. Il Poeta che è nel Tutto e la divinizzazione della poesia Dalla prospettiva procliana – perché è solo da questa prospettiva, ormai, che guarderemo al poeta – non c’è nessuna cosa veramente buona che non si trovi nell’intero prima che nelle parti214. Abbiamo stabilito che è il bene ciò a cui guarda il poeta per poter produrre rappresentazioni virtuose di caratteri virtuosi e guidare così le anime degli uomini nella loro risalita verso la virtù. Dobbiamo allora chiederci chi è il Poeta215 che è nel Tutto (oJ ejn tw/' panti; poihthv"), posto al di sopra del poeta del mondo sensibile, modello e guida di quest’ultimo verso il bene, così come dobbiamo chiederci chi è il Politico-Filosofo che è nel Tutto cui il Poeta cosmico guarda. Nella gerarchia ontologica disegnata dal filosofo neoplatonico sono comprese alcune delle figure che il discorso sulla giustizia ha messo in primo piano, aggiungendone di proprie. Il mondo sensibile, con la sua organizzazione politica e le sue maestranze tecniche, trova il suo paradigma in un mondo di grado ontologicamente superiore. Esistono un Poeta e un Filosofo che appartengono ad una realtà intesa come Totalità, ed esistono anche uno Stratega che è nel Tutto, un Oratore e un Medico modelli degli strateghi, oratori e medici delle singole realtà particolari. Lo Stratega della realtà universale regola la ‘guerra cosmica’ in modo che le cose migliori abbiano sempre la meglio sulle cose peggiori; il Medico rende forte la natura del Tutto perché tenga uniti tutti i corpi e preservi l’ordine naturale non soggetto a invecchiamento o a malattie; l’Oratore, infine, con i suoi discorsi intellettivi persuade a vivere quest’universo che l’intelletto del Politico vuole che si viva. Allo stesso modo deve esserci un Poeta cosmico – spiega Proclo – che sia autore solo di miti (muqologiko;" movnw"), che produca rappresentazioni visibili delle realtà invisibili (mimhvmata poiw'n ta; ejmfanh' tw'n ajfanw'n), rappresentazioni belle di ciò che è bello (kai; kalw'n kalav), rappresentazioni secondo natura di ciò che è secondo intelletto (tw'n kata; nou'n ta; kata; fuvsin), che si serva di armonie attraverso le quali far vincere la virtù e sconfiggere la malvagità, che dia un ordine razionale ai ritmi che scandiscono il movimento così che solo una sia l’armonia e solo uno il ritmo che 214 Cfr. Procl. ibi, I, 43, 24-25: «ouj gavr ejstin oujde;n tw'n wJ" ajlhqw'" ajgaqw'n, o} mh; pollw/' provterovn ejstin ejn toi'" o{loi" h] toi'" mevresin». 215 Utilizzo qui la lettera maiuscola, seguendo Abbate, semplicemente perché aiuta a distinguere la diversa dimensione ontologica cui le due figure appartengono analogicamente. 199 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA governano il mondo216. Un Poeta di tale natura non potrà che guardare all’intelletto del Politico perché da esso apprenderà quel paradigma di virtù da rendere visibile agli uomini: Io potrei dire che questo Poeta non è altri che il dio grande cooperatore del grande Politico (tou' megavlou politikou' mevgan sunergovn...qeovn) ed autenticamente educatore (paideutiko;n wJ" ajlhqw'"), che guarda all’intelletto del Politico (eij" to;n ejkeivnou blevponta nou'n). Infatti il Politico che è nel ‘Tutto’ è colui che si celebra come il grande Zeus, presso il quale anche lo stesso Platone217 dice che si trova la politica218. Così si assiste alla divinizzazione della poesia, alla teologizzazione del discorso sull’arte poetica, che come quello del linguaggio, della natura dell’essere, è l’approdo sicuro della filosofia procliana. Che possa esistere un paradigma in cielo delle cose sensibili, lo aveva ammesso anche Platone - si pensi anche solo al celebre finale del IX libro della Repubblica - ma che questo modello sia presso gli dèi, anzi sia il dio stesso è una verità tutta neoplatonica. È in questo senso, allora, che la poesia è immutabile e sicura causa di verità, così come lo è la filosofia, presso la quale essa abita. E come nel pantheon greco è Zeus a dare figura e nome alla giustizia, così è Apollo l’autore dell’unica armonia e dell’unico ritmo dell’universo219: D’altra parte, colui che coopera insieme con lui [scil. Zeus] a tutto l’ordine che è nell’universo, sia tra movimenti rapidi e grevi, sia tra moti di rotazione più brevi e più lunghi, non è altri che Apollo (oujk a[llo" ejsti;n h] oJ ∆Apovllwn), autore di rappresentazioni armoniche e ritmiche (poihth;" w]n mimhmavtwn ejnarmonivwn kai; ejnruvqmwn)220. 216 Cfr. Procl. In Remp. I, 68, 6-21. Cfr. Plat. Leg. I, 624a1-4. 218 Procl. ibi, I, 68, 21-26. Proclo dimostra che Zeus corrisponde al Demiurgo del Tutto in Theol. Plat. V, 22. Cfr. supra cap. § 2.4, p. 95, n. 130. 219 Cfr. supra § 3.5.2, p. 172 e § 3.5.3, p. 183. 220 Procl. In Remp. I, 68, 26 – 69, 1. 217 200 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA Accanto a Zeus e ad Apollo, Ares, Ermes e Asclepio realizzano ciascuno il proprio compito di modello cosmico rispettivamente degli strateghi, degli oratori e dei medici. A questo punto Proclo accenna quasi ad una difficoltà, o forse ad un divieto, di dire cosa sia veramente il Poeta che è nel Tutto: «Se, dunque, bisogna che io discorra apertamente di ciò che è inesprimibile, è evidente che sia il Poeta»221. L’oggetto di questo suo ultimo discorso sulla poesia sono ta; ajnevxoista. Abbate, di cui ho riportato la traduzione, intende l’aggettivo come riferito a qualcosa difficile da dire in parole, da spiegare in un discorso; Festugière lo traduce con «ce qu’on ne doit pas divulguer», dando al testo una sfumatura esoterica. In effetti il termine derivato dal verbo ajnekfevrw esprime ciò che non può essere portato fuori, dunque ciò che non è esprimibile222. È forte la tentazione di trovare uno spunto esoterico in quest’ultima pagina della Dissertazione, perché è in questo stesso spirito che, secondo alcuni, si chiuderebbe, come vedremo, anche la sesta Dissertazione. Lì Proclo dichiarerà di aver rivelato ai suoi allievi ciò che poteva dire ma che essi non dovranno rivelare alla folla223. Tuttavia, benché sia difficile o vietato parlare della poesia cosmica, quella della realtà universale, Proclo non si esime dal farlo perché si affida a parole platoniche: il Poeta è colui che permette alle Sirene di cantare «emettendo una sola voce, un solo tono»224 ed è colui che muove i cerchi delle anime divine in modo proporzionale secondo movimenti ritmici225. Sono passi della Repubblica e del Timeo che non parlano affatto né di poesia né di Apollo, ma che rientrano entrambi in racconti mitici, quello del viaggio dell’anima nell’aldilà e quello della generazione dell’anima ad opera del demiurgo. In entrambi l’elemento armonico del movimento ordinato e ritmico viene da Proclo attribuito a questa figura divina di poeta, che appartiene ad un ordine superiore intermedio tra l’intelligibile, cui guarda, e il sensibile su cui opera. Così scrive l’esegeta: 221 Cfr. Procl. ibi, I, 69, 9-16. Cfr. LSJ s.v. ajnevxoisto": «not to be expressed, ineffable». Cfr. Iul. Or. 5, 158d. 223 Cfr. Procl. In Remp. I, 205, 22-23: «ejmoi; me;n o[nta rJeta; uJma'", uJmi'n de; a[rreta pro;" tou;" pollouv"». 224 Plat. Resp. X, 617a6-8. Sull’esegesi procliana di questo passo e del mito delle Sirene così come viene raccontato nella Dissertazione XVI del Commentario alla Repubblica e nel Commento al Cratilo, cfr. Spina 2007, pp. 108-112. 225 Plat. Tim. 36d5-7. 222 201 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA Del resto tutte le cose che hanno origine dall’anima sono opere armoniose e ritmiche di Apollo; e guardando verso costui il poeta di questo mondo (eij" tou'ton blevpwn oJ th/'de poihthv"), da un lato, canti con inni gli dèi (uJmnei'to me;n qeouv"), dall’altro canti con inni anche gli uomini nobili (uJmnei'to de; ajgaqou;" a[ndra"), sia ricorrendo a miti sia senza farvi ricorso (e[n te muvqoi" kai; a[neu muvqwn), altrimenti, se rivolge il suo sguardo ad altre cose (h] peri; a[lla strefovmeno"), sappia che ha fallito in quanto si è allontanato e dalla poesia e da Apollo (gignwskevtw kai; poihtikh'" aJmartw;n kai; ∆Apovllwno")226. Apollo, seduto accanto a Zeus, coopera all’ordine del mondo, perché di quelle realtà intelligibili dia immagini virtuose e verosimili, per nulla eterogenee, ma vere. Il Filosofo, ovvero il Politico della Repubblica, trova così nella poesia, non una falsa immagine, ingannevole e pericolosa, della dialettica, del lovgon didovnai, ma piuttosto un’immagine che in quanto mimetica è anagogica, in quanto legata alla cosa rappresentata come al suo modello è capace di far risalire da quella a questo. È proprio nell’essere metaxuv, intermedio, al centro tra due realtà, tra due ordini ontologici, che s’individua il potere veritativo e il valore etico del poeta. L’anima sembra essere il luogo dell’attività poetica, quello in cui l’intelligibile e il sensibile, il divino e l’umano trovano il loro ordine armonico, virtuoso, bello e buono. Grazie allo strumento dell’analogia, davvero pervasivo nella metafisica neoplatonica, la poesia può trovarsi al di sotto del livello ontologico dell’intelligibile senza per questo coprirsi di falso. È possibile passare da un livello all’altro dell’essere senza perdita del bene, ma solo di unicità e semplicità. Al poeta spetta il compito di rappresentare la bontà e l’immutabilità degli dèi, l’impassibilità degli eroi, il coraggio e la virtù degli uomini ad un pubblico che, pur partecipando di quella totalità, non può più coglierla se non in maniera analogica, attraverso quegli strumenti iconici che la poesia gli fornisce. Ricostruita in questi termini, la condanna platonica alla poesia ha assunto, è evidente, una propria forma argomentativa: per Proclo non si è trattato 226 Procl. In Remp. I, 69, 14-19. 202 COME LEGGERE CORRETTAMENTE LE PAGINE DELLA REPUBBLICA semplicemente di spiegare Platone ai suoi allievi prima della vera formulazione di una teoria estetica da argomentare nella sesta Dissertazione. Fin dalla delineazione del problema costruita nella prima questione della quinta Dissertazione, probabilmente solo introduttiva alla sesta, ma già profondamente tecnica, si evince l’originale e originario tentativo dell’esegeta di rivedere le posizioni platoniche e di farlo indagando più a fondo proprio sui termini stessi della critica alla poesia. E questa indagine, che, solo a partire da Platone, ha parlato in maniera sistematica di leggi retoriche, di norme di coerenza linguistica, di caratterizzazione del personaggio, di allegoria come strumento linguistico rivelativo, che ha sviluppato fedelmente le questioni psicologica e paideutica già intrinsecamente legate alla poesia nella Repubblica, conduce il lettore verso suggestioni assolutamente procliane, e ciò è tanto più evidente nel tratto conclusivo di tale discorso. 203 IL FILOSOFO E IL POETA CAPITOLO 4 Il filosofo e il poeta 4.1. Né Socrate accusava, né Omero mentiva 4.1.1. L’apologia di Omero: l’intenzione del testo e il fruitore ideale Le prime pagine della sesta Dissertazione del Commentario alla Repubblica costituiscono la sezione programmatica del lavoro di riconciliazione tra Omero e Platone tentato da Proclo. Ad apertura di quella che sarà una vera e propria ermeneusi dei versi omerici e dei dialoghi platonici, l’esegeta pone la sua personale apologia del mito arcaico. Proclo definisce lo status quaestionis, discute i termini della sua argomentazione e chiude con un epilogo di sicuro impatto retorico nel quale il mito diventa esegeta della realtà divina. La questione da risolvere, in termini filologici lo zhvthma, la domanda a cui cercare una soluzione, è posta nelle pagine del II libro della Repubblica dedicate appunto alla poesia nelle quali Socrate attacca esplicitamente i racconti sugli dèi di Esiodo e di Omero. Vale la pena di leggere per intero il famosissimo testo platonico che Proclo e i suoi allievi avevano sicuramente davanti agli occhi nell’accingersi a discutere del rapporto tra poesia e filosofia in occasione dei festeggiamenti del genetliaco di Platone1. 1 È Proclo stesso ad informare il lettore, ad apertura della Dissertazione (I, 69, 23-24), di aver voluto esaminare più a fondo il rapporto tra Omero e Platone nella sua diavlexi", la sua conferenza tenuta in onore del genetliaco di Platone. Festeggiare l’anniversario della nascita del fondatore dell’Accademia era un momento importante nella vita scolastica dei neoplatonici: la nascita nel mese di Targelione sottolineava il legame del divino maestro con Apollo, dal momento che proprio in quello stesso giorno i Deli veneravano la nascita del dio. Il racconto della Vita Platonis dell’anonimo autore dei Prolegomena (1, 26) inizia proprio con la definizione della natura di Platone come una «natura divina di uomo apollineo». In effetti, appena dopo la morte di Platone si diffusero dentro l’Accademia forme di venerazione della sua memoria; fonti come Diogene Laerzio (III, 2) e Apuleio (De Plat. I, 2) fanno risalire già a Speusippo una tradizione commemorativa che faceva di Platone il figlio di una mortale e di un dio e che s’imponeva così prima come una eroizzazione e poi come una vera e propria divinizzazione del filosofo di Atene. Sull’argomento cfr. Reverdin 1945, pp. 141-149 e Boyancé 1972, pp. 249-275. Plutarco in Quaest. Conv. VIII, 1, 1 ricorda che nei giorni 7 e 8 del mese di Targelione, anniversari della nascita di Socrate e Platone, si ascoltavano discorsi composti appositamente per quella occasione (th/' suntuciva prevponta"). Porfirio nella Vita Plotini attesta l’abitudine del maestro di celebrare il genetliaco di Platone e di Socrate con banchetti e simposi (2, 35-44); ricorda anche che, proprio in una di quelle occasioni, egli stesso compose un discorso dal titolo Il matrimonio 205 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA Ma in che senso facciamo questa critica e a che cosa precisamente è rivolta? In primo luogo – dissi – verso la menzogna maggiore e che riguarda le cose più importanti, di chi non bene ha mentito raccontando che Urano ha commesso le azioni attribuitegli da Esiodo, e come dal canto suo Kronos si sia vendicato di lui. Quanto poi alle gesta di Kronos e a quel che patì da parte del figlio, neppure se queste storie fossero vere penserei che si debbano così facilmente raccontare a dei giovani ancor privi della ragione, ma che vadano per quanto è possibile passate sotto silenzio; se poi ci fosse una qualche necessità di parlarne, le devono ascoltare in segreto pochissime persone, dopo aver sacrificato non un maialino ma qualche vittima grande e difficile da procurarsi, affinché accada di udirle al minor numero possibile di ascoltatori. […] Le storie di Era incatenata dal figlio, di Efesto gettato giù dal padre mentre si accingeva a difendere la madre percossa, e tutte quante le battaglie degli dèi composte da Omero non devono venir ammesse nella città, che abbiano o meno un senso nascosto. Un giovane infatti non è in grado di giudicare quello che è il senso nascosto e quello che non lo è, ma ciò che ha accolto a questa età fra le sue opinioni suole diventare incancellabile e inalterabile. Proprio in vista di questo bisogna far sì in ogni modo che i primi racconti da loro ascoltati siano i migliori possibili per indirizzare gli ascoltatori alla virtù2. Riprenderò in seguito la «parafrasi» procliana di questo passo. Preferisco invece passare direttamente all’analisi di come tale accusa venga presa ad oggetto esegetico della lezione procliana e diventi modello per un percorso di corretta lettura di un testo poetico. Quest’ultimo si fonda sulla considerazione del reciproco apporto semantico da parte di autore e fruitore: la poesia è, da una parte, scelta della parola corretta, coerente somiglianza tra il soggetto agente (in questo caso gli dèi) e l’azione che a questi si attribuisce, e dall’altra, lavoro ermeneutico d’interpretazione, ricezione attenta e profonda di un senso altro. Questa doppia sacro, mentre il retore Diofane lesse pubblicamente l’apologia di Alcibiade dal Simposio di Platone (15, 1-7). Anche Marino nella Vita Procli (23) racconta degli onori, degni di una divinità, tributati a Platone durante le cerimonie annuali di festeggiamento dell’anniversario della sua nascita. Sulla possibilità che tali tributi e feste non venissero realmente praticati ma che fossero solo una costruzione scolastica fondata su alcuni testi classici, come ad esempio Resp. IV, 427b-c, cfr. Di Branco 2006, pp.131-157. 2 Plat. Resp. II, 377e4 - 378e4. La traduzione è di Vegetti 2007. Il corsivo è mio. 206 IL FILOSOFO E IL POETA presenza nella composizione poetica, in fondo già accennata da Socrate3, è l’orizzonte di lettura mai tradito della difesa procliana. Come vuole la migliore scuola retorica, l’argomentazione è anticipata dalla provqesi", la propositio, la dichiarazione d’intenti, il progetto apologetico: dal discorso apparirà alla fine evidente – spiega Proclo – che il racconto stesso del mito, la sua costruzione (diavqesi")4, è assolutamente coerente con la natura stessa delle realtà divine di cui esso parla. Ebbene l’errore dei produttori di miti, spiega l’esegeta platonico, è un errore dovuto alla cattiva scelta di ojnovmata e fantavsmata, parole e immagini, che, almeno apparentemente, non si addicono alle essenze divine. Come conciliare discorsi turpi, mostruosi quasi, sugli dèi con la natura di questi modellata sul bene, sostanzialmente unita al bello, ispirata all’ordine? I qeolovgoi della tradizione neoplatonica – ovvero Omero, Esiodo ed Orfeo5 – attribuiscono alle essenze divine, che trascendono ogni cosa, crimini, adulteri, furti, lanci giù dall’Olimpo, oltraggi ai genitori, incatenamenti, castrazioni e molti altri abomini. Diventa necessario allora adattare agli dèi delle storie che nell’immaginario comune sono legate a ciò che è immerso nella materia, privo della legge divina e di tutto ciò che è giusto. Per raggiungere tale scopo, il filosofo neoplatonico utilizza tre argomenti difensivi: la cattiva fruizione del mito (I, 74, 9 – 76, 17), la sua solo apparente oscenità (I, 79, 18 – 81, 27) e la necessità di un’ermeneusi allegorica dettata da particolari criteri interpretativi (I, 81, 27 – 86, 23). A proposito dell’uso scorretto dei miti, Proclo ci informa di un carattere duplice dei discorsi sugli dèi della tradizione greca: esiste una verità nascosta, il significato più puro che risiede nel segreto, coperto da velamenti esteriori (parapetavsmata) e c’è una scena (skeuhv), una rappresentazione visibile di realtà invisibili e inconoscibili alla gente comune6. È proprio questa doppia dimensione 3 Cfr. Plat. Leg., II, 659b-c in cui si suggerisce quella che in termini moderni chiamiamo intentio autoris, una composizione da parte dell’autore mirante esclusivamente alla soddisfazione dell’aspettativa del pubblico. 4 Cfr. Plut. De aud. poet. 16b8 in cui la diavqesi" muqologiva" è appunto l’intera struttura del mito, la composizione fittizia nella sua interezza, risultato di un sapiente intreccio di elementi favolosi. 5 Cfr. Herm. In Phaedr. 73, 16 ss. e Moreschini 1996, p. 362. 6 Il mondo divino è necessariamente coperto dall’ambiguità. L’oracolo si mostra attraverso un velo «come una giovane sposa», scrive Eschilo in Agam. 1178-1179. «All’ambiguità del mondo divino corrisponde la dualità del mondo umano; vi sono uomini che riconoscono l’apparizione degli dei sotto le vesti più 207 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA che rappresenta del mito il valore supremo, poiché grazie ad essa la poesia arcaica ai profani non rivela alcuna vera realtà, mentre «offre solo delle vaghe tracce dell’intera mistagogia (i[cnh tina; movnon th'" o{lh" mustagwgiva") a chi è in grado per natura di lasciarsi condurre da queste stesse tracce fino all’inaccessibile contemplazione (eij" th;n a[baton toi'" polloi'" qewrivan)»7. Ebbene, coloro che si lasciano trascinare dall’apparente oscenità dei miti verso un’empietà insensata sono quegli uomini che non riescono a riconoscere questa doppia dimensione dei racconti mitici e non comprendono né lo scopo (skopovn) né la potenza (duvnamin) della costruzione poetica. Risulta, dunque, evidente che non è certo valida un’accusa fondata non sulla natura stessa del mito ma sul cattivo uso che ne fa il suo pubblico8. Tuttavia, se si può accusare giustamente l’uso scorretto del mito, non si può certo negare l’apparente oscenità dei racconti sugli dèi. È a questo punto che Proclo propone una sua personale tassonomia del materiale mitico. Egli sostiene infatti di dover individuare prima di tutto l’ijdeva dei miti, la loro specifica forma che si distingue in base alla loro peculiare proaivresi", alla loro finalità, la loro intenzione. Da questa prima osservazione deriva allora la distinzione di due ideai del mito: Innanzitutto bisogna – credo – definire le intenzioni dei miti e distinguere per bene da una parte quei miti cosiddetti paideutici (touv" te paideutikou;" legomevnou") e dall’altra quelli più divinamente ispirati (tou;" ejnqeastikwtevrou") e che guardano al Tutto (pro;" to; pa'n) più che alla disposizione d’animo del pubblico9. Se si evidenziano qui alcuni elementi del passo procliano è perché la distinzione operata all’interno del materiale mitico non venga ridotta, come è stato qualche volta fatto dalla critica, ad una separazione di natura oppositiva e alternativa tra ‘miti didattici’ e ‘miti ispirati’. Tutta la poesia ha origine divina così come gli effetti immediati della poesia sono sempre di natura etica. Lo sconcertanti, che sanno intendere il senso nascosto delle parole; quindi vengono tutti gli altri, quelli che si lasciano ingannare dal travestimento, che cadono nella trappola dell’enigma»: Detienne 2008, p. 54. 7 Cfr. Procl In Remp. I, 74, 22-24. 8 Cfr. Procl. ibi, I, 74, 9 – 76, 17. 9 Procl. ibi, I, 76, 24-27. 208 IL FILOSOFO E IL POETA abbiamo visto espresso lungo tutta la quinta Dissertazione10. Tuttavia, nella tradizione platonica precedente a Proclo si era già configurata una distinzione tesa a separare miti didattici, quali quelli proposti da Platone, e miti iniziatici, quali quelli proposti dai poeti arcaici. Esemplare è la posizione di Giuliano, cronologicamente più vicina a Proclo, che, come abbiamo visto nel primo capitolo, aveva distinto tra miti etici, destinati all’educazione, e miti iniziatici11. La delineazione di miti cosiddetti didattici, ovvero generalmente riconosciuti come tali, e miti più ispirati, ovvero maggiormente oscuri e perciò apparentemente pericolosi, è da intendere, a mio avviso, in questa parte del discorso, come una introduttiva adesione alla presentazione tradizionale del materiale mitico. A quella secondo la finalità, segue un’ulteriore divisione che ha che fare questa volta con la ejpithdeiovth", l’atteggiamento, la disposizione del fruitore del mito12: da una parte c’è il fanciullo, il giovane che ama costumi propri della sua tenera età, che ama immedesimarsi nella varietà delle emozioni rappresentate dai poeti; dall’altra, colui che è capace di volgersi all’intelletto, alle cose divine, alle processioni seriali degli dèi con cui essi si rendono visibili attraverso tutto il reale, fino al livello più basso della materia. Ebbene, operate queste due distinzioni, secondo Proclo potremmo essere finalmente d’accordo con coloro che reputano i miti di Omero e di Esiodo inadatti ai fanciulli e alla loro educazione, senza però esimerci dal dire che quegli stessi miti di Omero e di Esiodo sono assolutamente conformi alla natura dell’intero (th/' fuvsei tw'n o{lwn e{pontai) e all’ordine delle cose che sono (kai; th'/ tavxei tw'n o[ntwn) e che uniscono (sunavptousin) agli enti reali coloro che sono capaci di elevarsi alla contemplazione delle cose divine (tou'" ajnavgesqai dunamevnou" eij" th;n tw'n qeivwn pragmavtwn periwphvn)13. Ciò detto, Proclo sviluppa due elementi che rappresentano la vera novità della sua riflessione intorno alla poesia rispetto al testo platonico e che abbiamo visto accennati già nella quinta Dissertazione: egli presenta la mythopoiia, ovvero la 10 Cfr. supra, § 3.5.2. Cfr. supra, § 1.7. p. 46. 12 Secondo Halliwell questa puntualizzazione procliana è una chiara dimostrazione del fatto che la distinzione delle diverse specie di poesia presentate nelle pagine successive sia di tipo valutativo oltre che descrittivo, e che quindi una composizione poetica può appartenere all’una o all’altra categoria a seconda della prospettiva da cui la si guarda e del carattere del lettore che la interpreta. Cfr. Halliwell 2009, p. 280. 13 Cfr. Procl. In Remp. I, 76, 17 – 77, 12. 11 209 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA costruzione dei miti, come analoga alla produzione demiurgica delle cose sensibili e conferisce al linguaggio e al racconto poetici lo stesso potere evocativo e mistico della dottrina teurgica. 4.1.2. Poesia e teurgia nella seconda difesa procliana Nel realizzare la sua analogia tra demiurgia e poesia, Proclo comincia con lo spiegare che la Natura, in quanto produttrice di immagini (eijkovna" dhmiourgou'sa) mutabili e sensibili delle Forme immateriali e intelligibili, rappresenta (ajpeikonivzetai) l’indivisibile attraverso il diviso, l’eterno attraverso ciò che muta nel tempo, l’intelligibile attraverso il sensibile. La produzione demiurgica si presenta come una rappresentazione per opposizione del modello intelligibile nel mondo sensibile. È nello stesso modo che i poeti creano i loro racconti mitici. Essi, in maniera conforme (eJpomevnw") alla natura e alla processione degli enti nel loro rendersi visibili (fainomevnw") e figurativi (eijdwlikw'"), rappresentano (ajpomimou'ntai) la potenza superiore dei modelli (paradeigmavtwn) costruendo nei racconti (plavttonte" ejn lovgoi") delle immagini (eijkovna") degli dèi prodotte attraverso le espressioni più contrarie (toi'" ejnantiwtavtoi") rispetto ad essi e che più se ne allontanano (plei'ston ajfesthvkosin)14. I padri della mitologia, dunque, proprio come la natura creatrice del reale, mostrano (ejndeivknuntai) attraverso ciò che è contro natura ciò che è oltre la natura, attraverso ciò che è irragionevole ciò che è più divino di ogni ragione, 14 Procl. ibi, I, 77, 19-24. In questo passo Proclo non fa alcun accenno al simbolo; tutte le modalità di costruzione poetica sono significate da termini quali eikon, mimesis, eidolon nelle loro forme sostantivali o verbali. Eppure compare già qui un dato che acquisterà maggior senso nei capitoli successivi della Dissertazione: il trovarsi delle rappresentazioni poetiche completamente all’opposto rispetto ai modelli rappresentati. Questa caratteristica è ciò che farebbe della poesia ispirata una poesia non mimetica, bensì simbolica. La dottrina simbolica mostra la natura del reale attraverso le opposizioni più forti, scrive Proclo in In remp. I, 198, 13-24: hJ de; sumbolikh; qewriva kai; dia; tw'n ejnantiwtavtwn th;n tw'n pragmavtwn ejndeivknutai fuvsin. Proclo accenna in In Remp. II, 109, 1 ad una sua opera, purtroppo andata perduta, specificamente dedicata ai simboli mitici: Peri; tw'n muqikw'n sumbovlwn. Cfr. Beutler in RE 1932, s. v. Provklo", col. 205, n. 38. Ma su tutto ciò cfr. infra §§ 4.4 e 4.5. 210 IL FILOSOFO E IL POETA attraverso ciò che si manifesta turpe (wJ" aijscroi'") ciò che trascende in semplicità ogni bellezza parziale15. E così - conclude Proclo - secondo il discorso appropriato (kata; lovgon to;n eijkovta), ci ricordano (ajnamimnhvskousin) della superiore trascendenza di quegli esseri che realmente sono16. Esiste ancora un’altra immagine che lega la poesia in maniera endemica alla filosofia neoplatonica, al suo pensare il mondo in maniera unitaria e armonica. Questa immagine è la teurgia. Lo abbiamo già visto nel capitolo precedente, quando Proclo ha chiamato a[galma delle Muse il mito arcaico, quando ha parlato dell’ispirazione poetica come delle formule capaci di evocare gli spiriti superiori e di far risalire a questi spiriti le anime degli ascoltatori. Ora, in maniera più esplicita, spiega in che senso è possibile intendere la natura ispirata e perciò teurgica dei racconti di Omero. Il filosofo licio costruisce una stretta analogia tra l’uno e l’altro dei livelli ontologici che compongono il reale considerando quest’ultimo nella sua dimensione ora metafisica, ora teurgica, ora mitologica. Proclo ripropone in queste pagine quella stessa ermenutica analogica che ha applicato al nome nel suo Commento al Cratilo. Infatti, proprio come il nome è velamento dei diversi ordinamenti divini che appartengono alla stessa catena seriale17, così le due nature del mito, quella visibile e quella ineffabile, corrispondono a due livelli ontologici di una stessa catena dell’essere, l’una demonica, l’altra divina. In effetti, le ultime classi demoniche, quelle che sono a contatto con la materia, presiedono su tutto ciò che altera le potenze secondo natura, la turpitudine delle cose materiali, la deviazione verso il male, il movimento disordinato e irregolare: tuttavia è necessario che esistano anche queste cose nel Tutto e che compongano la varietà dell’intera armonia, ed è necessario anche che proprio nelle classi superiori sia contenuta la causa della loro «esistenza collaterale18», della loro fissità e 15 Come scrive Jean Trouillard: «Sous ce rapport la matière est le meilleur symbole du Bien et la matrice de tous les symboles», Trouillard 1981, p. 301. 16 Procl. In Remp. I, 77, 27-28. 17 Cfr. supra § 2.5, pp. 111-112. 18 Quello della parupovstasi" è un concetto molto complesso della filosofia procliana perché strettamente collegato alla natura e all’origine del male. Quest’ultimo, non avendo alcuna causa materiale né 211 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA permanenza. Ebbene, la teurgia e la mitologia riproducono questo carattere seriale della processione divina dalle prime classi fino a quelle demoniche. Come dunque l’arte ieratica (tevcnh tw'n iJerw'n) […] da una parte si attira la benevolenza (degli dèi) con le più sacre iniziazioni e i simboli mistici (toi'" mustikoi'" sumbovloi"), dall’altra, in virtù di una certa comunione ineffabile (dia; dhv tino" ajrrhvtou sumpaqeiva"), cerca di conciliarsi i favori (di quegli dèi loro compagni) attraverso degli effetti visibili (toi'" fainomevnoi" paqhvmasin19), così i padri di siffatti miti, guardando, per così dire, all’intera processione degli dèi (eij" pa'san th;n provodon) e preoccupandosi di ricondurre i miti all’intera catena (eij" o{lhn seiravn) che procede da ciascun dio (th;n ajf∆ eJkavstou proiou'san), hanno prodotto il rivestimento visibile e figurativo del mito come analogo alle classi più basse, […] mentre agli amanti della contemplazione degli enti (toi'" filoqeavmosin20) hanno trasmesso, come una rivelazione, quella parte dell’essenza assolutamente trascendente e inaccessibile degli dèi che è nascosta e inconoscibile ai più. E così, ogni racconto mitico è demonico (dhmovnio" mevn ejstin) secondo l’aspetto visibile (kata; to; fainovmenon), è divino (qei'o" dev) secondo la dottrina ineffabile (kata; th;n ajpovrrhton qewrivan)21. Il poeta, dunque, al pari del Demiurgo traduce modelli in immagini, immagini che necessariamente avranno connotazioni lontanissime dalla loro origine. Eppure queste rappresentazioni saranno vere e proprie rivelazioni di quella natura formale che lo generi, non possiede una forma di esistenza autonoma e indipendente, ma solo una parypostasis, una esistenza che si determina solo in relazione a un bene particolare, in quanto privazione specifica di esso (cfr. De mal. subs. IV, 49, 9-15 Isaac; Theol. Plat. I, 18; In Tim. I, 372, 25 – 381, 21; 384, 19 - 385, 13). La traduzione del termine greco come «esistenza collaterale», vicina all’interpretazione di Lloyd che ci vede una sorta di esistenza parassitaria, è quella di Michele Abbate che si è occupato dell’argomento in un suo studio sulla quarta Dissertazione del Commentario alla Repubblica: cfr. Lloyd 1987 e Abbate 1998. Festugière traduce, invece, con «existence épiphénoménale». 19 Festugière traduce: «par les ‘passiones’ présentes dans les cérémonies». 20 Proclo utilizza qui il termine filoqeavmone" in un’accezione assolutamente nuova rispetto a quella platonica di Resp. V, 475d-476b in cui gli ‘amanti degli spettacoli’ sono proprio coloro che amano solo l’aspetto visibile delle opere poetiche, ma non sanno ricondurre la bellezza delle cose sensibili alla bellezza in sé. Gli amanti degli spettacoli di Platone sono coloro che vivono sognando, sia nel sonno che nella veglia, credendo che una cosa simile ad un’altra non sia appunto simile, ma identica a quella cui assomiglia (476c35). Dall’altra parte del filoqeavmwn c’è il filovsofo" che è amante della sola verità, della sola conoscenza che è quella della cosa in sé. In Proclo il filosofo è un amante degli spettacoli mistici, di quelle cerimonie in cui simboli teurgici, simili ma non identici agli dèi a cui appartengono, rivelano la natura più nascosta e segreta delle cose che sono. 21 Procl. In Remp. I, 78, 17 - 79, 4. 212 IL FILOSOFO E IL POETA primaria e paradigmatica; esse saranno dei simboli materiali, dei segni irrazionali, degli strumenti empatetici capaci di evocare la somma verità sugli esseri divini al pari dei riti teurgici22. Anche la demonologia racconta qualcosa della poesia arcaica: i demoni, esseri intermedi tra gli uomini e gli dèi, ordinamento divino liminare tra gli dèi encosmici e gli spiriti che conducono le anime particolari, sono l’immagine della espansione della forza divina nel mondo intelligibile e sensibile. Il mito esprime tale forza con il linguaggio del simbolo, che fa da intermediario tra l’indicibilità delle realtà divine e la discorsività del parlare umano. James Coulter23 ha giustamente sottolineato come questa interrelazione tra diversi livelli ontologici degli ordinamenti divini, paralleli a quelli semantici della natura mimetica del mito, costituisce una coerente risposta filosofica ad una delle principali domande della critica letteraria e cioè alla capacità di un unico elemento letterario di suggerire, pur essendo uno solo, molte altre cose diverse da esso. La connessione tra il carattere simbolico del mito e il mondo dei demoni è un’immagine trasparente del forte potere comunicativo, diffusivo della letteratura. Ebbene, esposte così le proprietà dei miti di Omero, che non sono assolutamente lontani dalle somme verità, Proclo distingue, questa volta in maniera più esplicita, le nature diverse dei miti platonici e quelli omerici, i primi essendo più filosofici, i secondi più adatti ai riti dell’arte ieratica, i primi rivelandosi più utili ad un pubblico giovane, i secondi essendo, invece, destinati a chi ha superato la fase dell’educazione e mira «a fissare l’intelletto dell’anima (to;n th'" yuch'" nou'n) nell’ascolto (eij" th;n ajkrovasin) di siffatti racconti come in una sorta di strumento mistico (w{sper o[rganovn ti mustikovn)»24. 22 Cfr. Trouillard 1977, pp. 31-36. Cfr. Procl. In Remp. I, 111, 16-27 in cui l’esegeta spiega che la natura del dio partecipato dagli esseri demonici di ordinamento inferiore resta sempre uguale rispetto a se stessa, ma muta a seconda della natura di colui che vi partecipa: «Infatti, mentre il dio che è partecipato rimane uno solo, l’intelletto vi partecipa in un modo, l’anima intellettiva in un altro, l’immaginazione in un altro ancora, e così anche la sensazione; l’intelletto in maniera indivisibile (ajmerivstw"), l’anima in maniera esplicita (ajneiligmevnw"), l’immaginazione in maniera figurativa (morfwtikw'"), la sensazione in maniera passiva (paqhtikw'")». 23 Partendo dal presupposto che l’unità, causa di tutti gli esseri e di tutti i significati, è necessariamente presente in tutte le realtà derivate, lo studioso sottolinea come, riprendendo il doppio movimento discensivo ed epistrofico caratteristico della filosofia neoplatonica, i dettagli letterari sono legati ‘in salita’ verso i livelli più alti di significato e allo stesso tempo viene stabilita una coerenza interna di tutti gli elementi ancorati ad una unità trascendente. Cfr. Coulter 1976, pp. 59-60. 24 Procl. In Remp. I, 79, 16-18. 213 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA Tutto ciò, spiega il Diadoco di Atene, è Socrate a dirlo per primo: egli ha dichiarato che i miti di Omero non sono diretti all’ascolto di giovani ancora ingenui, incapaci di riconoscervi il senso nascosto25 e che la loro fruizione richiede invece «un certa intelligenza di tipo mistico e ispirato (mustikh'" tino" dei'tai ejnqeastikh'" nohvsew", I, 79, 22-23)». È la gente comune ad aver stravolto, per non averlo compreso, il pensiero di Socrate e, trovandosi molto lontana da esso, ha criticato l’intero genere del racconto mitico. Il filosofo ateniese, quando raccomanda di parlare degli dèi alla maniera dei miti arcaici solo in segreto, alla presenza di pochissime persone e solo dopo aver offerto dei sacrifici26, dimostra di credere che la dottrina in essi contenuta è «una mistagogia e una iniziazione che eleva le anime degli ascoltatori (mustagwgivan kai; teleth;n ajnagwgovn tw'n ajkouovntwn, I, 80, 22-23)». Insomma, dall’esegesi del maestro neoplatonico si apprende che, se si vuole comprendere veramente il pensiero di Socrate, senza semplificazioni ingenue e generalizzazioni avventate, bisogna tener conto in primo luogo che l’intenzione di Omero non era quella di educare i giovani, ma di ricondurre gli ascoltatori alla contemplazione degli esseri superiori, e in secondo luogo, che il pubblico cui il poeta arcaico guardava non era composto da educandi ancora inesperti e fragili a sconvolgimenti irrazionali, ma da uomini iniziati e desiderosi di dimorare presso gli dèi. In queste pagine della sesta Dissertazione la poesia arcaica diventa esplicitamente uno strumento anagogico così come Proclo aveva già anticipato a proposito dell’arte delle Muse nella quinta Dissertazione27. Non resta più alcun dubbio che quella di Omero non sia un’arte capace di far compiere ad un numero ristretto di persone quella unione mistica con gli dèi, ultima tappa della risalita dell’anima umana verso la sua perfetta origine. Infatti è necessario, in obbedienza a Socrate e all’ordine della risalita verso il divino, da una parte perseguire la corretta educazione (th'" ojrqh'" a{ptesqai paideiva") dei costumi, dall’altra afferrare la contemplazione intellettiva degli enti (th'" noera'" tw'n o[ntwn periwph'" ajntilambavnesqai), e vivere nella maniera conveniente 25 Cfr. Plat. Resp. II, 378d6-e2. Cfr. Plat. ibi, II, 378a4-7. 27 Cfr. supra § 3.5.2. 26 214 IL FILOSOFO E IL POETA all’una e all’altra vita, cominciando dal genere di vita inferiore e di natura più politica (ajrcomevnou" me;n ajpo; th'" katadeestevra" kai; politikwtevra" ajgwgh'"), per poi culminare in quell’unione mistica con il divino (teleutw'nta" de; eij" aujth;n th;n pro;" to; qei'on mustikh;n e{nwsin)28. Esistono due tipi di mito, l’uno propedeutico all’altro, l’uno didattico (to; me;n paideutikovn), l’altro iniziatico (to; de; telestikovn), l’uno preparatorio alla virtù etica, l’altro foriero dell’unione col divino, l’uno capace di giovare alla folla, l’altro appropriato solo a pochissime persone (ejlacivstoi"), l’uno comune e noto agli uomini, l’altro indicibile e inadeguato a chi non si preoccupa di stare sempre presso gli dèi. Quanto qui descritto sembra evocare la sequenza dell’esercizio delle virtù, nel loro succedersi ordinato e graduale, da parte dell’anima umana, a partire dalle virtù etiche e politiche per finire con le virtù teurgiche. Come si sa, è Marino il primo ad attestarci nella Vita Procli la serie completa dei sette gradi di virtù, che risaliva già a Giamblico: alla base della scala gerarchica si pongono quelle naturali e morali, seguono le virtù politiche, catartiche, contemplative, paradigmatiche e infine teurgiche29. Se allora i miti di Platone, più filosofici, aiutano nell’esercizio della virtù politica, facendo riconoscere e apprendere il giusto e la vita nella città, il mito omerico è riservato agli iniziati che si apprestano a completare la loro risalita verso il luogo di origine, riunificando definitivamente l’anima al suo principio. 28 Procl. In Remp. I, 81, 5-10. Cfr. Marin. Vit. Procl. 3. Nei capitoli 26-33 il filosofo presenta le virtù teurgiche possedute dal suo maestro. Ricordiamo che la biografia di Proclo è organizzata proprio seguendo l’ascesa filosofica della sua anima attraverso i gradi di virtù; uno schema analogo si ritrova anche nella Vita Isidori di Damascio: sulla canonicità di questo metodo di scrittura biografica diffuso nel contesto pagano del V sec. d.C. cfr. O’Meara 2006. La definizione dei ‘gradi di virtù’, che trova le sue origini sicuramente nel trattato Sulle virtù (Enn. I, 2 [19]) di Plotino, viene canonizzata da Porfirio in Sent. 32, pp. 27, 9 – 28, 4 ed. Lamberz, in cui si parla di quattro generi di virtù (civili, purificative, contemplative e paradigmatiche): cfr. Brisson 2004b. Solo successivamente a Porfirio, con Giamblico e Proclo, a queste si aggiungono le virtù naturali e le virtù morali, alla base della scala, e quelle teurgiche al vertice di essa. Per una presentazione e discussione delle fonti neoplatoniche su questo argomento cfr. Saffrey – Segonds 2001, pp. LXIX-C (v. Bibliografia. Fonti primarie s. v. Marino) e il più recente contributo di Finamore 2012. 29 215 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA 4.1.3. Come interpretare allegoricamente l’aij aijscrovth" dei miti omerici Giunto quasi al termine di questa isagogica apologia di Omero, Proclo avanza delle ipotesi di lettura dei miti sconvenienti. I primi esempi proposti dal Diadoco di Atene sono il lancio di Efesto giù dall’Olimpo, l’incatenamento di Crono e la castrazione di Urano30, racconti tra i più scabrosi della mitologia arcaica e oggetto diretto dell’accusa di Socrate che abbiamo letto sopra31. Nell’Iliade Omero racconta che Zeus, in collera con Era, un giorno afferrò per un piede Efesto, che aveva preso le parti della madre, e lo fece precipitare giù dall’Olimpo; una variante del mito invece voleva che fosse stata proprio Era a disfarsi di Efesto perché storpio, ma è la prima versione ad interessare Proclo. Il lancio di Efesto giù dall’Olimpo per mano di Zeus deve, infatti, mostrare (ejndeivknutai), nella ricostruzione procliana, la processione del Divino (th;n tou' qeivou provodon) da ciò che sta più in alto fino alle ultime creature del mondo sensibile, processione avviata, completata e guidata dal Demiurgo. A proposito dell’incatenamento di Crono, Proclo si riferisce, proprio come Porfirio, ad una versione orfica del conflitto tra Zeus e suo padre32. Dopo averlo obbligato a vomitare i figli ingoiati, Zeus, con l’aiuto dei suoi fratelli, lo avrebbe prima fatto addormentare con del miele e poi lo avrebbe incatenato. Crono finì poi gettato nel Tartaro mentre Zeus guadagnò le cime del monte Olimpo. Ebbene, le catene di Crono mostrano (dhlou'sin), secondo Proclo, il ricongiungimento (th;n e{nwsin) dell’intera creazione, rappresentata dalla seconda generazione, quella di Zeus, con la trascendenza intellettiva e paterna di Crono. Infine, la castrazione di Urano: Esiodo racconta che Crono, divinità della prima generazione e il più giovane dei Titani, aiutò sua madre Gaia a vendicarsi di Urano che ricacciava i loro figli nel seno della madre al momento della nascita. Urano fu così attaccato di nascosto da Crono, proprio mentre era in procinto di unirsi di nuovo a Gaia, fu evirato e i suoi genitali furono gettati in mare. Dalla prospettiva procliana questa castrazione è 30 Cfr. supra §§ 1.5 e 1.6 per le interpretazioni di Plotino e di Porfirio della teogonia relativa alla triade Urano-Crono-Zeus. 31 Cfr. Plat. II, 377e6-378a2; 378d2-4. 32 Cfr. supra p. 43, n. 78. 216 IL FILOSOFO E IL POETA allegoria (aijnivssontai) della separazione (th;n diavkrisin) della «catena» dei Titani dall’ordine che governa il Tutto33. Attraverso questi esempi di lettura del racconto mitico, che rappresentano un vero e proprio processo di analisi ermeneutica, Proclo ha dimostrato di poter ricondurre ciò che in esso vi è di tragico e fantastico (to; tw'n muvqwn tragiko;n kai; plasmatw'de"), e quindi apparentemente turpe, riprovevole, alla dottrina intellettiva delle classi divine (eij" th;n noera;n tw'n qeivwn genw'n qewrivan). Nelle pagine precedenti il filosofo aveva spiegato – lo abbiamo visto – come i poeti, imitando la produzione demiurgica, creino per contrasto le loro rappresentazioni mitiche. Adesso Proclo detta esplicitamente il criterio interpretativo che guida ogni corretta lettura del testo omerico. I miti prendono ciò che dalla nostra prospettiva è associato al brutto, al peggiore (kata; to; cei'ron) e che appartiene al livello più basso delle catene seriali di emanazione ontologica, e lo interpretano (paralambavnousin34), in ciò che riguarda gli dèi, secondo la migliore natura e la potenza di più alto livello (kat∆ aujth;n th;n kreivttona fuvsin kai; duvnamin)35. Ecco che allora l’incatenamento, per noi (par∆ hJmi'n) simbolo di impedimento, diventa, ad un livello più alto (ejkei'), simbolo di legame (sunafhv) e unione ineffabile (e{nwsi" a[rrhto") con le Cause prime (pro;" ta; ai[tia). Oppure il lancio, simbolo per noi di movimento violento causato dall’esterno, significa, presso gli dèi, la processione generatrice (th;n govnimon provodon) e la maniera libera e spontanea con cui gli dèi si rendono presenti in tutte le cose. Addirittura tale immagine è rivelativa di un principio teorico fondamentale del pensiero metafisico neoplatonico: tale processione, spiega Proclo, non implica allontanamento dal principio originale (oujk ajfistamevnhn th'" oijkeiva" ajrch'"), ma è progressione regolare (ejn tavxei proiou'san) a partire da questo principio attraverso tutte le cose (ajp∆ ejkeivnh" dia; pavntwn). La castrazione, infine, che 33 Cfr. Procl. In Remp. I, 82, 9-18. Intendo qui il verbo paralambavnw nell’accezione latina di accipere, accogliere nel senso di intendere, interpretare; cfr. Greek-English Lexicon s.v. paralambavnw, III: «to take by bearsay or tradition, to learn, bear». 35 Procl. In Remp. I, 82, 20-23. 34 217 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA nelle realtà particolari e materiali produce una diminuzione di forza (ejlavttwsin th'" dunavmew"), nelle cause prime, invece, suggerisce per enigmi che gli esseri di secondo livello procedono dalle loro cause verso un livello più basso senza che gli esseri superiori né escano da se stessi (mhvte kinoumevnwn ajf∆ eJautw'n) a causa della processione dei secondi, né subiscano diminuzione (mhvte ejlassoumevnwn) a causa della separazione degli stessi, né si lascino dividere (mhvte diairoumevnwn) a causa della divisione che ha luogo negli esseri inferiori36. Anche nell’In Cratylum, analizzando il nome di Crono, apparentemente oltraggioso perché riconducibile alla tracotanza generata da kovro" (sazietà), Proclo spiega che quel nome è in realtà strumento che mostra la verità perché reca l’immagine dell’oltraggio con cui Crono riceve lo scettro da Urano e lo traferisce a Zeus; in questo modo, il nome ci serve a «ricondurre a verità (pro;" th;n ajlhvqeian ejpanavgein) anche le raffigurazioni mitiche (kai; ta; muqika; plavsmata), come si conviene quando si tratta degli dèi, e ad elevare a nozioni scientifiche (eij" ejpisthmonikh;n e[nnoian ajnapevmpein) ciò che si presenta come un’evidente mostruosità (th;n fainomevnhn teratologivan)»37. Ora, che tutto ciò, come dice Socrate, sia incomprensibile ai più giovani è un dato di fatto, ma è altrettanto vero – dice Proclo – che indagare e contemplare tali verità si addice (proshvkei) ai filosofi, «a coloro che sono capaci segretamente di cogliere in maniera intuitiva la verità sugli dèi proprio a partire da simboli mitici (toi'" de; ejn ajporrhvtw/ th;n peri; qew'n ajlhvqeian sunairei'n ajpo; tw'n muqikw'n sumbovlwn dunamevnoi", I, 83, 8-9.)». Nella Teologia Platonica, a proposito della castrazione di Crono per mano di Zeus, ritorna la stessa distinzione tra un pubblico ingenuo ed uno sapiente, la stessa separazione tra un aspetto tragico, mostruoso del mito ed uno più profondo, portatore di verità. In effetti egli [scil. Platone] ritiene che tutte le componenti mitiche di tal fatta confondano i più e gli stolti (tou;" me;n pollou;" kai; ajnohvtou") a causa della loro ignoranza sui segreti contenuti in esse 36 Cfr. Procl. In Remp. I, 82, 21 – 83, 7. È il principio metafisico procliano a fondamento della processione dell’essere dalla causa prima, che si propaga per gradi fin negli ultimi enti senza mai perdere nulla della sua sostanza ma differenziandosi e moltiplicandosi progressivamente: cfr. Procl. El. Theol. 27. 37 Procl. In Crat. CV, 55, 19-22. Per un commento dettagliato a questo passo si vedano Abbate 2001a, pp. 87-118 e Brisson 2002, pp. 440-448. 218 IL FILOSOFO E IL POETA (di∆ a[gnoian tw'n ejn aujtoi'" ajporrhvtwn), mentre indicano (ejndeivknusqai) ai sapienti (toi'" de; sofoi'") alcuni meravigliosi significati più profondi (uJponoiva" qaumastav"). Proprio questo è il motivo per cui Platone non accoglie (ouj prosivetai) tale modalità di elaborazioni mitiche (to;n toiou'ton trovpon tw'n plasmavtwn), ma ritiene che si debba credere agli antichi (crh'nai peivqesqai toi'" de; palaioi'") «poiché sono figli degli dei (qew'n ou\sin ejkgovnoi")»38, e si debba andare a caccia delle loro intenzioni segrete (th;n ajpovrrhton aujtw'n diavnoian qh'ran)39. I filosofi sanno riconoscere nei racconti mitici ciò che gli iniziati sanno riconoscere nei riti religiosi. Nei racconti mitici lo spostamento ermeneutico dal piano sensibile a quello intelligibile, dal piano materiale a quello noetico, dal piano peggiore a quello migliore avviene nello stesso modo in cui tale spostamento avviene nelle pratiche teurgiche. Anche queste risultano risibili ai più, ma a chi è sollecitato alla comprensione, ovvero a pochi eletti, esse rivelano l’affinità, la sumpavqeia che le cose sacre hanno con quelle terrene (pro;" ta; pravgmata) e danno loro la certezza che esista nelle cose terrene una potenzialità (dunavmew") condivisa con la natura divina. Il genere della poesia più divinamente ispirata esprime dunque tale sumpavqeia, tale simpatetica armonia tra tutti gli elementi del reale, quelli di ultimo e di primo livello, e lo fa servendosi delle parole pantoivw", in ogni modo, per mezzo di tutte le valenze comunicative possibili40. Ritorna a questo punto la distinzione tra miti paideutici e quelli più divinamente ispirati presentata poche pagine prima. Se i primi raccontano le cose in maniera verosimile, decorosa e soprattutto attraverso simboli che rappresentano per somiglianza le cose divine di cui essi parlano (di∆ oJmoiovthto" tw'n sumbovlwn41), i miti più divinamente ispirati attribuiscono agli dèi delle qualità 38 La citazione è da Plat. Tim. 40d8 in cui Timeo nel parlare degli dèi tradizionali e della loro origine dice di affidarsi a coloro che ne hanno parlato prima di lui i quali, dichiarandosi discendenti degli dèi, dovevano certo conoscere i propri antenati. «È dunque impossibile non credere – continua – a figli di dèi, anche se si esprimono senza argomenti verosimili e dimostrazioni rigorose, ma, poiché affermano di riportare cose di famiglia, bisogna crederci, seguendo l’uso e la tradizione». La traduzione è di Fronterotta 2003. 39 Procl. Theol. Plat. V, 3, p. 17, 22-25. La traduzione di Abbate è lievemente modificata. 40 Cfr. Procl. In Remp. I, 83, 14 – 84, 12. 41 Da questo passo (I, 84, 5-6) sembrerebbe dunque che il simbolo appartenga all’espressione poetica sia dei miti paideutici sia di quelli ispirati. La simbologia per somiglianza rende tali simboli immagini, mentre quella per contrasto li rende formule segrete. Come vedremo più avanti, alla pagina 198, 13-24 Proclo dirà, 219 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA apparentemente troppo diverse, che contrastano con la natura divina di cui essi sono simboli. Ma è proprio tale apparente distanza il senso e il valore del mito più divinamente ispirato, ovvero il simbolo di∆ ajnantiwvthto", per opposizione, per dissomiglianza: è un simbolo che non mira all’educazione dei giovani, ma all’evocazione ieratica (provklhsin) degli dèi42. Inoltre, il mito paideutico è rivolto a coloro che amano il sapere (filosofou'sin) e procede per immagini (di∆ eijkovnwn), il mito ispirato è invece rivolto ai capi della più mistica iniziazione e procede per formule segrete (di∆ ajporrhvtwn sunqhmavta) 43. C’è una pagina di un filosofo strettamente legato alla produzione procliana che descrive molto bene questa affascinante concezione del simbolo mitico individuato nella sua profonda distanza da ciò di cui esso è simbolo. Si tratta dello Pseudo-Dionigi Areopagita, autore cristiano ma intrinsecamente nutrito di neoplatonismo44. In un passo del De coelesti hierarchia l’uso di un’immagine dissimile viene presentato come necessario alla rappresentazione di cose invisibili: Se […] le negazioni sulle cose divine sono vere e invece le affermazioni sono inadatte al mistero delle cose indicibili, la rivelazione mediante raffigurazioni dissimili (dia; tw'n ajnomoivwn ajnaplavsewn) è allora la più appropriata per le cose invisibili45. La somiglianza delle rappresentazioni potrebbe essere pericolosa per parlare del divino, perché alcuni potrebbero identificare il divino con le immagini invece, simbolica solo la poesia fatta di immagini dissomiglianti rispetto ai loro modelli, distinguendola così da quella mimetica. Cfr. infra § 4.5. 42 Proclo pone questa distinzione tra miti destinati alla formazione dei giovani e miti riservati a pochi iniziati sullo stesso piano della distinzione tra le due armonie accolte nella kallivpoli" di cui ha discusso nella quinta Dissertazione (In Remp. I, 61, 19 – 62, 9). Come esistono, e lo abbiamo visto nel § 3.5.3 del capitolo precedente, due armonie, l’una – che qui Proclo definisce mimetica (mimhtikhv) – che incita gli uomini all’esercizio della virtù (l’armonia dorica) e l’altra – qui detta ispirata (e[nqeo") – che affascina gli uditori e produce un furore divino (l’armonia frigia), così esistono miti didattici e miti più ispirati e Socrate, come non ha disprezzato l’armonia frigia solo perché non adatta ad educare i giovani, così non condanna definitivamente la poesia omerica per la sua apparente oscenità. Cfr. Procl. In Remp. I, 84, 12-23. 43 Lo stesso Platone farebbe riscorso, secondo Proclo (I, 84, 29 – 85, 12), alla mustikwvtera telesiourgiva quando vuole rafforzare l’evidenza e la credibilità dei suoi dovgmata e cioè in Phaed. 62b3, 69c4 e 108a4. 44 Sugli influssi della filosofia procliana sullo Pseudo-Dionigi mi limito a rimandare in questa sede agli studi di Ritter 1995 e Beierwaltes 1998. 45 Ps.-Dion. De. coel. hier. II, 3. Per una presentazione dettagliata e affascinante della dimensione iconica e simbolica della filosofia pseudo-dionisiana cfr. Bonfiglioli 2008, pp. 185-225. 220 IL FILOSOFO E IL POETA sensibili offerte dalla Sacra Scrittura; proprio per evitare questo errore la sapienza dei sacri teologi – spiega Dionigi – è discesa nelle «assurde dissomiglianze, pro;" ta;" ajpemfainouvsa" ajnomoiovthta"», perché nessuno potesse pensare che gli spettacoli divini fossero simili a turpi immagini (II, 3). La turpitudine apparente dei miti arcaici come dei racconti biblici è via apofatica perché riconoscere la dissomiglianza prevede il superamento della bruttezza materiale delle immagini stesse per ricercare di esse un contenuto teologico, spirituale che conduce verso realtà superiori46. È ormai evidente l’orientamento teologico, mistico che guida Proclo nella sua interpretazione della poesia arcaica: egli ha evidenziato il valore per così dire esoterico dell’aspetto visibile e figurativo del mito e ha fatto della poesia divinamente ispirata una poesia simbolica (I, 85, 16 – 86, 23). Sono proprio questi gli argomenti al centro della recapitulatio della sua difesa di Omero. Quanto vi è di tragico e di mostruoso (to; teratw'de"), di innaturale nel mito è piuttosto strumento di conoscenza, inteso come incitamento a cercarvi una verità proprio per la sua apparente paradossalità. Quest’ultima ci forza, scrive Proclo, a entrare nella parte interna (eij" to; ejntov") dei miti, a scrutare il senso che i poeti vi hanno nascosto segretamente, a vedere quali nature, e dotate di quale potenza, i poeti hanno voluto significare ai posteri attraverso quei simboli (toi'sde sumbovloi") di cui si sono serviti. Inoltre, tale velo mostruoso e tragico, per la sua stessa natura visibile, ha il duplice potere da una parte di avvicinare coloro che per natura tendono alla conoscenza della vera dottrina che vi si nasconde, e dall’altra, di tenere lontano da questa chi, da non iniziato, non può accedervi. Esiste poi una suggevneia, una parentela tra la potenza medianica dei demoni nelle pratiche teurgiche e quella delle immagini nella produzione poetica. Come il demone, se ci appare in stato di veglia o di sonno, essendo intermediario tra gli dèi e noi, è in grado di mostrarci, manifestarci una verità delle nature divine, così le immagini poetiche diventano rivelative della più vera dottrina. Come tra il demone e il dio che appartengono alla stessa catena ontologica esiste un rapporto 46 Lo Pseudo-Dionigi è molto vicino a Proclo anche rispetto alla riflessione sui nomi divini. Anche il filosofo cristiano chiama ajgavlmata i nomi degli dèi (De div. nom. IX, 1). Secondo Saffrey l’espressione «qeownumika; ajgavlmata» è proprio uno dei ‘liens objectifs’ dell’influenza esercitata dalle opere di Proclo sul filosofo cristiano. Cfr. Saffrey 1979. 221 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA non già di copia e di modello, ma di partecipazione simpatetica dell’uno all’altro, così nella costruzione delle immagini poetiche (ejn pavsai" fantasivai") alcune cose sono mostrate da altre (a[lla ejx a[llwn ejndeivknutai) non come una copia (ta; me;n eijkovne") mostra il suo modello (ta; de; paradeivgmata), ma come un simbolo (ta; me;n suvmbola) mostra ciò che, in virtù di un’analogia (ejx ajnalogiva"), ha con esso una sorta di affinità (ta; de; e[cei th;n pro;" tau'ta sumpavqeian)47. Si tratta di un passo fondamentale nel discorso procliano sulla poesia. L’immagine poetica è qualcosa di più di una modalità espressiva, di un riflesso figurativo di un modello eidetico. Essa è il suo modello ma secondo il grado in cui esso si trova48, il grado, cioè, di un ente secondario rispetto all’ente ad esso superiore nella catena ermeneutica. Tutto ciò è fondato da quel legame (desmov") più bello che è l’analogia49. L’analogia ontologica, quella che tiene insieme in un tutto unitario e armonico la causa e i suoi effetti, il mondo sensibile e quello intelligibile al quale esso si volta, fonda l’analogia esegetica della parola poetica. Nella struttura metafisica del reale l’analogia è ciò che porta a compimento non solo la processione degli enti dall’Uno, ma anche il loro ritorno al Principio originario. Essa è un principio dinamico attraverso il quale si realizza un unico circolo, un unico moto che dà consistenza e continuità alle cose; in essa trovano comunanza l’identità e la diversità, la molteplicità e il suo ritorno 47 Cfr. Procl. In Remp. I, 86, 10-18: «ejn pavsai" ga;r tai'" toiauvtai" fantasivai" kata; tou;" muqoplavsta" a[lla ejx a[llwn ejndeivknutai, kai; ouj ta; me;n eijkovne", ta; de; paradeivgmata, o{sa dia; touvtwn shmaivnousin, ajlla; ta; me;n suvmbola, ta; de; ejx ajnalogiva" e[cei th;n pro;" tau'ta sumpavqeian». Sheppard 1980, pp. 197-199 propone una lettura, a mio avviso fuorviante, di questo passo, volendo intendere a tutti i costi il rapporto analogico di una rappresentazione proprio quello esistente tra una eijkwvn e il suo paradigma. La studiosa infatti, sulla base anche di In Remp. I, 197, 13-19, non ammette che l’analogia leghi qualcosa al suo contrario, quale può essere, per ammissione stessa di Proclo, un suvmbolon. Così fa anche Trouillard 1981, p. 299, sebbene fondi comunque il simbolo su un rapporto di corrispondenza: «L’inversion est un genre de rapport ou de correspondance», Trouillard 1977, p. 36. Come qui tento di argomentare, credo invece che l’elemento della dissomiglianza sia comunque intrinseco all’analogia, che Proclo dice esplicitamente – partecipa della dissomiglianza pur non essendo dissimile (oujk ajnomoiovth", th/' de; metousiva/ ajnovmoion, In Parm. II, 756, 32-33) e che, inoltre, nelle intenzioni dell’esegeta vada piuttosto sottolineato nel costrutto polare il rapporto simpatetico di ordine ermeneutico tra il simbolo e ciò che esso rappresenta, come quello ontologico esistente tra demoni ed eroi. Anche John Dillon non scinde l’analogia né dal symbolon, né dall’eikon, essendo l’analogia il principio di qualsiasi lettura allegorica di un testo, il principio di corrispondenza, cioè, che permette il passaggio da un significato superficiale del testo ad una verità metafisica di cui esso è espressione: cfr. Dillon 1976, pp. 255-257. 48 L’analogia fa in modo che tutto sia in tutto, ma nella maniera propria di ciascuna cosa (pavnta ejn pa'sin, oijkeivw" de; ejn eJkavstw/): questo è il principio di base della costruzione simpatetica dell’universo procliano: cfr. anche Procl. In Tim. II, 16, 27; 26, 25; El. Theol. 103. 49 Procl. In Tim. II, 18, 20-21. 222 IL FILOSOFO E IL POETA all’unicità; con essa si fonda una sympatheia del mondo con se stesso50. L’analogia è attraversata dalla somiglianza e dalla dissomiglianza. Qualsiasi ente di ordine secondario, per quanto conservi traccia della sua causa e aneli al ritorno a quella traccia, è sempre sovrastato, in virtù dell’assoluta trascendenza del Principio, dalla dissomiglianza di questo51. Ebbene tutto l’universo della costruzione poietica, a mio avviso, disegna al meglio la struttura simpatetica intrecciata dall’analogia. La somiglianza e la dissomiglianza sono criteri costitutivi del racconto mitico; la duplicità della dimensione semantica, da una parte profonda e oscura, dall’altra visibile e illusoria, dà il senso di questo movimento discensivo e ascensivo che realizza l’unità del racconto mitico come di un racconto cosmico; la posizione intermedia dei demoni, cui va direttamente associata quella della natura rappresentativa del mito, per natura intermedio tra l’oggetto rappresentato e il prodotto della rappresentazione, è il luogo stesso del legame, di ciò che unisce e separa gli elementi di un’unica catena52. Ebbene, se il modo di esprimersi della poesia omerica è demonico (daimovnio" oJ trovpo" ejstiv), essa non potrebbe non essere superiore a quella poesia che parla della natura o dell’anima o dell’educazione dei costumi53. I miti, divenuti allora puri esegeti (ejxhghtaiv) della realtà divina, non potrebbero non essere a questa più convenienti. Il discorso di difesa, introduttivo a quella che è stata giudicata una vera e propria riflessione estetica procliana, è giunto così a conclusione. Proclo ha dimostrato come il racconto mitico sia assolutamente conforme alla natura degli dèi, ma ha dimostrato anche come Omero abbia utilizzato gli stessi strumenti ermeneutici di Platone. Le parole di Socrate riportate sopra, all’inizio di questo 50 Sull’analogia come principio dinamico dell’ontologia procliana cfr. Beierwaltes 1990, pp. 193-197. All’analogia come modalità dialettica di pensare l’Uno, Beierwaltes dedica le pp. 362-371. Sul tema dell’analogia nel platonismo imperiale cfr. Dörrie 1981. 51 Cfr. Procl. In Parm. II, 756, 12-14; 22-25. Su tale ossimorica caratterizzazione della materia in Proclo cfr. Napoli 2000. Pseudo-Dionigi Areopagita riprende tale doppia natura dell’analogia nell’espressione ajnovmoio" oJmoiovth" «somiglianza dissimile» (de cael. hier. XV, 8). 52 Bouffartigue 1987 pp. 134-135 parla della natura simbolica del mito arcaico secondo l’interpretazione procliana come di una simbologia metonimica piuttosto che metaforica, perché alla relazione di somiglianza tra l’oggetto dell’allegoria e l’immagine allegorica, Proclo preferisce quella di concatenazione e di contiguità. 53 È una chiara anticipazione della tripartizione dell’arte poetica che Proclo presenterà nelle pagine successive. Cfr. infra § 4.4. 223 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA primo paragrafo dedicato all’introduzione della sesta Dissertazione, erano state infatti così tradotte nella lettura procliana: Ebbene, come Platone insegna spesso le cose divine in maniera segreta (mustikw'"), servendosi di immagini (dia; tinwn eijkovnwn), senza far ricorso a nulla che sia turpe, disordinato, a nessuna invenzione materiale e mostruosa, piuttosto custodisce nella loro purezza i concetti relativi agli dèi, e li presenta come se fossero delle immagini cultuali (ajgavlmata) dei simulacri visibili modellati su realtà interiori, segni della dottrina ineffabile (oJmoiwvmata th'" ajporrhvtou qewriva"), così anche i poeti e Omero stesso, se avessero composto dei miti adatti agli dèi, avrebbero dovuto rifiutare queste combinazioni di elementi che stridono insieme e la cui composizione esige l’impiego dei termini del tutto opposti alle realtà di cui parlano (dia; tw'n ejnantiwtavtwn toi'" pravgmasin ojnomavtwn), per scegliere invece quelle che mirano al Bello e al Bene, ed escludere così la gente comune dalla conoscenza delle cose divine che non le si addicono e fare, riguardo agli dèi, un uso innocente, puro, delle finzioni mitiche. Tali, credo, sono le accuse che Socrate muove alla mitologia omerica e agli altri poeti54. È evidente che il vocabolario messo in bocca a Socrate è senza dubbio procliano; prima che Omero diventasse autore di verità divine, Platone stesso, nell’insegnamento tardo neoplatonico, era diventato autore di una mistagogia. Ciò sostanzia il recupero della tradizione arcaica, della sua autorialità, e soprattutto il disegno di un accordo da costruire tra il sapere sapienziale e quello razionale, il sapere ispirato e quello dialettico. Tuttavia Proclo sceglie, a mio avviso, una via argomentativa ancora più autentica, una via cioè che gli permette di non allontanarsi troppo dalla prospettiva platonica e di guardare invece a quel legame che il dialogo platonico pure conservava con il racconto mitico. In questo passo i dialoghi platonici sono sì diventati, in termini evidentemente neoplatonici, rappresentazione cultuale della divinità, le loro immagini, metafore di una dottrina ineffabile, ma ciò su cui l’analisi della struttura compositiva del mito, della sua ermeneusi può spingerci a porre l’attenzione, è proprio il fatto che Proclo abbia guardato ad un aspetto della scrittura platonica che è densità di immagini, 54 Procl. In remp. I, 73, 16 – 74, 2. 224 IL FILOSOFO E IL POETA visualizzazione di un percorso dialettico, allo strumento figurativo, a quell’aspetto visivo della comunicazione platonica che questa condivide con il linguaggio mitico. Si potrebbe allora ipotizzare che, nella riflessione procliana, a porre sullo stesso piano il poeta e il filosofo non sia solo il medesimo contenuto di verità, il loro comune parlare di cose divine, ma il loro comune linguaggio, il loro essere interpreti, il loro saper condurre l’interlocutore, il pubblico, insomma il destinatario, da un punto ad un altro che da questo è generato ma che rispetto ad esso è diventato ben altra cosa: questo è il senso dell’essere ejxhghtaiv, il loro comunicare guardando ad un modello da rappresentare in un’immagine, sia questa strumento dialettico o simbolo teurgico. 4.2. Ancora sul disvelamento dei racconti mitici: esempi di lettura allegorica della poesia omerica 4.2.1. Il giudizio di Paride Dopo questa introduttiva panoramica sulla corretta ermeneusi omerica, Proclo dedica il primo libro della sua trattazione sul rapporto tra Omero e Platone ad un’indagine pratica sui miti esposti nell’Iliade e nell’Odissea55. Noi ci rivolgeremo, ora, in maniera esemplificativa, a due di questi esempi. Il modello di ermeneusi allegorica esposto nell’introduzione trova una sua esemplificazione nella lettura del giudizio di Paride, inizio e causa della guerra tra gli dèi combattuta parallelamente a quella vissuta dagli uomini sul campo troiano (In Remp. I, 108, 1 – 109, 7)56. Il racconto tanto celebre della scelta di Paride tra le dee Atena, Era e Afrodite non può certo essere inteso letteralmente: che ci sia stata una disputa tra le dee e che questa si sia chiusa per il giudizio di un uomo, tra l’altro barbaro, è cosa inverosimile. Quella di Paride è stata una scelta del genere di vita da seguire, genere che si pone sotto la protezione di una particolare divinità. Lo dice Platone 55 Si può trovare un’esposizione dettagliata dei diversi miti analizzati da Proclo in questo primo libro della sua Dissertazione in Lamberton 1986, pp. 197-232 e Kuisma 1996, pp. 79-121 56 L’episodio è raccontato più che nei poemi omerici, dove l’unica allusione si trova in Il. XXIV, 28-30, nei Canti Ciprii, XII = Hrdt. II, 117. 225 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA nel Fedro (252e1-253b4) quando parla di una vita regale subordinata ad Era, di una filosofica dipendente da Zeus e di una erotica guidata da Afrodite57. Quando dunque le anime (aiJ yucaiv), dal momento che dal Tutto (ejk tou' pantov") sono state proposte loro molte specie di vita (pollw'n aujtai'" proteinomevnwn bivwn), secondo il loro giudizio (kata; th;n eJautw'n krivsin) accolgono le une e rifiutano le altre, i miti (oiJ muvqoi), trasferendo sugli dèi (metafevronte"58 ejp∆ aujtou;" tou;" qeouv") le peculiarità di ciascuna specie (ta;" tw'n bivwn ijdiovthta"), dicono che gli dèi che presiedono (krivnesqai...tou;" ejfovrou") ciascuna di queste variazioni nel loro essere specifico (th'" kat∆ ei\do" ejn aujtoi'" ejxallagh'") vengono giudicati da coloro che si trovano a scegliere il tipo di vita59. Dal giovane troiano viene preferita la vita dell’amore e soprattutto – aggiunge Proclo – quella estrema, ovvero quella via che guarda alla bellezza delle cose sensibili perseguendo solo l’immagine ingannevole della bellezza intelligibile (to; ei[dwlon tou' nohtou' kavllou"). In realtà la vita erotica è anche quella filosofica, quella cioè di chi ha scelto la saggezza e l’intelletto e che grazie a questi riesce ad elevarsi dalla bellezza sensibile a quella intelligibile: Infatti l’essere perfettamente erotico (oJ ga;r de; televw" ejrwtikov") e di cui ha cura Afrodite (kai; Afrodivth/ mevlwn), si eleva 57 Come è stato notato Proclo forza certo il testo platonico: la vita filosofica protetta da Zeus nel Fedro, qui sarebbe invece dominio di Atena e, a proposito della vita erotica, Platone non parla di Afrodite, ma di «Apollo o di un altro dio»; la dea cipride è comunque citata insieme con Eros a proposito della maniva erotica in 265b4-5. Lamberton 1980 p. 202 suggerisce di guardare come più probabile modello del discorso di Proclo, sebbene non sia citato esplicitamente, il mito di Er in cui ciascuna anima è chiamata a scegliere in piena responsabilità il suo stile di vita (Resp. X, 617d-618b). 58 Da notare qui l’uso del verbo metafevrw per indicare la trasposizione di una caratteristica del genere di vita al dio che conduce quella vita. Sebbene Proclo utilizzi molto poco il termine metafora per parlare del linguaggio mitico, qui registriamo l’uso più proprio del verbo, ovvero quello più aristotelico, che dice una somiglianza del genere e la specie (Poet. 21, 1457b9-12): se dico ‘Afrodite’ al posto di ‘vita erotica’ faccio una metafora, sposto su Afrodite, che è la specie, il senso di ‘vita erotica’, che è il genere. Se la paternità della nozione di metaphora è generalmente riconosciuta ad Aristotele, può risultare interessante sapere che la prima occorrenza va attribuita ad Isocrate, che nell’Evagora (9, 9), orazione databile intorno al 370-366 a.C., afferma che i poeti possono rappresentare gli dèi con espressioni ordinarie (tetagmevnoi"), ma anche con prestiti (xevnoi"), neologismi (kainoi'"), e con metafore (metaforai'"). Bruno Snell dimostra che invece l’uso della metafora è antichissimo, ben documentato già nella lingua omerica: cfr. Snell 2002, 269-312. Sulla metafora in Aristotele, sul suo posto in ambito conoscitivo e semantico cfr. Guastini 2004. Sulla poesia come luogo proprio della metafora perché luogo proprio della rappresentazione cfr. Palumbo 2008a, pp. 529-543. 59 Procl. In Remp. I, 108, 12-17. 226 IL FILOSOFO E IL POETA verso la bellezza divina in sé (ajp∆ aujto; to; qei'on kavllo" ajnavgetai), disprezzando ciò che è bello nel mondo sensibile (tw'n ejn aijsqhvsei kalw'n uJperorw'n)60. Invece, chi persegue la bellezza sensibile fine a se stessa si allontana dalle cose realmente buone e belle e, preso da un appetito insaziabile, dimora inghiottito nella sua caduta nel mondo della materia senza aver raggiunto quella perfezione che si addice all’innamorato. Così ha fatto Paride scegliendo Afrodite: nel sistema gerarchico del pantheon procliano esistono dei demoni detti ∆Afrodisiakoiv che presiedono proprio la bellezza sensibile e ciò che ha la sua essenza nella materia. Nella struttura seriale degli ordinamenti divini, i demoni, anche se in maniera parziale e molteplice, conservano le proprietà degli dèi che presiedono la stessa catena e non solo ne acquisiscono il nome, per cui esistono più Atena, più Era, più Efesto, ma, in quanto analogici ai Primi Principi, sono immaginati in maniera identica ai Principi più universali61. Ecco perché si dice che chi sceglie l’immagine illusoria della bellezza ottiene comunque la protezione di Afrodite. Che il figlio di Priamo, preferendo Afrodite, abbia scelto di arrestarsi sulla soglia del mondo sensibile senza apprezzare il potere anagogico di eros, è scritto, infatti, nella scelta dell’oggetto stesso del suo amore. Anche per Proclo, come per i suoi predecessori62, i miti hanno voluto rappresentare con Elena «tutta la bellezza che ha messo il Demiurgo in questo mondo del divenire»63. Elena è il simbolo della bellezza del corpo e della bellezza di ogni cosa creata, intorno alla quale le anime, discese nel mondo sensibile, si dibattono per lunghi dieci anni per poi ritornare al luogo sopraceleste da cui si sono originate. Finanche la durata del conflitto troiano si fa, così, segno di un verità metafisica, qual è quella del viaggio dell’anima nel mondo della genesis: Questo lasso di tempo della durata della guerra l’uno (oJ mevn ti") lo dice di dieci anni (dekevth), l’altro (oJ dev) di diecimila (murievth). Ma dire l’una o l’altra cosa non fa differenza (diafevrei de; oujdevn). Infatti, è di mille anni il periodo di tempo che conduce le anime da una generazione e 60 Procl. ibi, I, 109, 1-3. Cfr. Procl. ibi, I, 91, 11 – 92, 9; 94, 5-14. 62 Cfr. supra, § 1.8, p. 51. 63 Procl. ibi, I, 175, 1-17. 61 227 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA all’altra; come le anime dopo aver vagato (kalindouvmenai) per novemila anni sulla terra (peri; gh'n) si stabiliscono nel decimillesimo anno, così si dice che esse dopo aver perseverato per nove anni nella guerra propria della generazione (tw/' peri; th; gevnesin polevmw/'), al decimo anno escono vincitori dalla tempesta barbarica e ritornano nelle loro legittime dimore (eij" ta;" sunnovmou" eJautw'n oijkhvsei")64. Omero e Platone dicono la stessa verità: il primo parla di dieci anni, l’altro di diecimila, ma ciò non fa differenza. Il racconto dell’anima che, lasciato il luogo sopraceleste, precipita sulla terra dove si appresta a vivere almeno per diecimila anni prima di ritornare al punto dal quale era partita (Phaedr. 248c2-249b6), coincide con il racconto di una guerra lunga dieci anni, combattuta da anime che, prese dall’amore per il sensibile vagano a lungo nella generazione per poi risalire, vittoriose, nel luogo della luce intelligibile. 4.2.2. Il riso e il pianto degli dèi Il terzo libro della Repubblica si apre con la censura dei passi omerici che descrivono la morte con termini spaventosi, che rappresentano gli eroi nell’atto di piangere i loro compagni caduti sul campo di battaglia. Chi ritiene che l’Ade esista e sia tremendo non può non temere la morte e preferirle in battaglia la sconfitta o l’asservimento: Per queste cose e tutte quelle del genere, pregheremo Omero e gli altri poeti di non offendersi se le [scil. tali affermazioni] cancelleremo (a]n diagravfwmen), non perché non siano poetiche e ai più piacevoli a udirsi, ma perché, quanto più sono poetiche, tanto meno vanno 64 Procl. ibi, I, 175, 21- 176, 1. Ho modificato lievemente la sintassi del testo per adattarla alla citazione. L’interesse di Proclo per la guerra di Troia è legato in queste pagine al motivo della cecità del poeta (I, 173, 1 – 177, 3). L’esegeta commenta il famoso passo del Fedro (243a4-b3) in cui Stesicoro sembrerebbe essere detto da Socrate superiore ad Omero, per aver saputo individuare nella punizione divina la causa della sua cecità e aver così ritrattato il suo racconto su Elena. Proclo spiega che la cecità di Omero è in realtà solo apparente, è definita tale dagli uomini che non hanno compreso che la vera vista è quella del mondo intelligibile, quella a cui Omero ha rivolto il suo sguardo una volta raccontata la guerra di Troia. Per un diffuso commento a tali pagine rinvio a Sheppard 1980, pp. 92-95, che imposta la sua analisi anche in rapporto al debito che tale interpretazione procliana potrebbe aver contratto con gli studi del suo maestro Siriano, probabilmente restituiti dal Commento al Fedro di Ermia che pure si sofferma su tale passo platonico (In Phaedr. 75, 26 – 76, 27) 228 IL FILOSOFO E IL POETA ascoltate dai bambini e da uomini che devono esser liberi, e quindi più spaventati dalla servitù che dalla morte65. Proclo deve una risposta a tale censura dei versi omerici66, risposta che leggiamo nelle pagine 122, 21 – 126, 4 della nostra Dissertazione. Dal momento che il divino è posto al di là del piacere e del dolore, non è per niente educativo ascoltare di Priamo, benché barbaro, rotolarsi nel fango e chiamare per nome, uno dopo l’altro, tutti i guerrieri morti in battaglia (Il. XXII, 414-415); oppure sapere di Achille, figlio di una dea, in preda al pianto, ora disteso su un fianco, ora supino, altre volte prono (Il. XXIV, 10-13), intento a cospargersi il capo di cenere e piangere come un bambino (Il. XXIV, 10-12). E seppure tale fragilità potesse mai addirsi a degli esseri umani, perché aventi natura mortale, certo non si addice agli dèi. Non c’è nulla di decoroso nel sentire Teti maledirsi, sfortunata madre del più nobile figlio (Il. XVIII, 54), o addirittura Zeus, padre degli uomini e degli dèi, preso dal pianto per Ettore (Il. XXII, 168169) e Sarpedone (Il. XVI, 431-433). Infatti tale rappresentazione (hJ toiauvth mivmhsi") degli dèi non sembra addirsi per nulla ai modelli (toi'" paradei'gmasin), poiché essa attribuisce delle lacrime a degli esseri incapaci di lacrime, degli affanni a questi dèi senza affanno, e in generale delle passioni (kai; o{lw" pavqh) a chi è impassibile (toi'" ajpaqevsin)67. Contro queste accuse di Socrate, Proclo, con la capacità analitica che gli è propria, comincia col distinguere tra dèi ed eroi. Questi ultimi sono degli uomini ejn pravxesin, rappresentati nel loro confrontarsi con imprese di più grande valore, sono eroi che agiscono in maniera passionale (kata; to; paqetiko;n ejnergou'sin) e come tali vanno rappresentati anche nel loro agire quotidiano. Sono i filosofi, 65 Plat. Resp. III, 387b1-6. Platone cita ben tredici passi dell’Iliade e dell’Odissea da cancellare nella versione ‘riformata’ che verrà diffusa nella kallivpoli" (Resp. III, 386c4-388d7). Come nota Vegetti, la questione delle pene d’oltretomba è affrontata in queste pagine in relazione alla morale politica: un’eccessiva paura per la morte ha un effetto negativo sui difensori della città. Ciò in polemica con altri passi platonici dove si insiste, al contrario, sull’attendibilità dei discorsi sull’Ade (Gorg. 523a2), come ad esempio il racconto delle pene nel mito di Er e il mito finale del Gorgia che, invece, vogliono incitare alla pratica della giustizia. Cfr. Vegetti 2007, p. 435, n. 1, commento a Resp. III, 386b4-5. 67 Procl. In Remp. I, 123, 20-23. 66 229 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA invece, e coloro che operano in maniera distaccata dalle cose (kaqartikw'" ejnergou'sin) ad essere privi di questo tipo di emozioni, a respingere ogni futilità delle cose terrene, sono loro ad aspirare a denudarsi da quei generi di vita che li imprigionano come in una rete, liberandosi dalle passioni legate alla materia e al divenire (ajpo; tw'n ejnuvlwn kai; genesiourgw'n paqhmavtwn). Per tutti quelli impegnati nella guerra, invece, sono del tutto coerenti piaceri e dolori, così come simpatie e antipatie e qualsiasi allestimento di multiformi passioni (skhnh; pantoivwn paqw'n). Priamo ed Achille non tendono certo a separarsi dalla genesis, né vivono alla maniera dei filosofi guardiani: se la loro vita non fosse tesa dai desideri, dagli appetiti più vari dove troverebbe posto la tensione per le imprese belliche?68 Dunque, la nobiltà delle loro azioni si addice alla loro natura eroica, ma l’emotività si addice al fatto di essere rappresentati nel loro vivere quotidiano. Ma come si spiegano le lacrime degli dèi, esseri davvero lontani dalle passioni? Omero è erede di una tradizione antica, di una modalità espressiva (trovpo") secondo la quale si era soliti indicare la provvidenza degli dèi sulle questioni degli uomini attraverso il loro pianto. Questa è la risposta dell’esegeta di Atene. Dal momento che l’oggetto della provvidenza, cioè il mondo dei mortali, è per natura degno di lacrime, i mitoplasti hanno creduto di poter nascondere (aijnivttesqai) dietro le lacrime la provnoia divina. Come spesso accade nell’esegesi procliana, è la sapienza orfica a validare tale interpretazione allegorica. Il fr. 354 K. così recita: Le tue lacrime sono la stirpe miserabile dei mortali. Proclo parla di una tradizione mistica secondo la quale le lacrime sarebbero appunto suvmbola th'" pronoiva" che dagli dèi discende verso gli uomini. Dagli dèi giunge agli esseri particolari una sorta di preconoscenza (promhvqeia), una sorta di dono, di distribuzione delle parti (dovsi"); ora, quando l’ordine universale coincide con questa provvidenza particolare, l’attività soterica e benefica del dio agisce senza ostacoli; quando, invece, questa provvidenza è in contrasto con 68 Retoricamente superbo il linguaggio procliano qui impiegato: «kai; pw'" a[n hJ peri; ta;" pravxei" suntoniva cwvran e[coi, mh; kai; tw'n ojrevxewn ejpitetamevnwn:», In remp. I, 124, 14-15. Festugière chiude con un punto e virgola dove Kroll edita con punto in alto. 230 IL FILOSOFO E IL POETA l’ordine stabilito, allora il mito dice che il dio agisce lamentandosi e non lo rappresenta in preda a forti urla, perché è il lamento ad essere il suvnqhma, il simbolo misterico della provvidenza particolare su un certo particolare individuo. Rimanendo sul piano mistico-teurgico Proclo parla di rivelazioni misteriche (aiJ teletaiv) che hanno rivelato in segreto i lamenti di Cora, Demetra e della «grandissima dea»69. Omero e la più antica tradizione arcaica coincidono, Omero e la più oscura forma di contatto diretto col divino dicono la stessa verità, rappresentano la reale natura delle cose divine e umane. Come gli dèi di primo livello anche le divinità che sono più direttamente in contatto con gli uomini, come demoni e ninfe, esprimono la loro cura per gli umani attraverso le lacrime. Questa volta è un poeta dotto del calibro di Callimaco ad essere citato dal nostro altrettanto dotto esegeta: Le ninfe piangono quando non ci sono più foglie sulle querce le ninfe al contrario gioiscono quando la pioggia fa crescere le querce70. Un’intima sumpavqeia lega tutti gli elementi del reale, dal divenire della natura alle azioni quotidiane degli uomini, dai demoni agli dèi, dagli dèi all’ordine universale. Le lacrime ne sono un’immagine, un segno poetico della provvidenza che ciò che è superiore nutre su ciò che è inferiore. Infatti – conclude Proclo – ogni cosa si trova in modo divino presso gli dèi, in modo parziale e demonico negli specifici demoni che vegliano su di noi71. Una volta persuaso Adimanto a cancellare i versi omerici inadatti all’educazione dei giovani a causa dei lamenti attribuiti a dèi e ad eroi, Socrate non tralascia di censurare anche quei versi in cui si rappresentano uomini degni di nota presi dal riso, e ancor più se si tratta di dèi, poiché un riso violento tende a 69 Proclo impiega l’espressione megivsth qeav che è da attribuire alla divinità orfica Themis-Ananke. cfr. Boyancé 1972, p. 53, n. 3. 70 Callim. Hymn. 4, 84-85. 71 Procl. In Remp. I, 126, 2-4. 231 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA provocare un violento mutamento (metabolhv)72. Il passo inquisito citato da Platone (Resp. III, 389a4-5) e oggetto dell’esegesi procliana73 è Il. I, 599-600: Inestinguibile scoppiò il riso fra gli dèi beati, quando videro Efesto dimenarsi affannato per la sala74. Nella tradizione mitica Efesto è, come si sa, l’artigiano del cosmo, è il dio che materialmente ha fabbricato il mondo, comprese le dimore celesti degli dèi75; è eforo dell’arte di lavorare i metalli e infatti il mondo, in più luoghi dei poemi omerici76, è detto essere fatto di bronzo. Nella sua fabbricazione dell’universo Efesto è coadiuvato, quanto al mondo sensibile e alle anime particolari, dagli dèi giovani. Lo dice Platone nel Timeo: questi sono predisposti al completamento della produzione dell’anima aggiungendo a quella razionale le parti passionale e appetitiva (Tim. 42d5-e4). Gli dèi giovani lavorano, così, con ciò che è in continuo movimento e che è degno di un gioco (paidia'" ajxivwn) – interpreta Proclo: ecco il motivo per cui il carattere particolare della provvidenza divina, che ha a che fare con il mondo sensibile, i mitoplasti hanno l’abitudine di chiamarlo «sorriso» (gevlwta). Quando allora Omero dice che tutti gli dèi ridevano di un riso inestinguibile vedendo Efesto agitarsi, ciò che egli vuole rappresentare è che questi dèi collaborano con Efesto nella sua arte di fabbricazione, che essi 72 Ricordiamo che Plotino in Enn. VI, 7 [38], 30, 29 elenca espressioni del tipo «il padre sorrise» tra gli usi metaforici del linguaggio poetico. Cfr. supra, § 1.5, p. 36. 73 Proclo ne parla anche in In Tim. I, 3, 27, 16 ss. 74 La traduzione è di Cerri. Sostituisco, però, l’aggettivo «irrefrenabile» con cui il grecista traduce a[sbesto". Credo infatti che «inestinguibile» esprima meglio l’etimologia del termine composto da aJprivativo e la radice *sbe- del verbo sbevnnumi «spegnere» e si adatti di più all’esegesi di Proclo, che giudica il riso degli dèi come incessante più che «smodato», «senza freni». 75 Cfr. Hom. Il. I, 607-608. Proclo dà una spiegazione bizzarra ma forse interessante dell’epiteto con cui tradizionalmente Efesto viene appellato, e cioè l’aggettivo ajmfiguhvei" (cfr. per es. Hom. Il. XVIII, 383; Hes. Op. 70; Theog. 945; Scut. 219). Il significato è ancora discusso. Lo scolio ad locum e i lessicografi antichi (cfr. Hesychii Lexicon, a 69 Latte s. v. ajmfiguhvei") lo interpretano nel senso di «sciancato», «storpio da entrambi i piedi»; così lo intende anche Chantraine s.v. guvh, pp. 240-241, che collega l’aggettivo, per ragioni metriche, a ajmfivguo", «à deux points flexibles» (detto della lancia): letteralmente significherebbe «aux deux pieds retournés en dehors». Altri lo intendono come «ambidestro», cioè «capace di lavorare con entrambe le mani», collegandolo con gui'a, «membra»; altri ancora suggeriscono «colui che usa la doppia ascia» con riferimento alla scure bipenne con cui il dio è spesso raffigurato. Per la bibliografia cfr. Cerri - Gostoli 1999, p. 166, n. 607. Proclo, seguendo gli interpreti antichi, intende l’epiteto come «zoppo da entrami i piedi», perché in fondo anche il prodotto del suo lavoro è privo di gambe: «infatti ciò che è mosso dal movimento più vicino al pensiero e all’intelligenza, non ha bisogno di piedi, come dice Timeo (Plat. Tim. 34a1-7)»: In Remp. I, 126, 27 – 127, 1. 76 Cfr. Il. V, 504; XVII, 425; Od. III, 2. 232 IL FILOSOFO E IL POETA completano questa costruzione e che dall’alto fanno da fornitori, da dispensatori del buon ordine per l’intero universo. Prima Efesto costruisce tutte le dimore cosmiche degli dèi e mette a disposizione della loro attività provvidenziale l’insieme di tutte le potenze fisiche, poi gli dèi giovani dal canto loro, agendo con la facilità che è loro propria e senza allontanarsi da quella buona sensibilità (eujpavqeia) a loro connaturata, diffondono a queste potenze fisiche le sorti di ciascuna di esse e muovono l’universo attraverso la loro azione provvidenziale che conduce tutto a perfezione. Per riassumere, bisogna definire riso degli dèi quell’influenza generosa che essi esercitano sul Tutto e quella causa del buon ordine delle realtà cosmiche. Inoltre, poiché la provvidenza di questo tipo non si arresta mai e la distribuzione delle sorti che si fa presso gli dèi è inesauribile, bisogna convenire che il poeta ha chiamato a buon diritto tale riso «inestinguibile»77. La poesia coglie davvero la natura delle cose; il mito non dice che gli dèi piangono di continuo, ma che essi ridono di un riso incessante e questo perché le lacrime sono segni (sunqhvmata78) della provvidenza divina sulle cose mortali e periture, che a volte sono, a volte non sono, mentre il riso simboleggia l’influenza che gli dèi esercitano sul Tutto, che è mosso sempre da un movimento identico e che compone nella sua pienezza l’Universo. Ecco perché il riso e il pianto appartengono ai due abitanti dell’universo, il primo agli immortali, il secondo ai mortali. Proclo può, così, completare la splendida citazione del frammento orfico prima solo accennata: Le tue lacrime sono la razza miserabile dei mortali, ma è con un sorriso che hai fatto germogliare la stirpe sacra degli dèi79. 77 Procl. In Remp. I, 127, 24-29. Bouffartigue 1987, p. 135 fa giustamente notare che, sebbene sia suvnqhma che suvmbolon siano termini entrambi appartenenti al lessico teurgico, il primo viene utilizzato da Proclo solo per indicare il referente simbolico - in questo caso le lacrime degli dèi – mentre il secondo designa anche il discorso mitico: symbolon è il mito e l’immagine mitica. 79 Orph. Fr. 354 K., citato in Procl. ibi, I, 128, 8-10. 78 233 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA Ancora una volta il mito e la teurgia compiono lo stesso cammino. Il filosofo licio lo aveva già spiegato nella parte introduttiva di questo trattato sulla poesia: la catena seriale che lega il più misero degli esseri viventi al demone che veglia sulla sua vita terrena e poi al dio che presiede all’intera catena fa in modo che a ciascuno degli enti sia appropriato un preciso racconto mitico, nelle azioni e nelle parole rappresentate. Da una parte, dunque, l’oscenità, l’apparentemente turpe, dall’altro la verità di ciò che è oltre la Bellezza; da una parte il senso nascosto, dall’altra l’abito allegorico del racconto. Tale duplicità appartiene al mito come alla teurgia e infatti i padri delle leggi sacre (oiJ tw'n iJerw'n qesmw'n hJgemovne") hanno stabilito giorni dedicati alle lamentazioni, e giorni dedicati al riso, i primi agli esseri sublunari, i secondi a quelli celesti80. È per la stessa ragione81 che gli insensati non avranno conoscenza né dei riti compiuti nel segreto presso i teurgi, né dei racconti mitici di questo tipo. Infatti, essere messi al corrente sia di questi riti che di questi racconti, se non si è provvisti di conoscenza scientifica (a[neu ejpisthvmh"), produce nelle vite dei più uno sconvolgimento terribile e mostruoso (deinh;n kai; a[topon suvgcusin) della pietà per gli dèi82. Si ristabilisce la via di ascesa verso l’Uno, segnata prima dall’esercizio dialettico e poi approdata alle esperienze mistiche di assimilazione e contemplazione del divino. Solo chi ha praticato la filosofia può accedere, da iniziato, tanto alla pratica rituale quanto all’illuminazione poetica. Come vedremo nelle pagine successive, Proclo dimostra la piena aderenza degli insegnamenti platonici a quelli omerici; solo una differenza del procedimento argomentativo utilizzato, quello platonico essendo scientifico, quello omerico essendo simbolico, definisce il diverso pubblico cui le due modalità di espressione della verità sono destinate, e il diverso grado di approssimazione all’Uno83. La poesia è superiore alla filosofia in quanto è l’ultima tappa di ritorno al Principio che coincide con 80 Cfr. Procl. ibi, I, 78, 14-18. In greco troviamo una costruzione frequente in queste pagine procliane: al nominativo «oJ aujto;" trovpo"» segue l’infinitiva «mhvte … tou;" ajnohvtou" ejpai?ein»; ho tradotto seguendo Festugière: «Et il y a même raison pour que les insensés n’aient connaissance». Cfr. anche In Remp. I, 119, 1-2 e 161, 9-11 dove si trova: «oJ aujto;" lovgo"...tau'ta (”Omhron) ejkbavllein». 82 Procl. ibi, I, 128, 19-23. 83 Procl. ibi, I, 158, 30 – 159, 6. Per il commento a tale passo cfr. infra, pp. 239-240. 81 234 IL FILOSOFO E IL POETA l’unione mistica, ma essa è subordinata alla filosofia perché solo al filosofo è possibile cogliere il valore analogico e rappresentativo delle immagini mitiche, come dei segni misterici, per risalire da queste immagini e da questi segni al primissimo paradigma. 4.3. Omero maestro di verità Il secondo libro della sesta Dissertazione si apre con un cambio di prospettiva84. Se nella prima parte del suo trattato Proclo aveva difeso Omero dalle accuse di Platone, mostrando praticamente come una lettura corretta dei miti arcaici vanificasse l’intera impalcatura della condanna socratica alla poesia, ora l’esegeta tardo neoplatonico si rivolge direttamente a Platone per andare invece alla ricerca della presenza omerica nei suoi dialoghi. Un familiare, un amico, un’autorità è Omero per Platone, in molti luoghi se non in tutti; il filosofo lo chiama a testimone dei suoi principi, a volte prima delle dimostrazioni (tovte me;n pro; tw'n ajpodeivxewn), attribuendo ad Omero come ad un oracolo divino (wJ" eij" qeivan fhvmhn ajnafevrwn) la verità di ciò che si appresta a dimostrare, a volte dopo le dimostrazioni (tovte de; meta; ta;" ajpodeivxei"), mostrando, attraverso il giudizio di Omero, che il rigore scientifico del suo argomento è irrefutabile (ajnevlegkton), altre volte ancora nel mezzo della sua discussione sugli enti, facendo risalire ad Omero (ejp∆ aujto;n ajnapevmpwn) il principio di tutta la sua dottrina (th;n th'" qewriva" aJpavsh" ajrchvn)85. Con la consueta sistematicità cui ormai siamo abituati, Proclo riprende i luoghi imputati, dialogo dopo dialogo, e cioè il Fedone, le Leggi, il Minosse, il Gorgia, l’Apologia, il Simposio e lo Ione. Nel Fedone Platone considera Omero proshvgoro" e fivlo" sulla questione dell’anima. Proclo ha in mente il passo 94c9 – 95a3 dove a dimostrazione del fatto che l’anima non possa considerarsi un’armonia di diversi elementi, Socrate cita il famoso passo dell’Odissea XX, 17-18 in cui l’eroe omerico, alla vista dei 84 «Pavlin de; au\ ajp∆ a[llh" ajrch'" deiknuvwmen»: così Proclo riprende a discutere nuovamente sull’argomento, ma da un altro inizio, In Remp. I, 154, 16. 85 Cfr. Procl. ibi, I, 154, 3 – 155, 1. 235 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA Proci che impazzano ad Itaca, reprime la sua collera rimandando la vendetta86. Se l’anima fosse un accordo di più elementi, non potrebbe opporsi alle componenti da cui risulta, come invece accade come quando guida o contrasta le passioni, e prova ne è l’autorità omerica. Nelle Leggi (III, 680b1-d5) Omero è mavrtu", testimone dell’esistenza storica della costituzione patriarcale (dunasteiva) presso i Ciclopi (Od. IX, 112-115); egli ha saputo ricondurre, attraverso il mito, gli antichi costumi degli eroi monoftalmi alla loro indole selvaggia. «È vero, rende questa testimonianza, anzi prendiamolo pure come rivelatore del fatto che simili ordinamenti possono esistere»87, afferma l’Ateniese. Ebbene, quanto Omero dice a proposito del patriarcato dei Ciclopi e della fondazione di Dardania è sicuramente corretto, secondo Proclo, perché rivelato dagli dèi. Infatti dopo aver citato i versi 216-218 di Il. XX, in cui Omero racconta proprio della fondazione della città di Dardano anteriore a quella di Ilio, così parlava l’Ateniese: In questi versi e in quelli relativi ai Ciclopi egli si esprime quasi come un dio e secondo natura (kata; qeovn pw" eijrhmevna kai; kata; fuvsin): divina è la stirpe dei poeti (qei'on...to; poihtikovn) e cantando inni ispirati (ejnqeastiko;n o]n gevno" uJmnw/dou'n) percepisce (ejfavptetai) ogni volta con l’ausilio delle Grazie e delle Muse (suvn tisin Cavrisin kai; Mouvsai") la logica di molti eventi (pollw'n tw'n kat∆ ajlhvqeian gignomevnwn)88. Platone mostra più volte di prendere direttamente da Omero delle notizie sugli eroi del mito e di farvi affidamento. Ciò accade per esempio nel Minosse dove il filosofo cita esplicitamente un verso dell’Odissea, in particolare della Nevkuia di Odisseo, in cui Minosse viene rappresentato nell’atto di rendere giustizia ai morti tenendo in mano uno scettro d’oro (Od. XI, 569). Quello scettro – spiega Platone – non è nient’altro che il 86 Così si esprime Omero, parlando di Odisseo: «E battendosi il petto, redarguiva il suo cuore: ‘Cuore, sopporta! Sopportasti ben altra vergogna’». La traduzione è di Privitera 1981. Lo stesso passo odissiaco è citato da Platone anche in Resp. III, 390d4-5 come esempio di fermezza (karteriva) e in IV, 441b6 come prova dell’indipendenza della parte razionale dell’anima da quella collerica, parte quest’ultima che nel Timeo 70a2-c1 viene localizzata tra il collo e il diaframma, come suggerisce anche il passo omerico. 87 Plat. Leg. III, 680d4-5. 88 Plat. ibi, III, 682a1-5. Lo stesso passo è citato poco più avanti (I, 185, 8 – 186, 21) quando Proclo deve descrivere la natura ispirata della poesia. Cfr. infra, p. 255. 236 IL FILOSOFO E IL POETA programma educativo col quale Minosse ha regnato su Creta (Min. 320d5-6). Anche nell’incipit delle Leggi (I, 624a7-b3) Omero viene evocato come fonte mitica che fa risalire l’ordinamento delle leggi cretesi a Zeus presso il quale l’illustre suo figlio, Minosse, si recava ogni nove anni per poi istituire le leggi secondo gli oracoli che riceveva89. E in generale ovunque (pantacou') [Platone] giudica di poter apprendere da Omero la verità sugli eroi (th;n peri; tw'n hJrwvwn ajlhvqeian par∆ ÔOmhvrou dokimavzei manqavnein)90. Proclo ricorda poi il Gorgia e il mito finale sul giudizio delle anime dopo la morte (Gorg. 523a-527e); ricorda come il racconto di Socrate prenda le mosse proprio da Omero. ”Wsper ga;r ”Omhro" levgei, «Come dice Omero»: così inizia quel discorso che può sembrare una di quelle favole che le vecchiette raccontano ai bambini (Gorg. 577a5-6), ma che invece ha un profondo contenuto di verità91. Platone prende da Omero i riferimenti ai giudici infernali (Od. XI, 568-571), alla spartizione del dominio di Crono tra Zeus, Poseidone e Plutone (Il. XV, 187-193), spartizione che in termini tutti neoplatonici Proclo chiama «processione, a partire dallo stesso padre, delle tre monadi demiurgiche, I, 156, 27-28». L’Apologia e il Simposio sono poi dei chiari segni di venerazione e approvazione di Platone nei confronti del poeta arcaico. L’esplicita dichiarazione socratica di voler ritrovare Omero, Esiodo e Orfeo dopo la morte (Apol. 41a6-7), dimostra che Omero era veramente esperto delle cose divine, era in possesso di ogni virtù e conoscenza, altrimenti Platone non l’avrebbe mai presentato come degno di emulazione. Allo stesso modo, nel Simposio sono i poeti a ‘generare nell’anima’, secondo il discorso di Diotima riportato da Socrate, sono loro i padri di una creazione migliore di quella del corpo, e Omero ed Esiodo sono oggetto 89 Cfr. Hom. Od. XI, 568 e XIX, 178-179. Si veda anche Plot. Enn. VI, 9 [9], 7, 23-26 in cui il caso di Minosse e della costituzione delle leggi cretesi è preso ad esempio di contemplazione divina da parte di un dio di livello inferiore, in questo caso Minosse, rispetto a uno di livello superiore, in questo caso Zeus. 90 Procl. In Remp. I, 156, 20-22. 91 «Ascolta dunque questo discorso davvero bello che tu riterrai probabilmente una favola, mentre io sono convinto che si tratti di una storia vera»: Plat. Gorg. 523a1-4. La traduzione è di Scaglietti 1993. Sui miti platonici cfr. Ferrari 2006, in particolare pp. 46-51 sui miti riguardanti l’anima, e Destrée 2012, in particolare sul mito gorgiano pp. 165-198. Proclo tralascia, in questo contesto, ogni riferimento al mito di Er, l’altro grande mito escatologico del finale della Repubblica perché è oggetto di studio dettagliato nella Dissertazione XVII del suo Commentario. 237 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA d’invidia proprio per la loro genitura, che conferisce loro gloria e immortalità (Symp. 209a4; 209c7-d4). Da ciò è evidente che Platone è ben lontano dal pensare che questi poeti e tutti quanti siano ispirati dagli dèi – perché è in quest’ultimo elemento che va trovato il valore della poesia, precisa Proclo – siano lontani tre volte dalla verità92 e non offrano che un’immagine illusoria del reale. Infine lo Ione: il filosofo licio cita l’inizio del dialogo platonico, proprio quella dichiarazione di stima fatta da Socrate a Ione, aedo eccellente, e ad Omero, suo maestro. Dichiarazione considerata dalla critica assolutamente ironica perché risulterebbe smentita dal proseguire dell’argomentazione. Socrate dichiara di provare invidia per Ione e per i rapsodi in generale, perché essi possono stare in contatto con i poeti, e tra tutti con Omero, che è il migliore e il più divino dei poeti (tw/' ajrivstw/ kai; qeiotavtw/ tw'n poihtw'n), così da apprendere il suo pensiero (th;n touvtou diavnoian ejkmanqavnein), non solo le sue parole (mh; movnon ta; e[ph)93. Ebbene, quella che poi si dimostrerà essere una falsa conoscenza trasmessa all’aedo per ispirazione, viene presa alla lettera da Proclo il quale interpreta la zhvlwsi" di Socrate nei confronti di Ione come un segno della reale sapienza del poeta arcaico: Nello Ione, tra gli altri elogi che Platone riserva a questo poeta, gli raccomanda di frequentare il più possibile Omero (panto;" ma'llon aujtw'/ suggenevsqai) e approfittare dei suoi consigli pieni di intelligenza e di scienza (th'" noera'" aujtou' kai; ejpisthmonikh'" uJfhghvsew")94. Omero, dunque, l’Omero dei dialoghi platonici è un poeta in accordo con il filosofo (proshvgoro"), è sua guida e suo maestro; maestro dei suoi principi e di quelli più importanti. Se a proposito degli dèi, della triplice distinzione demiurgica, delle lotte infernali, della questione dell’anima Platone fa risalire ad Omero la causa prima della sua speculazione, se lo chiama il più divino di tutti i poeti e lo dice degno di essere emulato da tutti quanti amino la virtù, se Socrate aspira, dopo la morte, a discorrere con lui, non è possibile non credere che il 92 Plat. Resp. X, 597e7. Cfr. Plat. Ion. 530b5-c7. 94 Procl. In Remp. I, 158, 3-6. 93 238 IL FILOSOFO E IL POETA filosofo di Atene abbia sicura stima del poeta della tradizione arcaica, che accolga con favore la sua poesia e che si appropri del suo giudizio sulla realtà. Non esiste disaccordo tra Platone e l’insegnamento omerico: Platone non è il suo accusatore (kathvgoro"), piuttosto è suo allievo, da lui ha appreso la verità. C’è una ragione fondamentale che giustifica una riscrittura neoplatonica di questo tipo. Non è possibile credere che Omero sia quel poeta lontano tre volte dalla verità descritto nella Repubblica, che sia quel poeta, al pari dei sofisti, eijdwlopoiov"95, produttore di sole immagini illusorie, perché la poesia è direttamente in contatto con gli dèi, e il suo legame con la natura divina è garanzia di conoscenza somma. È nel suo essere insufflata dagli dèi il principio della sua salvezza e questo Proclo lo spiegherà meglio nei capitoli successivi, sforzandosi di trovare un rimedio, un’armonia tra il poeta imitatore e il poeta entusiasta. Se Omero e Platone raccontano la stessa verità, a volte anche nella stessa veste mimetica, rappresentativa, la filosofia utilizza, però, a differenza della poesia, uno strumento più esplicito e irrefutabile per rendere chiari quegli stessi insegnamenti ad un pubblico più vasto, e cioè l’ajpovdeixi", la dimostrazione logica, coglibile da tutti quanti esercitino la filosofia, e non solo dagli iniziati al disvelamento mistico delle cose. E in effetti è in quanto ispirato dagli dèi (ejnqousiavzwn) e trasportato dal delirio delle Muse (ajnabakceuovmeno"), che Omero ci insegna (hJma'" ajnadidavskei) le cose divine e umane. Questi stessi insegnamenti (tau'ta) Platone li ha stabiliti in maniera solida (katedhvsato) attraverso il metodo irrefutabile del ragionamento scientifico (tai'" ajnelevgktoi" th'" ejpisthvmh" meqovdoi"), e, attraverso le dimostrazioni (dia; tw'n ajpodeivxewn), li ha resi più chiari (ejnargevstera katevsthsen) alla maggior parte di noi (toi'" polloi'" hJmw'n), che abbiamo bisogno proprio di questo aiuto (oi} kai; th'" toiauvth" deovmeqa bohqeiva") per comprendere il reale (eij" th;n tw'n o[ntwn katanovhsin)96. È in questo senso allora che possiamo considerare la poesia come una via di accesso inferiore alla filosofia, come scrive Proclo nella quinta questione della 95 96 Plat. Soph. 239d3. Procl. In Remp. I, 158, 30 – 159, 6. 239 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA quinta Dissertazione; inferiore non nel senso di una minore approssimazione al vero, a cui invece si avvicina per diretto contatto con il Principio Primo, ma nel senso di una subordinata inclusione di quel contenuto veritativo all’interno della dialettica filosofica, dialettica che più di essa riesce a dare ragione di questi stessi insegnamenti, e che soprattutto è fuori da una restrizione esoterica del sapere97. La poesia di Omero, è vero, è inadatta (ajnavrmosto") ai giovani, ripete più volte Proclo. Lo è perché ha coperto la semplicità divina con dei velamenti multiformi che non si addicono ai dei giovani educandi che invece devono tenere lontana la loro anima da ogni forma di poikiliva, da tutto ciò che è contrario al bello e al buono, per guardare solo alla virtù. La poesia omerica ha costruito degli schermi fatti di apparenti oscenità e di brutture contro natura, schermi che mascherano la verità sovreminente del divino e la realtà che è al di là della bellezza98, e così si è resa inadatta a giovani che aspirano alla perfezione nella loro prima fase educativa99. Ma tutto ciò non è sufficiente ad escludere dalla filosofia platonica la dottrina di Omero, a meno di non rassegnarsi a separare dagli argomenti scientifici di Platone la maniera con cui Platone stesso tratta alcuni di questi stessi argomenti. È Proclo ad esprimersi in questi termini: Platone utilizza a volte gli stessi strumenti mimetici utilizzati da Omero, come quando permette al sofista Trasimaco di rivolgersi a Socrate con parole del tipo «Sei disgustoso, Socrate»100, oppure quando permette a Callicle di chiamare ‘stupidi’ i saggi101, oppure ancora quando per bocca di Socrate chiama ‘bene’ il piacere e ne dimostra la correttezza102. Tutte queste incongruenze sono dovute alla mivmhsi" tw'n hjqw'n – spiega Proclo – alla rappresentazione dei caratteri, alla modalità dialogica della 97 Cfr. Procl. Theol. Plat. I, 28, p. 121, 11-14 in cui Proclo distingue nella scrittura platonica tra una maniera mitica, che segue quella dei qeolovgoi, ovvero dei poeti ispirati, di raccontare la generazione degli dèi, come quella di Afroditre e di Amore in Symp. 203c2-3, che è una ‘generazione in senso cronologico’, e una maniera intellettiva che celebra invece il carattere ingenerato degli dèi, come in Phaedr. 245c7-d3 e Tim. 41a7-b6. 98 Sulla ulteriorità del Principio Primo rispetto al bello che invece appartiene al livello dell’essere cfr. supra, 3.5.3, p. 182, n. 166. 99 Cfr. Procl. In Remp. I, 159, 10-19. 100 Plat. Resp. I, 338d3. 101 Plat. Gorg. 491e2. 102 Plat. Prot. 351c1. 240 IL FILOSOFO E IL POETA scrittura platonica che non narra, non spiega, ma mette in scena i personaggi103. È necessario che i discorsi rivolti ai giovani siano uniformi (monoeidei'"), che gli insegnamenti siano semplici e non mescolati a disposizioni contrarie, che siano privi di ogni ambiguità; invece, la stessa rappresentazione dei personaggi del dialogo, le variazioni multiformi dei suoi principi, le svariate argomentazioni degli agoni dialettici non si addicono a questo tipo di educazione che s’ispira alla sola semplicità e univocità d’insegnamento, separata da qualsiasi forma di immaginazione (fantasiva) e di raffigurazione illusoria (ei[dwlon). Se dunque, questa ricerca, anche in Platone, modella (ajpotupou'tai) stili di vita di ogni genere, se attribuisce a ciascuno il linguaggio che gli è proprio, se ciascuno parla liberamente come sulla scena (w{sper ejn skhnh/'), il saggio e lo stupido, l’assennato e il dissoluto, il più giusto e il più ingiusto, il vero sapiente e il sofista, se si accende ogni tipo di dibattito tra i principi filosofici, e rispetto a quelli che sostengono il vero in qualche modo sono più persuasivi quelli che difendono le posizioni opposte, come potrebbe tutto ciò trovare il suo posto presso il legislatore di questa città platonica che è semplice e intellettiva? E Platone come non subirebbe la stessa sorte dei poemi di Omero?104 Se si caccia dalla città giusta Omero, si è dunque costretti a cacciare anche Platone: entrambi utilizzano l’arte mimetica per esprimere gli stessi insegnamenti 103 Da perfetto drammaturgo Platone è attento a presentare i fatti nella loro successione temporale in maniera molto chiara e ad attribuire ai singoli personaggi il modo di esprimersi e di vivere appropriato al carattere, all’età, alle situazioni, alle occupazioni, all’estrazione sociale di ciascuno. Nella prima Dissertazione del suo commento al dialogo, nel presentare la forma dialogica degli scritti platonici che abbiamo ricordato sopra essere di tipo misto (cfr. § 3.4.1, p. 152, n. 69), l’esegeta, prendendo a modello la struttura drammatica della Repubblica, detta le regole della perfetta mimesis: «La narrazione … ha bisogno di due qualità specifiche: ben chiara distinzione (eujkrineiva") dei personaggi (tw'n proswvpwn) e dei fatti (kai; pragmavtwn) ed al contempo precisione nella presentazione (ajkribeiva" eij" paravstasin) – per esempio che Socrate scese al Pireo, pregò la dea, assistette alla festa e apprezzò tanto la processione organizzata dalla città quanto quella fatta dagli stranieri, e, mentre stava tornando a casa, di nuovo si voltò indietro e tornò nella casa di Polemarco e vide Cefalo ed i suoi ospiti, e tutti gli elementi narrativi di questo genere che riguardano il racconto (iJstorivan) dell’incontro; d’altro canto nel caso dei discorsi di ciascun personaggio la rappresentazione (mivmhsi") si costruisce nel modo più accurato: da un lato, per quelli che parlano come persone anziane, dall’altro, per quelli che parlano ricorrendo alle favole, per quelli che parlano come dei sofisti; e si deve fornire a ciascun personaggio il tipo di conoscenza (gnw'sin) e il modo di vivere (zwhvn) che gli sono appropriati (oijkeivw" eJkavstoi"). Infatti mantenere il criterio della convenienza (to; prevpon) in questi discorsi è proprio della rappresentazione più perfetta (th'" ajkrotavrh" ejsti; mimhvsew")»: Procl. In Remp. I, 14, 29 – 15, 13. La traduzione è di Abbate 2004, lievemente modificata. 104 Procl. In Remp. I, 160, 25 – 161, 7. Per i riferimenti alle scene platoniche e omeriche cfr. rispettivamente Phaed. 117d3-4 e Il. XIX, 4-5. 241 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA sull’essere105. Li si può allora considerare guide e archegeti della migliore forma di vita, biasimando però l’elemento mimetico, to; mimhtikovn, che vi è in entrambi, wJ" ajllovtrion, come qualcosa di estraneo alla perfezione di una dottrina semplice e virtuosa. La forma dialogica dell’opera platonica è modellata sulla tecnica mimetica di Omero e hanno entrambe la stessa immediatezza descrittiva (ejnavrgeia): In effetti l’arte mimetica (hJ mivmhsi") di questi autori smuove in ogni modo la nostra immaginazione (th;n fantasivan hJmw'n), muta le nostre opinioni e le cambia come cambiano i fatti messi sotto i nostri occhi, sicché molti piangono insieme con Apollodoro mentre scoppia in singhiozzi, molti con Achille mentre si lamenta sul suo caro Patroclo, e, anche dopo tanto tempo, soffrono allo stesso modo di coloro che furono presenti ai fatti. Nemmeno noi, in effetti, abbiamo l’impressione di essere assenti da ciò che accade, grazie alla vivida impressione (dia; th;n ejnargh' fantasivan) che si genera dalla mimesi (ejk th'" mimhvsew")106. Mi sembra di poter sottolineare come Proclo possa veramente fondare le basi certe di quella nuova prospettiva interpretativa che si sta imponendo ormai tra gli studiosi negli ultimi decenni, una prospettiva che ha segnalato quantomeno la complessità del discorso sulla mivmhsi" in Platone, dimostrando come non sia possibile escludere la poesia arcaica dalla kallivpoli" senza trovarsi di fronte alla facile contraddizione costituita dalla forma drammatica, teatrale del dialogo platonico107. 105 In In Crat. XIV, 5, 17 Proclo non solo definisce Platone «oJ mimhtikwvtato"», ma ne dà anche una sottile e ricercata motivazione. L’esegeta si sofferma sulla prima parola del dialogo platonico oggetto del suo commento, cioè «bouvlei», e spiega che volutamente Platone mette in bocca ad Ermogene come prima parola il «vuoi» riferito a Cratilo. Cratilo è filosofo scientifico, glossa il Diadoco di Atene, e in quanto eracliteo, crede di non poter raggiungere le cose prima che non siano già cambiate e perciò si sforza di afferrarle in anticipo, egli è filosofo della volontà. Ad Ermogene, invece, filosofo dell’opinione, che ascolta le opinioni degli altri e che introduce nel dialogo l’idea dei nomi posti per convenzione, Platone fa rivolgere da Cratilo le parole «Ei[ soi dokei'», «se ti pare», «se ti sembra opportuno», in maniera assolutamente coerente con la natura del personaggio, essendo l’apparire il linguaggio tipico dell’ambiente sofistico cui Ermogene rimanda in questa parte del dialogo platonico. 106 Procl. In Remp. I, 163, 27 – 164, 7. 107 Sulla intrinseca contraddittorietà di Platone, critico della poesia drammatica e autore egli stesso di una scrittura che in quanto dialogica è drammatica anch’essa, rimando a Latona 2004 che offre anche una panoramica delle diverse posizioni degli studiosi moderni sull’argomento (pp. 182-183, note 2 e 3). Illuminante in tal senso è lo studio di Palumbo 2008a, teso tutto a dimostrare proprio come la mivmhsi" trovi 242 IL FILOSOFO E IL POETA Proclo cerca una soluzione a tale contraddizione e la trova, ancora una volta, nel carattere seriale della natura dell’essere. C’è una protivsth kai; oujraniva108 politeiva, una primissima e celeste costituzione, che appartiene al livello più alto dell’essere, quella di cui si può predicare solo la semplicità, l’uniformità, la verità e l’autosufficienza. È la città dove non esiste proprietà privata, né della terra né dei figli rispetto ai propri padri, è la città da cui è esclusa qualsiasi forma di perversione o di incantesimo esteriore. E poi c’è la città di secondo e terzo livello, quella di cui Platone dispone le regole per la divisione delle terre, per l’educazione dei figli lasciati ai propri genitori, in cui si stabilisce il ruolo educativo dell’ubriachezza. Questa città, quella della Leggi, è un’immagine del modello descritto nella Repubblica. Come non è possibile attribuire alle Forme intelligibili, che sono modelli degli enti sensibili (paradeivgmata tw'n o[ntwn), l’aspetto esteriore, la grandezza, il colore e tutte le altre qualità che si addicono alle immagini di queste Forme (tai'" touvtwn eijkovsin) ma non ai generi primari, così non è ammissibile che a personaggi nati nella migliore delle città e perfezionati dalla migliore educazione si concedano nei discorsi delle rappresentazioni e delle forme di ogni genere di vita e una scena drammatica (skhnhv) delle variegate passioni proprie degli uomini della città di secondo e terzo rango. nei dialoghi di Platone la forma migliore della sua potenza produttiva, che è quella filosofica: nella natura drammatica dei suoi dialoghi, Platone costruisce immagini, e immagini che sono quanto di più vicino alle idee, ancor più delle cose del mondo, immagini che non sono affatto ad una tripla distanza dal vero, ma si collocano invece rispetto ad esso ad una distanza «rispetto alla quale nessun’altra distanza è immaginabile come inferiore (p. 22)»: «L’importanza immensa della mimesis nei dialoghi di Platone … sta nel fatto che i dialoghi stessi sono mimesis della filosofia, ed essa, la filosofia, nei dialoghi, è rappresentata come quel modo di vivere e di pensare che riconosce il mondo e il pensiero come mimesis dell’idea. Tutto è rappresentazione dell’idea, ma non tutto dell’idea è rappresentazione adeguata. […] Solo facendo passare le cose – i fatti, il mondo – al vaglio della discussione dialogica, facendo calcare loro la scena del teatro filosofico, assegnando a ciascuna di esse un ruolo – un difensore, un rappresentante – è possibile misurare il grado di adeguatezza che ciascuna di esse può esibire rispetto al modello eidetico»: p. 301. Segnalo inoltre un recente studio di George Steiner che pone l’accento proprio sulle qualità di grande drammaturgo di Platone, sul suo genio letterario, tentando di dimostrare come la sua scrittura non sia separabile dalla sua filosofia e come, quindi, la lotta contro la poesia diventi in Platone «una lotta contro se stesso»: cfr. Steiner 2012, pp. 61-77. Un volume fondamentale sulla produzione filosofica di Platone come produzione letteraria di alto valore critico e sociologico, nelle sue relazioni con forme e contenuti della poesia, resta senza dubbio quello di Cerri 1991. 108 Cfr. Procl. In Remp. I, 161, 23-24; sicuro rimando al «paradigma in cielo» di Resp. IX, 592b2. 243 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA Perché, allora, stupirsi che sia i dialoghi di Platone, sebbene ci offrano prati per nulla privi di bellezza, sia le opere di poeti posseduti dalla Muse, non si addicano alla forma primissima di repubblica?109 A quest’ultima infatti si è attribuito solo ciò che è senza mescolanza, senza macchia, ciò che è perfetto e separato da tutto il resto; e per l’educazione dei giovani si è scelto solo ciò che è legato all’intelletto e ai principi immateriali e intellettivi. Al contrario, la mimesis è aggiogata (suvzugo") a ciò che appare (toi'" fainomevnoi") e non alla verità (aJll∆ ouj toi'" ajlhqevsin), alla molteplicità (kai; toi'" peplhqusmevnoi") e non all’unità (aJll∆ ouj toi'" hJnwmevnoi" tw'n o[ntwn), alle cose per natura divise (toi'" meristoi'" th;n fuvsin) e non a quelle che sussistono in maniera indivisa (aJll∆ ouj toi'" ajmerivstw" uJfesthkovsin)110. Ebbene, tanto la poesia omerica quanto i dialoghi di Platone, a causa del loro ampio utilizzo della mimesi, non possono essere adatti alla primissima forma di repubblica. Il fatto però che la loro veste drammatica non si addica a dei giovani educandi della bella città non autorizza a bandire in via definitiva e il mito arcaico e la filosofia platonica, poiché – conclude Proclo – «ciò che non si addice in alcun modo a ciò che è al primissimo livello non è poi privato dei beni di secondo e terzo livello»111. 4.4. I tre gradi dell’attività poetica 4.4.1. Ascendere al divino e fare poesia Molto si è scritto intorno a queste pochissime pagine della sesta Dissertazione (I, 177, 7 – 179, 32), divenute sostanziali per la ricostruzione di un teoria estetica procliana e anzi, quasi tutto quanto sia stato scritto intorno al rapporto di Proclo con la poesia omerica e la condanna platonica, si è irrimediabilmente risolto nel 109 Procl. In Remp. I, 161,30 – 162, 2. Proclo riprende l’immagine del prato da Plat. Soph. 222a10. Cfr. Procl. ibi, I, 162, 23-26. 111 «Ouj ga;r to; toi'" prwtivstoi" mhdamh/' prosh'kon kai; th'" deutevra" h] trivto" tavxew" ajpestevrhtai tw'n ajgaqw'n»: Procl. ibi, I, 163, 7-9. 110 244 IL FILOSOFO E IL POETA commento di queste pagine112. Vorrei qui tentare di esporle – sarebbe infatti una mancanza non farlo – ricollocandole nel progetto più ampio di revisione della posizione platonica intorno alla poesia. Intendo dire che, evitando di far ruotare una complessa e strutturata discussione sulla scrittura poetica e filosofica intorno a quello che è uno schema descrittivo qui proposto da Proclo, vedremo come sarà possibile armonizzare, comprendendole nella loro dialettica, anche queste pagine che possono sembrare a tratti contraddittorie con quanto fin qui esposto. Uno dei problemi fondamentali posti da questa parte della sesta Dissertazione è come conciliare la natura mimetica della poesia in generale, ovvero la mimesis in quanto tecnica di produzione, con la mimesis in quanto peculiarità di una sola specie di produzione poetica, quella oggetto del bando platonico. Abbiamo visto come per Proclo, lettore di Platone, la poesia è sempre rappresentazione, è sempre una mimesi; ricordiamo la definizione data nella quinta Dissertazione: Sicché, secondo Platone, l’arte poetica sarebbe un abito mimetico che si serve di miti e discorsi, in combinazione con armonie e ritmi, capaci di disporre in modo conforme a virtù le anime degli ascoltatori113. In queste pagine della sesta Dissertazione, invece, Proclo organizza la poesia tutta, distinguendola in tre generi, tutti e tre, a suo dire, già configurati da Platone (ghvnh th'" kata; Plavtwna poihtikh'"). Proclo vuole centrare il vero oggetto delle critiche platoniche, in special modo di quelle mosse nel decimo libro della Repubblica, e dimostrerà come Omero è al riparo da tali critiche. A riprova del fatto che discutere di poesia significhi discutere della forma più importante di paideia, ovvero dell’educazione dell’anima, il discorso sulle forme poetiche comincia ancora una volta dall’anima. Ci sono nell’anima – spiega Proclo – tre specie di vita (tritta;" zwav"): la prima, la migliore e più perfetta, è quella attraverso la quale l’anima si unisce agli dèi (sunavptetai toi'" qeoi'"). 112 Cfr. Lamberton 1980, pp. 162 – 232, Bouffartigue 1987, Rangos 1999, Van Liefferinge 2002, StGermain 2006a e 2006b. 113 Procl. In Remp. I, 67, 6-9; ricordiamo anche, sempre la nella quinta Dissertazione, i passi I, 44, 1-2, in cui la poesia è detta essere tutta quanta mimetica (mimhtikh'" aJpavsh" ou[sh" th'" tw'n poihtw'n pragmateiva"), e I, 66, 22-23, in cui il poeta, in quanto costruttore di miti, è detto mimetico (il poeta è mimhthv" anche in I, 67, 18). 245 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA Per la bellezza e chiarezza espositiva, vale la pena leggere il passo procliano che la descrive. [Essa è] quella vita che non appartiene più all’anima ma agli dèi stessi, quella nella quale l’anima ha superato il suo intelletto (uJperdramou'sa me;n to;n eJauth'" nou'n), ha risvegliato in lei il segno ineffabile della realtà unitaria degli dèi (ajnegeivrasa de; to; a[rrhton suvnqhma114 th'" tw'n qew'n eJniaiva" uJpostavsew") e ha unito il simile al simile (sunavyasa tw/' oJmoivw/ to; o{moion), la sua luce a quella di lassù, e ha unito all’Uno, che sta al di là di ogni essenza e di ogni vita (tw/' uJpe;r oujsivan pa'san kai; zwh;n eJniv), ciò che in lei, nella sua essenza e nella sua vita, ha di più simile ad esso (to; eJnoeidevstaton th'" oijkeiva" oujsiva" te kai; zwh'")115. Si tratta evidentemente della descrizione della tappa finale di risalita dell’anima verso l’Uno, la sua unione con il Principio, atto conclusivo dell’oJmoivwsi" qew'/, fine eudaimonistico della psicologia neoplatonica. La seconda specie di vita dell’anima è inferiore alla precedente per dignità e potenza; attraverso di essa l’anima, discesa dalla vita ispirata dagli dèi (ajpo; th'" ejnqevou kataba'sa zwh'"), si volge verso se stessa ed agendo con intelletto e scienza (nou'n de; kai; ejpisthvmhn), districa la molteplicità dei ragionamenti, riconduce all’identità il pensante e il pensato e riproduce l’immagine (ajpeikonivzetai) della vita intellettiva perché ha abbracciato in una sola unità la natura molteplice degli intelligibili116. La terza specie di vita dell’anima, infine, è quella legata a potenze di rango inferiore (tai'" katadeestevrai" dunavmesin) e agisce con esse, si serve di immaginazioni (fantasivai") e sensazioni irrazionali (aijsqhvsesin ajlovgoi") ed è completamente contaminata dalle realtà inferiori117. 114 Cfr. Procl. Theol. Plat. II, 8, p. 56, 16-21 in cui sunqhvmata sono proprio i segni che il Principio Primissimo, la causa della totalità del reale semina in ogni ente da essa derivato; segni attraverso i quali quel Principio è presente in maniera ineffabile in ciascuno di noi, pur rimanendo rispetto a noi assolutamente trascendente. Ciascuna entità, però, «penetrando nel carattere ineffabile della propria natura trova il ‘simbolo del Padre’ di tutte le cose (to; suvmbolon tou' pavntwn Patrov")»: ibi, II, 9, p. 56, 20-21. Proclo cita Or. Chald. fr. 39 e 108 Des Places. Cfr. anche In Tim. I, 274, 13. Secondo Trouillard 1981, p. 299, «le symbole serait le synthème manifeste». 115 Procl. In Remp. I, 177, 15-23. 116 Cfr. Procl. ibi, I, 177, 23 – 178, 2. 117 Cfr. Procl. ibi, I, 178, 2-5. 246 IL FILOSOFO E IL POETA Ebbene, ora che abbiamo osservato nell’anima queste tre specie di vita, secondo questa stessa classificazione (kata; th;n oJmoivan tavxin), concepiamo anche la divisione della poetica come se dall’alto procedesse insieme con le vite multiformi dell’anima e si diversificasse nei generi primi (eij" prw'ta gevnh), intermedi (mevsa), e ultimi (e[scata) della sua attività (th'" ejnergeiva")118. La perfetta sovrapposizione tra il discorso psicologico e quello estetico119 porta quindi alla individuazione di queste tre ejnevrgeiai dell’arte poetica. Credo sia proprio quest’ultimo termine greco che può descrivere meglio degli altri cosa stia intendendo qui Proclo per tritth; poihtikhv120. Ho parlato fin qui di generi della poesia, di generi di vita dell’anima e in effetti è questo il termine che più spesso hanno utilizzato gli studiosi moderni121, sebbene già Anne Sheppard nel suo studio già citato notava che è improprio l’appellativo di genre per i tre tipi di poesia contemplati da Proclo: secondo la studiosa infatti essi si distinguono anche per il contenuto, a differenza dei generi letterari antichi che si distinguevano solo per la forma122. In realtà nell’antichità il genere letterario si individua proprio nella stretta e caratterizzante connessione tra il contenuto e la forma utilizzata, motivo per cui non eviterei tale dicitura, sebbene non sia l’unica possibile né la più calzante123. Se guardiamo, però, direttamente al lessico utilizzato da Proclo, ci 118 Procl. ibi, I, 178 6-10. Sheppard spiega che i diversi tipi di poesia sono correlati ai diversi elementi dell’anima umana che rappresentano le diverse Ipostasi all’interno di essa, cosicché la serie «e{n th'" yuch'" – nou'" – ai[sqhsi" – fantasiva» è una gerarchia parallela alla più generale gerarchia della metafisica neoplatonica. Tale gerarchia fa diventare, quindi, quella che è una classificazione estetica, una classificazione morale. Ciò non è certo un elemento di novità per il neoplatonismo, ma, secondo la studiosa, può essere più semplice per il lettore moderno comprendere tale caratteristica partendo dall’estetica, dove anche per noi elemento reale e giudizio morale sono più strettamente connessi: cfr. Sheppard 1980, pp. 192-193. Potrebbe essere significativo ricordare che anche Platone, all’inizio del decimo libro della Repubblica, riprende il discorso sulla poesia interrotto alla fine del III libro, dichiarando che il divieto di accettare quanto in essa vi è di imitativo «appare anche più evidente dopo che si sono divise e separate le forme dell’anima»: X, 595a5-b2. 120 Nel kephalaios del capitolo dedicato a quest’argomento Proclo scrive proprio di voler dimostrare, a partire dalla descrizione delle tre maniere di vivere dell’anima, che ‘la poesia è triplice’: I, 177, 5. 121 Lamberton parla di ‘kinds of poetry’ (Lamberton 1986, p. 177); Kuisma utilizza il termine ‘types’ (Kuisma 1996, p. 122); Festugière, quando Proclo sottintende il termine genirico, traduce con ‘sorte de poétique’. 122 Cfr. Sheppard 1980, p. 191. 123 Intorno ai generi letterari dell’antichità imprescindibili sono gli studi di Luigi Enrico Rossi; in particolare cfr. Rossi 1993. Può essere interessante notare, a riprova del fatto che letteratura, retorica e filosofia formassero un sapere unico nell’antichità, che il frammento più ampio, per estensione e ricchezza di materiale, di un tipo di indagine filologico-letteraria di natura descrittiva che ci sia pervenuto su questo 119 247 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA accorgiamo che egli evita di chiamare ei\do" queste categorie poetiche, il che ci suggerisce di non confondere queste forme di poesia con gli ei[dh levxew", i tre stili narrativi di Resp. III, 394b9-c5, ovvero quello narrativo, diegetico e misto; il filosofo licio le chiama piuttosto gevnh (I, 177, 8; 178, 10; 180, 3; 195, 13) oppure e{xei" (I, 177, 4; 179, 5; 192, 6), ma il più delle volte usa semplicemente l’articolo femminile singolare e l’aggettivo qualificativo sottintendendo il nome poihtikhv. Proprio per questo motivo Sheppard conclude dicendo: «Perhaps we should be calling the theory a theory of three poetries. As this sounds a little quaint in English it seems best to keep to the neutral ‘three types of poetry’»124. A mio avviso l’analogia con l’anima ci aiuta a capire che non si tratta di una distinzione di forme, di specie della poesia che rimane sempre una sola, ispirata, didattica e mimetica al tempo stesso, proprio come l’anima nella sua identità ripercorre il suo cammino di risalita unendosi totalmente all’Uno, sebbene siano molteplici e graduali i gradi della sua attività125. Ciò che Proclo distingue in queste pagine è proprio la gradualità della poesia, la gradualità del suo agire, che inizia come una rappresentazione illusoria o veritiera del sensibile per il gusto di suscitare piacere, diventa uno strumento divulgativo di conoscenze sulla natura e sull’anima e finisce con l’evocazione mistica delle somme verità sugli esseri divini. Ebbene, la poesia di più alto grado (hJ ajkrotavth) è intrisa di divino. Essa mette l’anima nelle cause, nei principi delle cose, la riconduce all’identità, attraverso una certa unione ineffabile (kata; tinav te e{nwsin a[rrhton), realizzando un legame (suvndesmon), il solo e l’unico, di natura divina tra il partecipato e l’impartecipato. Questa espressione elevatissima di poesia trova il suo luogo più autentico nella dimensione del divino, essa è prodotta da un’anima luminosa, semplice e separata come lo è il Primo Dio, l’Uno cui quell’anima si è assimilata. Proclo chiama maniva questa poesia, un delirio che ha superato il livello argomento è proprio il quadro trasmessoci dalla Crestomazia, opera – è bene ricordarlo – la cui paternità procliana è però ancora oggetto di discussione: cfr. Rossi 1993, pp. 55-56. Fozio nella sua Biblioteca, nel cod. 239 (318b1ss.), fornisce un riassunto dell’opera e parla di una distinzione tra poesia narrativa (dihghmatikovn) e una poesia drammatica (mimhtikovn), una distinzione non così lontana, nel lessico utilizzato, dalle distinzioni operate da Proclo negli scritti sulla critica platonica ad Omero. Sulla paternità della Crestomazia cfr. lo studio ancora fondamentale di Severyns 1938, II, p. 114 e, più recentemente, Longo 1995. 124 Sheppard 1980, p. 192. 125 Sull’individuazione di diverse ejnevrgeiai dell’anima, teoria attribuibile già a Giamblico, cfr. Procl. In Alc. 84, 1 – 85, 13. 248 IL FILOSOFO E IL POETA intellettivo della temperanza, della swfrosuvnh. Eppure questa follia possiede misura, e questa misura è quella del divino. Questa dunque, per dirla in breve, è una mania più forte della temperanza (maniva mevn ejstin swfrosuvnh" kreivttwn) e si definisce secondo la misura stessa del divino (kat∆aujto; de; to; qei'on mevtron); e come l’altra poesia conduce l’anima ad altre caratteristiche sostanziali degli dèi, così questa riempie di proporzione (th'" summetriva" ajpoplhroi') l’anima posseduta dal divino (th;n ejnqeavzousan yuchvn); ed è per questo che essa ha ordinato (katekovsmhsen) anche le sue attività più basse (kai; ta;" ejscavta" aujth'" ejnergeiva") secondo metri e ritmi. Come dunque noi diciamo che la mantica trova la sua natura nella verità, la follia erotica nella bellezza, così diciamo che questa poesia si definisce (th;n poihtikh;n ajfwrivsqai famevn) secondo la misura del divino (kata; th;n summetrivan th;n qeivan)126. A questa primissima poesia, che Proclo chiama esplicitamente ispirata (th'" ejnqeastikh'"127 kai; prwtivsth", I, 179, 3), segue una di grado inferiore, corrispondente alla vita intermedia dell’anima. Quest’arte poetica conosce l’essenza delle cose, si ispira ai discorsi e alle azioni che rispondono ai principi del bello e del buono e pone nella figura metrica e ritmica ciascun oggetto da lei trattato. È la poesia di ogni buon poeta che scrive di azioni virtuose, incita alla moderazione (noera'" eujmetriva") e alla sapienza (fronhvsew"), è la poesia colma di ammonimenti e di consigli eccellenti (nouqesiva" kai; suboulw'n ajrivstwn). Il terzo e ultimo grado dell’attività poetica è quello dell’opinione e dell’immaginazione (hJ dovxai" kai; fantasivai" summignumevnh), è quello di una poesia costruita in assoluto mimeticamente, detta perciò mimhtikhv, sia che voglia 126 Procl. In Remp. I, 178, 24 – 179, 3. Verità (ajlhvqeia), Bellezza (kavllo") e Proporzione (summetriva) sono le tre monadi alle soglie del Bene, collocate sul vestibolo del Bene (ejpi; toi'" tou' ajgaqou' proquvroi") secondo il Filebo (64c1-65a2). Nell’interpretazione procliana tali monadi traghettano l’anima verso l’Uno per via dell’affinità, della parentela (suggevneia) che condividono con esso; il Primo Principio, assolutamente trascendente e invisibile, si rende conoscibile attraverso questi tre principi unitari da esso derivati. L’esegeta tardo neoplatonico lo spiega brevemente nella Dissertazione XII dell’In Rempublicam dove accenna ad una sua opera, andata perduta, Sulle tre monadi (Peri; tw'n triw'n monavdwn), cui rimanda per una trattazione più dettagliata: In Remp. I, 295, 11 – 296, 4. Sull’argomento cfr. Combès 1987. Il fatto che in queste pagine della sesta Dissertazione la poesia sia messa in relazione con la proporzione, analogamanete alla mantica con la verità e all’amore con la bellezza, è un’ulteriore conferma di quanto l’attività poetica sia diventata in Proclo un vero e proprio strumento di approssimazione al Bene. 127 Cfr. anche ibi, I, 180, 7, 11. 249 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA verosimilmente rappresentare l’oggetto sia che voglia darne un’immagine del tutto illusoria. È una poesia che esaspera le passioni più vili, che trascina le anime attraverso una varietà musicale, di armonie e di ritmi, che mostra la natura degli oggetti non come sono realmente ma come appaiono alla folla. Essa è come una pittura illusoria del reale (skiagrafiva128 ti"), non ha conoscenza esatta di ciò che rappresenta (gnw'si" ajkribhv") e inoltre ha il solo scopo di sedurre gli uditori (th;n tw'n ajkouovntwn yugagwgivan), mira alla passionalità (blevpousa to; paqetikovn) che per natura è esposta al godimento e al lamento. Di questa terza poesia, che – abbiamo visto – Proclo dice mimetica, è possibile, però, distinguere ancora tra un elemento eicastico (to; me;n eijkastikovn), che aspira alla correttezza della rappresentazione (pro;" th;n ojrqovthta tou' mimhvmato" ajnateivnetai), e uno fantastico (to; de; fantastikovn) che offre una rappresentazione delle cose solo apparente (fainomevnhn movnon th;n mivmhsin parecovmenon). Quest’ultima dicotomia è ripresa evidentemente dal Sofista e non solo129, ma in effetti dietro a ciascuno dei tre gradi poetici individuati da Proclo c’è il testo platonico e per questo, subito dopo aver presentato rapidamente la sua tripartizione, il filosofo licio passa in rassegna il corpus platonicum alla ricerca di una fonte per ciascuno dei tre livelli di attività poetica. 4.4.2. La poesia ispirata Della poesia ispirata Platone parla nel Fedro, nello Ione e nelle Leggi. Del Fedro Proclo cita il celebre passo 245a1-5: 128 Cfr. Plat. Resp. X, 602d3 dove è la pittura ad essere illusoria perché confonde l’anima di chi la guarda nel creare diverse immagini prospettiche di uno stesso oggetto a seconda della direzione da cui viene guardato. Si veda anche II, 365c4 dove quella prodotta dalla skiagrafiva è un’illusione prospettica relativa al carattere morale dell’uomo felice secondo Adimanto, l’uomo vestito dell’immagine pittorica della virtù, ma intimamente votato all’ingiustizia. 129 Come sottolinea Sheppard, Proclo divide in due la poesia mimetica, prima, per seguire la distinzione del Sofista e, poi, per conciliare la condanna della mimesi del decimo libro della Repubblica con il secondo libro delle Leggi in cui la poesia mimetica è in parte riabilitata; l’esegeta non può però separare nettamente le due forme di poesia mimetica, ovvero la fantastica e l’eicastica, perché queste hanno lo stesso oggetto di rappresentazione, e cioè il mondo sensibile, e la stessa modalità espositiva, e cioè quella dia; mimhvsewn; ed in effetti the subject-matter e the manner of representation costituiscono i criteri fondamentali di distinzione seguiti da Proclo in questo suo schema, mentre il fine della poesia, che è diverso in questa dicotomia, è un elemento secondario di definizione dei generi poetici. Cfr. Sheppard 1980, pp. 189-190. 250 IL FILOSOFO E IL POETA La terza forma di possessione e di follia, che ha origine dalle Muse, prende un’anima delicata e pura, la eccita e la induce a baccheggiare con canti e con altre forme di poesia ed educa i posteri celebrando innumerevoli imprese degli antichi. L’esegeta analizza punto per punto le parole platoniche e ne deduce quattro caratteristiche fondamentali della e[nqeo" poihtikhv (I, 180, 10 – 182, 20). Essa è innanzitutto un dono delle Muse le quali, oltre che diffondere l’armonia e il ritmo in tutte le produzioni, visibili e invisibili, del Demiurgo universale, fanno risplendere nelle anime da esse possedute il riflesso della simmetria divina (to; th'" qeiva" summetriva" i[cno"). Proclo utilizza il linguaggio mistico dell’illuminazione per parlare della produzione poetica: ci troviamo ad un livello superiore del cammino di risalita dell’anima verso il Principio, un livello superiore al pensiero e che, grazie all’intervento degli dèi, conduce l’anima verso la luce pura e semplice, verso la luce originaria. Il momento della composizione poetica, quando questa è ispirata dalle Muse, diviene una vera e propria comunione col divino, un’e[llamyi", una illuminazione dell’anima umana per diretto contatto con la luce superiore; come accade in una qeiva parousiva, in una teofania, nel momento della trasmissione della luce dall’essere divino e semplice all’anima delicata e pura del poeta, quest’ultima non fa altro che abbandonarsi alla luce dell’illuminante (tou' ejllavmponto"): ecco perché Platone la chiama possessione (katokwchv) e follia (maniva), perché tale illuminazione diventa padrona di ogni azione e parola di colui che è illuminato (tou' ejllampomevnou) e questi rinuncia ad ogni sua operazione ordinaria per essere attratto definitivamente dalla luce primigenia130. Come spiega Beierwaltes131, l’illuminazione, in quanto visione, è un momento essenziale della catarsi e dell’unificazione del pensiero nell’Uno stesso. Dopo l’Uno, anche gli dèi, la cui dimensione principale è l’Intelletto, sono pensati come principi dell’illuminazione dell’anima umana; gli dèi, ispiratori del poeta, possono ciò che non può il mondo sensibile, né il puro 130 Cfr. Procl. In Remp. I, 180, 17 – 181, 2. Beierwaltes 1990, pp. 324-330. Sulla metafisica della luce, centrale in tutto il neoplatonismo, si veda anche Beierwaltes 1961. 131 251 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA logos, né la conoscenza pensante132. Essi permettono il rivolgimento dell’anima verso quella luce che, potremmo dire, è origine di ogni luce133, anche di quella divina che l’anima ha in sé134, per poi farla rivolgere al Principio stesso. La poesia ispirata dunque si fa strumento di risalita verso l’Uno e nel processo dialettico ascensivo di distacco del pensiero da ciò che è sensibile verso il Principio, essa si pone dopo l’astrazione e la purificazione del pensiero stesso, per coincidere con il momento della sua illuminazione, nel suo farsi luce e dunque nel suo assimilarsi al Principio che è la luce massimamente semplice. L’anima del poeta deve poi essere delicata e pura, deve essere libera da se stessa e dal mondo sensibile; deve essere ben disposta verso il divino (pro;" ta; qei'a pantelw'" eujpaqhv") e in simpatia con esso (kai; sumpaqhv"), insensibile al mondo esterno, restia a mescolarsi con esso. Solo così essa riceve senza sforzo e con piena adesione, l’illuminazione divina. Quanto agli effetti di tale stato di possessione divina, essi sono l’eccitazione e il furore bacchico, effetti che prendono entrambe le anime, quella del poeta illuminato e quella dello spirito illuminante; l’eccitazione fa sì che l’illuminato si tenda in un’azione senza ritorno, che si liberi dalla caduta nella genesis per rivolgersi compiutamente verso il divino; tale orizzonte dello sguardo dell’anima umana è portato a suo compimento attraverso il furore bacchico, attraverso un movimento scatenato dagli dèi, una danza sfrenata che soggioga chi ne è posseduto. Infine, il valore paideutico di tale poesia ispirata non è assolutamente messo in dubbio. Questo elemento, preso direttamente dal testo platonico, è fondamentale perché l’aver distinto una poesia didattica all’interno della tripartizione dell’attività poetica avrebbe potuto far pensare ad una limitazione del fine etico ad una parte soltanto dell’arte poetica che non è quella ispirata. Ciò conferma quanto si diceva prima a proposito del modo più corretto di intendere questa triplicazione della poesia, che nella sua gradualità attiva, demiurgica potremmo dire, rimane sempre una sola con le caratteristiche primarie che Proclo non esita mai a riconoscerle, fin dalla prima questione della quinta 132 Cfr. Procl. In Parm. IV, 949, 23-28. Negli Inni Proclo sperimenta proprio la capacità di parlare degli dèi grazie alla luce che gli proviene dalle Muse, al fulgore ispiratore degli dèi che lo liberano dalla caligine dello sguardo sul sensibile: cfr. Hymn. I, 40-41; VII, 7. Nel terzo Inno invoca le Muse e gli dèi perché gli concedano la loro «luce anagogica (ajnagwvgion fw'")»: Hymn. III, 1. 133 Cfr. Procl. Theol. Plat. II, 7, p. 48, 9-19. 134 «La luminosità dell’anima è l’Uno in noi» si legge in In Parm. VII, 512, 3-4 ed. Steel. 252 IL FILOSOFO E IL POETA Dissertazione e cioè: il carattere ispirato, il fine didattico e la natura mimetica. Il commentatore neoplatonico sottolinea che anche la poesia di più alto grado educa i posteri, e lo fa nel migliore e più completo dei modi, perfezionando le azioni degli antichi attraverso il linguaggio divino. Ovviamente questo significato didattico sarà più fecondo se rivolto agli adulti, capaci più dei giovani di percepire la verità nascosta nel racconto mitico. Quella della poesia ispirata è una lezione più mistica (mustikwvtera ajkrovasi"), quella di cui hanno bisogno gli uomini già formati dalla politica. Tutto ciò dimostra che questa poesia ispirata dalle Muse, è superiore a qualsiasi altra forma di arte, perché un poeta che rimane in sé, senza farsi prendere dalla possessione e dalla follia divina non solo è imperfetto ma, Platone l’ha detto, la sua arte rimane oscurata da quella del poeta entusiasta, poiché – aggiunge Proclo – «l’intuizione umana (ajnqrwpivnhn ejpibolhvn135) è in tutto inferiore al dono degli dèi»136. Il dialogo di Socrate con Ione, rapsodo esperto di poesia omerica, dà ulteriori indicazioni su cosa si debba intendere per poesia ispirata. Il saper parlare solo di Omero dimostra che non per arte gli aedi cantano, ma per sorte divina. Gli aedi sono posseduti dalla Musa e, come i vati e i profeti, sono dei ministri del dio che parla per loro bocca. Inoltre tale possessione, tale entusiasmo divino si trasmette, come il potere magnetico della pietra Eraclea, dalla fonte primaria al poeta, da questi ai cantori e dai cantori al pubblico (Ion. 534a-536d). Proclo cita il celebre passo che raffigura il poeta come una creatura alata e sacra, incapace di comporre prima di essere posseduto dal divino e di essere uscito da se stesso (Ion. 534b47)137. Nell’interpretazione del nostro esegeta la scena dello Ione aggiunge due nuovi elementi alla caratterizzazione della poesia ispirata. In primo luogo, essa definisce il principio della composizione poetica, che è un principio unico: alla 135 Epibole è termine utilizzato da Plotino per indicare il modo in cui l’anima, nella dimensione dell’Intelligibile, ormai totalmente separata dal sensibile, riesce a cogliere la realtà con una intuizione unitaria, e vedere l’Uno dispiegato nel molteplice e il molteplice nell’unità, come si guarda un volto cogliendone l’unità nelle singole parti che lo compongono: Plot. Enn. IV, 4 [28], 1, 20. Tale intuizione sicuramente superiore alla comprensione razionale ancora legata alla dimensione temporale del prima e del dopo è comunque evidentemente ancora inferiore all’estasi mistica di ricongiungimento con l’Uno. 136 Procl. In Remp. I, 182, 19-20. 137 Cfr. Pind. Olymp. II, 65 che già distingue una poesia costruita solo grazie ad una tecnica ed una prodotta dagli dèi, propria del vero poeta. Cfr. Palumbo 2011b, p. 170, n. 48. 253 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA pluralità delle Muse evocate nel Fedro Platone sostituisce qui la Musa (534c3) perché riconduce la pluralità dei poeti posseduti dalla divinità alla causa primordiale che è una monade: Infatti l’arte poetica risiede nel primo motore (ejn tw/' prwvtw/ kinou'nti) in maniera uniforme (monoeidw'") e nascosta (krufivw"), ad un livello secondario (deutevrw") e in una forma esplicita (ajneiligmevnw") presso i poeti (ejn toi'" poihtai'") mossi da quella monade, ed infine al livello più basso (ejscavtw") e in funzione ausiliaria (uJpourgikw'") presso i rapsodi (ejn toi'" rJaywdoi'") che sono ricondotti (ajnagomevnoi") verso l’unica causa dai poeti intermedi138. Lo schema seriale permea dunque la struttura metafisica del reale quanto il procedere ermeneutico di Proclo. Rapporti di derivazione, di discesa e di risalita, processo emanatore e illuminante dall’alto verso il basso e movimento epistrofico di ciò che è inferiore a ciò che è superiore, disegnano la dialettica del linguaggio ispirato del poeta arcaico. La Musa ispiratrice, il poeta entusiasta, l’aedo, il pubblico esprimono i gradi della pervasività poetica. Il secondo elemento descritto da questo passo dello Ione deriva direttamente dal primo. Il potere magnetico della pietra Eraclea è un’immagine davvero perspicua se misurata con le catene seriali dell’ontologia procliana. Essa descrive il passaggio e l’estensione dello spirito divino dagli esseri superiori agli ultimi partecipanti della catena dell’ispirazione poetica; essa celebra «la sovrabbondanza del primissimo principio motore» e mostra in maniera vividissima (ejnergestavthn) la partecipazione (mevqexin) dei primi esseri posseduti a quello stesso principio139. Il fatto che il poeta ispirato riesca a trasferire agli esseri a lui inferiori quello stesso entusiasmo di origine divina è la dimostrazione della presenza del divino in ciascuno di essi. La poesia viene così collocata tra la causa primissima e divina, che Platone ha chiamato Musa, e gli estremi echi dell’ispirazione che si vedono espressi kata; sumpavqeian nei rapsodi; in questa 138 Procl. In Remp. I, 184, 2-6. Cfr. Procl. In Remp. I, 184, 6-10. Sull’immagine della pietra magnetica, vista anche dalla prospettiva esegetica, ovvero come una catena di interpreti della stessa verità cfr. Gorlani 2004, p. 423-425. 139 254 IL FILOSOFO E IL POETA posizione mediana ha posto la follia del poeta ispirato, follia che è al tempo stesso mossa e movente, riempita di ciò che sta in alto e traghettatrice dell’illuminazione ricevuta verso gli altri esseri, capace di offrire agli ultimi partecipanti il solo e unico legame con la monade partecipata. Ebbene quanto detto finora esprime a chiare lettere il prestigio e il valore che Proclo riserva alla poesia e se l’abito lessicale con cui la trattazione è stata portata avanti è evidentemente procliano, il punto di partenza sono sempre gli scritti platonici. L’esegeta procede con rigore: prima la citazione del passo e poi la sua lettura; da qui non solo la riabilitazione di una figura problematica quale quella del poeta, ma anche la sua collocazione, sicura e senza sbavature, all’interno di quello che resta l’interesse fondamentale del pensiero tardo neoplatonico, e cioè la sua relazione col divino. Una poesia che discende direttamente dagli dèi, che conosce per questo le genealogie degli antenati, che è messaggio di pensieri divini e mistici non poteva essere oggetto di calunnia e attacco da parte di Platone. Questo l’ultimo argomento che Proclo riprende, questa volta, dalle Leggi e dal Timeo. Come abbiamo già visto sopra, in Leg. III, 682a1-5 Omero diventa autorità storica, capace di dare informazioni veritiere sulle storie mitiche o arcaiche; nel parlare di Troia o dei Ciclopi egli si esprime «quasi come un dio» e infatti divina è la stirpe dei poeti – ricorda l’Ateniese – e grazie alle Muse e alle Grazie spesso rivela come le cose sono veramente avvenute140. In Tim. 40d9-e3 il riferimento è invece alle genealogie esiodee che proprio perché esposte da chi si dice figlio degli dèi, non possono non essere vere, anche se espresse senza argomenti verosimili e dimostrazioni necessarie (a[neu te eijkovtwn kai; ajnagkaivwn ajpodeivxewn). Queste dichiarazioni non ammettono evidentemente un’accusa alla poesia di empietà, se non generando un’interna contraddizione. Proclo allora ritorna su un principio che aveva esposto all’inizio della sesta Dissertazione e che aveva utilizzato per interpretare tutti i miti omerici nella prima parte del suo discorso: il principio della lettura allegorica del mito arcaico. Se Platone attacca racconti indecenti sugli dèi si fa lui stesso testimone del fatto che in questi racconti, sotto questi velamenti simbolici (sumbovloi"), è custodita la verità sugli esseri superiori. Evidentemente, però, per i giovani non è facile scoprire tali 140 Cfr. supra, p. 236 e In Remp. I, 155, 25 – 156, 9. 255 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA velamenti, ma se il filosofo ateniese propone di tener lontani dai giovani questi miti non vuol dire che egli disprezzi la poesia sic et simpliciter: Platone accoglie la poesia ispirata dagli dèi perché la chiama divina e giudica giusto venerare in silenzio coloro che la possiedono perché non arrivino a orecchie inesperte, per le quali potrebbe, invece, rivelarsi pericolosa. 4.4.3. La poesia ‘epistemica’ Nella descrizione del genere intermedio dell’attività poetica possiamo subito registrare un uso frequente di termini che aiutano a darne una definizione ben precisa, e cioè nou'", frovnhsi" ed ejpisthvmh. Dopo questa poesia [scil. la poesia ispirata] consideriamo quella che ha conoscenza certa degli enti (ejpisthvmona tw'n o[ntwn), che opera (ejnergou'san) con intelligenza e saggezza (kata; nou'n kai; frovnhsin), che da una parte ha rivelato agli uomini molte nozioni sulla natura incorporea, dall’altra ha portato alla luce molte opportune dottrine sulla sostanza corporea, che ha esaminato l’equilibrio più bello e adatto ai costumi e anche la disposizione contraria ad esso, e ha ornato tutto ciò secondo i ritmi e i metri appropriati141. Modello dichiarato di tale poesia di secondo livello è Teognide, espressione della legalità, della virtù civica, autore di quei versi citati da Platone in Leg. I, 630a5-6 che incitano alla concordia civile anche quando la città è in preda alle guerre intestine. Teognide è poeta più ammirevole di Tirteo perché insegna ogni tipo di virtù, non solo il coraggio e il valore in battaglia come fa il poeta spartano, ma anche la lealtà: non basta saper combattere contro lo straniero, bisogna unire all’ardore in guerra le virtù del vivere civile, come la giustizia, la temperanza e la saggezza142. In questo modo Teognide si rende partecipe della scienza politica (politikh'" ejpisthvmh"), diventa guida e consigliere della virtù che comprende tutte le altre, e cioè la lealtà (pistovth")143. 141 Procl. In Remp. I, 186, 22-29. Il frammento citato da Platone corrisponde ai vv. 77-78 del Corpus Theognideum. 143 Cfr. Procl. In Remp. I, 186, 29 – 187, 24. 142 256 IL FILOSOFO E IL POETA Anche la preghiera è una conoscenza propria del poeta saggio: egli sa cosa chiedere agli dèi, sa discernere il bene dal male e questo non per ispirazione divina, ma perché è e[mfrwn, è dotato di sicura intelligenza. L’esempio questa volta è preso dall’Alcibiade secondo dove Socrate ricorda questa figura di un poeta assennato che aveva composto una preghiera per degli amici insensati, incapaci di capire quale fosse per loro il vero bene. Con tale preghiera il poeta chiedeva a Zeus di fare il bene dei suoi seguaci, che l’avessero chiesto o meno, e di tener lontano il male, anche qualora non l’avessero domandato144. In effetti fare totale affidamento alla provvidenza divina, attribuire al dio l’origine del bene, reprimere le cause di tutti i mali confidando nella benevolenza di chi può tutto, dire, in maniera generale, che gli oggetti delle preghiere sono sconosciuti agli stessi oranti e sono invece stabiliti direttamente dalla divinità, secondo i limiti appropriati, significa essere dotati di grande temperanza e conoscenza. Ecco perché Socrate ha detto saggio (frovnimon) l’autore di questi versi, perché non è né per ispirazione divina (ou[te di∆ ejnqousiasmovn) né per corretta opinione (ou[ di∆ ojrqh;n dovxan), ma per scienza (ajlla; di∆ ejpisthvmhn) che egli discerne la natura delle cose per le quali prega. […] Abbiamo dunque ragione a dire che tale poesia (th;n toiauvthn poihtikhvn) è saggia ed epistemica (e[mfrona kai; ejpisthvmona uJpavrcein). Infatti la poesia capace di definire le opinioni corrette appropriate agli stati d’animo equilibrati è realizzata (uJfevsthken) con la perfetta conoscenza (kata; th;n televan ejpisthvmhn)145. Ebbene, ciò è tutto quanto Proclo dice a proposito del livello intermedio dell’attività poetica. Tra i poeti operanti secondo la descrizione fornita dal Diadoco ateniese Festugière suggeriva, in nota alla sua traduzione146, di porre i Presocratici, i filosofi della natura che misero in versi le loro teorie sui corpi e sull’universo. Sheppard, più cautamente, pur tenendo conto dell’ipotesi interpretativa dello studioso francese, sottolinea che non è possibile confondere la classificazione procliana con una classificazione per generi, ponendo da una parte 144 Plat. Alcib. II, 142e1-143a6. Procl. In Remp. I, 188, 24-27. 146 Festugière 1970, t. I, p. 205, n. 2. 145 257 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA la poesia omerica, i canti epici, e dall’altra i poemi filosofici di Empedocle o Parmenide, anche perché all’interno di questa categoria, come abbiamo visto, rientrano più esplicitamente Teognide e Tirteo, autori di poesia elegiaca. La studiosa propone, pertanto, di individuare la peculiarità di questa poesia più che nell’argomento, nella sua modalità espressiva. Essa sarebbe una poesia non rappresentativa, a differenza delle altre due. Mentre la poesia ispirata rappresenta il suo oggetto in maniera indiretta, cioè attraverso simboli, e quella mimetica in maniera diretta, cioè attraverso copie, questa poesia non rappresenta affatto, ma parla semplicemente del suo argomento al suo pubblico di lettori o di uditori, racconta dettagliatamente fatti di filosofia o di scienza della natura e dispensa suggerimenti etici. A mio avviso tale interpretazione non solo non tiene conto del fatto che la poesia per Proclo è sempre una rappresentazione, non esiste poesia – giova ancora ricordarlo – che non sia e{xi" mimhtikhv, ma non è nemmeno supportata dal testo procliano, che, come abbiamo potuto constatare, non accenna mai ad una differenziazione di questo tipo. Inoltre, come nota correttamente Halliwell147, i passi omerici che vengono poi citati come un esempio di questo genere poetico148 includono sia passi narrativi che drammatici. Quanto alla denominazione, la studiosa inglese puntualizza correttamente che Proclo non la chiami mai esplicitamente didaktikhv, ma a partire dal passo I, 193, 5 in cui Proclo usa il verbo didavskw in riferimento ad Omero quando tratta di questi argomenti – si noti, tra l’altro, che anche in queste pagine Teognide è detto didavskalo" (I, 187, 2) – considera l’appellativo didactic il più adatto per questa poesia di secondo livello149. A mio parere, Proclo ha dimostrato più molte volte che il fine didattico è proprio di tutta la poesia tanto da non poter costituire nemmeno un criterio distintivo rispetto alla filosofia150. Inoltre, escluse queste occorrenze della terminologia relativa all’insegnamento, davvero non ci sono nel testo procliano appigli lessicali che giustifichino una definizione di tale poesia come ‘poesia didattica’. Ciò che invece il testo ci restituisce è, a mio avviso, un’attenzione 147 Halliwell 2009, p. 388, n. 736. Cfr. Procl. In Remp. I, 192, 12-15; 193, 4-9 e per il commento cfr. infra § 4.4.5, pp. 263-264. 149 Su tutto ciò cfr. Sheppard 1980, pp. 182-187. La scelta di Sheppard è seguita da tutti gli studiosi moderni che parlano di una poesia didattica. Anche Halliwell 2009, p. 279 la chiama didattica o educativa perché è una poesia del tutto informata alla virtù. 150 Di questo argomento Proclo ha parlato, ricordiamolo, nella quinta Dissertazione: cfr. supra, § 3.5.2. 148 258 IL FILOSOFO E IL POETA all’argomento trattato da questi poeti, e alla fonte da cui ha origine il racconto mitico. La poesia ispirata e questa poesia sono entrambe educative, ma l’una sulle cose divine e il mondo celeste, l’altra su quelle umane e la natura terrena. Esse, inoltre, divergono anche quanto alla loro origine, essendo la prima di natura divina, la seconda di natura intellettiva. A questi aspetti speculativi si aggiunge un dato oggettivo e cioè il fatto che Proclo, quando non si affida a perifrasi per appellare quest’attività poetica di genere intermedio, utilizza un solo aggettivo che è ejpisthvmwn151. Da qui la scelta di denominarla epistemica perché è nella conoscenza, nelle doti intellettive del poeta che il filosofo licio ha posto, con insistenza, la reale entità152 di questa poesia. 4.4.4. La poesia mimetica Le fonti platoniche alla base della distinzione della poesia mimetica in eicastica e fantastica sono le Leggi, la Repubblica e soprattutto il Sofista. Proprio in Soph. 235e9-236c7 viene fissata, come si sa, la dicotomia della produzione mimetica: nell’ambito della settima diairesis che propone l’immagine del sofista mimhthv", produttore di un sapere solo apparente, la tecnica mimetica viene distinta da Platone in tecnica eicastica e tecnica fantastica153. I prodotti della prima sono immagini che rispettano le reali proporzioni, nella misura e nel colore, degli oggetti rappresentati, da qui la tradizionale traduzione dei termini greci tevcnh eijkastikhv, eijkwvn e tutto il lessico congenere, nell’italiano «arte della copia», «copia», «copiare». I prodotti della seconda invece sono delle immagini il cui grado di fedeltà al modello rappresentato varia a seconda della prospettiva da cui esse sono esaminate, da qui la traduzione di ciò che ha a che fare con la tevcnh fantastikhv con i lessemi dell’«apparenza»154. Dunque – spiega Proclo – nell’arte 151 Procl. In Remp. I, 186, 22; 188, 25; 193, 8. In un solo caso (I, 188, 24) accanto ad ejpisthvmwn Proclo utilizza anche il sinonimo e[mfrwn. 152 JUfivsthmi è il verbo qui utilizzato da Proclo (In Remp. I, 188, 27). 153 Per un’analisi del passo platonico e un’indagine sulla distizione qui operata tra immagini vere e immagini false come espressione del rapporto dialettico tra verità e falsità, rimando a Palumbo 1994, in particolare pp. 47-50, 59-65 e 269-281. In generale sulla mimesis nel Sofista cfr. Palumbo 2013. 154 Come afferma Fronterotta, seguendo Bluck e De Rijk, sia le copie che le apparenze rientrano nella tecnica imitativa e la loro differenza dipende non da una maggiore o minore distanza dal modello originale, ma «dalla presenza o meno di un punto di vista soggettivo che impone una diversa prospettiva nella riproduzione dell’oggetto imitato»: Fronterotta 2007, p. 301, n. 104, commento a Soph. 236b7. In questo 259 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA di produzione di immagini è giusto che si distingua l’arte eicastica e l’arte fantastica: Nella prima quale è il modello (oi|ovn ejsti to; paravdeigma), tale è l’immagine realizzata (toiou'ton ajpergazovmenon to; mivmhma); nella seconda quale è il modello così come appare (faivnesqai toiou'ton to; genovmenon), tale è il prodotto della rappresentazione mimetica (oi|on to; mimhqe;n paraskeuavzon). Dunque della poesia mimetica (th'" mimhtikh'" th'" poihtikh'"), l’una è eicastica (to; me;n eijkastikovn ejstin), la quale riproduce (ajpotupouvmenon) le realtà stesse (aujta; ta; pravgmata) di cui parla, l’altra (to; de;) fa in modo che le stesse cose appaiano (faivnesqai) a volte più grandi, a volte più piccole e che la somiglianza (th;n oJmoivwsin) risieda nell’apparenza illusoria (ejn fantasiva) e non nella verità (oujk ajlhqeiva/)155. Nelle Leggi (II, 668a1-668c8) Platone parla più specificamente della tecnica eicastica, poiché accenna ad una correttezza della mivmhsi" nel senso del rispetto, nella quantità e nella qualità, dell’originale nel prodotto della rappresentazione. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, l’Ateniese parla di una musica che non ha come unico fine il piacere156, ma che si giudica bella in base al suo grado di somiglianza con il reale (ajfomoivwsi" pro;" to; paravdeigma) e tale tecnica mimetica viene appunto chiamata eijkastikhv. La poesia fantastica è, invece, il vero bersaglio della critica platonica. Proclo ha prima isolato quest’ultimo genere dell’attività poetica e ora dimostra che in un solo luogo Platone ha inveito contro di esso: è il decimo libro della Repubblica, là dove, ritornando su quanto vi è di mimetico nella poesia (o{sh mimhtikhv, 595a5), rovinoso oltraggio157 all’intelligenza di un giovane sprovvisto del farmaco adatto, imposta la discussione proprio sulla dialettica della realtà e l’apparenza. Socrate, dopo aver definito mimhthv" il poeta tragico – spiega Proclo – e averlo posto tre senso si può comprendere, a mio avviso, anche come dalla prospettiva procliana la poesia fantastica, parte di quella mimetica, non sia neutralmente scorretta, illusoria, falsa, ma lo sia solo se la si guarda dalla prospettiva sbagliata, e cioè solo se a guardarla sono quei giovani non dotati del favrmakon di Resp. X, 595b6. 155 Procl. In Remp. I, 189, 25 – 190, 2. 156 Cfr. supra § 3.7.1. 157 Lwvbh è il termine utilizzato da Platone proprio nell’incipit del decimo libro (595b5); un termine forte, dell’ambito religioso e giuridico, che indica l’oltraggio, l’offesa ma anche la vergogna. In Men. 91c i sofisti sono lwvbh kai; diafqwrav, vergogna e rovina per la città; in Leg. X, 890b1 le dottrine relativistiche sono una vera sciagura (o{shn lwvbhn) per i giovani. 260 IL FILOSOFO E IL POETA volte lontano dalla verità, sostiene, continuando il parallelo con la pittura, che egli rappresenta producendo un’immagine illusoria (mimei'tai fantastikw'"). Come si sa, Socrate porta Glaucone a distinguere il pittore e il poeta dall’artigiano e dall’artefice delle idee che è qui chiamato, per la prima e unica volta nell’intero corpus platonicum, «dio»158, proprio in base all’oggetto delle rispettive produzioni. Il pittore rappresenta non le idee, ma le opere degli artigiani e non come queste sono realmente, ma come esse appaiono a seconda della prospettiva da cui le si considera. Dunque la loro arte, fa ammettere Socrate al suo interlocutore, è rappresentazione di apparenza (fantavsmato" mivmhsi") e non di verità (ajlhqeiva"). Scopo di tale produzione illusoria è il piacere che essa procura nell’uditorio, il fascino che esercita sulla parte irrazionale dell’anima umana, sull’elemento patetico, estremamente incline all’esaltazione e al pianto (605a1c3). Ecco così disegnate le caratteristiche dell’ultimo livello di attività poetica: Dunque la specie fantastica della poesia mimetica è inferiore a quella eicastica nella misura in cui questa mira alla correttezza della copia (pro;" th;n ojrqovthta tou' mimhvmato"), quella, al contrario, al piacere (pro;" th;n hJdonhvn) che deriva, per il pubblico (toi'" polloi'"), dalla rappresentazione illusoria (ejk th'" fantasiva")159. Ebbene, il corpus platonicum, letto evidentemente dalla prospettiva procliana, commentato e interpretato dal filosofo licio, ha restituito queste diverse immagini della poihtikh; tevcnh. Proclo così le sintetizza in conclusione al suo percorso esegetico: Questi dunque i generi dell’arte poetica (ta; gevnh th'" poihtikh'") distinti da Platone stesso (para; tw'/ Plavtwni), l’uno come superiore alla scienza (to; me;n wJ" krei'tton ejpisthvmh"), il secondo come epistemico (to; de; ãwJ"à ejpisthmonikovn), il terzo come espressione 158 Plat. Resp. X, 597b5. Secondo Vegetti 2007, p. 110, n. 16, si tratterebbe di un argomento retorico introdotto qui da Platone solo per perfezionare l’analogia con la produzione degli artigiani e delle loro imitazioni da parte dei pittori. Sull’argomento cfr. Fronterotta 2007. 159 Procl. In Remp. I, 191, 22-25. La phantasia è legata al piacere che il senso letterale di un mito procura nel lettore e ascoltatore anche nella sedicesima Dissertazione (II, 107, 14 – 109, 3). Qui Proclo spiega che mentre l’intelletto riesce a cogliere il significato nascosto del mito, la phantasia si arresta al senso letterale e al piacere irrazionale che da esso deriva: cfr. Sheppard 1980, pp. 157-158. Sull’argomento cfr. anche Sheppard 1995 e Sheppard 1997. 261 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA della corretta opinione (to; de; wJ" ojrqodoxastikovn), il quarto come a questo inferiore (to; de; wJ" kai; th'" ojrqh'" dovxh" ajpoleipovmenon). Di quest’ultimo egli dice giustamente che tale mimetes, quale diciamo che sia siffatto poeta, «non avrà né scienza, né opinione corretta degli oggetti che rappresenta né riguardo alla loro bellezza né circa i loro difetti»160. Si può, dunque, dedurre da queste pagine che il criterio distintivo dei tre livelli di attività poetica è costituito dal grado di verità posto prima nella mente del poeta e poi nel prodotto della sua rappresentazione. L’approccio ermeneutico procliano è ancora una volta plasmato sull’ontologia del suo sistema filosofico. Il modello metafisico di graduale determinazione dell’essere costituisce l’impronta su cui modellare il discorso sulla poesia, offrendoci già una chiara dimostrazione della profonda appartenenza dell’attività poetica alla filosofia procliana. Il Diadoco di Atene riesce a parlare di poesia dandole la figura di una scala gerarchica, anche questa, come quella metafisica, organizzata intorno alla maggiore o minore distanza dell’anima, sede della capacità poietica dell’uomo, dal vero. Il poeta della tradizione arcaica è prima un poeta produttore di immagini semplicemente piacevoli, poi di immagini verosimili, sempre più vicine agli oggetti del mondo sensibile; poi diventa un poeta dell’anima e dell’universo, un poeta capace di dare una descrizione a quel mondo sensibile che rappresenta; infine è un cantore dell’ordinamento divino, è la trasmissione di un sapere ispirato, direttamente insufflato da una realtà lontana e infinitamente superiore al mondo di qui. Omero ha attraversato tutti questi generi dell’attività poetica e nel prossimo paragrafo vedremo come Proclo riesca a dimostrarlo. 4.4.5. Omero da poeta fantastico a poeta entusiasta Omero racconta attraverso tutte e tre gli abiti poetici. Quando compone in stato di ispirazione divina ed è posseduto dalle Muse, quando espone nozioni nascoste sugli dèi, allora opera secondo il primo grado di attività poetica, quello e[nqeo"; quando descrive nei particolari la vita dell’anima, gli elementi della natura, le norme politiche, allora costruisce i suoi discorsi kata; th;n ejpisthvmhn; quando 160 Procl. In Remp. I, 191, 25 – 192, 3. La citazione è di Plat. Resp. X, 602a8-9. 262 IL FILOSOFO E IL POETA attribuisce ai fatti e ai personaggi le tracce mimetiche che ad essi si addicono, allora procede kata; th;n eijkastikh;n mivmhsin; infine quando mira a ciò che sembra ai più e non alla verità delle cose, e trascina così le anime degli ascoltatori, allora è un poeta kata; to; fantastikovn161. Proclo è pronto a dare un esempio di ciascuna delle tre attività poetiche utilizzate da Omero, cominciando proprio dall’ultima. Se egli ci dice che «il sole sorse, lasciando il bellissimo mare»162, non sta descrivendo le cose come stanno veramente, ma solo come esse appaiono ai nostri ingannevoli sensi a causa della distanza (dia; th;n ajpovstasin)163. Questo tipo di esempio ha creato non poco imbarazzo nella critica moderna perché non si spiega quanto deleterio possa essere un fraintendimento del genere per l’anima dell’ascoltatore. Sheppard definisce ingenuo l’atteggiamento di Proclo pur notando l’interesse che tale verso omerico aveva suscitato già presso gli antichi commentatori. Lo scolio B a Il. VIII, 485, in cui ritorna la stessa immagine del sole al tramonto, spiega in questi termini il dettato del poeta: «non ci mostra la reale caduta del sole, ma ce ne fornisce un’immagine illusoria (fantasivan divdwsin), come se si recasse sotto l’oceano al tramonto»164. L’occorrenza qui del termine fantasiva dimostrerebbe, secondo Sheppard, che Proclo non solo conoscesse lo scolio, ma ne fosse stato anche influenzato nella scelta dell’esempio da portare a dimostrazione della presenza di poesia appunto fantastica nei poemi omerici165. In realtà non è così strana né ingenua la scelta procliana: la peculiarità della poesia fantastica, peculiarità che ne rappresenta anche la negatività, non è rappresentare in maniera falsa la realtà, ma presentare come vera l’immagine falsa della realtà, rappresentare la realtà in maniera falsa come se fosse vera, scambiare 161 Cfr. Procl. In Remp. I, 192, 6-21. Il riferimento è a Od. III, 1: ∆Hevlio" d∆ajnovrouse, lipw;n perikalleva livmnhn. Nonostante le riserve di antichi e moderni (cfr. Festugière 1970, p. 210, n. 2) in questo verso dell’Odissea livmnh vale sicuramente «mare», così come viene inteso anche da Proclo. Cfr. LSJ s.v. livmnh I, 2: «In Homer and other poets, the sea» e viene citato proprio il verso in questione. Mi risulta poco chiara la deduzione di Sheppard per cui Proclo stia qui utilizzando il termine nell’accezione di «lago» dal momento che Proclo usa lo stesso termine omerico: «The scholion takes livmnh as ‘the Ocean’ while Proclus follows the alternative interpretation and takes it as ‘lake’»: Sheppard 1980, p. 164, n. 3. 163 Cfr. Procl. In Remp. I, 192, 21-28. 164 Sch. Il. VIII, 485, vol. II, p. 379, 65-68 Erbse. 165 Tale contaminazione tra lo scolio, che non è ascrivibile a Porfirio, e l’esegeta neoplatonico sarebbe una dimostrazione anche dell’approfondita conoscenza da parte di Proclo della tradizione omerica antica, che non si limitava all’uso sirianeo del filosofo di Tiro: cfr. Sheppard 1980, p. 165. Sulle antiche interpretazioni del passo rimando a Buffière 1956, pp. 215-216. 162 263 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA un’immagine falsa per un’immagine vera della realtà. Insomma, a tutti sembra che il sole vada a nascondersi nel mare al tramonto, ma tutti sanno che è solo un favntasma, un’immagine illusoria quella che ci offre la vista; è un’illusione prospettica che ci procura il nostro orizzonte, dovuta alla nostra smisurata distanza dall’oggetto osservato. Ed è proprio questo tipo di riproduzione fantastica l’oggetto di questa poesia: come abbiamo visto sopra, Proclo si riferisce proprio ai passi del Sofista e delle Leggi in cui si parla di una mivmhsi" corretta nel rispetto delle proporzioni reali delle cose, o falsata se adatta tali reali proporzioni al piacere che la vista, nelle sue variazioni d’orizzonte, procura all’osservatore. Potrebbe sembrare ingenuo, certo, ritenere pericoloso per la città un inganno di questo tipo, ma a ben guardare non lo è affatto. Al potere psicagogico della vista166 l’uomo non può opporre conoscenza certa né poteri mistici; le immagini di cui si serve la poesia epistemica e quella ispirata sono anch’esse immagini, ma il saggio e l’iniziato colgono lo scarto che esiste tra l’immagine e il suo modello e sanno svelare la verità che vi è nascosta, cosa che invece non riesce all’osservatore inesperto e soprattutto preso dal piacere che la vista gli procura. In questo senso, allora, la mimesi eicastica potrebbe essere quella meno insidiosa, ma anche qui saper attribuire ai personaggi e ai fatti il lovgo" appropriato risponde a regole precise, quale quella dell’uniformità, per esempio, che abbiamo presentato nel capitolo precedente. Quando, dunque, Omero racconta dei guerrieri e attribuisce a ciascun carattere le azioni e le parole appropriate, disegnando alcuni come prudenti, altri come coraggiosi, altri ancora come audaci in quel caso la sua poesia è eicastica167. Quanto alla poesia epistemica Omero diventa maestro anche di questioni importanti della filosofia platonica, come quando ha mostrato che sono diverse le parti dell’anima attraverso l’immagine di Odisseo, del suo cuore che lotta contro se stesso, o meglio della sua parte razionale contro quella irascibile (Od. XX, 17)168; ancora nell’Odissea, nella discesa di Odisseo negli inferi, Omero per la prima volta, ancor prima di Platone, individua nell’anima il luogo dell’io, 166 La vista pesava quanto la volontà divina, la forza fisica, la parola nella dimostrazione d’innocenza di Elena edificata da Gorgia: DK 82 B 11, 15-18. Sull’argomento cfr. Tordesillas 2008. 167 Cfr. Procl. In Remp. I, 192, 28 – 193, 4. 168 Immagine ripresa da Platone in Resp. IV, 441b-c. 264 IL FILOSOFO E IL POETA dell’essenza stessa dell’uomo in opposizione al corpo, vana ombra, ei[dwlon, puro fantasma dell’essere. L’eroe omerico incontra nell’Ade Eracle, figlio di Zeus, che ancora brandiva la spada, ma a farlo era solo la sua ombra: «invece il suo vero essere (aujto;" dev) gioisce, in compagnia degli dèi immortali, | una festa eterna ed ha Ebe dalle belle caviglie»169. L’origine divina del suo poetare è invece evidente quando parla delle catene di Efesto, della paternità di Zeus insieme con la divinità fecondatrice di Era, quando racconta della divisione dell’universo in tre regioni governate da Zeus, Poseidone e Plutone. Perché è in stato di possessione divina che il poeta può rivelare le più grandi verità sugli dèi, sulla monade demiurgica, e Omero lo ammette chiaramente. Lo si può leggere nelle parole con cui si rivolge a Demodoco, il cantore alla corte dei Feaci: è stata la Musa, figlia di Zeus, che l’ha istruito, o forse Apollo stesso (Dhmovdoke... ⁄ h] sev ge Mou's∆ ejdivdaxe, Dio;" pavi>", h] sev g∆ ∆Apovllwn, Od. VIII, 487-488), visti i suoi meravigliosi canti sugli Achei, le loro imprese, le loro sofferenze e traversíe; addirittura Demodoco sembra sovrapporsi al poeta arcaico stesso quando gli viene attribuita quella cecità170 che Omero raccontava persino nel nome: «Molto la Musa l’amò (to;n pevri Mou's∆ ejfivlhse), e gli diede il bene e il male: gli tolse gli occhi (ojfqalmw'n me;n a[merse), ma il dolce canto gli diede, Od. VIII, 63-64»171. Se Demodoco è immagine di Omero poeta ispirato, altre figure di cantori presenti nei poemi omerici assurgono ad altrettanti immagini di Omero poeta dell’episteme, poeta della mimesis, eicastica e fantastica. Il cantore della conoscenza delle cose divine e umane è Femio, il poeta di Itaca a cui Penelope chiede di cantare, lui che sa (oi\da", Od. I, 337), le avventure degli dèi e degli uomini per dare conforto ai mali degli uomini. La poesia eicastica è rappresentata da un cantore anonimo al seguito di Clitennestra, al quale Agamennone, partendo, aveva fatto molte raccomandazioni (Od. III, 267-268) e infatti la moglie, finché il bardo era rimasto con lei a corte, si era sempre tenuta lontana da empietà e 169 Cfr. Procl. ibi, I, 193, 4-9. Il passo citato è di Hom. Od. XI, 602-603. Proclo commenta il passo in In Remp. I, 171, 18 – 172, 30, dimostrando come la stessa espressione platonica «aujto; to; aujto;» di Alc. I, 130d4 è presa direttamente da Omero. L’episodio odissiaco è in realtà di grande interesse già per i medioplatonici e per Plotino stesso: cfr. Ps-Plutarch. De vit. Hom. 123; Plut. De fac. 944-945; Plot. Enn. IV, 3 (27), 27. Sulla ricezione della figura di Eracle nel neoplatonismo cfr. Pépin 1971. 170 Intorno alla cecità di Omero in rapporto a quella di Stesicoro cfr. supra § 4.2.1, p. 228, n. 64. 171 Cfr. Procl. In Remp. I, 193, 10 – 194, 5. 265 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA crimini, consigliata com’era dai canti assennati dell’aedo. È necessario notare che risulta abbastanza problematica quest’ultima scelta procliana, se si tiene conto del fatto che l’ammonimento era stato presentato come una caratteristica più propria della poesia epistemica, che mimetica; Proclo, però, sottolinea che a questa figura di cantore, che deve connotarsi comunque come positiva rispetto a quella che presenterà subito dopo, è possibile attribuire quantomeno un’opinione corretta (ojrqh/' dovxh'/ crwvmeno", I, 194, 20-21), che, ricordiamo, apparteneva proprio alla poesia eicastica detta appunto ojrqodoxastikhv in I, 191, 28. L’ultimo cantore, immagine del grado più basso di attività poetica è Tamiri, un personaggio che ritorna anche nella sedicesima Dissertazione172. Tamiri aveva osato rivaleggiare con le Muse, dedicandosi ad una poesia variegata, lontana dalla mousikhv più semplice che è quella divina, ed era, perciò, stato punito con la cecità (Il. II, 599)173. Omero presenta, dunque, tutti e tre i generi poetici, ma quello ispirato è sicuramente predominante rispetto agli altri due. È Platone stesso a dichiararlo, chiamandolo in diversi luoghi un poeta divino, o il più divino dei poeti, o colui che più di tutto deve essere emulato. Allo stesso tempo, però, il poeta arcaico, pur parlando per ispirazione divina, cede qualche volta al genere immaginifico e illusorio, per trovare un favore più facile tra il suo pubblico e perché non necessariamente ogni poesia di questo tipo deve essere scartata dall’arte poetica. C’è però una forma di poesia, quella tragica, che a differenza di quella epica, è interamente composta alla maniera fantastica, creando immagini illusorie volte alla fascinazione dell’anima (yucagwgiva). Ora – scrive Proclo – proprio come non si dà colpa alla città giusta e ben ordinata che ammetta l’uso moderato del vino e si accusa piuttosto l’assenza di giudizio del singolo individuo che cede all’ubriachezza174, così non si deve attribuire ad Omero la colpa del fatto che, seguendo il suo esempio, i poeti tragici abbiano preso a comporre secondo l’arte della copia ingannevole, ma bisogna accusare piuttosto l’incapacità di quanti 172 La figura di Tamiri è presente anche in Resp. X, 620a6-8 e perciò ritorna nel commento procliano al mito di Er in In Remp. II, 314, 19 ss. 173 Cfr. Procl. In Remp. I, 194, 6 – 195, 12. 174 Il riferimento è a Plat. Leg. I, 640d9-e5 e II, 673e3-674c7 dove, appunto, intorno alla regolamentazione dell’uso del vino l’Ateniese opportunamente distingue il buon ordinamento di una città che lo ammette in maniera controllata e il caso specifico di corruzione dei costumi. 266 IL FILOSOFO E IL POETA hanno scelto di gareggiare con lui nel grado più basso della sua poesia. In questo modo Proclo sta affinando sempre di più i contorni della critica platonica alla poesia: la tragedia fa la sua comparsa in queste pagine della Dissertazione e comincia a manifestarsi come il vero bersaglio degli attacchi di Socrate all’arte poetica175. Si può ben dire che Omero abbia segnato la strada alla tragedia nella misura in cui i poeti tragici hanno voluto emularlo in quella parte dell’arte poetica che abbiamo definito fantastica, ma ciò non motiva una sua presunta colpevolezza. Infatti così conclude Proclo: Ma egli non è maestro (didavskalo") solo della tragedia176 – di questa lo è soltanto rispetto al grado più basso (kata; to; e[scaton) della sua poesia – ma anche di tutta la produzione mimetica di Platone (th'" Plavtwno" aJpavsh" pragmateiva" th'" mimhtikh'") e della sua intera speculazione filosofica (kai; th'" filosovfou qewriva" o{lh")177. Omero maestro di Platone, nei contenuti e nella forma: l’accusa di Socrate al poeta arcaico diventa non solo l’accusa a solo una parte della sua poesia, quella che poi trova la sua piena espressione nella tragedia, ma anche il riconoscimento della verità del suo contenuto ispirato, verità che essa condivide con la filosofia. 4.5. Mimesis e simbolo nell’attività del primissimo poeta Lo sviluppo dell’argomentazione, nelle ultime pagine della sesta Dissertazione, acquista il tono di una vera e propria difesa giudiziaria e ne utilizza gli strumenti argomentativi. Con testo alla mano, Proclo analizza nel dettaglio lo scritto platonico. Comincia dall’inizio del decimo libro, da quell’ o{sh mimhtikhv (595a5) che si fa da subito argomento apologetico della poesia arcaica. Bisogna rifiutare tutto quanto vi sia di mimetico nella poesia, dichiara Socrate a Glaucone nel riprendere il discorso sull’arte poetica interrotto nel libro III e nell’introdurre quello sulla mivmhsi". 175 Cfr. Procl. ibi, I, 195, 22 – 196, 9. Per Omero maestro dei tragici già per Platone cfr. Resp. X, 595c1-2, 598d8, 605c11, 607a3. 177 Procl. In Remp. I, 196, 9-13. 176 267 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA In effetti, sarebbe stato inutile aggiungere questa precisazione (tov te ga;r … tou'to prostiqevnai perittovn) se egli avesse pensato che tutta la poesia è di livello mimetico (pa'san oijovmenon ei\nai mimhtikhvn), e sarebbe stato assurdo rivolgersi soltanto alla poesia mimetica (kai; to; … pro;" th;n mimhtikh;n ajpoteivnesqai movnhn a[logon) presupponendo di attribuire gli stessi discorsi all’intera poesia (kata; pavsh" tou;" aujtou;" ejfarmovttein lovgou" 178 uJpolambavnonta) . Il procedimento ermeneutico di Proclo prosegue per dimostrazioni ejx uJpoqevsew": se pensassimo che tutta la poesia si riduce al livello mimetico della sua attività, e soprattutto a quello ingannevole, allora giustamente potremmo ritenere che Platone rifiuti l’arte poetica per intero. Ma dal momento che egli ammette l’esistenza di una poesia ispirata dagli dèi e di una che compone dietro conoscenza, allora dobbiamo concludere che è contro la poesia fantastica che egli dirige le sue accuse, lasciando invece libere da critiche le altre forme di composizione poetica. Si apre così una trattazione della poesia mimetica in rapporto a quella ispirata che può sembrare contraddittoria rispetto a quanto detto sull’arte poetica nella quinta Dissertazione. L’oggetto dell’accusa di Platone è quanto vi è di mimetico nella poesia: l’aver precisato il bersaglio della sua accusa – spiega Proclo – fa intuire che questo bersaglio sia solo una parte rispetto al tutto, altrimenti, se esso coincidesse con la poesia tout entière tale precisazione sarebbe stata superflua. Deduzione assolutamente verosimile, ma contrastante con quella definizione di arte poetica come e{xi" mimhtikhv data da Proclo nella quinta Dissertazione ma anche con tutto l’apparato simbolico e immaginativo che sta alla base dell’analogia costruita tra i livelli semantici della poesia e il rito teurgico da una parte e la serialità ontologica degli ordinamenti divini dall’altra. Si fa allora necessario soffermarsi su questa questione cruciale dell’estetica procliana. Il lessico utilizzato da Proclo per parlare delle modalità di produzione poetica è molto vario. La critica ha voluto a tutti i costi codificare l’enorme complessità della riflessione procliana su questo argomento cercando, e trovandoli 178 Procl. ibi, I, 197, 18-21. 268 IL FILOSOFO E IL POETA anche, degli appellativi che potessero ordinare la totalità delle varianti considerate dall’esegeta. Si è così parlato di poesia ispirata (o simbolica), attribuendola ad Omero, di poesia didattica (o educativa) quella di Platone e dei filosofi naturalisti, di poesia mimetica (o illusoria), quella degli autori tragici. A mio parere la fecondità dell’ermeneusi procliana mette in crisi da subito un atteggiamento del genere. Il proliferare delle soluzioni esegetiche che vadano a chiarire incongruenze, affermazioni più o meno ironiche del testo platonico, non può risolversi in una struttura monolitica e compatta. Si è abituati a pensare alla sistematicità della filosofia procliana come ad un tutto stabile e mai contraddittorio. In realtà, nell’irriducibile sforzo di tenere insieme tutte le fila del pensiero platonico s’insinuano inevitabilmente distorsioni e sbavature che, se inserite nella vera natura dinamica del modello ermeneutico procliano, diventano non più subdole contraddizioni da schivare, ma tappe esegetiche feconde per la comprensione del testo. A mio avviso questo ritorno critico sulla mimesis alla fine della sesta Dissertazione va considerato proprio rispetto alla trattazione appena completata sui tre generi dell’attività poetica. È chiaro che Proclo si sta qui riferendo non alla natura intrinsecamente immaginativa, rappresentativa della poesia, ma solo a quel determinato tipo di immagine fraudolento e illusorio, quello che, adattandosi alle distorsioni prospettiche e al piacere che procura nel pubblico, si spaccia per il modello di cui quell’immagine è solo una rappresentazione. Abbiamo già visto come una distinzione tra la poesia di prim’ordine, se così possiamo esprimerci, e quella di second’ordine sulla base delle finalità didattiche non è in grado di cogliere questo dinamismo di cui vado parlando: se di primo acchito può sembrarci allettante definire didattica la poesia che è espressa dai miti del Timeo o del Fedro, oppure dai poemi dei primi filosofi sulla natura, o dei poeti elegiaci che parlano di virtù civili, per distinguere questi miti e questi poemi da quelli di Omero, non filosofo e poeta, ma solo cantore divino, presto ci accorgiamo che paideutica è tutta quanta la poesia, anche quella del filosofo, anch’egli ispirato come il poeta, e proprio perché necessariamente paideutica può essere considerata pericolosa per i più giovani179. Abbiamo visto poi come questo stesso elemento didattico, ammonitorio, si ritrova anche nella 179 Cfr. Procl. In Remp. I, 57, 15-20. 269 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA poesia eicastica il cui modello di poeta omerico è individuato nella figura anonima dell’aedo di Clitennestra proprio perché possiede una corretta opinione delle cose e in base a questa riesce a dare consigli alla sua padrona, tenendola lontana da crimini e azioni violente. Trovare allora nella fonte di produzione poetica, che è ora l’entusiasmo, ora la conoscenza certa, ora ancora la corretta opinione, e infine l’apparenza, mi sembra davvero il criterio più ampio e perciò più trasparente da utilizzare nella dinamica delle somiglianze e differenze tra ciascuno dei gradi di attività poetica. Riguardo poi alla mimesis ci si trova di fronte alla stessa difficoltà se ci si propone di schematizzare in maniera definitiva i tre generi dell’attività poetica intorno a questa categoria estetica. Stephen Halliwell, nello studio già ricordato180, coglie un aspetto primario che deve fare da supporto alla lettura di queste complesse pagine del Commentario alla Repubblica. Egli distingue tra una mivmhsi" descrittiva e una mivmhsi" valutativa: la prima, quella di cui Proclo parla soprattutto nella quinta Dissertazione, descrive il generale stato rappresentativo della poesia (ma anche del dialogo platonico); la seconda si pone al gradino più basso nella scala delle forme poetiche181. Da una parte, dunque, la mimesis in quanto tecnica poietica, nella quale rientrano anche attività non poetiche come quelle linguistica e demiurgica, dall’altra la mivmhsi" in quanto modalità compositiva. Quando Proclo definisce l’arte poetica un’arte mimetica182 lo fa perché essa è un’attività umana di produzione di oggetti sussistenti in relazione ad un modello, ad un paradigma, e come abbiamo visto nel secondo capitolo a proposito della produzione linguistica, anch’essa mimetica, tale attività si fonda su una capacità assimilatrice dell’anima insita nel suo potere demiurgico analogo a quello divino. In questo senso la mimesi è quel processo che regola per analogia qualsiasi forma di produzione demiurgica, quella del cosmo, della parola e del 180 Cfr. supra § 3.3.1, pp. 137-139. Il fatto che le tre forme di poesia, che anche Halliwell assume come livelli o tipi di significato o di interpretazione, possano coesistere in una sola opera, come quella omerica, sarebbe la dimostrazione, secondo lo studioso, che anche la poesia ispirata o quella educativa – così infatti egli chiama il secondo livello di attività poetica – possano riuscire anche mimetiche o rappresentative se guardate da una certa prospettiva. Il modello tripartitico della sesta Dissertazione serve, insomma, come un suggerimento di lettura dell’opera poetica, ora di livello alto, ora di livello più basso a seconda del giudizio dell’interprete. Cfr. Halliwell 2009, pp. 280-281. 182 Cfr. In Remp. I, 44, 1-2; 67, 7. 181 270 IL FILOSOFO E IL POETA discorso poetico, e nella prospettiva procliana, una prospettiva che guarda ad un mondo e a nature gerarchizzati, organizzati su diversi e plurimi livelli, l’origine mimetica di una qualsiasi forma di poiesi costituisce un modello ermeneutico di assoluta trasparenza. Non dobbiamo dimenticare che la stessa schematizzazione delle attività poetiche è organizzata su livelli; quando Proclo parla della pietra eraclea non esita a distinguere una causa primissima dell’ispirazione poetica dal poeta di livello intermedio, cioè Omero, e questo dall’ultima eco rappresentata dal rapsodo. E anche ora nel parlare del reale oggetto della condanna platonica egli identifica un primissimo poeta (oJ prwvtisto" poihthv", I, 198, 28) che non può essere quello lontano tre volte dalla verità oggetto della condanna platonica. Se provassimo a circoscrivere qualsiasi occorrenza della famiglia lessicale della mivmhsi" alla terza forma di poesia presentata da Proclo nella sesta Dissertazione, cadremmo inevitabilmente in contraddizione. Come abbiamo visto sopra, nell’introdurre il discorso sulla corretta interpretazione della poesia omerica, Proclo parla di immagini: sono eijkovne" quelle raccontate da Omero e che vanno interpretate allegoricamente; i verbi mimevomai, ajpotupovw sono quelli che raccontano di tale modalità compositiva. In quelle prime pagine (77-78) non c’è nessun riferimento al suvmbolon come invece ci aspetteremmo e come accade in qualche pagina dopo e ora nella parte finale della Dissertazione183. Ma non solo non è possibile eliminare i termini etimologicamente legati alla mivmhsi" dalla prima forma di poesia, ma non è possibile neppure attribuire il termine suvmbolon alla sola sfera della poesia ispirata. Quando infatti Proclo presenta le due forme di poesia l’una più ispirata e l’altra più adatta all’educazione dei giovani (I, 84) le descrive entrambe come poesie che si servono di suvmbola sebbene la prima racconti di∆ ajnantiwvthto" tw'n sumbovlwn e la seconda dia; oJmoiovthto" tw'n sumbovlwn184. È evidente come il lessico stesso dell’immagine ci dà conto dunque di questa pluralità semantica della sfera mimetica: tutto questo perché la poiesi poetica è, 183 Cfr. supra, § 4.1.2, p. 210, n. 14. Tra questa varietà e intercambiabilità del lessico utilizzato si può però considerare univoco l’uso e il significato del termine suvnqhma, specificamente teurgico, inteso come formula mistica, segreta, attribuito sempre e solo alla poesia ispirata. 184 271 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA come qualsiasi altra forma di produzione, una mimesi e con il lessico della mimesi va necessariamente raccontata. La funzione della categoria estetica della mimesi espressa nella definizione dei tre abiti poetici corrispondenti ai tre abiti psicologici dell’uomo è, invece, una funzione diversa da quella svolta in ambito poietico-demiurgico. In questo contesto Proclo si sta riferendo a quella modalità rappresentativa propria della poesia drammatica, quella nella quale, più che altrove, lo scarto tra il paradigma e la sua immagine diventa debolissimo e riconoscere la natura mimetica dell’immagine si fa davvero difficile; è quel genere compositivo che mostra Omero come se fosse Paride o Achille o Penelope o Priamo. Proclo lo dice chiaramente riconducendo ad un sillogismo di prima figura la condanna platonica esposta nel decimo libro della Repubblica: il poeta è un mimhthv"; il mimhthv" è tre volte lontano dalla verità; il poeta è tre volte lontano dalla verità. Il principio di tale deduzione sta nell’aver preso come mimhthv" del nostro discorso colui che è tre volte lontano dalla realtà e nel prosieguo dell’argomentazione il mimhthv" che risponde a tale definizione è il poeta tragico, produttore come il pittore, di ei[dwla, apparenze di apparenze (Resp. X, 597b). Sono coloro che si dedicano alla poesia drammatica, in giambi o in versi epici – duneque, specifica Proclo, il poeta tragico ma anche Omero – i mimhtikoi; wJ" oi|ovn te mavlista, i poeti mimetici al massimo grado, perché capaci di creare quell’errore di prospettiva con il quale la vista può credere reale ciò che è soltamente simile al reale, ciò che è soltanto una rappresentazione del reale. Nell’introduzione alla sesta Dissertazione abbiamo appreso che nei racconti divini, apparentemente turpi e vergognosi, il poeta descrive per opposizione le verità somme, quelle sugli dèi, e con termini più lontani dall’oggetto del racconto esprime le realtà più vere da leggere e interpretare allegoricamente. Chi è sprovvisto di tali strumenti ermeneutici può certo essere offuscato da tali storie che saranno da loro accolte in maniera letterale, finendo per suscitare un desiderio di emulazione certo pericoloso; ma chi, da iniziato, riuscirà a sollevare il velo allegorico posto su tali argomenti mistici, potrà apprenderne i principi sommi della verità divina. La poesia drammatica, invece, confonde il suo pubblico, certamente quello meno avveduto, perché mostra una realtà smisurata, distorta, 272 IL FILOSOFO E IL POETA più vicina o più lontana del vero, più pesante o più leggera, come se essa, però, fosse assolutamente conforme al vero, sfruttando quella nostra affezione naturale, quella confusione presente nell’anima di ciascuno di noi che si lascia ingannare dagli errori della vista (Resp. 602c10-d4). Qual è allora il rapporto tra tutto ciò e la poesia di Omero? Proclo è chiaro su questo punto: le critiche platoniche sono rivolte senza dubbio contro la poesia tragica e comica perché in queste tutto è mimesi (touvtwn ga;r to; o{lon mivmhsiv" ejstin), e tutto è volto alla fascinazione delle anime degli ascoltatori (pro;" th;n tw'n ajkouovntwn ejxeirgasmevnh yucagwgivan)185. La poesia omerica, quella che, in quanto ispirata, prende slancio direttamente dagli dèi e quella che, con conoscenza certa, rivela la natura degli esseri non può invece rientrare in considerazioni di tal fatta. E come d’altronde potrebbe dirsi imitativa (pw'" ga;r a]n ... mimhtikh; prosagoreuvoito) la poesia che interpreta le cose divine per mezzo di simboli (hJ dia; sumbovlwn ta; qei'a ajfermhneuvousa)? Infatti i simboli delle cose di cui essi sono simboli non sono delle copie. Il contrario non potrebbe mai essere una copia del suo contrario (ta; me;n ga;r ejnantiva tw'n ejnantivwn oujk a[n pote mimhvmata gevnoito), il turpe copia del bello, il conforme alla natura una copia del contro natura. La dottrina simbolica (hJ de; sumbolikh; qewriva) indica la natura del reale attraverso i contrasti più forti (dia; tw'n ejnantiwtavtwn). Se dunque un poeta è ispirato (ei[ ti" a[ra poihth;" e[nqou" ejstivn) e mostra la verità sugli esseri per mezzo di formule segrete (dia; sunqhmavtwn), o se, servendosi di conoscenze certe (h] ei[ ti" ejpisthvmh crwvmeno") ci mostra l’ordine delle cose, questo poeta non è né un imitatore (ou|to" ou[te mimhthv" ejstin) né può essere confutato dalle dimostrazioni proposte (ou]te ejlevgcesqai duvnatai dia; tw'n prokeimevnwn ajpodeivxewn)186. Questo passo è risultato evidentemente problematico a tutta la critica moderna. Da una lettura immediata si evince che la mimesis viene qui separata profondamente dalla rappresentazione. Abbiamo visto però come all’inizio della sesta Dissertazione Proclo abbia descritto il carattere intrinsecamente allegorico 185 186 Cfr. Procl. In Remp. I, 198, 10-11. Procl. ibi, I, 198, 13-24. 273 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA del mito arcaico, quello di più alto livello, capace di rivelare le somme verità teologiche, proprio in termini di contrapposizione, di contrarietà (I, 77, 19-24). In quel caso il filosofo licio utilizzava a piene mani il linguaggio iconico della mimesis, senza accennare minimamente al simbolo. La rappresentazione acquisiva il suo significato più proprio di relazione tra il mondo visibile e materiale da una parte, e il mondo delle forme immateriali dall’altra, proprio come alla fine della quinta Dissertazione diventava modello cosmico del poeta del mondo sensibile il dio Apollo, che «costruisce sulla base di realtà invisibili rappresentazioni (mimhvmata) visibili»187. Se si vuole, allora, cercare di comprendere, piuttosto che escludere, la ricchezza ermeneutica del linguaggio utilizzato da Proclo nel suo discutere della rappresentazione poetica, è allora necessario leggere quest’ultimo passo appena citato alla luce della lunga descrizione sulle attività poetiche appena portata a termine. A mio parere è evidente come qui Proclo non stia parlando della mivmhsi" in quanto categoria estetica ed ontologica, categoria che descrive la natura relazionale che lega qualsiasi produzione e prodotto, divino o umano che sia, a tutti gli elementi dell’universo inteso nella sua totalità e particolarità, ma della mivmhsi" in quanto livello più basso dell’attività poetica, quello compositivo proprio della tragedia e della commedia188. Infatti, da questa forma di mivmhsi" è esclusa non solo la poesia ispirata, come ci aspetteremmo, ma anche quella epistemica, a dimostrazione del fatto che il discorso sulla critica alla poesia mimetica sia esclusivamente interno allo schema della tripartizione proposta nelle pagine precedenti. Insomma la poesia compone sempre per immagini; essa è 187 Procl. ibi, I, 68, 16-17. Halliwell 2009, p. 283 individua nel ruolo che la mimesis svolge nel Timeo, nella produzione del mondo sensibile sul modello di quello intelligibile, il concetto di rappresentazione cui Proclo guarda nell’uso più ampio della mimesis poetica, quello volto a significare appunto il rapporto iconico esistente tra mondo fenomenico e modello eidetico. A suo parere le oscillazioni di senso rinvenibili nel Commentario alla Repubblica sono da ricollegare alla profonda dimestichezza del filosofo licio con l’ampio spettro del vocabolario platonico relativo alla mimesis che però non viene mai esplicitamente coordinato alle sue diverse applicazioni. Nel suo tentativo di sollevare Omero oltre la sfera dell’umano, l’esegeta degrada volontariamente le ‘superfici’ testuali per esaltare la portata teologica di ciò che sta dentro il mito, ma dall’altro, non riesce a rinunciare alla potenza ermeneutica di tutto quell’apparato esteriore, narrativo e drammatico, che fonda l’arte poetica. «Se il rischio più grande delle dissertazioni di Proclo è il tentativo di riscattare Omero mantenendo tutta la fedeltà a Platone, in modo che il poeta e il filosofo si dimostrino ugualmente dediti al divino, non deve sorprenderci che l’arditezza di questa impresa abbia lasciato nei testi qualche segno d’incoerenza»: p. 284. 188 Contra Sheppard 1980, pp. 199, che invece separa nettamente simbolismo e mimesis in quest’ultima parte della trattazione procliana, sottovalutando forse eccessivamente la forte contraddizione interna che ne deriva. 274 IL FILOSOFO E IL POETA sempre una rappresentazione di qualcosa che esiste sempre in relazione ad un modello. In questa sua natura mimetica, nel senso di rappresentativa, che si esprime ora per opposizione, ora per somiglianza, ora per imitazione, la poesia trova anche il suo valore didattico e rivelativo, ora veritativo ora illusorio. Intendo dire che è la funzione analogica, il suo stare per a dare alla poesia un ruolo centrale nel percorso di conoscenza e di assimilazione dell’anima particolare alle verità somme di natura divina. Questa funzione rivelativa, però, se espressa da una bocca ispirata, è pari ad un’esperienza magico-teurgica attraverso la quale gli ascoltatori, come se fossero degli iniziati al culto segreto, riescono ad essere illuminati della luce divina emanata dal Principio Primo; se, invece, parla attraverso imitazioni false, immagini doppie, incanta solamente, trascina la parte irrazionale dell’anima confinandola nel livello sensibile delle cose, mostrando l’apparenza dell’apparenza come se fosse il vero, l’immagine della copia sensibile come se fosse il modello eidetico di quell’immagine. Ora è vero – continua Proclo – che il poeta, in quanto imitatore, è terzo a partire dalla verità, ma non lo è oJ prwvtisto" poihthv", il poeta primissimo e più divino. Come abbiamo già avuto modo di notare, è la gerarchizzazione del sistema metafisico, e in questo caso anche ermeneutico, a concedere un’apertura del genere. Quella che può sembrare una contraddizione o un’ingenua argomentazione, risponde invece ad un ordine interno alla struttura che lo stesso Proclo va costruendo. In quanto posseduto dalle Muse il poeta è in contatto con gli esseri di primo livello e contempla la verità, in quanto, invece, è imitatore è terzo a partire dalla verità. Bisogna caratterizzare ciascuna cosa dall’elemento sommo, non dal più basso, precisa il nostro esegeta, altrimenti potremmo trovarci in difficoltà anche nei confronti di Platone. Anche lui inserisce nei suoi dialoghi delle imitazioni di persone che bevono, o che sono in guerra, come nel Crizia e nel Timeo, ma ciò non è il fattore principe della sua scrittura; ciò che conta è la dottrina filosofica di Platone. Come ci comportiamo con Platone, così ci comporteremo con Omero e vedremo il suo primissimo bene nello stato di ispirazione divina (oJ me;n ejnqeasmo;" to; prwvtistovn ejstin ajgatovn) e l’ultimo nella mimesis (to; de; mimhtikovn e[scaton)189. 189 Cfr. Procl. ibi, I, 198, 28 – 199, 10. 275 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA 4.6. L’arringa finale: storia delle tradizione e filosofia a confronto Ancora nel decimo libro della Repubblica, Platone finiva per dimostrare che il poeta, essendo lontano tre volte dalla verità, delle cose che rappresenta non ha né conoscenza certa (ejpisthvmh) né corretta opinione (ojrqh; dovxa, ojrqh; pivsti") che invece sono possedute rispettivamente dal fruitore della cosa e dal suo costruttore190. Ciò avrebbe reso Omero, Esiodo e i poeti loro contemporanei assolutamente incapaci di incidere nella vita privata e pubblica dei Greci. Nessuno di loro è stato esperto di medicina, ma solo imitatore di discorsi medici, nessuno di loro ha mai guarito qualche malato né è stato capace di lasciare dopo di sé una scuola, come quella pitagorica o quella dei sofisti; nessuna città ha avuto un miglior governo grazie ad Omero, nessuna guerra è stata ben combattuta sotto il suo comando o i suoi consigli. Tutto questo perché essi sono solo imitatori di simulacri della virtù (mimhta;" eijdwvlwn ajreth'") e non attingono alla verità (th'" de; ajlhqeiva" oujc a{ptesqai)191. Proprio perché incapaci di cogliere e trasmettere la realtà delle cose, e di influire sugli aspetti politici e didattici della vita pubblica e privata della città, i poeti hanno invece sempre esercitato il loro potere sulla parte irrazionale dell’anima. Queste le accuse platoniche. Proclo risponde, com’è abituato, punto per punto e così adduce una motivazione di carattere storiografico alla solo apparente assenza di Omero dalla vita politica delle città greche. Il fatto che non sappiamo di una ripercussione attiva dei consigli etici diffusi nei poemi omerici sulla vita della città sarebbe da attribuire alla distanza temporale che ci divide da quei secoli, dall’assenza in quell’epoca di storici che potessero testimoniare tutto ciò. Che Pitagora abbia educato molte città, che Licurgo abbia dotato di una legislatura i Lacedemoni, che Solone l’abbia fornita agli Ateniesi, lo sappiamo grazie a degli 190 191 Plat. Resp. X, 600e3-602c3. Cfr. Plat. ibi, X, 599b9-602e2. 276 IL FILOSOFO E IL POETA storici che ce l’hanno raccontato, cosa che non accadde ai tempi di Omero e di Esiodo192. Quanto, invece, agli effetti psicologici della poesia arcaica, il Diadoco ateniese scardina il punto fondamentale di tale accusa. Le cose di cui Omero conosce solo l’aspetto visibile sono secondarie ed accessorie rispetto alla reale portata epistemica e didattica dei due poemi epici. Ci sono degli oggetti di cui egli ha ejpisthvmh e gnw'si", rispetto ai quali egli conosce bellezza e vizio e ciò risulta dalla presenza critica del poeta in alcune azioni di cui non rinuncia a giudicare la correttezza o l’immoralità193: ciò accade, per esempio, quando canta: «Così disse Atena, e a lui, stolto, persuase la mente (tw/' de; frevna" a[froni pei'qen, Il. IV, 104)», oppure quando giudica sfortunato (nhvpio", Od. III, 146) Agamennone, ingenuamente convinto di poter placare lo sdegno di Atena offrendo sacre ecatombi, o ancora quando si esprime, in riferimento al porcaro ospite di Odisseo e di Anfinomo, uno dei Proci che piaceva a Penelope per i suoi abili discorsi, con le parole: «non trascurò gli immortali, perché si serviva di saggi pensieri (fresi; ga;r kevcrht∆ ajgaqh'/sin, Od. XIV, 421; XVI, 398)». Tutte espressioni queste con le quali il poeta arcaico dà alle azioni il suo personale giudizio di approvazione o di biasimo, a differenza di quanto Platone attribuisce al mimhthv" oggetto della sua critica194. È allora alla poesia tragica e comica che Platone guarda quando parla di un potere esercitato sulla parta irrazionale dell’anima, perché invece l’attività principale della poesia omerica «risiede proprio nel perfezionamento del nostro intelletto e del nostro pensiero» (to; mevgiston e[rgon eij" th;n tou' nou' kai; th'" dianoiva" hJmw'n teleivwsin ajpokei'sqai, I, 201, 18-20); e questo – spiega Proclo – non lo dice lui solo, ma Platone stesso quando nello Ione afferma che il poeta entusiasta trasmette il suo stato di possessione divina al suo pubblico, che così si eleva con lui al delirio delle Muse. Cambiando abilmente la prospettiva da cui guardare a questa dimensione irrazionale dell’anima, Proclo interpreta quella che per Platone è la parte patetica della psyche, come la sua attività sovra192 Cfr. Procl. In Remp. I, 200, 8-24. Cfr. Procl. In Remp. I, 201, 9-11: «dhloi' dev pou tou'to kai; aujto;" oJ qei'o" poihthv", pantacou' toi'" prattomevnoi" th;n eJautou' krivsin ejpifevrwn, o{ti kala; kai; o{ti aijscrav». 194 Il riferimento è a Plat. Resp. X, 602a8-9 dove appunto si dice che il mimhthv" non avrà né conoscenza né corretta opinione circa la bellezza o i difetti (pro;" kavllo" h] ponhrivan) di ciò che imita. Cfr. Procl. In Remp. I, 192, 2-3 e supra p. 262. 193 277 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA intellettiva che entra in contatto col divino, quella che realizza l’unione col Principio Primo ricevendone la massima facoltà conoscitiva. Se dunque è la parte emotiva quella che è posseduta dagli dèi (eij me;n ou\n to; paqhtikovn ejsti to; ejnqousiavzon), lasciamo pure che a questa parte Omero rivolga la sua attività; se invece è l’intelletto o ciò che è più divino dell’intelletto (eij de; nou'" h] tou' nou' qeiovteron), saremmo molto lontani dal dire che la poesia di Omero ci mette nello stesso stato emotivo della poesia tragica195. Ebbene, a Socrate che accusa la poesia di rivolgersi al carattere eccitabile e mutevole dell’anima per godere di buona fama tra i più (Resp. X, 605a2-5), Proclo risponde che il poeta in stato di possessione divina indirizza i suoi discorsi alla parte divina dell’anima (pro;" to; qei'on th'" yuch'") e che quando Omero corregge con i suoi rimproveri le passioni degli uomini non si può certo dire che stia eccitando e alimentando l’elemento patetico di ciascuno di noi. Questa è, contro gli attacchi di Socrate (pro;" ta;" Swkratika;" ejfovdou"), la nostra arringa (tosau'ta dikaiologou'meqa196) in difesa di Omero e della poesia ispirata (uJpe;r ÔOmhvrou kai; th'" ejnqevou poihvsew")197. Lunga e strutturata è stata l’argomentazione procliana intorno alla poesia arcaica. L’esegeta ha prima fornito le regole per una corretta lettura dei miti omerici, lettura che risponde alle esigenze didattiche ed esemplari dei discorsi socratici; poi ha dimostrato come Platone abbia più volte imitato lo stile omerico, componendo in molti dei suoi dialoghi dei racconti mitici simili a quelli di Omero non solo nella forma, drammatica anch’essa, ma anche nel contenuto, rivelativo della stessa verità sugli esseri; a quel punto ha proposto una sua teoria estetica cercando di circoscrivere le accuse platoniche ad una parte limitata della poesia 195 Procl. In Remp. I, 201, 23-26. A differenza della concezione omerica, dove sono gli impulsi non razionali ad essere avvertiti come intervento divino, in Platone è proprio la razionalità ad essere considerata il divino nell’umano: cfr. Palumbo 2001, pp. 19-31. 196 Dikaiologeomai e ephodos sono termini tecnici della retorica giudiziaria: cfr. LSJ s.v. dikaiologevomai A, 1 e e[fodo" II.3 e III. Dikaiologevomai è usato metaforicamente già in Iambl. De myst. III, 19, p. 147, 1112. 197 Procl. ibi, I, 202, 4-6. 278 IL FILOSOFO E IL POETA arcaica, ovvero a quella parte che ha fatto da scuola alla tragedia e alla commedia e che si è espressa poi al massimo grado proprio a teatro. Il discorso su Omero e Platone è stato prima una lezione ermeneutica su Omero, poi una riargomentazione delle accuse stesse di Platone giocata sul tentativo di equiparare il filosofo e il poeta, e infine è diventato una vera e propria arringa in difesa del poeta cieco e della poesia ispirata. Nelle ultime pagine Proclo ritorna, però, ejpi; qavtera, dall’altra parte; abbandona la prospettiva arcaica per interpretare Platone inserendolo nelle sue coordinate storiche. «Perché Platone si pone il problema della poesia?» si chiede Proclo. Il Diadoco di Atene si dimostra un acuto lettore del suo maestro, nel fare di questa domanda l’oggetto ultimo della sua riflessione198. Platone conosceva bene tutti questi elementi attentamente valutati e presentati scrupolosamente dall’esegeta ai suoi lettori; tutte queste verità sulla poesia ispirata, sul valore rappresentativo del racconto mitico, anche sulla necessità di una sua interpretazione allegorica erano certo già note a Platone; a Proclo si deve solo l’aver armonizzato e quindi ordinato le teorie estetiche e psicologiche del suo divino maestro. Allo stesso tempo non sarà stato certo per una qualche affezione particolare (dia; pavqo") che il filosofo ateniese creò un vero e proprio conflitto, un contrasto interno ai diversi dialoghi (suvstasi"), parlando della poesia ora con venerazione ora con biasimo. Se Platone ha visto nel racconto mitico un interlocutore sempre presente, mai domato totalmente (lo dimostra la presenza ancora ingombrante nelle Leggi di temi quali il valore paideutico della musica, la correttezza della mimesi, il piacere estetico), è il motivo di tale dibattito, più che il dibattito in sé, a dover essere posto al centro di un’ermeneutica non solo corretta ma anche proficua della littera platonica. Nel tentativo, allora, di trovare una spiegazione ragionevole a tale atteggiamento platonico, Proclo entra nel contesto storico dell’Atene classica, guarda a quel momento cruciale in cui la filosofia e i discorsi sulla scienza si andavano a scontrare con una tradizione che aveva visto nella poesia l’unica fonte di verità e di insegnamento etico. Platone, di fronte all’eccessivo riguardo nei 198 Cfr. Procl. ibi, I, 202, 9-11. Festugière scrive in nota alla sua traduzione: «Proclus se montre ici excellent critique et son analyse des causes historiques du débat socratique n’a pas, à ma connaissance, son équivalent dans l’antiquité»: p. 219, n.1. 279 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA confronti della tradizione arcaica e all’ingenua convinzione che l’arte mimetica, come quella tragica, potesse essere sufficiente ad educare i giovani della futura città giusta, è obbligato a istituire questo conflitto, attraverso il quale poter dimostrare da una parte che il genere poetico e mimetico vagano in qualche modo lontano dalla verità, dall’altra che è la filosofia a procurare la vera salvezza dell’anima. Quello che Platone voleva raccontare al pubblico del suo tempo era la necessità di riorientare il suo sguardo, non mirando più alla fascinazione dell’anima, ma all’esercizio della virtù, non più all’incantamento procurato dalla rappresentazione di caratteri passionali e mutevoli, ma all’educazione proposta dalla vita filosofica. A spaventare Platone è la teatrocrazia199 di Leg. III, 701a3, è quello strapotere educativo del teatro che fa credere al suo pubblico di poter apprendere da esso la verità, mentre ne apprezza solo una piacevole immagine; è l’illusione prospettica prodotta dal dramma capace di generare nel pubblico quella confusione dell’anima per la quale essa crede reale ciò che accade sulla scena, scambia per verità ciò che è solo una sua rappresentazione. Se Omero è bersaglio a tutti noto di tale attacco è solo perché egli è stato maestro anche dei poeti tragici, avendo anch’egli e prima di loro, utilizzato quel genere narrativo che è la mivmhsi", la rappresentazione dell’apparenza abbigliata coi panni della verità. Omero ha raccontato, ma ha anche messo in scena i suoi personaggi, li ha fatti dialogare, uomini con uomini e uomini con dèi, e lì, nel suo aver preso la veste dei protagonisti della scena, si è reso maestro della poesia tragica e perciò pericoloso. Platone stesso indica chiaramente in questo passaggio200 per quale motivo ha istituito il suo dibattito contro questa poesia (kata; th'" poihtikh'" tauvth"): lo ha fatto perché egli vedeva la gente sopraffatta dalla mimesi (eJalwkovta" uJpo; th'" mimhvsew") e convinta che i poeti fossero sapienti (pavntwn ejpisthvmona" ei\nai) in tutte le cose potendo imitare tutto (pavnta crhvmata mimoumevnou") e fabbricare delle immagini illusorie (kai; eijdwlopoiouv"). Allora in maniera educativa per tutti (paideutikw'" tw'n pollw'n), correttiva della loro insensata immaginazione (diorqwtikw'" th'" ajtovpou 199 Su questo argomento cfr. Centanni 2007, pp. XLIII-XLIV. Proclo si riferisce a Resp. X, 598d8-599a5 appena citato, in cui Platone esamina la poesia tragica e la sua guida, Omero, colpevoli di poetare su tutto, compreso sulle cose divine, senza avere conoscenza e quindi di generare nel loro pubblico l’impressione di conoscere la verità mentre guardano solo ciò che dalla verità dista tre volte. 200 280 IL FILOSOFO E IL POETA fantasiva") e protrettica alla vita filosofica (protreptikw'" eij" th;n filovsofon zwhvn), ha dimostrato che i tragediografi (touv" te tragw/diopoiouv"), considerati da quelli del suo tempo dei pubblici educatori, non hanno invece fatto alcuna sana osservazione (wJ" oujde;n uJgie;" ejpeskemmevnou"), e ha allentato il suo rispetto per Omero (th'" pro;" Omhron uJfh'ken aijdou'") e, mettendolo sullo stesso piano dei tragici (suntavxa" aujto;n tragikoi'"), lo ha criticato nei suoi dialoghi in quanto mimetes (wJ" mimhth;n ejn toi'" lovgoi" hu[qunen)201. Non vi è dunque alcuna contraddizione tra l’Omero divino e l’Omero lontano tre volte dalla verità, perché egli è allo stesso tempo ispirato dalle Muse e imitatore della realtà, e perciò a volte è preso a principio di autorità da Platone per i suoi dogmi e a volte è scacciato dalla città giusta. In quanto sapiente (wJ" me;n ga;r ejpisthvmwn) ha, intorno agli esseri, la stessa conoscenza di Platone (th;n aujth;n e[cei tw' Plavtwni peri; tw'n o[ntwn gnw'sin); avendo invece qualcosa in comune con gli autori tragici (wJ" de; toi'" tragw/diopoioi'" e[cwn ti koinovn) è cacciato dalla città ben governata (th'" eujnomoumevnh" ejkbavlletai povlew")202. Dunque in Omero teatro e filosofia convivono sapientemente: con il primo la poesia condivide la natura mimetica del racconto e anzi ne rappresenta la guida e l’archetipo; con la filosofia condivide la natura divina e perciò la conoscenza e quindi la trasmissione della verità. A chiudere la difesa di Omero è infine un aneddoto della vita di Platone: Socrate avrebbe incontrato per la prima volta il suo futuro allievo proprio mentre questi si occupava di teatro203; lo avrebbe distolto (ajpevtreyen) da tale forma di mimesi, per invitarlo a scrivere i cosiddetti discorsi ‘socratici’, nei quali poter 201 Procl. In Remp. I, 204, 2-8. Procl. ibi, I, 204, 13-16. 203 Si tratta questo di un episodio presente anche in Apul. De Plat. I, 2, in Diog. Laert. III, 5 e in Olymp. Vita Plat. 75. La dimostrazione di una stretta corrispondenza tra parole e fatti del filosofo, tra la sua vita e la sua dottrina è una preoccupazione costante di tutta la tradizione platonica, a partire da subito con i tentativi di Senofonte (Mem. IV, 3, 18; 4, 25) e poi di Cicerone (Tusc. Disp. V, 16, 47) di disegnare una sunfwniva tra facta e dicta in Socrate, fino ad arrivare ad uno degli ultimi manuali della scolastica alessandrina, quello dell’anonimo di VI secolo d.C., che dedica l’incipit dei suoi prolegomena (capp. 1-7) proprio al bivo" di Platone. Sulla atopia del filosofo antico rispetto alla vita quotidiana e sull’esercizio di una vita filosofica cfr. Hadot 2006, pp. 26-41. 202 281 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO. PARTE SECONDA – LA POESIA rivelare come tale arte mimetica fosse inutile e diseducativa, tre volte lontana dalla verità, per nulla partecipe della conoscenza certa né dell’opinione corretta, rivolta non già all’intelletto ma alla parte irrazionale dell’anima. Platone quindi era proprio l’Ateniese cresciuto a teatro, educato dalle storie di Edipo e di Antigone, e forse per questo diede alla sua filosofia la veste drammatica del dialogo. E come non sarebbe giusto biasimare Platone per il gusto estetico dei termini con cui confeziona i suoi dialoghi o per la cura che pone all’espressione solo perché altri, dopo di lui, vi si sono applicati eccessivamente, imitando un aspetto assolutamente secondario della sua attività filosofica – scrive Proclo – così non può costituire motivo di accusa per Omero il presentare, sebbene in maniera limitata e come in una forma embrionale, quanto vi è di mimetico nella sua poesia204. La chiusura del trattato sulla poesia è affidata a due topoi retorici: Proclo dedica il suo scritto alla memoria del maestro Siriano205 e dichiara di aver rivelato in tutta segretezza la sua dottrina agli allievi perché la custodiscano tenendola nascosta alla folla206. È stato notato che conferire un carattere esoterico al suo discorso sulla poesia ispirata è stato per Proclo come fare della poesia, comporre un discorso che può essere ben compreso solo da pochi iniziati, i quali soltanto avrebbero potuto davvero cogliere il ruolo rivelativo del mito arcaico senza fraintendere la lettura neoplatonica della critica di Platone ad Omero, sbilanciando a favore di Omero e contro Platone il loro interesse per la pericolosa poesia 204 Cfr. Procl. In Remp. I, 205, 4-21. L’esegeta completa il parallelismo, fondato sul principio della neutralità dell’arte e della parzialità soggetta a valutazione dell’uso che se ne fa, con il riferimento alla generazione, alla produzione delle cose sensibili da parte del Demiurgo universale: come non è possibile accusare Omero per l’uso eccessiva della forma espressiva drammatica da parte dei tragediografi, così non è possibile accusare il Demiurgo per le cose mortali e per il male che pure ci sono nella generazione, nel divenire delle cose, soltanto perché sono le anime particolari che vanno a mescolarsi con essi. Sulla questione del male cfr. supra p. 211, n. 18. 205 Sul complesso rapporto esistente tra le opere sirianee sulla poesia, tutte perdute, e la sesta Dissertazione di Proclo rimando all’indagine dettagliata di Sheppard 1980, pp. 30-33; 39-103. Secondo la studiosa la sesta Dissertazione è certamente un’opera tutta procliana; è, probabilmente, una stesura rivista e ampliata del discorso tenuto in occasione dei festeggiamenti del genetliaco di Platone, che ricorda il filosofo stesso all’inizio del trattato. I riferimenti espliciti alle interpretazioni di Siriano di diversi miti omerici è una prova evidente che tale Dissertazione fu anticipata da numerose occasioni di confronto tra i due filosofi del tardo neoplatonismo. Se l’allegoria di tipo metafisico, come abbiamo visto già nel primo capitolo, poteva essere un forte elemento di continuità con la tradizione, si può individuare una maggiore originalità procliana rispetto al suo maestro proprio nella lettura ‘omericizzante’, nella struttura drammatica e nel contenuto di ordine teologico, dei dialoghi di Platone. 206 Cfr. Procl. ibi, I, 205, 21-23. 282 IL FILOSOFO E IL POETA tragica. Non si deve, però, dimenticare che coprire di silenzio le lezioni che si tenevano dentro la scuola platonica era un’abitudine abbastanza diffusa, abitudine che rendeva il fare filosofia un vivere filosofico, che segnava un’appartenenza all’esercizio di una ragione ammantata di misticismo e religiosità207. 207 Si veda per esempio Porph. Ad Marc. 115, 1: «sigavsqw oJ peri; aujtou' (il dio) lovgo" ejpi; plhvqou"». Sulla componente religiosa della dottrina neoplatonica fondamentale è Dörrie 1974. 283 CONCLUSIONI Conclusioni La disamina delle fonti neoplatoniche anteriori a Proclo ha dimostrato quanto fosse fertile il terreno ermeneutico in cui si sarebbero radicate le riflessioni del filosofo licio intorno all’antico dibattito1 sul rapporto tra poesia e filosofia. Per parlare di Omero, lo Scolarca dell’Accademia, che intendeva leggere e commentare Platone all’Atene di V sec. d.C., aveva a disposizione delle tracce, degli argomenti, un vocabolario chiaramente delineati, a cui avrebbe dato l’impronta di una solida struttura. Il sogno di una sinfonia tra la tradizione arcaica e la dottrina platonica si era materializzato molto presto: quando Proclo comincia a scrivere i suoi commenti a Platone, questa sfida, rivoluzionaria per noi, per loro forse solo in apparenza2, di far dire ad Omero ciò che Platone era andato dimostrando, era iniziata ormai da secoli. L’urgenza di una lettura allegorica dei racconti divini, la funzione esoterica e al tempo stesso protrettica del loro abito mostruoso, la loro trasposizione scenografica in un ordinamento metafisico, persino il potere mistico-teurgico dell’immagine mitica erano criteri interpretativi già noti all’ermeneutica neoplatonica. Seguire però, passo dopo passo, lo specifico sviluppo concettuale che l’interpretazione della critica di Platone ad Omero ha generato nella produzione procliana ha condotto direttamente alla configurazione di un sistema esegetico, vero e significativo di per sé, all’interno del quale si sono organizzati in maniera unitaria e organica tutti gli elementi della tradizione mitologica e filosofica insieme. Come insegna Beierwaltes, non ci renderebbe più chiaro il pensiero di Proclo il fatto di interpretarlo andando alla ricerca delle fonti, andando ad individuare qua e là la presenza di tale o tal altra suggestione giamblichea, plotiniana o aristotelica3. In quanto filosofia tarda, la speculazione 1 Cfr. Plat. Resp. X, 607b6-7: «palaia; mevn ti" diafora; filosofiva/ te kai; poihtikh/'». Per una focalizzazione sugli elementi di somiglianza del sistema neoplatonico con le intenzioni platoniche, piuttosto che sullo iato che separerebbe il neoplatonismo dal platonismo cfr. Merlan 1990, pp. 4849. 3 Cfr. Beierwaltes 1990, pp. 64-67. «L’esposizione di un sistema filosofico che non perseguisse la domanda riguardo alla verità […], e non fosse dunque in grado di mostrare non soltanto il ‘come’, ma neppure il ‘che cosa’ e il ‘perché’ specifici (non ‘storici’) di un pensiero, rischierebbe di cadere nel paragone fatto da Hegel, il quale assimila autori di tal fatta a degli animali ‘i quali abbiano ben ascoltato tutti i suoni che compongono una musica, ma al cui udito non sia pervenuta l’armonia unitaria di questi suoni’»: p. 66. 2 285 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO procliana non poteva che conservare e trasformare l’intero patrimonio della tradizione, ma proprio perché determinata da tutta la tradizione ellenica essa può rendersi espressione autentica del tardo pensiero greco se interrogata rispetto al «suo senso intrinseco»4. Nel seguire, allora, la natura più specifica della riflessione procliana intorno alla poesia omerica e alla sua relazione con l’insegnamento platonico questa ricerca è partita dall’onoma, da quell’antico momento della fondazione del linguaggio che s’interseca con la dimensione sapienziale della fondazione del mito, ha visto come a segnare l’esegesi procliana del Cratilo è una struttura concettuale e semantica che con la trattazione dell’arte poetica condivide il lessico della rappresentazione e l’origine ispirata di un contenuto di verità. Ebbene, l’indagine sul nome, ovviamente centrata su quanto la complessa questione dell’origine del linguaggio ha in comune con la sfera del mito arcaico, ha come introdotto al vocabolario e alla strategia ermeneutica di Proclo. Nel secondo capitolo, infatti, hanno fatto la loro comparsa delle acquisizioni concettuali ed esegetiche protagoniste dell’intero impianto speculativo del filosofo licio riguardo sia al linguaggio poetico, nel senso di linguaggio originario, sia al posto occupato dall’ispirazione nella pratica filosofica5. Mi riferisco alla natura rappresentativa del nome; alla profonda relazione che il nome intesse sia con l’anima particolare, produttrice di immagini, sia con la sfera del divino di cui è statua, strumento teurgico-evocativo; al ruolo che l’ejnqousiasmov" occupa nella possibilità di indagare e rivelare il nome corretto delle cose. Nelle pagine del Commento al Cratilo, Proclo stabilisce lo scopo dialettico dell’indagine dei nomi e quindi uno scopo di assoluta scientificità che si è esemplificato in un’analisi etimologica condotta da filosofi e su nomi di cose eterne. Il filosofo licio descrive la produzione linguistica come un’attività umana che procede per assimilazioni. Questa modalità assimilatrice, connaturata alla yuchv, entità intermedia per natura, fa del linguaggio un’attività pienamente 4 «Ha molto più valore cogliere anche in Proclo il paradosso di come ciò che era ‘estraneo’ si sia fatto ‘proprio’ e di come potrà essere pensata la costruzione unitaria di un tutto, la cui verità intrinseca aspetta di essere conosciuta»: Beierwaltes, ibidem. 5 Sull’entusiasmo come momento della dialettica filosofica e sulla interrelazione tra prospettiva razionalistica e misticismo nella filosofia procliana cfr. Gritti 2008, pp. 307-338. 286 CONCLUSIONI inserita in quel sistema di relazioni analogiche che fondano la struttura gerarchica della metafisica procliana. Il rapporto che lega il nome al suo referente è un rapporto iconico e l’onomaturgia, proprio in quanto attività di assimilazione di un elemento ad un altro, è un’attività umana condivisa per analogia con la dimensione divina, agendo l’Intelletto demiurgico con la stessa modalità assimilatrice nella sua produzione del cosmo sensibile. Il linguaggio, allora, non solo intreccia l’anima con ciò che è ad essa inferiore, ovvero gli enti sensibili a cui dà nome, e con ciò che è ad essa superiore, ovvero il mondo degli dèi a cui assomiglia per analogia, ma collega anche lo stesso livello sensibile dell’essere con quello intelligibile, andando a realizzare quella sympatheia caratteristica del sistema metafisico-teologico tardo neoplatonico. In una struttura così organizzata, s’inserisce accanto alla figura di un demiurgo umano, che agisce analogamente a Zeus Demiurgo, la figura del poeta, artefice, quanto l’uomo, di un nome, ma, a differenza dell’uomo, di un nome sicuramente corretto. I poeti sono maestri della correttezza dei nomi, dichiara Proclo, di quella ojrqovth" di cui gli interlocutori del dialogo platonico hanno tentato di dare ragione6. Se la poesia si fa fonte di verità proprio per quel modello più alto di conoscenza che è il sapere filosofico, ciò è possibile grazie ad un principio fondamentale, quello dell’ejnqousiasmov", della convinzione che l’anima possa agire seguendo l’elemento del divino che in essa risiede. Una filosofia intesa come mistagogia, come esercizio dell’anima di abbandono della materia per risalire al Principio Primo che è anche Primo Dio7, non può non trovare nella possessione divina una fonte sicura e salda di verità. È da questa prospettiva che l’ispirazione, segno per il Platone dello Ione dell’ignoranza del poeta e della sua profonda distanza dal filosofo, diventa invece nell’esegeta neoplatonico, proprio per il filosofo, uno strumento epistemico e perciò l’elemento di salvezza del 6 Procl. In Crat. LXX, 29, 11-18. L’identificazione tra il Bene-Uno e il Primo Dio viene da Proclo attribuita allo stesso Platone a conclusione della Dissertazione XI dell’In Rempublicam, I, 287, 16-17: «to; a[ra ajgaqovn ejstin oJ prw'to" kata; Plavtwna qeov"». Sull’interpretazione del Bene in questo scritto procliano cfr. Abbate 2004, pp. CIIICXIV. Sulla relazione di identità tra Uno-in-sé = Bene = Primo Dio alla base del sistema metafisico-teologico di Proclo e della divinizzazione della realtà che ne deriva cfr. Abbate 2008, pp. 85-114. Sulla nozione di ‘divino’ nel neoplatonismo cfr. Romano 1998, pp. 81-86. 7 287 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO linguaggio mitico8. È questo il motivo per cui la poesia, in quanto strumento di mediazione tra il divino e l’umano, diventa in Proclo una vera e propria causa (aijtiva) della correttezza dei nomi accanto a quella divina9. Nella sua natura relazionale il linguaggio rivela allora un ulteriore elemento di congiunzione con la poesia, ovvero la sua valenza esoterica accanto a quella rivelativa. Il nome poetico è concepito come un velamento della realtà divina, una traduzione semantica della distanza ontologica esistente tra una divinità principiale ed una derivata del pantheon greco. Nella sua natura mimetica il nome è elemento di unione e appartenenza dell’umano al divino, è la denominazione dei diversi livelli ontologici in cui si struttura la medesima catena seriale di processione del divino. Il nome prevede l’esistenza di un modello e di una rappresentazione di questo modello che pure rimane sempre presente in esso sebbene distribuito gerarchicamente. È in questo senso, allora, che possiamo dirlo misura del divino, segno che viene a nominare la relazione, che è al tempo stesso appartenenza e separazione, del sensibile con l’intelligibile, dell’uomo, produttore ma anche primo fruitore del linguaggio, con la divinità, causa principiale ma anche primo oggetto del lovgo" terreno. Da una prospettiva filosofica in forte dialogo con il divino, la poesia ispirata – è evidente – non poteva certo subire la condanna platonica senza che si proponesse una sua difesa. Tanto più che erano gli stessi dialoghi platonici a presentare un materiale problematico intorno al giudizio sulla poesia omerica. La lettura delle Dissertazioni V e VI del Commentario alla Repubblica ha mostrato un approccio esegetico certamente orientato da scelte e principi tutti neoplatonici: pensiamo per esempio all’orizzonte teologico verso cui Proclo non smette mai di guardare, nemmeno quando deve ricostruire la forma migliore di poesia e arriva a raffigurare un Poeta cosmico, già parte dell’ordinamento divino, ovvero Apollo; oppure al fondamento stesso della scrittura esegetica, e cioè il disegno di un’armonizzazione del corpus platonicum, di quella pluralità di posizioni offerta dai personaggi dei dialoghi. Tuttavia è necessario registrare da parte di Proclo una fedeltà al testo espressa non solo nella volontà dichiarata di 8 9 Cfr. Plat. Ion. 532c-533c e Procl. In Crat., LXXI, 34, 11-12. Procl. In Crat. LXXXVIII, 44, 21 – 45, 4. 288 CONCLUSIONI partire dagli scritti di Platone, ma anche nella capacità di riconoscerne l’intrinseca problematicità dovuta alla peculiare forma dialogica e allo strumento retorico dell’ironia socratica10. Proclo non tralascia di porre domande difficili, s’interroga su tutti gli elementi necessari ad una comprensione totalizzante del testo. Le sue risposte non sono certo quelle di Platone, ma è innegabile che le soluzioni da lui proposte trovino spazio in quell’amore dichiarato da Platone per Omero11 e nel contraddittorio attacco al teatro da parte di chi sceglie di inscenare dialoghi piuttosto che scrivere trattati. Il punto di inizio della trattazione procliana sulla poesia è infatti proprio l’apparente aporia in cui sembra cadere Platone quando scaccia i poeti dalla città giusta per poi riammetterli più volte come fonti di verità della correttezza dei nomi, ad esempio, oppure della tripartizione dell’anima o ancora della descrizione dell’aldilà; quando concede di tributare profumi e onori alla poesia e incorona più volte Omero quale ‘poeta divino’. Nel dare soluzione a questa pericolosa incoerenza, il Diadoco di Atene si serve certamente degli strumenti già ampiamente utilizzati dalla letteratura apologetica dei poemi omerici, primo tra tutti l’interpretazione allegorica del mito, ma introduce anche delle specifiche argomentazioni che inseriscono il discorso sulla poesia all’interno del sua speculazione metafisica. Il primo di questi argomenti è la regolamentazione della tecnica mimetica: la prima parte della quinta Dissertazione del Commentario alla Repubblica è dedicata a precisazioni di natura retorica e letteraria. Proclo, seguendo ma anche sviluppando il Socrate dei libri II e III della Repubblica, dimostra di poter sottoporre la composizione poetica a regole precise, miranti alla coerenza linguistica e alla uniformità etica. La mimesis si pone da subito come un principio fondamentale di produzione poetica. Tutta la poesia è mimetica, ovvero ha natura relazionale, rappresentativa di un modello di cui produce immagini, proprio come mimetica è la produzione demiurgica e quella linguistica. La poesia è simbolo del suo modello e dal momento che proviene direttamente dalle Muse, conserva la 10 Cfr. Procl. ibi, CXVI, 67, 24 – 68, 9. Sull’ironia socratica nella ricezione neoplatonica cfr. Sedley 2002. Cfr. Plat. Resp. X, 607e4-608a5; è significativo che, per ammissione stessa di Socrate, ci si possa difendere da questo amore per la poesia solo continuando a cantarsi come un incantesimo (ejpw/dhv) il discorso che gli interlocutori del dialogo platonico hanno appena portato a termine a proposito della forma corretta di mimesis. Sul tema dell’incantesimo e della magia nei dialoghi platonici cfr. Casertano 1989. 11 289 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO natura divina di questo paradigma che è anche la sua origine. Nell’apparato magico-teurgico della filosofia procliana la poivhsi" diventa più specificamente statua degli dèi, strumento ieratico, e per questo le vanno offerti onori degni delle cose più sacre12. Attraverso l’ispirazione, il secondo principio fondante della muqopoii?a, la poesia arcaica si fa passaggio dal divino all’umano. Senza che vi sia alcuna separazione tra i due elementi costitutivi della produzione poetica, ovvero la mimesis e l’enthousiasmos, Proclo presenta una poesia portatrice di verità proprio grazie alla sua natura mimetica capace di conservare una traccia dell’ispirazione divina da cui essa si origina13. Il poeta ispirato produce immagini mitiche facendo agire quella parte del divino che in esso s’insedia e la natura rappresentativa di quelle immagini permette di conservare e trasferire, come avviene con la pietra magnetica, tale presenza divina nel fruitore di quelle stesse immagini. Da questa prospettiva, il fatto di trovarsi presso gli dèi fa del poeta, e quindi della sua attività, qualcosa di non molto lontano dalla filosofia, ovviamente da una filosofia che è intesa proprio come un graduale avvicinamento al Primo Dio. Fin dalla quinta Dissertazione il Filosofo e il Poeta vengono da Proclo accostati per il loro potere anagogico, potere da assi acquisito dalla medesima natura ispirata dei loro discorsi, siano questi dialettici o mitici14. Abbiamo visto, infatti, come nel finale della quinta Dissertazione Apollo, modello intelligibile del poeta sensibile, siede accanto a Zeus, modello intelligibile del politico-filosofo della città sensibile, e come il dio musegeta cooperi all’ordine del mondo. A fondamento di questa inaspettata ricollocazione della figura del poeta nella dottrina neoplatonica, si pone il carattere seriale della metafisica procliana che ha raccontato l’intera indagine sul linguaggio e sul linguaggio poetico. La struttura gerarchica del reale permette alla poesia di presentarsi sì come un’immagine della dialettica, ma non come un’immagine falsa. Nel passaggio da un livello all’altro dell’essere non c’è perdita di bene, ma solo di unicità e semplicità e in questo 12 Cfr. Procl. In Remp. I, 47, 20-26. La letteratura critica moderna tende a presentare come distinte le due dottrine platoniche sull’origine della poesia, considerando quella mimetica la teoria veramente platonica e quella entusiasta una teoria solamente ironica. Sulla possibilità, invece, di accostare già in Platone la rappresentazione e l’ispirazione nell’attività poetica, a partire dai due dialoghi fondamentali su questo argomento e cioè il Fedro e lo Ione cfr. Palumbo 2011b. 14 Cfr. Procl. In Remp. I, 57, 16-18. 13 290 CONCLUSIONI senso la poesia, in quanto mimetica, conserva nell’oggetto rappresentato il modello della rappresentazione, sebbene in una potenza ontologica diminuita. La distribuzione del reale sui diversi livelli dell’essere ha permesso al filosofo licio nella sesta Dissertazione di descrivere la produzione poetica come analoga a quella demiurgica e quindi i velamenti simbolici, visibilmente osceni, come analoghi alla processione degli ordinamenti divini dal Primo Dio. Gli enti sensibili sono lontanissimi da quelli intelligibili sui quali sono modellati: essi hanno forma e figura, sono perituri e mutevoli, opposti dunque per natura a ciò che è indeterminato, eterno e immutabile; allo stesso modo i simboli mitici si trovano dalla parte opposta rispetto alle divinità di cui essi sono la rappresentazione. Tuttavia, come dagli enti sensibili l’anima del filosofo può risalire a quelli intelligibili, così l’anima dell’iniziato può risalire dai versi omerici alla dottrina ineffabile15. Intorno a questo impianto teorico va fatto gravitare lo schema dei tre gradi di attività poetica individuati da Proclo nell’ultima parte della sua riflessione sulla poesia. Esistono tre livelli dell’ejnevrgeia poetica, uno più alto e primissimo che coincide con la sapienza divina insufflata nell’animo del poeta, poi dell’aedo, e infine in quella del pubblico che si riempie così del discorso sugli dèi; poi c’è la poesia che è capace di spiegare, servendosi dell’intervento attivo del poeta sapiente, contenuti saggi e veritieri sull’anima e sul mondo; infine c’è l’attività più bassa della poesia, quella che si relaziona direttamente con le cose sensibili o con i loro riflessi in uno specchio, quella poesia che può mostrare le cose visibili solo con copie visibili oppure può solo affascinare la parte più irrazionale dell’anima producendo immagini illusorie e fraudolente di mere apparenze. Quest’ultimo grado dell’attività poetica coincide con il teatro: è a questo che Platone indirizza la sua critica, impaurito dal potere didattico e formativo che ad esso affidava l’Atene di Pericle e Alcibiade. Nella quinta Dissertazione Proclo tenta di mediare la posizione platonica con quella aristotelica, introducendo l’argomento difensivo della catarsi tragica e forse lo fa solo per obbedire a quel disegno di armonizzazione che la Scuola di Atene aveva progettato tra il maestro 15 Cfr. Procl. ibi, I, 76, 17 – 79, 18. 291 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO divino e il suo più celebre allievo16, ma, restando fedele all’abbandono del teatro che Platone aveva compiuto nel seguire Socrate, l’esegeta individua alla fine il vero bersaglio della condanna platonica nella mimesi tragica, in quella mimesi che fa vivere le maschere sulla scena come se fossero i volti che dietro quelle maschere si celano, che si serve del piacere che una tale immedesimazione provoca nel pubblico e dell’illusione prospettica che fa scambiare lo sguardo sulla rappresentazione con lo sguardo sul modello rappresentato. Se la tragedia è l’espressione massima dell’attività poetica di ultimo livello, la poesia omerica mette insieme tutti e tre i gradi individuati da Proclo. Questo fa di Omero l’obiettivo di alcuni attacchi platonici, ma anche oJ prwvtisto" poihthv", «il primissimo poeta», il compagno, l’amico di Platone, la voce della tradizione e di un sapere di ordine superiore chiamato a fare a volte da testimone di teorie filosofiche, altre volte da prova irrefutabile nella parte conclusiva delle dimostrazioni dialettiche, altre ancora da oracolo latore di una verità che aspetta di essere dimostrata. Tutto ciò è possibile perché la poesia primissima, quella di più alto livello (hJ ajkrotavth) è intrinsecamente legata al divino. Essa corrisponde all’anima nella sua vita di livello più alto, quella in cui nell’ultima fase di risalita verso il Principio Primo, essa diventa luminosa, semplice e separata proprio come lo è il Primo Dio a cui finisce per assimilarsi. Il vocabolario utilizzato nelle ultime pagine da Proclo è il segno tangibile del cambio di prospettiva realizzato dall’esegeta neoplatonico nella sua indagine sulla poesia. La poesia ispirata è descritta come una e[llamyi", un’illuminazione dell’animo per diretto contatto con la luce superiore, quel momento ulteriore rispetto al pensiero, quel momento in cui, come in una teofania, la luce è trasmessa dall’essere superiore a quello inferiore completamente abbandonato all’illuminazione ricevuta. È questo lo stato di possessione e follia descritto da Platone nel Fedro17, uno stato dell’anima che è uscita da sé, dalla sua varietà e pluralità, per riempirsi di proporzione, quella degli dèi; la mania poetica, generalmente associata all’eccesso e alla sregolatezza in contrasto con ciò che è razionale ed equilibrato, assume la sua forma secondo la misura del divino (kata; th;n summetrivan th;n qeivan)18, e l’origine della sua 16 17 Cfr. Procl. ibi, I, 49, 13 – 51, 25. Cfr. Plat. Phaedr. 245a1-8. 18 Cfr. Procl. In Remp. I, 178, 24 – 179, 3. 292 CONCLUSIONI salvezza dal bando platonico è proprio nel suo stare nel posto degli dèi, nel condividerne la misura. Non la bellezza che muove l’innamorato, non la verità che è lasciata agli oracoli e ai teurgi, ma questa simmetria, to; qei'on mevtron, il fatto di esprimere la natura di un principio superiore nella sua determinazione graduale e gerarchica, dal Primo Dio fino all’Uno che è in noi, il fatto di raccontare la conversione di questa traccia dalle cose di qui fino alla luce superiore, questa è la natura della somma attività poetica e la ragione, tutta procliana, dell’ingresso di Omero nella città dei filosofi. 293 RÉSUMÉ Résumé Très tôt et même au sein de l’école platonicienne on avait commencé à revoir les termes de l’accusation envers la poésie prononcée par Platon dans ses dialogues. Peut-être étaient-ce le désir du classique1, le besoin d’une tradition, la réutilisation de l’ancien, qui faisait de l’âge impérial tardif une époque d’épigones, qui motivaient la recherche d’une symphonia, une vérité puissante qui embrassa autant Platon que Homère, autant les philosophes que les poètes, le présent si instable et tourmenté, et le lointain passé, le solide, celui qu’il est naturel d’appeler mythique. Nous n’avons que le titre, attribué à un tel Télèphe de Pergame, un grammairien du IIe siècle après Jésus-Christ, qui nous parle d’une œuvre entièrement dédiée à la description de cet accord symphonique entre Homère et Platon. C’est dans le domaine néo-pythagoricien, en particulier, avec Numenius et Cronius, que nous trouvons des données bien plus marquées par une nouvelle perspective, qui va au-delà de l’admonition ouvertement manifestée par Platon envers Homère, pour essayer, par contre, de démontrer comment les discours du philosophe avaient le même contenu de vérité que les discours du poète. Dans le premier chapitre de ma recherche j’ai alors reconstruit les étapes fondamentales de cette récupération de la tradition archaïque, en montrant comment au cours des siècles, à partir du platonisme moyen jusqu’à Syrien, maître direct de Proclus, une herméneutique du mythe archaïque s’est agrandie et spécialisée en harmonie avec la lecture du corpus platonicum. L’anonyme auteur des Questions homériques, Numenius, Cronius, Porphyre, Julien et Saloustios sont les philosophes qui précèdent Proclus dans le projet de réhabilitation du poète archaïque. À travers l’expérience philologique et exégétique de Porphyre, en particulier en lisant son œuvre L’antre des Nymphes, et en examinant les importantes positions de Julien et Saloustios pour ce qui concerne la poésie 1 «Si trasmette, si eredita, un desiderio del mito, piuttosto che un contenuto mitologico stabilito» écrit Monica Centanni afin d’expliquer la production d’un art ‘classique’, le produit d’une tradition, depuis toujours en exil par rapport à la certitude du texte, au bien-fondé des sources, mais reflet d’un désir, d’un povqo" qui en grec est le désir dans le manque. Cf. Centanni 2005, p. 15. 295 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO mythique de l’Antiquité, ce chapitre prépare le lecteur à la nouvelle dimension platonicienne dans laquelle Homère, auteur de la poésie archaïque bannie de la kallipolis, est tout à fait en accord avec la philosophie des dialogues de Platon2. Les principes théoriques de cette nouvelle approche exégétique au mythe sont la ‘théologisation’ de la figure d’Homère, dit qeolovgo" pour la première fois par Porphyre3, et le déplacement sur le plan métaphysique de l’intrigue allégorique de sujet divin et humain. Avec l’avènement de pratiques théurgiques rattachées au néoplatonisme à partir de Jamblique, le mythe commence à se fondre avec la sphère religieuse et l’initiation mystique4. De Plutarque et de l’Ecole platonicienne d’Athènes fondée par lui5 est le projet de la configuration d’une seule science théologique, manifeste d’une synthèse de tous les savoirs traditionnels (mythique, orphico-pythagoricien, chaldaïque) avec la doctrine platonicienne6. Dans ce contexte s’insère le développement spécifique que telle récupération des sources archaïques7 gagne chez le philosophe lycien. L’examen des sources néoplatoniciennes avant Proclus démontre la fertilité du terrain herméneutique où les réflexions du philosophe se seraient enracinées autour de l’ancien débat sur le rapport entre la poésie et la philosophie8. Pour parler d’Homère, le Scolarque de l’Académie qui voulait lire et commenter Platon à Athènes au Ve siècle après Jésus-Christ, pouvait consulter des traces, des sujets et un vocabulaire clairement définis, auxquels il aurait donné l’emprunte d’une solide structure. Le rêve d’une symphonie entre la tradition archaïque et la doctrine platonicienne s’était concrétisé très tôt: lorsque Proclus commence à écrire ses commentaires de l’œuvre de Platon, ce défi, révolutionnaire pour nous, mais pour eux seulement en apparence, de faire dire à Homère ce que Platon avait démontré, avait commencé désormais depuis des siècles. La nécessité d’une lecture allégorique des récits 2 Cf. Buffière 1956 et Pépin 1958. Cf. Lamberton 1986. Cf. § 1.6. 4 Cf. § 1.7. 5 Pour une reconstruction historique de l’Ecole d’Athènes, née au début du Ve siècle par Plutarque, cinq siècles après la fermeture de l’Académie platonicienne voulue par Silla (86 avant J-C.), cf. Di Branco 2006, pp. 115-179. 6 Cf. § 1.8. 7 Cf. Saffrey 1992a e § 1.8, p. 49. 8 Cf. Plat. Resp. X, 607b6-7: «palaia; mevn ti" diafora; filosofiva/ te kai; poihtikh/'». 3 296 RÉSUMÉ divins, la fonction ésotérique et en même temps protreptique de leur domaine monstrueux, leur transposition scénographique dans un ordre métaphysique, même le pouvoir mystico-théurgique de l’image mythique, étaient des critères d’interprétation déjà connus par l’herméneutique néoplatonicienne. Toutefois, suivre pas après pas le spécifique développement conceptuel que l’interprétation de la critique de Platon envers Homère a engendré dans la production de Proclus a conduit directement à la configuration d’un système exégétique, vrai et significatif en soi, à l’intérieur duquel tous les éléments de la tradition mythologique et philosophique se sont organisés ensemble de façon unitaire et organique. Comme Beierwaltes explique, le fait d’interpréter la pensée de Proclus à travers la recherche de ses sources ou de la présence de suggestions jambliquiennes, plotiniennes ou aristotéliciennes9, ne nous la rendrait pas plus claire. En tant que philosophie tardive, la spéculation de Proclus ne pouvait que garder et transformer l’entier patrimoine de la tradition, mais, étant déterminée par toute la tradition hellénique, elle peut être expression authentique de la pensée grecque tardive si interrogée par rapport à «son sens intrinsèque»10. Le point de départ de ma recherche sur l’interprétation de Proclus concernant la critique platonicienne à Homère est représenté par l’enquête sur le nom, précisément par ce moment fondateur du langage qui se recoupe avec la dimension archaïque de la fondation du mythe. La thèse résulte ainsi divisée en deux parties qui constituent les axes portants de la recherche: d’un côté la réflexion sur l’origine du langage et sur la place occupée par le poète, à coté des hommes et des dieux, dans la production linguistique; d’un autre côté, l’examen de la spéculation plus précisément esthétique de Proclus, confiée au commentaire des pages platoniciennes de la République. Loin de se présenter comme une analyse de la complexe théorie platonicienne sur le langage dans l’interprétation de Proclus, auteur d’un Commentaire du 9 Cf. Beierwaltes 1990, pp. 64-67. «L’esposizione di un sistema filosofico che non perseguisse la domanda riguardo alla verità […], e non fosse dunque in grado di mostrare non soltanto il ‘come’, ma neppure il ‘che cosa’ e il ‘perché’ specifici (non ‘storici’) di un pensiero, rischierebbe di cadere nel paragone fatto da Hegel, il quale assimila autori di tal fatta a degli animali ‘i quali abbiano ben ascoltato tutti i suoni che compongono una musica, ma al cui udito non sia pervenuta l’armonia unitaria di questi suoni’»: p. 66. 10 «Ha molto più valore cogliere anche in Proclo il paradosso di come ciò che era ‘estraneo’ si sia fatto ‘proprio’ e di come potrà essere pensata la costruzione unitaria di un tutto, la cui verità intrinseca aspetta di essere conosciuta»: Beierwaltes, ibidem. 297 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO Cratyle11, le deuxième chapitre de la thèse se concentre sur la particulière attention que le philosophe lycien, en suivant Platon, a pour Homère en tant que source d’apprentissage sur l’exactitude des noms divins et humains. L’enquête est ainsi développée sur trois plans: l’exposition de la réflexion proclienne du langage vu comme une production divine et humaine, comme le résultat d’une opération naturelle et conventionnelle en même temps ; l’analyse de l’instrument étymologique utilisé pour démontrer non seulement la relation naturelle entre le nom et la chose, mais aussi la supériorité, quant à la justesse et à la beauté, du nom divin sur le nom humain; la représentation du poète enthousiaste, auteur du langage parfait et vrai. L’originalité des solutions que Proclus propose à la question de l’origine du langage est d’après moi un point de départ essentiel pour mieux comprendre l’effort du philosophe néoplatonicien afin de sauver Homère et de faire de la poésie une science des choses divines au même titre que la mystagogie de Platon. Chez Proclus la réflexion sur le langage acquiert les connotations propres du savoir archaïque d’origine magique et religieuse; elle se situe dans la dimension théologique et métaphysique propre à la pensée de l’Ecole d’Athènes postérieure à Jamblique. Ce contexte permet à Proclus de dépasser l’ancienne opposition fuvsei - qevsei des origines du langage, de séparer l’image conceptuelle (ei\do") de la matière phonique (u{lh) de chaque nom, d’identifier le législateur (nomoqevth") artisan de noms (dhmiorgo;" ojnomavtwn) à Zeus, Démiurge du monde sensible, et, enfin, de justifier la distinction platonicienne entre noms divins et noms humains en introduisant la même distinction entre les référents éternels (pravgmata ajivdia) et les référents corruptibles (pravgmata fqartav). A partir de la conviction que l’analyse étymologique, si menée par le philosophe et sur les noms de choses éternelles, a toujours une valeur scientifique, c’est-à-dire révélatrice de l’essence de la chose nommée, Proclus s’interroge sur l’origine du langage, en montrant à la fin que cette origine se trouve dans la nature relationnelle, représentative du nom qui est eijkwvn et a[galma de la chose nommée. 11 Essais consacrés entièrement dédiés à ce texte proclien sont Abbate 2001a e Van den Berg 2008. Le texte est disponible en traduction avec commentaire en italien, espagnol et anglais, respectivement de Romano 1989, Álvarez Hoz 1999 e Duvick 2007. On trouvera des essais et des commentaires dédiés à ce texte ici : Abbate 2001a, Duvick 2007 e Van den Berg 2008. 298 RÉSUMÉ D’un côté, il y a le nom prononcé et, de l’autre, il y a le nom en tant qu’image de la chose nommée: le philosophe, à la différence du grammairien, dans l’analyse étymologique d’un nom, ne considère pas ce qui est prononcé, la u{lh, la matière phonique du nom, mais l’ei\do", son essence qui est précisément sa fonction ‘délotique’, sa capacité de montrer (dhlou'n) la nature réelle de l’objet qu’il nomme. Car l’enquête sur le nom chez Proclus acquiert une connotation théologique, l’exégète ajoute à la conception déjà platonicienne du nom mivmhma un élément ultérieur, toujours appartenant à la sphère de la représentation, mais attribuable à cette dimension théurgique qui est typique du néo-platonisme tardif : à la suite de commentateurs précédents, même au sein de l’environnement alexandrin, Proclus appelle le nom statue des dieux, en évoquant justement cette fonction de médiation attribuée aux représentations divines dans la téléstique et fondée sur la conviction que l’objet de culte est ontologiquement lié à la divinité représentée. La nature mimétique de l’onoma fait de la production linguistique une activité aussi humaine que divine, puisque l’âme est douée d’une capacité assimilatrice qui est analogue à celle démiurgique. Si les dieux donnent un nom aux choses au moment même où ils les créent, l’âme, par sa nature intermédiaire entre l’intelligible et le sensible, et aidée par l’imagination productive (fantasiva) dont elle est douée, crée le nom en considérant l’essence de la chose nommée, exactement comme le Démiurge universel crée les êtres sensibles à l’image des êtres intelligibles. Le philosophe néoplatonicien peut ainsi démontrer que la production du langage est une activité autant divine qu’humaine en introduisant cette activité dans la chaîne hiérarchique de la procession métaphysique des divers niveaux ontologiques: l’instrument néoplatonicien de l’analogie permet de faire de tout artisan humain une représentation de l’artisan des noms et, de ce dernier, une représentation de Zeus Démiurge12. Car le produit technique est strictement lié au mimhthv", dans ce cas à l’onomaturge, soit divin soit humain, il est vrai, d’après Proclus, que Socrate, dans son dialogue avec Hermogène, a mentionné le nom divin et humain de la même 12 Cf. Procl. In Crat. LI-LIII. Cf. § 2.4. Les références aux passages du commentaire sont indiquées selon la division en chapitres, page et ligne de l’édition de Pasquali 1908. 299 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO chose. Si toutefois, Socrate renonçait à enquêter sur l’exactitude des noms posés par un savoir d’ordre supérieur, Proclus fait une comparaison détaillée entre la nomination divine et humaine afin de démontrer la supériorité de la première sur la seconde. Dans ce contexte, l’homme, en se trouvant dans le monde phénoménal sujet au devenir, nomme les choses dans une manière inévitablement faillible; en effet, il travaille avec des objets placés dans une temporalité et spatialité, avec des objets, donc, instables et corruptibles comme instable et corruptible est la science que peut avoir d’eux l'âme humaine. Par contre, l’onomaturgie divine se situe au principe même des choses nommées. En effet les dieux nomment les choses en les pensant et, en même temps qu’ils les pensent, ils les créent: le nom divin des choses devient la chose même; le rapport pravgma - o[noma est naturel et donc vrai: le nom et l’objet nommé sont la même chose. C’est à ce point que le deuxième élément, après celui qui est mimétique, arrive à rendre la réflexion linguistique une voie herméneutique, un povro" d’accès à la réflexion sur la poésie, c’est-à-dire le principe de l’enthousiasmos. Le langage mythique a une puissance révélatrice de vérités originaires et divines : la parole poétique, en fait, est la plus proche de la vérité parce qu’elle est la plus proche des dieux dont le poète est inspiré directement. Les noms des dieux révélés par la poésie homérique, soumis à une recherche étymologique, révèlent des vérités indéniables sur la nature même des dieux. Proclus écrit explicitement que les noms divins sont révélés à ces êtres humains qui ont une affinité naturelle avec les dieux13; les poètes apprennent les noms divins ejx ejnqousiasmou', et apprennent les noms humains par la perception sensible et par l’opinion14 (ejk th'" aijsqhvsew" kai; dovxh"). C’est pourquoi Homère a signalé du même objet aussi bien le nom divin que le nom humain15, et il est vrai que Socrate, en faisant ses recherches sur les noms, fait mention de deux noms pour chaque paire, parce qu’aussi bien les hommes que les dieux opèrent dans l’activité onomaturgique: toutefois, pour ce qui est des uns, à savoir des noms donnés par les hommes, il réfute le caractère discutable et le manque d’imagination ; et pour ce qui est des autres, à savoir les noms donnés par les dieux, il montre l’inspiration et leur 13 Procl. In Crat. LXXI, 33, 18-19. Procl. ibi, LXXI, 34, 11-12. 15 Plat. Crat. 391d1-b2. 14 300 RÉSUMÉ capacité à indiquer l’objet réel de la recherche16. Eh bien, ici réapparaît la figure du poète: ceux qui sont inspirés (ejnqousiavzonte") sont les maîtres des philosophes: ils ont, en fait, la tâche de montrer ce signe de l’objet réel de la recherche, qu’ils connaissent par enseignement divin, aux hommes capables de sunora'n, c'est à dire à ceux qui savent regarder les choses de manière complète et complexe17. Nous savons que le fait d’être capable de reconduire plusieurs éléments vers une idée unitaire est une méthode de recherche que Socrate dans le Phèdre18 attribue, aussi bien que la méthode de la diairesis, à l’homme philosophe, au dialecticien. Donc, le fait d’être un intermédiaire entre le divin et l’humain fait du poète une cause de la création même des noms corrects. En effet, Proclus parle de deux causes de la correcte création des noms: l’une est une puissance divine ou démoniaque «qui ne laisse rien dépourvu d’une assistance adéquate, mais dirige tout»19 ; l'autre est celle des poètes «qui sont inspirés et qui atteignent à la vraie onomaturgie: ils contemplent les résultats des actions, ils font grâce à cette contemplation, de fines analyses, et ils découvrent les noms appropriés»20. Ainsi reconstruit le rôle actif du poète à l’intérieur de l’activité onomaturgique et démontré que la poésie est toujours représentation vraie de la réalité, à la fin du chapitre sur l’onoma, nous trouvons l’analyse de certains passages dans l’In Cratylum21 qui fournissent de façon explicative une lecture théologique et métaphysique du mythe archaïque ainsi qu’elle est proposée par le philosophe néoplatonicien tardif. En cherchant alors la nature plus spécifique de la réflexion de Proclus sur la poésie homérique et sa relation avec l’enseignement platonique, cette enquête a commencé par l’onoma. Nous avons vu que l’exégèse par Proclus du Cratyle est marquée par une structure conceptuelle et sémantique qui partage avec le développement de l’art poétique le même lexique de la représentation et l’origine inspirée d’un contenu de vérité. 16 Procl. In Crat. LXVIII, 29, 6-11. Procl. ibi, LXVIII, 29, 11-12. 18 Plat. Phaedr. 265d3-266c1. 19 Procl. ibi, LXXXVIII, 44, 8-21. Cf. § 2.5. 20 Procl. ibi, LXXXVIII, 44, 22-25. 21 J’ai pris en examen les chapitres CXIII-CXV, CLXIX, CLXX e CLXXXIII concernant la dénomination des ordres divins, les jeux de séduction entre Zeus et Héra, la description de la nature divine d’Héra et Aphrodite. Cf. § 2.6. 17 301 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO Ainsi, l’enquête sur le nom, centrée évidemment sur ce que la complexe question de l’origine du langage a en commun avec la sphère du mythe archaïque, semble nous avoir introduit au vocabulaire et à la stratégie herméneutique de Proclus. Dans le deuxième chapitre, en effet, nous signalon l’apparition des acquisitions conceptuelles et exégétiques protagonistes de l’entier système spéculative du philosophe lycien concernant le langage poétique, en tant que langage originaire, ainsi que la place occupée par l’inspiration dans la pratique philosophique22. Je me réfère à la nature représentative du nom; à la profonde relation que le nom entretient avec l’âme humaine, productrice d’images, et avec la sphère du divin dont il est la statue, instrument théurgique et évocateur; et au rôle que l’ejnqousiasmov" occupe dans la possibilité d’examiner et de révéler le nom correct des choses. Dans les pages du Commentaire du Cratyle, Proclus définit le but dialectique de l’enquête des noms, et donc un but de méthode scientifique absolue qui a été exemplifié dans l’analyse étymologique; il décrit la production linguistique comme une activité humaine qui procède par assimilations. Cette modalité assimilatrice, enracinée dans la yuchv, entité intermédiaire par nature, fait du langage une activité pleinement insérée dans ce système de relations analogiques qui fondent la structure hiérarchique de la métaphysique de Proclus. Le rapport qui unit le nom à son référent est un rapport iconique et l’onomaturgie, en tant qu’activité d’assimilation d’un élément à un autre, est une activité humaine partagée par analogie avec la dimension divine, l’Intellect démiurgique agissant avec la même modalité assimilatrice dans sa production du cosmos sensible. Le langage, alors, unit non seulement l’âme avec ce qui est inférieur à l’âme elle-même, à savoir les choses sensibles, et avec ce qui est supérieur à l’âme, à savoir le monde des divinités, auquel il ressemble par analogie, mais il unit aussi le même niveau sensible de l’être à celui intelligible, en réalisant cette sympatheia caractéristique du système métaphysico-théologique du néoplatonisme de l’âge tardif. Dans une structure ainsi organisée, on trouve à côté de la figure d’un démiurge humain, qui agit de même que Zeus Démiurge, la 22 Sur l’enthousiasme comme moment de la dialectique philosophique et sur la corrélation entre perspective rationaliste et mysticisme dans la philosophie de Proclus Cf. Gritti 2008, pp. 307-338. 302 RÉSUMÉ figure du poète, auteur, comme l’homme, d’un nom, mais, à la différence de l’homme, d’un nom sûrement correct. Les poètes sont maîtres de l’exactitude des noms – comme Proclus déclare – de cette ojrqovth" à laquelle les interlocuteurs du dialogue platonicien ont essayé de donner raison23. Si la poésie devient source de vérité précisément pour ce modèle plus élevé de connaissance qui est le savoir philosophique, cela est possible grâce à un principe fondamental, celui de l’ejnqousiasmov", de la conviction que l’âme peut agir en suivant l’élément du divin qui réside en lui-même. Une philosophie entendue comme mystagogie, comme exercice pour l’âme d’abandonner la matière pour monter jusqu’au Principe Premier qui est aussi le Premier Dieu24, ne peut que trouver dans la possession divine une source sûre et solide de vérité. C’est de cette perspective que l’inspiration, signe pour Platon de l’Ion de l’ignorance du poète et de sa profonde distance du philosophe, devient par contre chez l’exégète néoplatonicien, précisément pour le philosophe, un instrument épistémique et pour cela l’élément de salut du langage mythique25. Dans sa nature relationnelle, hiérarchique, le langage révèle alors un ultérieur élément d’union avec la poésie, à savoir sa valeur exotérique à côté de celle révélatrice. Le nom poétique est conçu comme un voile pour la réalité divine, une traduction sémantique de la distance ontologique existant entre une divinité principale et une autre dérivée du pantheon grec. Dans sa nature mimétique le nom est élément d’union et d’appartenance de l’humain au divin, c’est la dénomination des différents niveaux ontologiques où la même chaîne sérielle de procession du divin se structure. Le nom prévoit l’existence d’un modèle et d’une représentation de ce modèle qui cependant reste toujours présent dans cette représentation bien que distribué hiérarchiquement. C’est dans ce sens, alors, que l’on peut le définir mesure du divin, signe qui va nommer la relation, qui est au même temps appartenance et séparation, du sensible avec l’intelligible, de 23 Cf. Procl. In Crat. LXX, 29, 11-18. L’identification entre l’Un-Bien et le Premier Dieu est attribuée par Proclus à Platon même à la fin de la Dissertation XIe de l’In Rempublicam, I, 287, 16-17: «to; a[ra ajgaqovn ejstin oJ prw'to" kata; Plavtwna qeov"». Sur l’interprétation du Bien dans cette œuvre proclienne cf. Abbate 2004, pp. CIII-CXIV. Sur la relation d’identité entre Un en soi = Bien = Premier Dieu à la base du système métaphysico-théologique de Proclus et de la divinisation de la réalité qui en découle cf. Abbate 2008, pp. 85-114. 25 Cf. Plat. Ion. 532c-533c e Procl. In Crat., LXXI, 34, 11-12. 24 303 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO l’homme, auteur mais aussi premier usager du langage, avec la divinité, cause ‘principiale’ mais aussi premier objet du lovgo" terrain. Le troisième chapitre ouvre la deuxième partie de la thèse qui limite l’horizon de recherche aux pages de Proclus dédiées spécifiquement à la poihtikh; tevcnh. Dans cette partie j’analyse plus en détail les pages que Proclus consacre à la poésie, à partir de trois points de vue fondamentaux: linguistique, rhétorique et philosophique. Je présente les dix questions soulevées par le philosophe néoplatonicien dans la cinquième Dissertation du Commentaire sur la République, en discutant le problème de la poikiliva mythique et de l’incohérence linguistique, la relation entre la poésie et la musique, la vision du récit mythique comme une expérience théurgique, la représentation de l’ a[risto" poihthv", la recherche du tevlo" de la poésie et, finalement, la définition du Poète qui est dans le Tout, modèle de tout poète du monde sensible. Après avoir réintégré la poésie dans le système littéraire, métaphysique et théologique de Proclus, la thèse se termine par une démonstration de la façon dont le poète et le Philosophe, de la perspective néoplatonicienne, sont auteurs de la même vérité sur les êtres, étant donné qu’ils procèdent en dépendance du seul et même dieu. Proclus démontre cet accord entre le message poétique et la philosophie platonicienne en examinant les mythes archaïques en parallèle avec les mythes platoniciens, et surtout en lisant à travers les nouveaux instruments dialectiques et métaphysico-théologiques les récits homériques. Ce sont précisément des exemples de ce dévoilement analogique des trames mythiques sur le plan métaphysique proposés par Proclus dans la sixième dissertation qui font l’objet de la dernière partie de la thèse, afin de démontrer comment le philosophe, diadoque de l’Ecole d’Athènes du Vème siècle après J.C., a réussi à faire coïncider le récit des mythes archaïques avec la hiérarchie métaphysique et théologique édifiée par lui-même. Le Commentaire sur la République26 est le seul commentaire néoplatonicien de ce dialogue qui nous est parvenu. Il est donc d’extrême importance pour l’enquête des développements sur la question poétique traitée par Platon dans les livres II, III et X du dialogue. L’œuvre est divisée en dix-sept essais centrés sur des sujets 26 Les références aux passages du commentaire sont indiquées selon la division en livre, page et ligne de l’édition de Kroll 1899-91. 304 RÉSUMÉ bien délimités: le cinquième et le sixième sont dédiés à la poésie27. Les études de Carlo Gallavotti28 du siècle dernier ont démontré l’origine composite de cette œuvre proclienne, probablement constituée d’une section isagogique, une sorte de guide à la lecture de la République, et une série d’écrits monographiques et d’approfondissement, indépendants l’un de l’autre. La cinquième Dissertation ferait partie de celle que Gallavotti appelle oeuvre de base, tandis que la sixième constituerait un écrit autonome dédié au rapport entre Homère et Platon. Les deux essais montrent évidemment une nature compositionnelle et une destination diversifiées, en étant le premier expressément didactique dans la même structure exégétique, bâtie autour de la solution de dix questions, l’autre, par contre, plus autonome aussi par rapport à l’évolution du dialogue platonicien. Toutefois, il est nécessaire, à mon avis, de dépasser l’hypothèse la plus répandue d’après laquelle la sixième Dissertation, au détriment de la cinquième Dissertation négligée de manière trop superficielle par la bibliographie récente29, serait la seule à rendre non seulement la pensée la plus mûre et pour cela la plus authentique de Proclus, mais aussi les éléments constituant la théorie esthétique du philosophe. L’analyse détaillée des dix questions a montré en revanche combien il serait fécond d’apprécier l’originalité et la complexité de la position de Proclus par rapport à la question poétique ainsi qu’elle est déjà clairement exprimée dans l’écrit introductif. A mon avis, déjà dans la cinquième Dissertation le Diadoque athénien introduit dans son discours sur la poésie, même si avec des modalités et un 27 Je ne m’occuperai pas de la Dissertation XVI, hypomnema du mythe conclusif de la République, ni de l’œuvre proclienne commentant les Travaux et jours d’Hésiode, puisque je considère plus féconde, dans ce contexte, la lecture d’écrits plus théoriques sur la poésie en tant que technique poétique. Sur les scolies au texte d’Hésiode cf. Faraggiana di Sarzana 1987 (vd. Bibliografia. Fonti primarie s.v. Esiodo). Le Lexicon Suida s.v. Provklo", vol. IV, p. 210, 9 attribue au philosophe lycien un commentaire eij" o{lon to;n ”Omhron, dont, cependant, il ne reste que ce témoignage. 28 Cf. Gallavotti 1929 e 1971. Cf. § 3.1. 29 James Coulter en 1976, dans son étude sur le langage mimétique du néoplatonisme de l’âge tardif, en déclarant s’occuper surtout de la VIe Dissertation, justifiait son choix ainsi : «It [scil. la Ve Dissertation] is immeasurably less important, and was probably written rather earlier than the second essay»: Coulter 1976, p. 46. C’est à Anne Sheppard que l’on doit le premier et excellent guide global des deux Dissertations: cf. Sheppard 1980. Robert Lamberton, en revanche, insère la VIe Dissertation dans son analyse de l’interprétation du mythe archaïque, mais il néglige manifestement la Ve: cf. Lamberton 1986, pp. 174-197. Encore seulement quelques pages, et tout à fait secondaires, sont dédiées à la Ve Dissertation dans la dernière monographie sur la défense d’Homère par Proclus : cf. Kuisma 1996, pp. 69-77. 305 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO développement différents, toutes les composantes nécessaires pour évaluer de façon accomplie le rôle du mythe archaïque dans son système philosophique30. Le troisième chapitre de la thèse est ainsi dédié aux questions peri; poihtikh'" traitées dans la cinquième Dissertation du Commentaire à la République. L’enquête proclienne part de certaines apories du texte platonicien dont l’exégète propose des solutions raffinées et savantes. Dans l’effort de concilier Homère et Platon, Proclus montre qu’il se sert des connaissances rhétoriques et littéraires de sa formation, en apportant une claire marque d’originalité à l’argumentation de défense du poète archaïque31. Il est possible de synthétiser en quatre points les critères exégétiques qui ont inspiré le philosophe néoplatonicien dans sa discussion. Premièrement, la philosophie platonicienne doit être présentée comme un tout, un corps unitaire systématique et jamais contradictoire: cela signifie que le texte est souvent abstrait de son contexte, il ne trouve pas l'identité et l'exhaustivité dans la forme du dialogue qui, au contraire, chez Platon, lui donnait substance chaque fois, mais plutôt il est fixé dans une structure sémantique rigide et cohérente; deuxièmement, la prétendue «ironie socratique» est rarement admise: Socrate est toujours auteur de la vérité et c’est plutôt l’ironie soupçonnée mais fausse qui, prise au sérieux, initie l'enquête pour la solution aux apories du philosophe divin; troisièmement, le philosophe et le poète sont encadrés dans une dimension de sa doctrine métaphysique et théologique néoplatonicienne, pour laquelle le réel est construit selon une harmonie profonde et une analogie étroite entre les différents niveaux ontologiques au sein desquels elle se déroule; 30 Kuisma, par exemple, continue à soutenir que seulement dans la sixième Dissertation on trouverait dans la définition de la poésie correcte, à côté du principe éthique aussi celui mystico-théurgique. «In the context of the 5th essay (public teaching) it is said that poetry affects the ethical disposition of human souls, but later in the 6th essay (a private lecture) the potentialities of poetry are further described as the efficient cause of mystical experiences»: Kuisma 1996, p. 72. Ceci est le résultat d’une méprise en raison de la perspective à partir de laquelle on continue à regarder la cinquième Dissertation, considérée ‘scolastique’ en manière restrictive. Dans la première question de l’essai proclien (In Remp. I, 48, 26) la poésie est déjà définie Mousw'n a[galma, «statue des Muses», juste comme dans l’In Cratylum le nom était ‘statue des dieux’, un signe évident de la puissance théurgique attribuée par Proclus au récit mythique dès le début. Sur ce sujet cf. § 3.3.4. En outre, l’idée selon laquelle, d’après le chercheur, le lien entre les deux Dissertations est seulement la référence, présente dans les deux, aux tuvpoi peri; qeologiva" (Kuisma 1996, p. 71), me semble plutôt sommaire. 31 L'importance de l’intérêt de Proclus pour la rhétorique et de ses connaissances sur cette discipline peut être témoignée par le fait que Syrianus, son maître, auquel nous devons plusieurs suggestions procliennes sur la poésie aussi, est l’auteur d’un commentaire sur l’oeuvre du rhétoricien Hermogène. J’ai dédié le § 3.6.1 à la présence d’argumentations rhétoriques dans la défense proclienne d’Homère et à l’art rhétorique comme un outil herméneutique tout à fait englobé dans l’exégèse philosophique du Diadoque athénien. 306 RÉSUMÉ dernièrement, dans une tentative de concilier Homère et Platon, Proclus relie toujours aux principes métaphysiques de sa philosophie la connaissance de la rhétorique et sa formation philologique. En orientant la discussion sur un plan herméneutique évidemment néoplatonicien, le philosophe lycien commence par le technicisme de questions métriques, rhétoriques et musicales pour arriver à la configuration d’un Poète qui est dans le Tout, modèle cosmique du poète du monde sensible. La poésie est déjà présentée dans ses caractéristiques primaires: l’origine inspirée, le but didactique et la nature mimétique. Dès la première question abordée dans la cinquième Dissertation, l’exégète amène l’élève, vers lequel l’écrit était dirigé, sur un chemin clairement néoplatonicien, en déplaçant la discussion sur la poésie du côté politique vers le côté théologique. Proclus montre qu’il ne s’écarte jamais du texte platonicien, mais il lit ce même texte à travers des outils philologiques et rhétoriques et, ainsi, il réussit à situer, avec cohérence et originalité, la production poétique à l’intérieur du système philosophique d’abord platonicien et puis néoplatonicien. Tout cela se révèle évident en lisant le développement de dix questions peri; poihtikh'" abordées par Proclus dans cette dissertation. Le philosophe néoplatonicien argumente, pour son apologie d’Homère, en parlant de lois de cohérence linguistique, de variété mythique, d’imitation poétique avec et sans ressemblance (question I); il discute de tragédie et de comédie (questions II-III); il définit la sorte de mousikhv que Platon est disposé à qualifier de poétique (questions IV-V); il repère le genre harmonique et l’espèce de rythme qui conviennent à l’éducation des jeunes (question VI); il reconnaît dans le texte platonicien la critique des erreurs des poètes mais aussi la description du poète meilleur (question VII-VIII); il détermine la fin de la poésie, c’est à dire le bien (question IX), et, enfin, il ajoute son propre argument tout à fait néoplatonicien. Dans la dixième question, Proclus caractérise le Poète qui est dans le Tout, modèle des poètes du monde sensible, et, en utilisant l’analogie entre les divers niveaux ontologiques du réel, il parvient à la divinisation de la poésie. 307 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO Toute la poésie est habit mimétique, comme écrit Proclus en conclusion de ce qui se présente comme une sorte de définition de l’activité poétique32. Proclus règle cette activité représentative en discutant de certains principes rhétoricolittéraires fondamentaux pour la réalisation de la meilleure forme de poésie, par exemple la règle de la ressemblance entre mots, pensée et faits à attribuer au single personnage du récit mythique, ou l’attention à éviter une poikiliva éthique, une variété de modèles de vie en contraste en eux ou cependant représentant l’image aussi bien vertueuse que vicieuse du caractère humain et divin. Ainsi reconstruite, la poésie retrouve une utilité inattendue à l’intérieur d’une particulière cité, celle tyrannique, et Platon est présenté comme le meilleur juge de l’art poétique33. A l’art tragique et comique deux questions sont dédiées, la deuxième et la troisième, dans lesquelles l’exégète tente une conciliation entre l’accusation platonicienne et la réhabilitation aristotélique du théâtre avec l’introduction du concept de catharsis tragique. Proclus, même s’il reconnait un effet positif des scènes tragiques sur le public, ne fait allusion que superficiellement à un aspect qu’il développera ensuite dans la sixième dissertation et il reste fidèle à la vision platonicienne du théâtre comme une dangereuse image du monde des dieux, en présentant la tragédie même comme une a[qea fantasiva, une imagination qui est hors de la divinité34. Une page importante de l’exégèse de Proclus est celle qui résout de façon très efficace l’aporie qui engendre le final du Symposium, à propos du fait que la même personne peut composer de la poésie tragique et comique, avec les pages 395a1-5 du troisième livre de la République dans lesquelles Socrate semble affirmer exactement le contraire35. Une analyse très suggestive de l’art des Muses occupe la section centrale de la cinquième Dissertation dont le philosophe et le poète sont les protagonistes. Proclus embrasse les genres différents de la mousikh; tevcnh pour aller définir la place de la poésie par rapport à la philosophie, genre suprême de l’art musical. Même si parfois leur interprétation résulte difficile, dans ces pages nous 32 Cf. Procl. In Remp. I, 67, 6-9. Cf. §§ 3.3 et 3.6. 34 Cf. Procl. ibi, I, 51, 10-12. Cf. § 3.4.1. 35 Cf. § 3.4. 33 308 RÉSUMÉ apprenons clairement que le philosophe et le poète partagent un lien profond avec une dimension d’ordre supérieur, celle des Muses, de laquelle le philosophe reçoit la capacité de voir le plan intelligible, le Tout, et de composer, à la fin de son enquête dialectique, des hymnes qui célèbrent l’harmonie cosmique, en imitant Apollon, chanteur des entreprises de Zeus. L’enthousiasme, comme Proclus écrit, ne peut avoir comme but que la possession de l’âme du poète, ainsi Platon – ou peut-être plus vraisemblablement Proclus lui-même, auteur d’hymnes à la fin de sa vie philosophique36 – et Homère, étant possédés par les Muses, ne peuvent qu’écrire des mythes par lesquels éduquer les hommes, le philosophe en exprimant avec clarté le bien et le beau, le poète en proposant de ce qui est bon et beau seulement des modèles exemplaires37. Du contexte paidétique dans lequel le débat a vu ses origines chez Platon, on s’est déplacé sur des plans dans lesquels l'exégèse, la philologie et la rhétorique sont entrelacées afin de parvenir à une herméneutique du mythe tout à fait originale. Il s’agit d’une herméneutique qui fait du récit mythique le signe d’une vérité métaphysique et théologique. Il existe une dimension où la poésie n’est pas histoire éducative ni technique de l’imitation, où elle n’est pas rhétorique ni éducation pour l'homme vertueux, plutôt elle est formule sacrée d’inspiration divine. Ce sont la puissance du symbole, le pouvoir théurgique d’une statue divine qui marquent la piste tout à fait néoplatonicienne, et surtout proclienne, d’une nouvelle réflexion sur la poésie. Le langage poétique, expression symbolique des réalités divines, est cultuel: sa compréhension contribue à l’art hiératique: «la vie même de tous ceux qui écoutent - Proclus écrit - est solidement établie chez les dieux et entend désormais, en toute sécurité (ajsfalw'"), tels discours»38; ou mieux, les mythes deviennent un instrument d’ascension vers ce qui est supérieur, vers les esprits du niveau ultime; ce qu’ils produisent est un enchaînement – qevlgw est le verbe utilisé par Proclus – à travers lequel l’inspiration divine par 36 Marino (Vit. Procl. 22, 17-29; 26 Saffrey – Segonds) raconte que le philosophe, ayant désormais 70 ans, affaibli par son activité frénétique de chercheur et de diadoque qui l’avait amené à tenir cinq ou même plus de cours et à écrire sept cents lignes environ dans un seul jour, se dédia, ensuite, dans les dernières années de sa vie, à la prière et à la composition d’hymnes. De ceux-ci, seulement sept nous sont parvenus. Le volume le plus récent dédie à ces textes est celui de Van den Berg 2001. 37 Cf. § 3.5.2. 38 Procl. In Remp. I, 48, 5-7. 309 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO laquelle le poète est entraîné procède depuis ces esprits jusqu’à nous qui écoutons ce poète, fascinés39. La poésie, donc, dans une dimension pétrie de divin, ne peut pas être condamnée; elle est plutôt un instrument mystique, presque théurgique, un langage de révélation divine. Au bas de la première question au début du cours proclien consacré à Homère, la poésie est appelée Mousw'n a[galma40, statue des Muses, c’est-à-dire vision plastique des entités intelligibles, simulacre d’un lien entre l'humain et le divin; elle est le voile symbolique d’un sens autrement intraduisible, et dans une conception de la philosophie comme ascension mystique à ce qui est absolument transcendant, elle est une source de révélation divine. C’est exactement l’ejnqousiasmov" que Platon dans le Ion évoque comme une démonstration de l'ignorance du poète, de son manque de connaissance de ce qu'il dit, et, en conséquence, de sa profonde distance du philosophe, c’est exactement l’ejnqousiasmov" qui est devenu, au contraire, chez l’exégète néoplatonicien, juste pour le philosophe, un instrument épistémique41. Le rôle joué par les statues des dieux dans la télestique est bien connu ; la pratique théurgique qui, avec l’art médiumnique, permettait aux hommes d'entrer en contact direct avec les dieux, en consacrant et en animant des statues magiques pour obtenir des oracles42. C'est dans ce sens, alors, que dans le Commentaire du Cratyle, le nom divin est appelé a[galma des dieux43, et dans le Commentaire sur la République, c’est la poésie qui est dite «statue des Muses». Le langage poétique, précisément le langage qui parle des dieux, le langage qui doit mentir, qui doit couvrir la vérité sur son sujet, se trouve en relation sympathique avec les dieux, il devient un instrument de ce contact direct avec le divin qui est le but fondamental de la vie philosophique. Après avoir développé des questions d’école et argumenté à propos de solutions personnelles à des contradictions internes à la position platonicienne 39 Cf. Procl. ibi, I 48, 1-13. Procl. ibi, I, 48, 25-26. 41 Cf. Procl. In Remp. I, 47, 20-22. 42 En suivant Dodds, nous pouvons déduire une description de cette pratique même par certains textes procliens (passages du Commentaire du Timée et de la Théologie Platonicienne): les statues des dieux recevaient un pouvoir médiumnique par certains éléments (suvmbola) végétaux, animaux et minéraux qui étaient placés en eux, parce qu’ils étaient considérés comme doués d’une certaine sumpavqeia, c’est-à-dire d’un pouvoir évocateur dû à leur naturelle communion avec l’esprit divin. Cf. Dodds 2003, pp. 355-360. 43 Procl. In Crat. LI, 19, 12-19. Nous lisons le même concept en Theol. Plat. I, 29, pp. 124, 21 – 125, 2. 40 310 RÉSUMÉ autour de la poésie, après avoir défendu et donné des règles à la nature mimétique de la poésie et avoir montré le caractère inspiré de la composition poétique, Proclus aborde deux discussions conclusives où la perspective néoplatonicienne, depuis laquelle le philosophe examine la question poétique, se manifeste ouvertement, en finissant par s’éloigner du contexte politique et éducatif du discours platonicien. Dans la dernière section, en fait, la poésie découvre son but dernier dans le bien et le poète est inséré dans une dimension même théologique, en devenant l’image d’Apollon, Poète cosmique qui coopère à l’ordre de l’univers avec Zeus, modèle divin du philosophe-gardien de la cité juste44. La thèse s’achève par le quatrième chapitre centré sur la sixième Dissertation du Commentaire sur la République. Le traité de Proclus est divisé en deux livres, le premier dédié à Homère, à la défense des poèmes de celui-ci par rapport aux accusations provenant de Socrate, le second à Platon, à ce qui est ‘homérique’ dans ses dialogues, dans la tentative de démontrer que la poésie et la philosophie sont liées profondément45. L’apologie d’Homère est bâtie sur de précis critères herméneutiques que Proclus expose d’abord dans des pages d’introduction, et puis il réalise, dans une série de lectures allégoriques, des récits du mythe archaïque. L’erreur des mythographes, comme l’explique Proclus, est une erreur causée par le mauvais choix de ojnovmata et fantavsmata, c’est-à-dire, mots et histoires, qui, du moins apparemment, ne conviennent pas aux essences divines. Comment concilier, donc, discours laids, presque monstrueux, sur les dieux avec la nature de ceux-ci, modelée sur le Bien, substantiellement unie au Beau, inspirée par l’Ordre ? – s’interroge-t-il. Les mythes de ceux que Proclus appelle qeolovgoi, Homère, Hésiode et Orphée, attribuent aux essences divines, qui transcendent toute chose, crimes, adultères, vols, éjections hors du ciel, outrages aux parents, mises aux chaînes, castrations et plusieurs autres abominations. Il devient, alors, nécessaire d’accorder aux dieux des histoires qu’on imagine liées à ce qui est plongé dans la matière, privées de tout ce qui est juste et de la loi divine. 44 Cf. § 3.7. «La strategia di Proclo è qui [scil. dans la sixième Dissertation] duplice: mostrare che nella poesia qualcosa va oltre il significato letterale; e mostrare che nell’interpretazione platonica della poesia c’è più di quanto certe affermazioni dei dialoghi lascino a prima vista pensare. […] Lo scopo finale è fondere Omero e Platone, poesia e filosofia, in una sintesi di intuizione e di rivelazione neoplatonica»: Halliwell 2009, p. 278. 45 311 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO Nous découvrons ainsi qu’à la base de la lecture correcte de la poésie, destinée par Homère non pas aux jeunes élèves mais à un public restreint, à des hommes qui ont déjà commencé leur parcours de connaissance et qui sont donc déjà prêts à accueillir les vérités suprêmes du réel, on trouve le schéma sériel du système métaphysique de Proclus. Une connexion intime entre les éléments constituant le réel raconte la structure ontologique comme celle herméneutique et le mythe résulte composé d’un sens caché et d’un sens apparent, intrinsèquement liés mais évidemment séparés, exactement come dans les chaînes (seiraiv) de procession des ordres divins il y a un premier dieu, qui préside à telle dérivation graduelle, et il y a des dieux d’ordre inférieur, démons ou héros. Cette double dimension du mythe représente son excellence la plus remarquable parce que grâce à elle les mythes ne révèlent aux profanes aucune des réalités vraies et, en même temps, ils présentent de vagues traces de l’entière mystagogie aux gens naturellement capables de se laisser conduire, à partir de ces traces, jusqu’à la contemplation inaccessible au vulgaire. Or, ceux qui se laissent entraîner à une impiété insensée par l’apparente obscénité des récits, ce sont les hommes qui n’arrivent pas à reconnaître cette double dimension des mythes et ne comprennent ni le but ni la vertu de l’affabulation mythique. Donc, il ne faut pas bannir les mythes à cause de l’usage négatif que les auditeurs en font46. Toutefois, si l’on peut bien accuser le mauvais usage du mythe, on ne peut pas nier l’apparente obscénité des récits sur les dieux. C’est à ce point-là que Proclus présente sa propre taxonomie du matériel mythique. Il faut, explique-t-il, déterminer l’ijdeva des mythes, leur propre forme qui se distingue sur la base de leur proaivresi", leur finalité, leur dessin. Il existe, alors, deux ideai des mythes : l’une que nous appelons éducative (paideutikhv) et l’autre plus divinement inspirée (ejnqeastikwtevrh) qui se rapporte aux réalités divines, au Tout, plus qu’à ses effets sur les destinataires. Ensuite, il faut préciser une deuxième distinction, cette fois, sur la base de l’ejpithdeiovth", l’attitude, les vies des destinataires des mythes; d’une part, il y a les jeunes qui aiment les mœurs tendres du jeune âge, qui aiment bien s’identifier dans la variété des émotions représentées par les poètes ; de l’autre, il y a ceux qui sont capables d’être éveillés vers l’intellect et vers toutes les classes divines, vers 46 Cf. Procl. In Remp. I, 74, 9 – 86, 23. 312 RÉSUMÉ les processions des dieux à travers tout le réel. Étant données ces distinctions entre les formes des mythes et les dispositions de ceux qui les reçoivent, nous pouvons justement croire, comme Proclus écrit, que les mythes d’Homère et d’Hésiode ne sont pas convenables à l’éducation des jeunes, mais en même temps qu’ils sont conséquents à la nature de l’ensemble des choses et à l’ordre des êtres et qu’ils relient aux Êtres réellement existants ceux qui peuvent s’élever jusqu’à la contemplation des réalités divines. Le paradigme d’un parcours correct de lecture d’un texte poétique se base alors sur l’apport sémantique que l’auteur et le destinataire s’offrent réciproquement: la poésie est, d’un côté, le choix du mot correct, la ressemblance cohérente entre le sujet agent (dans ce cas les dieux) et l’action qui est attribuée à eux, et de l’autre, un travail herméneutique, réception attentive et profonde d’un sens autre. De cette perspective, Proclus englobe l’expérience poétique dans celle théurgique, en considérant le discours mythique comme un discours seulement pour les initiés et capable de révéler des vérités profondes sur les causes premières du réel47. L’exégète propose des lectures allégoriques des mythes, dont j’ai pris en examen, de façon illustrative, l’épisode du jugement de Pâris et les vers homériques sur le rire et les larmes des dieux48, qui se fondent sur un concept de représentation symbolique très bien défini: la signification cachée du mythe réside dans la partie opposée par rapport à celle littérale; c’est-à-dire que l’allégorie propose des symboles qui, par rapport à ce qu’ils symbolisent, sont tout à fait contraires. Voilà pourquoi ce qui nous semble honteux est en réalité symbole d’une vérité appartenant à un ordre ontologique où la même chose a une nature tout à fait opposée. Pour mieux expliquer ce principe, Proclus se sert de l’analogie tracée entre la production poétique et encore une fois celle démiurgique. Comme le Démiurge universel crée des êtres sensibles doués de forme, figure, immergés dans la temporalité et dans la spatialité, mais qui sont images de réalités intelligibles absolument dépourvues de forme, et surtout éternelles et immuables, ainsi le poète construit des images obscènes de ce qui dépasse par simplicité toute 47 Cf. Bouffartigue 1987, p. 129 qui reconnaît l’originalité de Proclus dans le fait qu’il rapport le phénomène poétique, d’une part, à la représentation de l’univers en tant que tenu par un réseau de sympathies, d’autre part, aux pratiques de la théurgie. Cf. § 4.1.2. 48 Cf. § 4.2. 313 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO beauté partielle49. Ce qu’il y a de tragique, de monstrueux (to; teratw'de"), de contraire à la nature dans les fictions des poètes est alors à considérer plutôt comme un instrument de connaissance parce qu’il incite les auditeurs à chercher une vérité cachée même sous son aspect apparemment paradoxal50. Cet aspect paradoxal nous force, selon Proclus, à passer au-dedans des mythes, à scruter le sens que les mythoplastes ont caché dans le secret, à voir quelles sortes de natures, et douées de quelle grande puissance, les poètes ont introduit dans la signification des mythes et indiqué à la postérité au moyen de ce genre de symboles (toi'sde toi'" sumbovloi")51. En outre, cet écran monstrueux et tragique, pour sa même nature visible, a le double pouvoir d’une part d’exciter les esprits naturellement mieux disposés à désirer la doctrine cachée qui s’y recèle et d’autre part de ne pas permettre aux profanes de toucher à des objets qui leur sont interdits. Si le caractère ésotérique de la poésie est un élément traditionnel de la réflexion sur le mythe archaïque, dans les premières pages de cette Dissertation, Proclus ajoute deux arguments qui représentent la nouveauté de sa position à l’égard de la poésie: il présente la mythopoiia, c’est-à-dire la construction des mythes, en tant qu’analogue à la production démiurgique des choses sensibles, et il consacre à la poésie le même pouvoir évocateur et mystique que possède la doctrine théurgique. En ce qui concerne le premier point, Proclus explique que la Nature, qui produit des imitations variées et sensibles des Formes intelligibles et immatérielles, représente toujours l’Indivisible par ce qui est divisé, l’Éternel par ce qui progresse dans le temps, l’Intelligible par ce qui est sensible. La production démiurgique se montre comme une représentation par contraste du monde intelligible dans le monde sensible. C’est de la même manière que les poètes représentent la qualité suréminente des modèles: ils façonnent des copies du divin 49 Cf. § 4.1.3. Pépin 1966, pp. 259-266 reconduit ce principe à Posidonius, mais nous pourrions remonter jusqu’à Aristote et au célèbre passage de Met. I, 982b, où le mythe, en étant merveilleux, suscite l’étonnement, révèle l’ignorance et pousse vers la philosophie, si non à Platon et au célèbre passage du Theaet. 155d1-4, où la merveille est dite être l’état d’âme propre au philosophe et vrai début (ajrch; filosofiva") de l’enquête philosophique. Sur la relation entre thaumazein et philosophein cf. Berti 2007, V-VII. Des observations similaires se repètent tout au long du platonisme, depuis Plutarque (De E apud Delph. 385c-d) jusqu’à Maxime de Tyr (Or. 4,5-6), à Jamblique (De myst. III 15, 136, 1-8) et Saluste (De dis et mund. III 4). 51 Cf. Procl. In Remp. I, 85,16-26. 50 314 RÉSUMÉ au moyen des expressions les plus opposées au divin et qui s’en éloignent le plus; ils montrent par ce qui est contre nature ce qui, chez les dieux, dépasse la nature, par ce qui est contre raison ce qui est plus divin que toute raison, par les objets présentés à nos yeux comme laids, ce qui transcende en simplicité toute beauté partielle: et ainsi, par le discours convenable, ils nous rappellent la suprématie transcendante des dieux52. Quant à la relation entre la théurgie et la poésie, Proclus crée une analogie entre tout niveau ontologique du réel en le considérant dans la dimension tantôt métaphysique, tantôt théurgique, tantôt poétique. Dans la perspective proclienne chaque dieu préside une chaîne, une série par laquelle l’être divin procède du transcendant au sensible sans créer aucun vide dans la hiérarchie du réel. Il s’agit de la théorie néoplatonicienne du panthéisme, du tout en tout, de la relation entre toute forme de l’être, à partir du niveau le plus élevé jusqu’au niveau le plus strictement lié à la matière. Les deux natures du mythe, la figurative et la secrète, correspondent aux deux niveaux ontologiques de la même chaîne de l’être, l’une démonique, l’autre divine. De fait, les toutes dernières parmi les classes démoniques, celles qui sont en contact avec la matière, président sur tout ce qui est déviation des qualités conformes à la nature, laideur des choses matérielles, détournement vers le mauvais état. Toutefois, ces difformités doivent exister et composer avec le reste la bigarrure de l’entière ordonnance et il faut - cela est le point le plus important dans le système philosophique néoplatonicien - que l’on trouve, même dans les classes éternelles, la cause de leur «existence épiphénomenale»53, de leur fixité et de leur permanence. Or la théurgie et la mythologie reproduisent ce caractère sériel de la chaîne de procession divine des premières classes aux classes démoniques. En effet, l’art théurgique s’attire la bienveillance des dieux, d’une part par les initiations les plus saintes et les 52 Cf. Procl. ibi, I, 77, 19-28. Celui de la parupovstasi" est un concept très complexe de la philosophie proclienne, car il est strictement lié à la nature et à l’origine du mal. Ce dernier, puisqu’il n’a pas une cause, ni matérielle ni formelle, qui le produise, ne possède pas une sorte d’existence autonome et indépendante, mais seulement une parypostasis, une existence qui se détermine seulement en relation avec un bien particulier, en tant que privation spécifique de ce bien (cf. de mal. subs. IV, 49, 9-15 Isaac; Theol. Plat. I, 18; In Tim. I, 372, 25 – 381, 21; 384, 19 -385, 13 éd. Diehl). La traduction d’«existence épiphénomenale» est de Festugière. Michele Abbate, qui s’est occupé de cet argument dans son étude sur la quatrième Dissertation du Commentaire sur la République, traduit par «esistenza collaterale», qui est une traduction très proche de l’interprétation de Lloyd qui voit une sorte d’existence parasitaire: cf. Lloyd 1987 et Abbate 1998. 53 315 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO symboles mystiques, d’autre part par les passions, les rituels, présentes dans les cérémonies ; il cherche à se concilier les faveurs des démons en vertu d’une sorte ineffable de communauté d’affect. De la même façon, les pères des mythes, soucieux de rapporter les mythes à toute la chaîne issue de chaque dieu, ont produit le revêtement visible des mythes et leur aspect figuratif comme un analogue des classes les plus basses, de celles qui président sur les états de vie les plus enfoncés dans la matière, et ils ont livré le noyau inconnaissable au vulgaire comme une révélation de l’essence transcendante des dieux à ceux qui aspirent à contempler les Êtres. Et ainsi, chacun des mythes, dans l’interprétation proclienne, est approprié aux démons selon son aspect visible, et approprié aux dieux selon sa doctrine secrète54. L’allégorie devient ainsi un instrument systématique d’interprétation capable de révéler les principes même de la métaphysique néoplatonicienne. Les premiers exemples que Proclus expose dans ces pages introductives de sa théorie esthétique sont l’interprétation de l’éjection d’Héphaïstos, la mise aux chaînes de Kronos et la castration d’Ouranos55. Dans l’Iliade, Homère raconte que Zeus, en colère avec Héra, saisit par un pied Héphaïstos, qui avait pris le parti de sa mère, et le précipita du haut de l’Olympe; une variante du mythe raconte que Héra jeta Héphaïstos en bas de l’Olympe à cause de sa claudication, mais c’est la première version qui intéresse Proclus, d’après qui l’éjection d’Héphaïstos signifie la procession du Divin depuis le monde suprasensible jusqu’aux dernières créatures dans le monde sensible, procession suscitée, achevée et guidée par le Démiurge. En ce qui concerne la mise aux chaînes de Kronos, Proclus se réfère à une variante orphique du conflit entre Zeus et son père56. Après lui avoir fait rejeter les fils engloutis, Zeus, avec l’aide de ses frères, fit droguer Kronos avec du miel et le fit attacher. Finalement, il finit jeté dans le Tartare tandis que Zeus regagna les cimes du mont Olympe. Les chaînes de Kronos représentent l’union de la création entière avec la transcendance intellective et paternelle de Kronos. Enfin, 54 Procl. In Remp. I, 78, 18 – 79, 4. Chacun récit vient reconduit à la science irréfutable des dieux: c’est l’interprétation qui Felix Buffière a nommé métaphysique après celles physique et morale de la tradiction alexandrine et stoicienne: Buffière 1956, pp. 2-3. 56 Cf. déjà Porph. De antr. nymph. 16 et Tatien dans son Discours aux Grecs (IX, 10, 23-26). Cf. Bos 1991, pp. 103-105. 55 316 RÉSUMÉ pour ce qui est de la castration d’Ouranos: Hésiode raconte que Kronos, le plus jeune des Titans, les dieux de la première génération, aida sa mère Gaïa à se venger d’Ouranos qui emprisonnait leurs fils dans le sein de leur mère dès leur naissance. Placé en embuscade, il attaqua Ouranos alors que celui-ci venait se coucher avec Gaïa et lui trancha les testicules, qu’il jeta à la mer. D’après Proclus, cette castration suggère à mots couverts la séparation de la «chaîne» Titanique de l’ordre qui maintient le Tout. Par cette lecture, qui est vraiment un processus herméneutique du récit mythique, Proclus réfère ce qu’il y a de tragique et fantastiques dans ces mythes à la doctrine intellective des classes divines. Donc, dans l’interprétation proclienne, le mythe, dans le cas des dieux, assume en rapport avec la nature la meilleure et de la meilleure façon tout ce qui dans notre esprit est associée en idée avec le pire et qui appartient à la série de l’inférieur. La mise aux chaînes est chez nous une chose qui empêche et réfrène l’activité, mais au niveau des dieux, elle est lien et union ineffable avec les Causes. L’éjection est chez nous un mouvement violent causé par un autre, en revanche chez les dieux elle signifie la procession générative et la manière libre et aisée dont ils se rendent présents à toute chose ; cette image parvient jusqu’à révéler un principe théorique fondamental de la pensée métaphysique néoplatonicienne: cette procession générative n’implique pas que les dieux pour créer s’éloignent du principe originel, mais elle consiste en une progression régulière à partir de ce principe à travers toute chose. Enfin, la castration, si elle, dans les réalités partielles et matérielles, produit une diminution de force, dans les Causes primordiales, elle suggère à mots couverts que les êtres de second rang procèdent depuis leurs causes vers une classe plus basse sans que les premiers êtres sortent d’eux-mêmes, du fait de la procession des seconds, ni subissent d’amoindrissement du fait de la séparation des seconds, ni se laissent diviser du fait de la division qui a lieu dans les êtres inférieurs: voici donc encore une autre image poétique, un autre symbole mythique, qui vient à révéler un principe métaphysique. Or, il est vrai que tout cela est incompréhensible par les plus jeunes, mais il est vrai aussi que les philosophes57 sont capables dans le secret de saisir d’emblée la 57 Cf. Procl. Theol. Plat. V, 3, p. 17, 22-25: en ce qui concerne la castration de Kronos par Zeus, Proclus explique que Platon est conscient du caractère tragique, monstrueux du mythe, mais il sait aussi que tel caractère confond seulement les masses naïves à cause de leur ignorance sur les secrets contenus dans les 317 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO vérité sur les dieux, même à partir des symboles mythiques. Ils savent reconnaître dans les récits mythiques ce que les initiés savent reconnaître dans les pratiques hiératiques. Dans les récits mythiques, le déplacement herméneutique du niveau sensible au niveau intelligible, du matériel au noétique, du pire au meilleur se produit dans les même termes que dans les pratiques théurgiques. Celles-là aussi prêtent à rire au vulgaire, mais, à ceux qui sont éveillés pour comprendre – il s’agit, en fait, d’un petit nombre – elles révèlent l’affinité que les choses sacrées ont avec les choses d’ici-bas et fournissent l’assurance, fondée sur les opérations mêmes de l’art hiératique, de leur connaturalité avec le Divin. Donc la forme de la poésie plus divinement inspirée exprime la sumpavqeia, l’harmonie ‘sympathétique’ entre tous les éléments du réel, les éléments du dernier et du premier niveau et elle fait cela en se servant des mots d’une façon multiple, par toutes les valeurs communicatives possibles. Or les mythes éducatifs racontent les choses d’une manière vraisemblable et surtout par des symboles qui représentent par ressemblance les choses divines dont ils parlent (di∆ oJmoiovthto" tw'n sumbovlwn58). En revanche, les mythes divinement inspirés attribuent aux dieux des qualités apparemment trop différentes, qui contrastent avec la nature divine dont ils sont des symboles. Cela est le symbole distinctif du mythe divinement inspiré, c’est-à-dire le symbole di∆ ajnantiwvthto", par le contraire: c’est un symbole qui ne vise pas la correcte formation des jeunes, mais l’évocation hiératique du Divin. En outre, la première méthode pour écrire des récits, qui utilise des images, convient aux amis sincères de la sagesse, la seconde, qui est une indication sur l’essence divine au moyen de formules secrètes, convient aux chefs de l’initiation la plus mystique59. Il est donc évident la voie théologique, mystique, qui guide Proclus dans son interprétation de la poésie ancienne: il a souligné la valeur, pour ainsi dire, ésotérique de l’aspect visible et figuratif du mythe et il a fait de la poésie mythes, et que par contre il dévoile au savant des significations merveilleuses plus profondes. Pour cette raison, explique Proclus, Platon pense que l’on pourrait être persuadé, convaincu par les anciens, qui sont fils des dieux, à aller rechercher leurs secrètes intentions. 58 De ce passage (I, 84, 5-6) il semblerait donc que le symbole appartient à l’expression poétique et des mythes paidétiques et des mythes inspirés. Le symbolisme par ressemblance rend ces symboles, des images; ceux par contraste les rend des formules secrètes. 59 Platon lui-même utiliserait, d’après Proclus (84, 29 – 85, 12), la mustikwvtera telesiourgiva quand il veut renforcer l’évidence et la crédibilité de ses dovgmata (par exemple dans Phaed. 62b3, 69c4 e 108a4). 318 RÉSUMÉ divinement inspirée une poésie symbolique. Ils sont même ces deux éléments au centre de l’épilogue de sa défense d’Homère. Il existe ensuite une suggevneia, une parenté entre le pouvoir médiumnique des démons dans les pratiques théurgiques et celui des images mythiques dans la poésie ancienne. De la même façon que le démon, s’il nous apparaît en rêve ou en état de veille, lui qui est un medium entre les dieux et nous, est également capable de nous révéler des vérités sur les natures divines, les images poétiques deviennent révélatrices de la doctrine la plus vraie. De la même façon qu’entre le démon et le dieu de la même chaîne il existe un rapport non pas de copie ou de modèle, mais de participation sympathétique de l’un à l’autre, ainsi dans la construction de fictions imaginaires certaines choses sont indiquées par d’autres choses pas comme une copie indique son modèle, mais comme un symbole indique ce qui, en vertu d’une analogie, a avec lui une sorte d’affinité. Les mythes, alors, étant devenus des exégètes même de la réalité divine, conviennent nécessairement aux dieux. Voici donc des symboles mythiques qui viennent à révéler des principes métaphysiques et qui établissent l’entier projet de réhabilitation de la poésie homérique chez l’Ecole d’Athènes. Toutefois il faut souligner qu’avant qu’Homère devienne auteur de vérités divines, Platon lui-même, dans l’enseignement du néoplatonisme tardif, est devenu auteur d’une mystagogie. Cela est à la base de la réhabilitation de la tradition archaïque, de son droit d’autorité, et surtout le projet d’un accord qui doit être créé entre le savoir mythique et le savoir rationnel, entre le savoir inspiré et le savoir dialectique. Toutefois, Proclus préfère, à mon avis, une voie argumentative encore plus authentique, une voie qui lui permette de ne pas trop s’éloigner de la perspective platonicienne et de garder plutôt ce lien que le dialogue platonicien gardait quandmême avec le récit mythique. Les dialogues platoniciens sont devenus, bien sûr en termes évidemment néoplatoniciens, représentation cultuelle de la divinité, et leurs images sont devenues métaphores d’une doctrine ineffable, mais l’élément sur lequel l’analyse de la structure du mythe, de son interprétation herméneutique, peut nous conduire à réfléchir, est exactement le fait que Proclus a fait attention à un aspect de l’écriture platonicienne qui est une densité d’images, visualisation 319 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO d’un parcours dialectique; Proclus a fait attention à l’instrument figuratif, à l’aspect visuel de la communication platonicienne que cette dernière partage avec le langage mythique60. Nous pouvons alors supposer que, dans la réflexion proclienne, l’élément qui fait mettre sur le même niveau le poète et le philosophe n’est pas seulement leur même contenu de vérité, le fait de parler tous les deux de choses divines, mais leur même langage, le fait d’être tous les deux des interprètes, le fait de savoir conduire le destinataire, le public, d’un point à un autre point qui est engendré par le premier mais qui, par rapport à celui-là, est devenu vraiment autre chose. Cela est le sens d’être ejxhghtaiv, exégètes, le fait de communiquer tous les deux en visant un paradigme qui doit être représenté dans une image, qui soit cette image ou un instrument dialectique ou bien un symbole théurgique. Le second livre de la sixième Dissertation se pose précisément comme un nouveau début à partir duquel traiter le sujet esthétique. Cette fois c’est Platon qui est l’objet d’observation, ce sont ses dialogues desquels on pourra reconstruire une théorie de l’activité poétique où Homère parait comme maître, défenseur et ami du philosophe athénien. Homère est appelé à corroborer les thèses platoniciennes, ou bien à les démontrer, ou encore à les anticiper comme sur la question de l’âme, sur les descriptions infernales, ou sur la triple distinction démiurgique61. Sa poésie, loin d’être «trois fois loin de la vérité»62, exprime la vérité et arrive à le faire parce qu’elle est directement insufflée chez le poète, et puis chez le public grâce à la nature expansive de l’enthousiasme, par celui qui possède cette vérité éternellement et parfaitement. Si par la suite les pièges, qui viennent du style mimétique où cette vérité est exprimée, rendent la poésie dangereuse pour les jeunes néophytes, cela n’autorise pas à la bannir de la kallipolis, autrement on risquerait, comme Proclus le souligne en se montrant un lecteur appliqué de son maitre, de chasser même Platon, auteur de scènes dialogiques. Comment faire alors pour concilier l’origine inspirée de la poésie avec sa nature mimétique? Dans les dernières pages de son traité, Proclus, sur la base de 60 Cf. Procl. In Remp. I, 73, 16 – 74, 2. Cf. § 4.3. 62 Plat. Resp. X, 597e7. 61 320 RÉSUMÉ la distinction des trois degrés de vie de l’âme, propose une tripartition de la poésie, ou mieux, une tripartition de l’ejnevrgeia poétique, qui a suscité beaucoup d’intérêt dans la littérature critique et aussi beaucoup de raisons de débat. En effet, elle semblerait contredire ce que Proclus soutient non seulement dans la cinquième Dissertation, mais aussi au cours de la sixième, parce qu’il propose une distinction entre poésie inspirée, une poésie qui, en m’éloignant légèrement de la bibliographie récente, j’appellerai ‘épistémique’63, et enfin une poésie mimétique, comme si l’enthousiasme et la mimesis ensemble n’étaient pas des éléments constituant toute la poésie et l’objet du ban platonicien se limitait à la nature mimétique du discours mythique. La lecture de ces pages64 a démontré, par contre, que ce schéma proposé par Proclus est pleinement inséré dans l’entière structure interprétative de la critique platonicienne à Homère qui a été reconstruite jusqu’ici. Celle de Proclus, de façon parfaitement harmonique avec sa configuration triadique et sérielle du Tout, est une distinction entre trois degrés d’activité poétique: l’un, le tout premier et suprême (ajkrovtato"), celui où le récit d’Homère sur les dieux et sur les hommes coïncide avec la sagesse divine et, grâce au pouvoir magnétique de l’enthousiasmos, le public aussi s’emplit de cette sagesse; puis il y a le degré moyen où Homère, en se servant de sa sagesse, donne des explications et des conseils sur l’univers et sur l’âme ; et enfin il y a le niveau le plus bas, divisé à sa fois en poésie éicastique, où Homère considère les choses du monde sensible et essaie d’en faire une copie vraisemblable, et en fantastique où le poète représente les apparences d’apparences, afin de fasciner la partie la plus irrationnelle de l’âme. Voici le niveau de la poésie tragique à laquelle la condamnation platonicienne s’adresse exclusivement. Proclus démontre avec précision comment les poèmes homériques sont le produit des trois degrés de la poihtikh; tevcnh, parce que la poésie ne peut que, en même temps, être inspirée, se montrer savante et parler par images. C’est seulement quand ces images des choses du monde sensible se présentent comme si elles étaient le modèle dont 63 Il s’agit d’un choix, argumenté dans le § 4.4.3, auquel je renvoie et qui pose, à mon avis fidèlement au texte de Proclus, l’élément caractérisant ce niveau d’activité poétique dans l’intervention active des connaissances du poète dans la composition, et pas dans sa finalité éducative comme la littérature critique l’interprète. 64 Cf. §§ 4.4 e 4.5. 321 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO elles sont l’image, que la poésie s’éloigne irrémédiablement de la philosophie et que pour cela elle est chassée de la cité des philosophes. Le développement de l’argumentation dans les dernières pages de la sixième Dissertation acquiert le ton d’une véritable défense judiciaire et il en utilise les instruments argumentatifs. Ayant le texte sous les yeux, Proclus analyse dans les détails l’écrit platonicien. Il commence du début du dixième livre, de cet o{sh mimhtikhv (595a5) qui devient immédiatement l’argument apologétique de la poésie archaïque. Il faut refuser tout ce qui est mimétique dans la poésie – déclare Socrate à Glaucon en reprenant le discours sur l’art poétique introduit dans le livre III et en introduisant celui sur la mivmhsi"65. Le procédé herméneutique de Proclus se poursuit par des démonstrations ejx uJpoqevsew": si l’on pensait que toute la poésie se réduit au niveau mimétique de son activité, et surtout à celui qui est trompeur, alors on pourrait justement penser que Platon refuse l’art poétique entièrement. Mais du moment qu’il admet l’existence d’une poésie inspirée des dieux et d’une poésie qu’il compose en fonction de sa connaissance, alors on doit conclure qu’il est contre la poésie fantastique à laquelle il adresse ses accusations, en laissant libres de toute critique les autres formes de composition poétique. Ainsi s’ouvre un discours sur la poésie mimétique en relation avec celle qui est inspirée, argumentation qui peut sembler contradictoire par rapport à ce qui a été déclaré sur l’art poétique dans la cinquième Dissertation. L’objet de l’accusation de Platon est ce qui est mimétique dans la poésie : le fait d’avoir précisé la cible de son accusation – explique Proclus – fait pressentir que cette cible est seulement une partie par rapport au tout, autrement, s’il coïncidait avec la poésie tout entière telle explication aurait été superflue. Cette déduction est absolument vraisemblable, mais en contraste avec cette définition d’art poétique comme e{xi" mimhtikhv donnée par Proclus dans la cinquième Dissertation mais aussi avec tout l’apparat symbolique et imaginatif qui est à la base de l’analogie bâtie entre les niveaux sémantiques de la poésie et le rite théurgique d’un côté et la sérialité ontologique des ordres divins de l’autre. 65 Cf. Procl. In Remp. I, 197, 18-21. 322 RÉSUMÉ Il est alors nécessaire de s’arrêter sur cette question cruciale de l’esthétique proclienne. Le lexique utilisé par Proclus pour parler des modalités de production poétique est très varié. La critique a voulu à tout prix codifier l’énorme complexité de la réflexion proclienne sur cet argument en cherchant aussi des dénominations qui pouvaient ordonner la totalité des variations considérées par l’exégète. Ainsi on a parlé de poésie inspirée (ou symbolique), en l’attribuant à Homère, de poésie didactique (ou éducative), celle de Platon et des philosophes naturalistes, de poésie mimétique (ou illusoire), celle des auteurs tragiques. À mon avis, la fécondité de l’herméneutique proclienne met en crise tout de suite une attitude de ce type. La prolifération des solutions exégétiques qui vont éclaircir des incohérences, et des affirmations plus ou moins ironiques du texte platonicien, ne peut se résoudre dans une structure monolithique et compacte. On a l’habitude de penser à la systématisation de la philosophie proclienne comme à un tout fixe et jamais contradictoire. En réalité, dans l’irréductible effort de maintenir ensemble toutes les séries de la pensée platonicienne, on remarque inévitablement des distorsions et des bavures qui, si elles sont insérées dans la vraie nature dynamique du modèle herméneutique proclien, ne deviennent plus des contradictions sournoises à éviter, mais des étapes exégétiques fécondes pour la compréhension du texte. À mon avis ce retour critique sur mimesis à la fin de la sixième Dissertation est à considérer précisément par rapport au discours concernant les trois genres de l’activité poétique. Il est clair que Proclus se réfère ici non à la nature intrinsèquement imaginative, représentative de la poésie, mais seulement à ce type d’image frauduleuse et illusoire, celui qui, en s’adaptant aux distorsions perspectives et au plaisir suscité chez le public, se fait passer pour le modèle dont cette image est seulement une représentation. Déjà une première distinction entre la poésie de premier ordre, si l’on peut s’exprimer de cette façon, et celle de second ordre sur la base des finalités didactiques n’est pas à même de cueillir ce dynamisme dont je vais parler: si d’emblée il peut nous sembler alléchant de définir comme didactique la poésie qui est exprimée par les mythes du Timée ou du Phèdre, ou des poèmes des premiers philosophes sur la nature, ou des poètes élégiaques qui parlent de vertus civiles, pour distinguer ces mythes et ces poèmes de ceux d’Homère, non pas en tant que philosophe et poète, mais en 323 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO tant que chanteur divin, on s’aperçoit rapidement qu’également toute la poésie du philosophe – lui aussi inspiré comme le poète – est paidétique, et précisément parce qu’elle est nécessairement paidétique elle peut être considérée dangereuse pour les plus jeunes66. Ce même élément didactique se retrouve aussi dans la poésie éicastique dont le modèle de poète homérique est identifié dans la figure de l’aède de Clytemnestre parce qu’il possède une correcte opinion des choses et grâce à celle-ci il réussit à donner des conseils à sa maîtresse, en la gardant loin de crimes et d’actions violentes. Le fait de trouver alors dans la source de production poétique, qui est parfois l’enthousiasme, parfois la connaissance certaine, ou encore la correcte opinion, et enfin l’apparence, cela me semble le critère le plus vaste et pour cela le plus transparent à utiliser dans la dynamique des ressemblances et des différences entre chacun des genres poétiques. En ce qui concerne la mimesis on se trouve en face de la même difficulté, si l’on se propose de schématiser de façon définitive les trois genres de l’activité poétique autour de cette catégorie esthétique. Stephen Halliwell saisit un aspect primaire qui doit servir de support à notre lecture de ces pages complexes du Commentaire sur la République67. Il fait une distinction entre une mivmhsi" descriptive et une mivmhsi" évaluative: la première, celle dont Proclus parle surtout dans la cinquième Dissertation, décrit la générale nature représentative de la poésie (mais aussi du dialogue platonicien); la seconde se pose au niveau le plus bas dans l’échelle des formes poétiques68. D’un côté, donc, la mimesis en tant que technique poietique, de l’autre la mivmhsi" en tant que modalité compositrice. Quand Proclus définit l’art poétique un art mimétique69 il le fait parce qu’il est une activité humaine de production d’objets subsistants en relation avec un modèle, à un paradigme, et comme nous avons vu à propos de la production linguistique, elle aussi mimétique, telle activité se fonde sur une capacité 66 Cf. Procl. In Remp. I, 57, 15-20. Cf. supra § 3.3.1, pp. 137-139. 68 Le fait que les trois formes de poésie, que Halliwell aussi interprète comme niveaux ou types de signification ou d’interprétation, peuvent coexister dans une seule œuvre, comme l’œuvre homérique, ce serait la démonstration, d’après le chercheur, que la poésie inspirée ou la poésie éducative – c’est ainsi en effet qu’il appelle le deuxième niveau d’activité poétique – peuvent aussi devenir mimétiques ou représentatives si elles sont observées depuis une certaine perspective. Le modèle tripartite de la sixième Dissertation sert, en somme, comme une suggestion de lecture de l’œuvre poétique, tantôt de haut niveau, tantôt de niveau plus bas selon le jugement de l’interprète. Cf. Halliwell 2009, pp. 280-281. 69 Cfr. In Remp. I, 44, 1-2; 67, 7. 67 324 RÉSUMÉ assimilatrice de l’âme innée dans son pouvoir démiurgique analogue à celui divin. Dans ce sens la mimesis est le procès qui règle par analogie toute forme de production démiurgique, celle du Cosme, de la parole et du discours poétique, et dans la perspective proclienne, une perspective qui considère le monde et la nature hiérarchisés, organisés sur des niveaux différents et multiples, l’origine mimétique d’une forme quelconque de poiesis constitue un modèle herméneutique de transparence absolue. Nous ne devons pas oublier que la même schématisation des activités poétiques est organisée sur des niveaux ; quand Proclus parle de la pierre d’Héraclée, il n’hésite pas à distinguer une cause très première de l’inspiration poétique du poète de niveau intermédiaire, c’est-à-dire Homère, et celui du dernier écho représenté par le rhapsode. Et même maintenant, quand il parle du réel objet de la condamnation platonicienne, il identifie un très premier poète (oJ prwvtisto" poihthv", I, 198, 28) qui ne peut pas être celui qui est loin trois fois de la vérité, objet de la condamnation platonicienne. Si nous essayions de limiter chaque occurrence de la famille lexicale de la mivmhsi" à la troisième forme de poésie présentée par Proclus dans la sixième Dissertation, nous tomberions inévitablement en contradiction. Dans l’introduction au discours sur la correcte interprétation de la poésie homérique, Proclus parle d’images : ce sont eijkovne" les images racontées par Homère et qui sont à interpréter allégoriquement ; les verbes mimevomai, ajpotupovw sont ceux qui racontent cette modalité de composition. Dans les premières pages de la sixième Dissertation (I, 77-78) il n’y a aucune référence au suvmbolon comme nous nous y attendrions ; c’est le cas en revanche quelques pages plus tard et dans la partie finale du traité70. Mais non seulement il n’est pas possible de supprimer les termes étymologiquement liés à la mivmhsi" de la première forme de poésie, mais il n’est pas possible non plus attribuer le terme suvmbolon à la seule sphère de la poésie inspirée. En effet, quand Proclus présente les deux formes de poésie, l’une plus inspirée et l’autre plus appropriée à l’éducation des jeunes (I, 84), il décrit les deux comme des formes de poésies qui se servent de suvmbola bien que la première raconte di∆ 70 Cf. supra, § 4.1.2, p. 210, n. 14. 325 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO ajnantiwvthto" tw'n sumbovlwn et la deuxième dia; oJmoiovthto" tw'n 71 sumbovlwn . Il est évident que le même lexique de l’image montre cette pluralité sémantique de la sphère mimétique: tout cela parce que la poivhsi" poétique est, comme n’importe quelle autre forme de production, une mimesis et elle est à raconter par le lexique de la mimesis. La fonction de la catégorie esthétique de la mimesis exprimée dans la définition des trois habits poétiques correspondant aux trois habits psychologiques de l’homme est, en revanche, une fonction différente de celle développée dans le domaine poético-démiurgique. Dans ce contexte Proclus se réfère à cet ei\do" narratif propre à la poésie dramatique, celui où, encore plus qu’ailleurs, l’écart entre le paradigme et son image devient très faible, et reconnaître la nature représentative de l’image devient vraiment difficile; c’est ce genre de composition qui montre Homère comme s’il était Pâris ou Achille ou Pénélope ou Priam. Proclus le dit clairement en reconduisant à un syllogisme de première figure la condamnation platonicienne exposée dans le dixième livre de la République: le poète est un mimhthv"; le mimhthv" est trois fois loin de la vérité ; le poète est trois fois loin de la vérité. Le principe de telle déduction est dans le fait d’avoir pris comme mimhthv" de notre discours celui qui est trois fois loin de la réalité et dans la suite de l’argumentation le mimhthv" qui répond à telle définition est le poète tragique, producteur, comme le peintre, de ei[dwla, apparences d’apparences (Resp. X, 597b). Ce sont ceux qui se consacrent à la poésie dramatique, en ïambes ou en vers épiques – spécifie Proclus – donc le poète tragique mais Homère aussi les mimhtikoi; wJ" oi|ovn te mavlista, les poètes mimétiques au degré maximal, parce qu’ils sont capables de créer cette perspective illusoire par laquelle la vue peut croire réel ce qui est seulement similaire au réel, ce qui est seulement une représentation du réel. Dans les pages précédentes nous avons appris que dans les récits divins, apparemment abjects et honteux, le poète décrit par opposition les vérités suprêmes, celles sur les dieux, et par des termes plus distants des objets du récit il exprime les réalités les plus vraies à lire et à interpréter allégoriquement. 71 Entre cette variété et cette interchangeabilité du lexique employé on peut cependant considérer comme univoque l’emploi et la signification du terme suvnqhma, proprement théurgique, entendu comme formule mystique, secrète, attribué toujours et seulement à la poésie inspirée. 326 RÉSUMÉ Celui qui est dépourvu de ces instruments peut bien sûr être brouillé par ces histoires qui seront accueillies de façon littérale, en finissant par susciter un désir d’émulation certainement dangereux; mais celui qui, en tant qu’initié, réussira à soulever le voile allégorique posé sur ces arguments mystiques, pourra en apprendre les principes suprêmes de la vérité divine. La poésie dramatique, en revanche, confond son public, certes le moins adroit, parce qu’elle montre une réalité démesurée, déformée, plus proche ou plus loin du vrai, plus lourde ou plus légère, comme si elle était cependant absolument conforme au vrai, en exploitant notre affection naturelle, cette confusion présente dans l’âme de chacun de nous, qui se laisse tromper par les fautes de la vue (Resp. X, 602c10-d4). Quel est alors le rapport entre tout cela et la poésie d’Homère? Proclus est clair sur ce point : les critiques platoniciennes sont adressées sans aucun doute contre la poésie tragique et comique parce que dans celles-ci tout est mimesis (touvtwn ga;r to; o{lon mivmhsiv" ejstin), et tout est tourné vers la fascination des âmes ce qui écoutent (pro;" th;n tw'n ajkouovntwn ejxeirgasmevnh yucagwgivan)72. La poésie homérique, celle qui, en tant qu’elle est inspirée, prend son élan directement depuis les dieux et celle qui, par connaissance sûre, révèle la nature des êtres ne peut, en revanche, rentrer dans des considérations de ce type. Un passage très discuté de la sixième Dissertation est celui où Proclus déclare, en continuité avec ce qu’il est en train d’expliquer, que la poésie qui se sert de symboles absolument contraires au modèle qu’ils représentent ne peut être dite mimhtikhv, puisque les mimhvmata ne sont pas des images contraires à ce qu’ils représentent, mais des copies vraisemblables ou faussement identiques73. Ce passage résulte être évidemment problématique selon la critique moderne. Après une lecture immédiate, on peut déduire que la mimesis est ici séparée profondément de toute la production poétique comme poivhsi". Cependant nous avons vu comment au début de la sixième Dissertation Proclus a décrit le caractère intrinsèquement allégorique du mythe archaïque, celui du niveau le plus haut, capable de révéler les vérités suprêmes théologiques, précisément en termes d’opposition, de contrariété (I, 77, 19-24). Dans ce cas le philosophe lycien 72 73 Cf. Procl. In Remp. I, 198, 10-11. Procl. ibi, I, 198, 13-24. 327 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO utilisait pleinement le langage iconique de la mimesis, sans aucune allusion au symbole. L’activité poétique, en tant que représentation mimétique, acquérait sa signification la plus propre comme relation entre le monde visible et matériel d’un côté, et le monde des formes immatérielles de l’autre, juste comme à la fin de la cinquième Dissertation le dieu Apollon devenait le modèle cosmique du poète du monde sensible, Apollon qui «construit sur la base de réalités invisibles des représentations (mimhvmata) visibles»74. Si l’on veut, alors, essayer de comprendre, plutôt qu’exclure, la richesse herméneutique du langage utilisé par Proclus dans sa discussion de la représentation poétique, il est alors nécessaire de lire ce dernier passage que l’on vient de citer à la lumière de la longue description sur les activités poétiques qui vient d’être complétée. A mon avis il est évident comment ici Proclus n’est pas en train de parler de la mivmhsi" en tant que catégorie esthétique et ontologique, catégorie qui décrit la nature relationnelle qui relie n’importe quelle production et n’importe quel produit, qu’il soit divin ou humain, à tous les éléments de l’univers entendu dans sa totalité et particularité, mais de la mivmhsi" en tant que niveau le plus bas de l’activité poétique, celui de composition propre à la tragédie et à la comédie75. En effet, de cette forme de mivmhsi" non seulement la poésie inspirée est exclue, comme on s’y attendrait, mais aussi celle épistémique, pour démontrer que le discours sur la critique envers la poésie mimétique est exclusivement intérieur au schéma de la tripartition proposée dans les pages précédentes. Bref, la poésie compose toujours par images; elle est toujours une représentation de quelque chose qui existe toujours 74 Procl. ibi, I, 68, 16-17. Halliwell 2009, p. 283 repère dans le rôle que la mimesis joue dans le Timée, dans la production du monde sensible sur le modèle du monde intelligible, le concept de représentation que Proclus envisage comme l’emploi le plus vaste de la mimesis poétique, celui destiné à signifier justement le rapport iconique existant entre le monde des phénomènes et le modèle eidétique. A son avis les oscillations de sens retrouvables dans le Commentaire sur la République sont à relier à la profonde familiarité du philosophe lycien avec le vaste spectre du vocabulaire platonicien concernant la mimesis lequel cependant n’est jamais expressément coordonné à ses différentes applications. Dans sa tentative d’élever Homère audelà de la sphère de l’humain, l’exégète dégrade volontairement les ‘surfaces’ textuelles pour exalter la portée théologique de ce qui est dans le mythe, mais de l’autre côté, il ne réussit pas à renoncer à la puissance herméneutique de tout cet apparat extérieur, narratif et dramatique, qui fonde l’art poétique. « Se il rischio più grande delle dissertazioni di Proclo è il tentativo di riscattare Omero mantenendo tutta la fedeltà a Platone, in modo che il poeta e il filosofo si dimostrino ugualmente dediti al divino, non deve sorprenderci che l’arditezza di questa impresa abbia lasciato nei testi qualche segno d’incoerenza»: p. 284. 75 Contra Sheppard 1980, p. 199, qui au contraire sépare nettement symbolisme et mimesis dans cette dernière partie du traité de Proclus, en sous-estimant, peut-être excessivement, la forte contradiction intérieure qui en découle. 328 RÉSUMÉ en relation à un modèle. Dans sa nature mimétique, voire représentative, qui s’exprime tantôt par opposition, tantôt par ressemblance, tantôt par imitation, la poésie trouve aussi sa valeur didactique et révélatrice, tantôt véritable tantôt illusoire. J’entends par là que c’est la fonction analogique, son être pour, qui donne à la poésie un rôle central dans le parcours de connaissance et d’assimilation de l’âme particulière aux vérités suprêmes de nature divine. Cette fonction révélatrice, cependant, si elle est exprimée par une voie inspirée, est similaire à une expérience magico-théurgique à travers laquelle les auditeurs, comme s’ils étaient des initiés au culte secret, réussissent à être illuminés par la lumière divine dégagée par le Principe Premier; si, en revanche, celui-ci parle à travers des imitations fausses, des images doubles, il enchante seulement, il entraîne la partie irrationnelle de l’âme en la confinant dans le niveau sensible des choses, en montrant l’apparence de l’apparence comme s’il était le vrai, l’image de la copie sensible comme si elle était le modèle eidétique de cette image76. Maintenant il est vrai – continue Proclus – que le poète, en tant qu’imitateur, est troisième à partir de la vérité, mais ne l’est pas oJ prwvtisto" poihthv", le poète le tout premier e le plus divin. Comme nous l’avons déjà remarqué, c’est la hiérarchisation du système métaphysique, et dans ce cas aussi herméneutique, qui permet une ouverture de ce genre. Ce qui peut nous sembler une contradiction ou une naïve argumentation, répond toutefois à un ordre interne à la structure que Proclus lui-même va bâtir. En tant que possédé par les Muses le poète est en contact avec les êtres de premier niveau et contemple la vérité ; toutefois, en tant qu’imitateur, il est troisième à partir de la vérité. Il faut caractériser chaque chose à partir de l’élément suprême, non du plus bas - précise notre exégète - autrement nous pourrions nous trouver en difficulté même à l’égard de Platon. Lui aussi insère dans ses dialogues des imitations de personnes qui boivent, ou qui sont en guerre, comme dans le Critias et dans le Timée, mais cela n’est pas le facteur principal de son écriture ; ce qui compte est la doctrine philosophique de Platon. Homère est donc oJ prwvtisto" poihthv", le poète le tout premier, et sa poésie s’adresse à la partie plus divine de l’âme, celle qui est capable de remonter à partir du monde d’ici jusqu’à son modèle intelligible et puis jusqu’au Premier Principe. 76 Toute cette discussion est exposée et developpée en détail dans le § 4.5. 329 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO Le niveau le plus haut de l’activité poétique, celui qui correspond au degré le plus haut de vie de l’âme où le philosophe réussit à réaliser le moment dernier de son ascension épi-strophique, c’est-à-dire l’assimilation au dieu (oJmoivwsi" qew/'), est décrit précisément dans les termes d’une e[llamyi", d’une illumination77. Dans le chemin de remontée de l’âme vers l’Un, l’illumination correspond à une des dernières étapes, ultérieure désormais au niveau intellectuel, et préparatoire au moment cathartique et d’unification définitive dans le Principe78. Très loin du ban platonicien, nous lirons ainsi ce qui concerne une poésie porteuse de vérités et même équivalente à la suprême vision mystique, et tout cela grâce à sa nature relationnelle qui fonde chaque forme de production, celle démiurgique ainsi que celles linguistique et poétique, une nature mimétique qui unit le modèle à son image, le dieu au poète par lui inspiré. D’un point de vue d’une philosophie étroitement liée avec le divin, la poésie inspirée ne pouvait certainement pas subir la condamnation platonicienne sans proposer sa défense, d’autant plus que c’étaient les mêmes dialogues platoniciens qui présentaient une documentation problématique autour du jugement sur la poésie homérique. Pour conclure, la lecture des Dissertations V et VI du Commentaire à la République a montré une approche exégétique certainement orientée par des choix et des principes tous néoplatoniciens: pensons-nous par exemple à l’horizon théologique que Proclus ne cesse jamais de regarder, même lorsqu’il doit reconstruire la meilleure forme de poésie et il parvient à représenter un poète cosmique, qui fait déjà partie de l’ordre divin, à savoir Apollon; ou bien au fondement même de l’écriture exégétique et évidemment le dessin d’une harmonisation du corpus platonicum, de cette pluralité de positions offerte par les personnages des dialogues. Toutefois, il est nécessaire d’enregistrer de la part de Proclus une fidélité au texte exprimée non seulement dans la volonté déclarée de partir des textes écrits par Platon, mais aussi dans la capacité d’en reconnaître la problématique intrinsèque due à sa forme dialogique particulière et à l’instrument 77 78 Cf. Procl. In Remp. I, 180, 17 – 181, 2. Cf. § 4.4.2. Cf. Beierwaltes 1990, pp. 324-330. 330 RÉSUMÉ rhétorique de l’ironie socratique79. Proclus ne néglige pas de poser des questions difficiles, il s’interroge sur tous les éléments nécessaires à une compréhension totalisatrice du texte. Ses réponses ne sont pas certainement celles de Platon, mais il est indéniable que les solutions par lui proposées trouvent de l’espace dans cet amour jeune déclaré par Platon pour Homère80 et dans l’attaque contradictoire au théâtre de la part de celui qui choisit de mettre en scène des dialogues plutôt que d’écrire des traités. Le point de départ du développement de Proclus sur la poésie est en effet proprement la contradiction apparente où Platon semble tomber quand il chasse les poètes de la cité juste pour ensuite les admettre plusieurs fois comme sources de vérité de la justesse des noms, par exemple, ou de la tripartition de l’âme ou encore de la description de l’au-delà; ou bien encore quand il permet de rendre des parfums et des honneurs à la poésie et quand il dit plusieurs fois à propos d’Homère ‘poète divin’. La Dissertation V commence même par cette question: pourquoi Platon bannitil de la polis l’art de la poésie alors qu’en même temps il l’honore des honneurs qui appartiennent aux dieux?81 C’est la même question qui inspire la Dissertation VI: comment concilier la critique d’Homère avec sa réputation en tant que poète érudit, maître des choses divines et éternelles? Comment concilier le texte 95a1 du Phaedon dans lequel Homère est dit poète divin avec le texte de la République X, 597e7 dans lequel le poète tragique, expression maximale de la poésie mimétique, est par nature trois fois plus loin de la vérité?82 Dans la méthode exégétique et systématique des études néoplatoniciennes il est nécessaire et presque naturel de trouver une solution à cette aporie afin que la philosophie platonicienne soit présentée comme un tout, un corps unitaire et jamais contradictoire. Cette solution, notamment dans le cas de Proclus, se concrétise par la reconstruction platonicienne vers une dimension théologique. Proclus le déclare dès le début de la sixième dissertation: Platon et Homère ont contemplé les choses 79 Cf. Procl. In Crat. CXVI, 67, 24 – 68, 9. Sur l’ironie de Socrate dans la réception néoplatonicienne cf. Sedley 2002. 80 Cf. Plat. Resp. X, 607e4-608a5: il est significatif que de cet amour pour la poésie on peut se défendre, comme l’admet Socrate, seulement en continuant à se répéter comme un enchantement (ejpw/dhv) le discours qui vient de se terminer sur la forme correcte de mimesis. 81 Procl. In Remp. I, 42, 8-10. 82 Procl. ibi, I, 70, 16-21. 331 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO divines avec entendement et science (kai; nou'n kai; ejpisthvmhn), et ils donnent tous les deux, sur les mêmes sujets, des enseignements identiques, comme ayant procédé en dépendance du seul et même dieu (ajfæ eJnov" qeou') et comme faisant partie de la même chaîne, en tant qu’ils sont les interprètes de la même vérité sur les êtres83. En donnant une solution à cette dangereuse incohérence, le Diadoque d’Athènes se sert certainement des instruments déjà largement utilisés par la littérature apologétique des poèmes homériques, en premier parmi tous l’interprétation allégorique du mythe, mais il introduit aussi des argumentations spécifiques qui insèrent le discours sur la poésie à l’intérieur du système métaphysique de Proclus. Le premier de ces arguments nouveaux est la réglementation de la technique mimétique: la première partie de la cinquième Dissertation du Commentaire à la République est dédié à des explications de nature rhétorique et littéraire. Le philosophe lycien, en suivant mais aussi en développant le Socrate des livres II et III de la République, démontre qu’il peut soumettre la composition poétique à des règles précises visant la cohérence linguistique et l’uniformité éthique. La mimesis se pose dès lors comme un principe fondamental de production poétique. Toute la poésie est mimétique, c’est-à-dire qu’elle a une nature relationnelle, représentative d’un modèle dont elle produit des images, de même que la mimétique est à la base de la production démiurgique et linguistique. La poésie est alors symbole de son modèle et comme elle provient directement des Muses, elle garde la nature divine de ce paradigme qui est aussi son origine. Dans l’apparat magico-liturgique de la philosophie de Proclus la poivhsi" devient plus précisément statue des divinités, instrument hiératique, et pour cela on doit lui offrir des dons dignes des choses les plus sacrées84. À travers l’inspiration, le deuxième principe fondateur de la muqopoii?va, la poésie archaïque devient passage du divin à l’humain. Sans qu’il y ait aucune séparation entre les deux éléments constituant la production poétique, à savoir la 83 84 Procl. ibi, I, 71, 13-17. Cf. Procl. ibi, I, 47, 20-26. 332 RÉSUMÉ mimesis et l’enthousiasmos85, Proclus présente une poésie porteuse de vérité grâce à sa nature mimétique capable de garder une trace de l’inspiration divine où elle prend son origine. Le poète inspiré produit des images mythiques en faisant agir cette partie du divin qui se cache chez lui et la nature représentant ces images permet de garder et de transférer, comme il arrive avec la pierre magnétique, telle présence divine chez l’usager de ces mêmes images. De cette perspective, le fait de se trouver chez les dieux fait du poète, et donc de son activité, quelque chose qui n’est pas loin de la philosophie, d’une philosophie entendue précisément comme une approche graduelle au Premier Dieu86. Dès la cinquième Dissertation le Philosophe et le Poète sont rapprochés par Proclus pour leur pouvoir analogique, pouvoir qu’ils ont acquis de la même nature inspirée de leurs discours soit dialectiques soit mythiques87. Nous avons vu comment dans le final de la cinquième Dissertation, Apollon, modèle intelligible du poète sensible, est assis à côté de Zeus, modèle intelligible du politicien-philosophe de la cité sensible, et comment le dieu musagète coopère à l’ordre du monde. À la base de cet inattendu replacement de la figure du poète dans la doctrine néoplatonicienne, se pose le caractère sériel de la métaphysique de Proclus, qui a raconté l’ensemble de l’enquête sur le langage et notemment sur le langage poétique. La structure hiérarchique du réel permet à la poésie de se présenter comme une image de la dialectique, mais pas comme une image fausse. Dans le passage d’un niveau à l’autre de l’être il n’y a aucune perte de bien, mais seulement de l’unicité et de la simplicité et dans ce sens la poésie, en tant que mimétique, garde dans l’objet représenté le modèle de la représentation, bien que dans une puissance ontologique diminuée. La distribution du réel sur les divers niveaux de l’être a permis au philosophe lycien dans la sixième Dissertation de décrire la production poétique comme 85 La littérature critique moderne tend à présenter comme séparées les deux doctrines platoniciennes sur l’origine de la poésie, en considérant la doctrine mimétique comme la vraie théorie platonicienne et la doctrine enthousiaste comme une théorie seulement ironique. Sur la possibilité, par contre, d’approcher la représentation et l’inspiration dans l’activité poétique, à partir des deux dialogues fondamentaux sur ce sujet, à savoir le Phèdre et le Ion, cf. Palumbo 2011b. 86 Proclus explique, dans Theol. Plat. I, 4, p. 17, 18-24 éd. Westerink – Saffray, que Platon parle des dieux parfois de façon inspirée (ejnqeastikw'"), comme dans Phaedr. 243e9-257b7, parfois de façon dialectique (dialektikw'"), comme dans Soph. 242b6-245e2 et Parm. 137c1-155e3. Cfr. supra, p. 171, n. 135. 87 Cf. Procl. In Remp. I, 57, 16-18. 333 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO analogue à celle du Démiurge et donc les voiles symboliques, visiblement obscènes, comme analogues à la procession des ordres divins du premier Dieu. Les êtres sensibles sont très loin des êtres intelligibles sur lesquels les premiers sont modelés : ils ont une forme et une figure, ils sont périssables et muables donc opposés par nature à ce qui est indéterminé, éternel et immuable; de la même façon, les symboles mythiques se trouvent dans la partie opposée par rapport aux divinités dont ils sont la représentation. Toutefois, de même qu’à partir des choses sensibles l’âme du philosophe peut remonter vers ce qui est intelligible, ainsi l’âme de l’initié peut remonter des vers homériques vers la doctrine ineffable88. Autour de cette implantation théorique on fait graviter le schéma des trois activités poétiques identifiées par Proclus dans la dernière partie de sa réflexion sur la poésie. Il existe trois niveaux de l’ejnevrgeia poétique, un plus haut et tout premier qui coïncide avec la sagesse divine inspirée dans l’âme du poète, puis de l’aède, et enfin dans celle du public qui s’emplit ainsi du discours sur les dieux; puis, il y a la poésie qui est capable d’expliquer, en se servant de l’intervention active du poète savant, des contenus sages et véritables sur l’âme et sur le monde; enfin, il y a l’activité la plus basse de la poésie, celle qui se met en relation directement avec les choses sensibles ou avec leurs reflets dans un miroir, celui de la poésie qui peut enseigner seulement par des copies visibles des choses visibles ou bien qui peut seulement fasciner par des images illusoires et frauduleuses d’apparences d’apparences. Ce dernier degré de l’activité poétique coïncide avec le théâtre : c’est à celui-ci que Platon adresse sa critique, en craignant le pouvoir didactique et formatif que l’Athènes de Périclès et d’Alcibiade lui confiait. Proclus essaie d’être le médiateur entre la position platonicienne et celle aristotélique en introduisant l’argument défendant la catharsis tragique et peutêtre le fait-il seulement pour obéir à ce dessein d’harmonisation que l’école d’Athènes avait planifié entre le maître divin et son élève le plus célèbre89; mais le Diadoque de cette École, par contre, étant fidèle à l’abandon du théâtre que Platon avait choisi en suivant Socrate, identifie la vraie cible de la condamnation platonicienne dans la mimésis tragique, cette mimésis qui fait vivre les masques 88 89 Cf. Procl. In Remp. I, 76, 17 – 79, 18. Cf. Procl. ibi, I, 49, 13 – 51, 25. 334 RÉSUMÉ sur la scène comme s’ils étaient les visages qui se cachent derrière ces masques, en se servant du plaisir qu’une telle identification suscite chez le public et de l’erreur de perspective qui fait confondre le regard sur la représentation avec le regard sur le modèle représenté. Si la tragédie est l’expression la plus haute de l’activité poétique du dernier niveau, la poésie homérique met ensemble tous les degrés identifiés par Proclus. Cela fait d’Homère l’objet de certaines attaques platoniciennes, mais aussi l’ami de Platon, la voix de la tradition et d’un savoir d’ordre supérieur appelée à être parfois témoin de théories philosophiques, d’autres fois à être preuve irréfutable dans la partie conclusive des démonstrations dialectiques, d’autres encore comme oracle porteur d’une vérité qui attend d’être démontrée. Tout cela est possible parce que la poésie du niveau le plus haut (hJ ajkrotavth) est intrinsèquement liée au divin. Elle correspond à l’âme dans sa vie du degré le plus haut, celle où, dans la dernière phase de remontée vers le Principe premier, l’âme devient lumineuse, simple et séparée ainsi que le Premier Dieu auquel elle finit par s’assimiler. Le vocabulaire employé par Proclus dans ces pages est le signe tangible du changement de perspective réalisé par l’exégète néoplatonicien dans son enquête sur la poésie. Nous avons vu que la poésie inspirée est décrite comme une e[llamyi", une illumination de l’âme humaine par contact direct avec la lumière supérieure, ce moment ultérieur par rapport à la pensée, ce moment où, comme dans une théophanie, la lumière est transmise par l’être supérieur à l’être inférieur complètement abandonné à l’illumination reçue. C’est cet état de possession et folie décrit par Platon dans le Phèdre90, un état de l’âme qui est sortie d’ellemême, de sa variété et pluralité, pour se remplir de proportion, celle des dieux; la mania poétique, généralement associée à l’excès et au dérèglement en contraste avec ce qui est rationnel et équilibré, prend sa forme selon la mesure du divin, et l’origine de son salut du bannissement platonicien est précisément dans le fait qu’elle est à la place des dieux, avec qui elle partage la mesure91. Ce n’est pas la beauté qui meut l’amoureux, ce n’est pas la vérité qui est laissée aux oracles et aux théurges, mais cette symétrie, to; qei'on mevtron, le fait d’exprimer la nature 90 91 Cf. Plat. Phaedr. 245a1-8. Cf. Procl. In Remp. I, 178, 24 – 179, 3. 335 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO d’un Principe supérieur dans sa détermination graduelle et hiérarchique, du Premier Dieu jusqu’à l’Un qui est chez nous, le fait de raconter la conversion de cette trace à partir des choses de la réalité jusqu’à la lumière supérieure, voici la nature de la plus haute activité poétique et la raison tout à fait proclienne de l’entrée d’Homère dans la cité des philosophes. 336 BIBLIOGRAFIA Bibliografia Indici, lessici e opere di consultazione ANRW = H. Temporini, W. Haase (hrsg.), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt. Geschichte und Kultur Roms im Spiegel der neueren Forschung, De Gruyter, Berlin – New York 1972 ss. CAG = Commentaria in Aristotelem Graeca, edita consilio et auctoritate Academiae litterarum regiae Borussicae, G. Reimer, Berlin 1882-1909. Chantraine 1999 = P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, avec un Supplement sous la direction de A. Blanc, Ch. De Lamberterie, J-L. 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Plotino ................................................................................................... 33 1.6. Porfirio .................................................................................................. 37 1.7. Giuliano e Salustio ................................................................................ 46 1.8. La scuola di Atene................................................................................. 49 PARTE PRIMA. Il nome ......................................................................................... 55 Capitolo 2 ............................................................................................................. 55 Gli dèi, i poeti e l’anima all’origine del nome ................................................... 55 2.1. «Seguendo Omero e i poeti ispirati…» ................................................. 55 2.2. Lo sciame etimologico del Cratilo nell’interpretazione procliana ....... 59 2.3. Il lessico della rappresentazione linguistica: il nome eijkwvn e il nome a[galma .................................................................................................. 68 2.3.1. Il nome eijkwvn .................................................................................... 68 2.3.2. L’anima assimilatrice e il nome a[galma .......................................... 82 2.4. Il nominare divino e il nominare umano nella gerarchia metafisicoteologica del reale ................................................................................. 93 2.5. L’enthousiasmos del poeta maestro del filosofo ................................. 101 2.6. La verità del linguaggio poetico .......................................................... 113 2.6.1. Il silenzio degli dèi intelligibili ....................................................... 113 2.6.2. Zeus ed Era...................................................................................... 118 2.6.3. Era ................................................................................................... 120 2.6.4. Afrodite ........................................................................................... 121 PARTE SECONDA. La poesia................................................................................ 127 389 IL NOME, LA POESIA E LA MISURA DEL DIVINO Capitolo 3 ........................................................................................................... 127 Come leggere correttamente le pagine della Repubblica sulla poihtikh; vcnh poihtikh; tev tecnh ............................................................................................................................. 127 3.1. Le Dissertazioni V e VI nel Commentario alla Repubblica: natura e destinatario .......................................................................................... 127 3.2. Le dieci questioni peri; poihtikh'" della quinta Dissertazione .......... 134 3.3. Questione I: l’indagine sui poemi omerici tra leggi retoriche e istanze metafisiche ........................................................................................... 137 3.3.1. La poesia degli eroi e la poesia degli dèi: una muqopoii?a mimetica137 3.3.2. La dissomiglianza tw'n paqw'n e tw'n ojnomavtwn............................ 140 3.3.3. Poikiliva mitica e incoerenza linguistica ......................................... 145 3.3.4. La poesia agalma: mito e teurgia nella prima difesa procliana ....... 147 3.4. Questioni II e III: sulla tragedia e sulla commedia.............................. 151 3.4.1. La prospettiva di Aristotele nella risposta di Proclo alla condanna platonica del teatro........................................................................... 151 3.4.2. La fenomenologia dell’anima: una questione di metodo................. 158 3.4.3. Competenza tecnica e capacità d’immedesimazione del drammaturgo ………..……………………………………………………………160 3.5. Questioni IV, V e VI: De musica ........................................................ 164 3.5.1. Socrate e Damone: il politico e il musico ........................................ 164 3.5.2. Ta; ei[dh th'" mousikh'" ................................................................. 169 3.5.3. I ritmi e le armonie adatti all’educazione dei giovani ..................... 179 3.6. Questioni VII-VIII: Platone critico letterario ...................................... 184 3.6.1. Questione VII. Pars destruens: gli aJmarthvmata del poeta ........... 184 3.6.2. Questione VIII. Pars construens: l’ a[risto" poihthv" secondo Platone…. ........................................................................................ 192 3.7. Questioni IX e X: L’argumentum neoplatonico. L’ultima parola ....... 195 3.7.1. Il tevlo" della poesia ........................................................................ 196 3.7.2. Il Poeta che è nel Tutto e la divinizzazione della poesia ................. 199 Capitolo 4 ........................................................................................................... 205 Il Filosofo e il Poeta ........................................................................................... 205 4.1. Né Socrate accusava, né Omero mentiva ............................................ 205 4.1.1. L’apologia di Omero: l’intenzione del testo e il fruitore ideale ...... 205 4.1.2. Poesia e teurgia nella seconda difesa procliana ............................... 210 4.1.3. Come interpretare allegoricamente l’aijscrovth" dei miti omerici .. 216 4.2. Ancora sul disvelamento dei racconti mitici: esempi di lettura allegorica della poesia omerica ............................................................................ 225 4.2.1. Il giudizio di Paride ......................................................................... 225 4.2.2. Il riso e il pianto degli dèi ................................................................ 228 4.3. Omero maestro di verità ...................................................................... 235 4.4. I tre gradi dell’attività poetica ............................................................. 244 4.4.1. Ascendere al divino e fare poesia .................................................... 244 4.4.2. La poesia ispirata ............................................................................. 250 4.4.3. La poesia ‘epistemica’ ..................................................................... 256 4.4.4. La poesia mimetica .......................................................................... 259 4.4.5. Omero da poeta fantastico a poeta entusiasta ................................. 262 390 INDICE 4.5. 4.6. Mimesis e simbolo nell’attività del primissimo poeta ......................... 267 L’arringa finale: storia delle tradizione e filosofia a confronto .......... 276 Conclusioni ........................................................................................................ 285 Résumé ............................................................................................................... 295 Bibliografia ........................................................................................................ 337 Indici, lessici e opere di consultazione............................................................ 337 Repertori bibliografici ..................................................................................... 338 Fonti primarie. Edizioni e traduzioni .............................................................. 339 Fonti secondarie .............................................................................................. 360 Indice .................................................................................................................. 389 391
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