donne chiesa mondo

donne chiesa mondo
Sua madre confrontava
tutte queste cose nel suo cuore
L’OSSERVATORE ROMANO maggio 2014 numero 23
Intorno al velo
«Sotto gli occhi di Amerigo continuavano a passare
fotografie e fotografie formato tessera, tutte
ugualmente ripartite di spazi bianchi e neri, l’ogiva
del viso incorniciata dalle bianche bende e dal
trapezio del pettorale, il tutto iscritto nel triangolo
nero del velo. E doveva dir questo: o il fotografo
delle monache era un grande fotografo, o sono le
monache che in fotografia riescono benissimo. Non
soltanto per l’armonia di quell’illustre motivo
figurativo che è l’abito monacale, ma perché i visi
venivano fuori naturali, somiglianti, sereni. Amerigo
s’accorse che questo controllo dei documenti delle
suore diventava per lui una specie di riposo dello
spirito». È l’intellettuale comunista Amerigo Ormea,
al centro dello splendido e complesso romanzo di
Italo Calvino, La giornata d’uno scrutatore (1963), a
parlare. Prestando servizio al seggio del Cottolengo
di Torino in occasione delle elezioni politiche del
1953, fra le tante scoperte di quella giornata, Amerigo
scopre anche le suore, figure sempre viste ma mai
veramente pensate. Anche questo numero di «donne
chiesa mondo» vuole cercare di pensare nel profondo
una presenza quasi scontata, quel «triangolo nero del
velo» che copre il capo di tante donne. Abbiamo
cercato di meditarlo nelle sue diverse declinazioni:
nelle religiose, nelle donne cattoliche a messa, nelle
ebree, nelle musulmane. Perché oggi per molte e
molti di noi, il velo che cinge il capo femminile è —
pur con tutte le differenze a seconda dei contesti —
l’emblema di una sorta di schiavitù mentale, simbolo
più o meno forte della sottomissione di un sesso
all’altro. Ma davvero questa stoffa è solo la via per
nascondere, per rinchiudere, per celare nell’umiltà,
per segnare una sorta di proprietà privata e riservata,
per separare o educare alla docilità? Non può, invece,
anche essere un simbolo che dichiara una scelta
libera e consapevole? È del resto il velo che spesso,
nei secoli, ha accompagnato le raffigurazioni di
Maria: per festeggiare il secondo compleanno di
«donne chiesa mondo», nato nel maggio del 2012,
rileggiamo dunque un verso delicato e toccante di
Alda Merini. «Tutti gli uccelli abbassarono il velo /
sul volto di Maria, / affinché non vedesse lo scempio
della sua carne». (g.g.)
«Vergine di Loreto»
(Santuario della Santa Casa, Tresivio, particolare)
Diadema regale
La fondatrice dell’abbazia Mater Ecclesiae sul lago d’Orta ci spiega il velo monastico
di ANNA MARIA CANOPI
icevi il velo e il santo
abito, segno della
tua consacrazione, e
non dimenticare mai
che sei stata acquistata da Cristo per servire a lui solo e al
suo Corpo che è la Chiesa». Con questa
formula, nel giorno della professione perpetua e consacrazione, il vescovo consegna alla monaca il velo e l’abito corale. La
neo-consacrata canta: Posuit signum in fa-
«R
È una specie di clausura nella clausura
Indica la generosità e l’intensità
con cui la claustrale fa dono di sé
a Dio per tutti rimanendo nascosta
Per essere del tutto gratuita
donne chiesa mondo
ciem meam… «Il Signore ha posto un sigillo sul mio volto, perché non ammetta
altro sposo fuorché lui».
La grande mistica santa Geltrude nei
suoi Esercizi spirituali, in cui rinnova la sua
consacrazione, così pregava preparandosi
a ricevere spiritualmente il velo: «O mio
La benedettina
Anna Maria
Canopi (1931) ha
fondato l’abbazia
Mater Ecclesiae
nell’isola di San
Giulio, sul lago
d’Orta (Novara).
Scrittrice feconda e
profonda erudita, è
autrice di molti
libri sulla
spiritualità
monastica e
cristiana. Ha
collaborato
all’edizione della
Bibbia della
Conferenza
episcopale italiana
e al Catechismo della
Chiesa cattolica. Nel
1993 ha preparato il
testo della Via
Crucis di Giovanni
Paolo II. Di
Sebastiana Papa
(1932-2002) sono
invece le fotografie
di questa pagina.
diletto, fammi riposare all’ombra della tua
carità… Lì riceverò dalla tua mano il velo
della purezza che, grazie alla tua guida e
alla tua direzione, porterò senza ombra di
macchia davanti al tribunale della tua gloria, con il frutto centuplicato di una castità che sia il più puro specchio dell’innocenza» (Esercizi spirituali, III).
Il significato del velo è evidente. La
monaca, consacrata nella verginità per essere esclusivamente sposa di Cristo, deve
sottrarsi allo sguardo di altri possibili pretendenti e amanti. Essa vive quindi ritirata
dal mondo, nel chiostro (claustrum, da cui
derivano i termini claustrale, clausura),
per essere sempre sotto lo sguardo di Dio
e a lui solo piacere per la purezza e l’intensità dell’amore.
Il velo è, quindi, una specie di clausura
nella clausura, poiché anche all’interno del
monastero la monaca ha uno stile di vita e
un modo di relazionarsi con le altre claustrali molto riservato. Questa consuetudine non ha però nulla di opprimente, anzi
il velo è molto caro alla monaca e da lei
devotamente portato; lo bacia ogni volta
che lo mette e che lo depone.
Esso, distogliendola dal divagare con
gli occhi, la aiuta a tenere lo sguardo del
cuore più direttamente rivolto a Dio, nella
contemplazione del suo volto sempre desiderato e cercato. Il velo è inoltre anche il
segno del pudore che la nasconde, in certo senso, al suo stesso sposo. In questa luce, i Padri hanno sempre letto il Cantico
dei cantici: «Quanto sei bella, amata mia,
quanto sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo… Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente
chiusa, fontana sigillata» (4, 1.12).
Questi splendidi versi esprimono l’ammirazione e il commosso stupore dello
Monastero Santa Maria di Rosano (Pontassieve, 1967)
Monastero Monte Carmelo (Vetralla, 1995)
sposo divino davanti alla promessa sposa
tutta raccolta e rivestita di un umile e delicato riserbo. È il mistero stesso dell’amore verginale a richiedere di essere delicatamente custodito dietro un velo. Con san
Paolo si può veramente esclamare che
grande è «questo mistero»
verginale e nuziale (cfr.
Efesini, 5, 32).
Certamente, alla mentalità e alla sensibilità del
nostro tempo riesce molto
difficile comprendere e
ammettere questa consuetudine delle monache, tuttavia le vocazioni alla vita
claustrale non vengono
meno, a testimonianza del
valore della fede proprio
nella nostra società così secolarizzata e in gran parte
anche scristianizzata.
In realtà, la vocazione
monastica, per disegno di
Dio, giova a compensare il
vuoto di fede che c’è nel
mondo; essa, infatti, non è
disprezzo e dimenticanza
di esso, ma è una vita che
esclude il compromesso
con il mondano, con ciò
che è corrotto, per dedicarsi totalmente alla preghiera e all’ascesi a beneficio di tutta l’umanità.
La monaca vive quindi
in modo sublime il mistero
nuziale e materno sul pia-
regina portando sempre nel suo corpo la
morte di Cristo» (De institutione virginis,
17.109).
Alla verginità è anche giustamente attribuito il carattere martiriale; essa è infatti
considerata una forma di martirio, essendo
una vita totalmente data; di conseguenza
le viene riconosciuta anche la dignità regale e viene coronata dallo sposo, re
dell’universo. Il velo viene così ad avere
pure il significato di diadema regale.
Vi può essere più alta dignità per la
donna? Ma il velo stesso la tiene
nell’umiltà. Nella basilica di San Simpliciano, a Milano, si trova un’iscrizione sepolcrale del V secolo che dice semplicemente: Hic iacet Leuteria cum capite velato.
Poetico verso che consegna alla memoria
dei posteri una donna contraddistinta dal
velo, segno della consacrazione a Cristo;
segno di un’altissima nobiltà.
Parlando del velo, non si può tralasciare
di rivolgere l’attenzione alla Vergine Immacolata, sempre raffigurata con il velo, e
talvolta con un velo così ampio da avvolgere anche il Bambino Gesù che tiene nelle sue braccia.
Intorno a lei è fiorita in ogni epoca la
più bella poesia; a lei sono rivolte le più
accorate invocazioni perché tenga il suo
velo steso su tutti noi, su tutta l’umanità
di cui è stata resa Madre. «Vergine Madre,
figlia del tuo Figlio — canta Dante — umile e alta più che creatura / termine fisso
d’eterno consiglio / Tu sei colei che l’umana natura / nobilitasti sì che il suo fattore
/ non disdegnò di farsi sua fattura… /
Qui sei a noi meridiana face / di caritate;
e giuso intra i mortali, / sei di speranza
fontana vivace. / Donna sei tanto grande
e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te
non ricorre, / sua disianza vuol volar
senz’ali. / La tua benignità non pur soccorre/ a chi domanda, ma molte fiate / liberamente al domandar precorre» (Paradiso XXXIII, 1-18).
Velata, ma presente — così come la Vergine Maria — è la donna tutta dedita al
Signore nella preghiera; essa non diventa
un essere disincarnato e impassibile, lontano dalla gente comune, bensì una donna
capace di amore oblativo e universale, pienamente gratuito proprio perché vergine.
Questo è il mistico significato del velo
sul capo delle donne consacrate, nascoste
no soprannaturale; il forte simbolismo del
velo indica proprio la generosità e l’intensità con cui la claustrale fa dono di sé a
Dio per tutti, rimanendo nascosta, per essere del tutto gratuita.
Non posso dimenticare l’emozione provata nel momento in cui il vescovo mi
consegnò il velo benedetto: fu come se il
cielo si curvasse su di me per avvolgermi
nella sfera del sacro, nell’intimità del cuore di Cristo, a somiglianza della Vergine
Madre Maria.
Quando Papa Liberio, nel IV secolo,
consacrò Marcellina, sorella del vescovo
Ambrogio di Milano, nel
momento in cui le impose
Non posso dimenticare l’emozione
sul capo il velo religioso,
tutto il popolo che gremiva
quando il vescovo mi consegnò il velo benedetto
la basilica di San Pietro feFu come se il cielo si curvasse su di me
ce da testimone applaudendo e proclamando: Amen!
per avvolgermi nel cuore di Cristo
Amen!
a somiglianza della Vergine
Il rito liturgico della velatio virginum è altamente
suggestivo. Anticamente il
velo era in uso anche di colore rosso, a si- dal mondo per essere nel cuore del mongnificare che la vergine era stata riscattata do e portare tutti gli uomini nel cuore di
dal sangue dello sposo, Cristo. Perciò in Cristo, unico sposo della Chiesa,
uno dei suoi bellissimi sermoni, sant’Am- dell’umanità che egli ha redento a prezzo
brogio — che può essere definito “consa- del suo sangue, per renderla santa e imcratore di vergini” — così descrive una macolata al suo cospetto; splendente di
donna consacrata: «Adorna di tutte le vir- quella bellezza spirituale che deve essere
tù, avvolta nel velo reso purpureo dal san- custodita da ogni profanazione, dietro il
gue del suo Signore, ella avanza come una sacro velo verginale.
Monastero di Santa Chiara (Cortona, 1994)
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Denis Dailleux, Le Caire
A motivo degli angeli
Il romanzo
Non dirmi
che hai paura
Perché le donne si dovevano coprire la testa in chiesa
di SANDRA ISETTA
orse in risposta al comportamento
troppo libero dei fedeli durante le
assemblee, Paolo indirizza alla giovane e vivace comunità di Corinto
la celebre esortazione (1 Corinzi 11,
1-16) a non abbandonare i suoi insegnamenti:
«Conservate le tradizioni così come ve le ho
trasmesse». Quando il canone delle Scritture
deve ancora formarsi, le prime normative cristiane, in materia di fede, di liturgia e di disciplina, sono infatti affidate alla “tradizione”,
seguita, dopo Nicea, dalle formulazioni conciliari. Nel seguito della lettera, l’apostolo ri-
F
Si vede dalla prima ai Corinzi
che alle origini della regola
c’è un problema di disciplina
per una comunità
eterogenea e problematica
Come quella cui si rivolge Paolo
chiama alcuni capisaldi della teologia della
coppia: la questione del velo muliebre inizia
da qui.
Alle origini c’è dunque un problema di disciplina, come conferma la chiusura del brano:
«Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e
neanche le Chiese di Dio». Paolo cerca di ricondurre all’ordine una comunità eterogenea e
problematica come quella di Corinto, in situazioni di tensione e di inosservanze che rendono conto delle sue severe istruzioni, con cui
sembra collocare la donna in posizione subordinata all’uomo sulla base di una duplice gerarchia, di tipo cronologico («Non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo») e
ontologico («Né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo»). E «per questo
deve avere sul capo un segno di autorità a
motivo degli angeli», cioè il velo.
La base teologica dell’enunciato è molto più
complessa, coinvolge anche la pratica della
profezia e non è esente da retaggi di purità rituale e religiosa, che confluirono nelle usanze
delle prime comunità cristiane. Paolo d’altronde è uomo di tradizione giudaica, educato
nelle scuole rabbiniche, pur essendo nato in
ambiente ellenistico.
Ma qui interessa la risposta esegetica di alcuni padri della Chiesa, che hanno calcato sul
tasto della subordinazione femminile, peraltro
confacente all’antica società giudaico-ellenistica. Il non semplice enunciato «a causa degli
angeli» è spiegato dai più intransigenti con il
timore di risvegliare le brame sessuali degli
angeli che sarebbero caduti per essersi innamorati delle donne, secondo il racconto di Genesi 6, 4 poi sviluppato in testi apocrifi. Ulteriore colpa da imputare alla responsabile della
caduta dell’uomo, «immagine e gloria di Dio»
a differenza della donna solo «gloria dell’uomo» (1 Corinzi 11, 7).
Il velo della donna, nelle parole dei padri
della Chiesa, diviene quindi il «fardello della
sua costituzionale sottomissione» o il suo
«giogo» o il «simbolo di soggezione». Le
donne cristiane pertanto «dovrebbero coprire
non solo il capo ma tutta la faccia», imitando
«quelle d’Arabia» che a malapena vedono con
un solo occhio attraverso il velo.
Nell’antichità non tutte le Chiese seguono
la medesima tradizione, per cui sorge il problema di seguire la consuetudine più confacente con le norme insegnate da Dio. Per la
soluzione della questione del velo, Tertulliano
si appella all’autorità delle Chiese orientali: i
corinzi, dopo la contestazione, hanno recepito
e trasmesso l’insegnamento di Paolo, quindi le
altre Chiese devono adeguarsi alla norma liturgica paolina. Ben presto si impone opuscolo catechetico di Tertulliano Il velo delle vergini
che, pur in odore di montanismo, diviene un
manuale di riferimento per le future istituzioni
monastiche femminili, pur stabilendo, nonostante il titolo, la norma del velo nella preghiera non solo per le vergini, ma per tutte le
donne, comprese le coniugate («donne di una
pudicizia di second’ordine»).
L’esigenza di conferire alla norma l’autorevolezza della Chiesa istituzionale trapela nel
tardo Liber pontificalis, in cui si attribuisce a
Papa Lino, su ordine proprio di san Pietro
suo predecessore, la conferma dell’obbligo per
le donne di partecipare alla celebrazione eucaristica col capo coperto.
È certo che l’insegnamento paolino, passato
al vaglio della tradizione, è riformulato nel
concilio di Gangra (324 circa), in cui il velo è
definito «memoriale di sottomissione», e giunge con impronta attenuata al Codex iuris canonici del 1917 che ancora distingue tra gli uomini a testa nuda e le donne con il velo e in abbigliamento di modestia.
Dopo la riforma conciliare non sussistono
più specifiche indicazioni. La consuetudine,
nel rispetto della tradizione, sembra superata
nella Gaudium et spes («La Chiesa non è legata in modo esclusivo e indissolubile […] a
nessuna consuetudine antica o recente»), che
tra le forme di discriminazione condanna al
primo posto quelle «in ragione del sesso», riconoscendo che i diritti fondamentali della
persona «non sono ancora e dappertutto ga-
di RITANNA ARMENI
Oggi non c’è più spazio
per questo segno
di sottomissione
Che è stato troppo
frainteso
nel suo significato
originario
O troppo
strumentalizzato
rantiti pienamente (…) quando si nega alla
donna la facoltà di scegliere liberamente il
marito e di abbracciare un determinato stato
di vita, oppure di accedere a un’educazione e
a una cultura pari a quelle che si ammettono
per l’uomo». Non c’è più spazio per quel segno di sottomissione, troppo frainteso, o strumentalizzato, nel suo significato originario.
La domenica, quando ero bambina, se dimenticavo il velo a casa, per timore non osavo
entrare in chiesa e perdevo la messa, aggiungendo peccato a peccato. Oggi quel velo lo
indosserei, per rispetto.
Wilhelm Leibl, «Tre donne in chiesa»
(1882)
Kippot e parrucche
Motivazioni diverse per uomini e donne nel mondo ebraico
di ANNA FOA
opriti la testa perché
la presenza divina è
sempre al di sopra di
essa» prescrivono i testi ebraici.
Per gli uomini, la prescrizione di
andare con il capo coperto è mol-
«C
Come i maschi
anche per le femmine
coprire il capo
non è una prescrizione biblica
Anche se la questione
resta controversa
to più rigida e vincolante di quanto non lo sia per le donne.
Gli ebrei osservanti portano un
copricapo a forma di zuccotto, la
kippah. Questa è prescritta per
tutti gli uomini, sposati o non
sposati, e la portano anche i bambini molto piccoli. È considerata
obbligatoria in sinagoga, quando
si studiano i testi sacri e quando
si mangia, ma gli ortodossi la portano sempre. Non è una prescrizione di origine biblica, anche
se è già presente nei testi posteriori, la Mishnah e il Talmud babilonese.
Assai diverso, come motivazione, è l’obbligo per le donne di coprirsi il capo. Infatti, se per gli
uomini è un segno di rispetto per
la presenza divina, per le donne è
un segno di pudore, di modestia.
Molte donne ebree girano liberamente a capo scoperto, e non si
coprono il capo neanche per pregare, com’è d’uso in molte comunità, per esempio in quelle italiane.
A farlo sono solo le donne ortodosse e ultraortodosse. Di solito
portano un fazzoletto annodato
dietro la nuca, detto in ebraico tichel o mitpachat, oppure dei
berretti o anche dei vezzosi cappellini.
In altri casi portano invece, sopra i capelli tagliati cortissimi,
delle parrucche, in genere acconciate in maniera antiquata e tali
da rivelare immediatamente che di
parrucche e non di capelli veri si
tratta. Ne abbiamo letto, fra l’altro, nei racconti e nei romanzi di
Singer e in tutta la narrativa che
ci viene dal mondo dello shtetl, il
villaggio
ebraico
dell’Europa
orientale dove tanti ebrei vivevano
prima della Shoah. Se ne vedono
molte ai nostri tempi nelle comunità ultraortodosse americane o
israeliane, a Brooklyn o a Meah
Shearim. La norma esige che a
coprire il capo debbano essere solo le donne sposate, non le ragazze ancora da sposare. A partire
dal giorno del matrimonio, il capo
scoperto può essere consentito solo in famiglia o nell’intimità con il
marito. All’esterno, i capelli non
devono essere mai mostrati.
Nessuna proibizione o nessuna
usanza ha invece mai impedito,
nel mondo ebraico, di mostrare il
volto, sempre rimasto privo di
ogni velo, in tutti i momenti stori-
ci. Solo recentemente un gruppo
di donne ultraortodosse ha tentato, senza riuscirci, di introdurre il
burqa in Israele.
Come per la kippah, il capo coperto delle donne non è una prescrizione biblica, anche se la questione resta controversa, ma sembra far parte invece di quell’ampia
normativa che la Mishnah e il Talmud hanno elaborato partendo
dal testo biblico fino a erigere
quel «muro intorno alla Torah»
che nelle intenzioni dei rabbini
doveva servire a preservare l’identità ebraica dalle persecuzioni e
dalle lusinghe dell’integrazione.
Nel caso del capo femminile
coperto, il Talmud prende spunto
da un brano biblico (Numeri 5,
18), in cui i sacerdoti sciolgono i
capelli di una donna in segno di
umiliazione e penitenza, per dedurne che le donne portavano
normalmente il capo coperto.
Secondo altre interpretazioni, la
necessità di coprirsi il capo appartiene più che a vere e proprie nor-
me scritte, a quell’insieme di prescrizioni che vanno sotto il nome
di costume, in ebraico minhag, e
che obbediscono all’esigenza di
mantenere la modestia, la tzniut.
Il concetto di tzniut è basilare
nel mondo ebraico, e riguarda tanto il comportamento che il modo
di vestirsi e di acconciarsi. In origine, era un termine che si applicava tanto agli uomini che alle donne, a implicare modestia e umiltà.
Poi è venuto a designare in particolare un atteggiamento e un modo di vestirsi tale, da parte delle
donne, da scoraggiare lo sguardo e
il desiderio degli uomini.
Il carattere intensamente erotico
dei capelli è spesso sottolineato
nei testi, con frequenti riferimenti
al Cantico dei Cantici, e grande
importanza è data, nel mondo ortodosso, anche all’obbligo di portare le braccia coperte. La tzniut
varia da situazione a situazione,
da luogo a luogo, e appartiene
all’uso di ciascuna comunità. Così
in alcune comunità orientali, in
particolare nello Yemen, le donne
usavano coprirsi il capo con un
vero e proprio velo, sotto l’influenza musulmana dell’esterno,
sempre lasciando però scoperto il
volto.
mira siede all’aperto in un bar
del centro di Milano. Jeans, maglietta, trucco agli occhi, scherza
e ride con le sue amiche prima di
tuffarsi nelle vie dello shopping.
Una scena normale di un sabato pomeriggio
di primavera, salvo per un particolare che ancora stupisce qualche passante: Amira ha la
testa coperta da un velo colorato, un azzurro
intenso e vivace. Interrogata risponde che
quel velo lo ha scelto. Sua madre, che era arrivata molti anni prima da Algeri, non lo
aveva mai messo e si era meravigliata della
decisione della figlia. A scuola qualcuno
l’aveva guardata male, ma lei non aveva desistito. «Il velo racconta chi sono, in che cosa
credo, da dove vengo. E di tutto questo non
mi vergogno» dice. «Del resto — aggiunge
sorridente — non trova che mi stia bene?».
Qualche mese fa in Egitto al telegiornale
di mezzogiorno la conduttrice è apparsa perfettamente truccata, con una elegante giacca
nera e una hijab color crema avvolta attorno
alla testa. Era la prima volta che una giornalista velata appariva alla televisione pubblica
e la cosa ha fatto scalpore. «Il velo non conta, finalmente anche qui il criterio non è ciò
che indossi, ma le capacità» ha risposto a chi
l’ha interrogata stupito.
In realtà la sua immagine aveva giustamente colpito: molte donne lavoravano in televisione con il capo coperto, ma nessuna di
loro fino ad allora era mai apparsa in video.
Il velo non era accettato nell’immagine ufficiale di un Egitto che ci teneva ad affermare
uno Stato e un governo laico anche se in
molte zone del Paese e nelle stesse periferie
del Cairo la tradizione era forte e seguita.
Il velo lo ritroviamo ancora in Tunisia.
Mentre fino a qualche anno era indossato
dalle ragazze delle campagne e dei paesi,
adesso è sempre più frequente nelle grandi
città e nelle università dove proprio le giovani donne moderne, emancipate, desiderose di
lavorare, preferiscono apparire in pubblico
con la testa coperta. Il fenomeno, nato già
da qualche anno, ha sollevato non pochi problemi.
Mentre alcuni, per esempio l’Association
tunisienne des femmes démocratiques, lo
avevano giudicato «inquietante», la Lega dei
diritti umani aveva denunciato l’aggressione
alle donne velate da parte della polizia. Comunque negli ultimi tempi si è così diffuso
che il Governo ha ritenuto opportuno allentare le restrizioni previste dalla legge.
Se guardiamo a ciò che è avvenuto in questi ultimi anni nel mondo islamico possiamo
parlare di ritorno — alcuni parlano addirittura di rivoluzione — del velo. Non che la tradizione religiosa e culturale di coprirsi il capo fosse mai scomparsa. Ci sono Paesi, come
Arabia, Afghanistan o Iran, che non l’hanno
mai abbandonata, in cui, anzi, la copertura
non solo del capo ma anche del corpo è obbligatoria. Paesi in cui tutte indossano la niqab o il burqa; in cui una donna non adeguatamente coperta è pesantemente perseguitata dalle leggi e dalla riprovazione sociale.
Il ritorno di cui parliamo è piuttosto quello della hijab, del foulard o del velo nei Paesi
dove il loro uso era stato messo da parte;
parliamo della loro riapparizione nelle città e
negli ambienti che si usano definire moderni,
colti ed evoluti, nei Paesi in cui la somiglianza con l’occidente era, fino a qualche tempo
fa, un valore sostenuto e propugnato dai governi.
Il velo non è più relegato nelle campagne
fra le donne che stanno a casa o lavorano i
A
Il ritorno del velo
Inchiesta sui cambiamenti in corso tra le nuove generazioni islamiche
campi. Anche quelle che lavorano e studiano,
le donne che occupano, sia pure in poche,
posti di prestigio, anche alcune di quelle che
si dichiarano femministe, hanno ripreso a indossarlo. E con loro lo portano le emigrate
che vivono in Paesi in cui cultura e tradizioni
dovrebbero spingere a una veloce omologazione e, persino, le loro figlie nate dopo
l’emigrazione.
La domanda che oggi ci si pone — e che
molti si pongono — è se questo ritorno sia
frutto di una libera scelta delle donne o se
invece sia imposto dai governi e dagli Stati
in cui si fanno sentire con forza movimenti
tradizionalisti o addirittura integralisti. Un
È stata una rivoluzione
che ha colto tutti di sorpresa
Perché è avvenuta nel secolo segnato
dal ridimensionamento delle religioni
quesito importante che ne sottintende altri:
se è una scelta delle donne, che tipo di scelta
è? Un semplice ritorno alla tradizione o l’affermazione di un modo diverso di manifestare la propria fede? Se è una scelta imposta
dai governi, deve essere contrastata? E come
si devono comportare i Paesi occidentali che
vedono nelle loro strade donne velate o magari completamente coperte dal burqa e dalla
niqab? Devono accettare l’uso del velo o,
considerandolo manifestazione di subordinazione e di schiavitù femminile, devono contrastarlo?
Come si sa, il dibattito nei Paesi occidentali su questi temi è stato ampio e anche
aspro. Decine di esperti hanno studiato il fenomeno. Renata Pepicelli, studiosa del mondo islamico contemporaneo, nel suo Il velo
nell’islam (Carocci 2012) ci dà la più importante delle informazioni: il ritorno al velo comincia negli anni Settanta e coincide con
una straordinaria ripresa della religiosità. Le
donne si sono coperte la testa mentre si co-
struivano più moschee e queste venivano
maggiormente frequentate. Il fenomeno ha
costituito una sorpresa. Il Novecento era agli
occhi dei più il tempo della secolarizzazione
e del ridimensionamento delle religioni.
«L’uso del termine rivoluzione per parlare
della rinascita del velo — spiega Pepicelli — è
giustificato dal fatto che si è trattato di un
fenomeno che ha colto di sorpresa molti osservatori, sia laici che religiosi, perché è iniziato verso la fine di un secolo, il Novecento,
che, come si è visto, è stato segnato da una
tendenza di segno opposto». Secondo Pepicelli l’inversione di tendenza è stata ed è
troppo vasta per coincidere con la ripresa
dell’“Islam politico”: è indicativa di qualcosa
di più importante e di più profondo.
Il velo è così diventato il simbolo del
mondo islamico. Ma anche delle difficoltà e
delle contraddizioni nei rapporti con l’occidente (c’è chi ha parlato di scontro di civiltà). «Mai — scrive Pepicelli — un indumento
è stato così tanto discusso». E non a caso.
Attraverso la discussione sulla hijab, infatti,
si affrontano alcuni dei problemi più importanti del ventunesimo secolo: la rinascita
dell’islam, i suoi rapporti con l’occidente, la
sua concezione della donna, l’idea di cambiamento. Nello stesso tempo, il velo è diventato una sorta di barometro dei Paesi in cui
viene indossato: il colore, il modo di metterlo, la sua negazione o la convinta accettazione dicono su quei Paesi di più di tanti discorsi.
Molte le studiose che scorgono nel ritorno
al velo il segno di un’adesione ad alcuni
ideali comunitari, di una ripresa spirituale,
che si è nutrita anche dell’opposizione all’occidente e alla mercificazione del corpo femminile. Altre notano come la hijab venga vissuta da molte donne come un deterrente al
desiderio maschile, se non addirittura una
protezione dalla violenza a cui spesso sono
sottoposte. Per altre ancora nel velo c’è la
manifestazione di una fede femminile autonoma che si riallaccia al rapporto con Dio e
alla sura XXIV del Corano: «E dì alle credenti
di abbassare i loro sguardi ed essere caste e
di non mostrare, dei loro ornamenti, se non
quello che appare; di lasciar scendere il loro
velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei
loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro
donne, alle schiave che possiedono, ai servi
maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi
impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne». Infine, in molti notano che oggi esso non assume solo il significato di un atto di fede individuale, ma indica
il ritorno della religione nella sfera pubblica
anche in Paesi in cui si era affermata una separazione. Non è quindi un ritorno indietro,
ma esattamente l’opposto.
Naturalmente la questione rimane controversa. Non sono pochi e poche coloro che
vedono nel ritorno al velo l’affermazione di
un conservatorismo di molti Paesi di religione islamica e di un nuovo autoritarismo dei
loro governi che, spaventati dalla diffusione
dei modelli e delle libertà della civiltà occidentale, tentano in questo modo di mantenere un dominio sulla popolazione femminile.
Il ritorno al velo avrebbe ragioni molto terrene che hanno poco a che fare con la religione e con la fede. E poi l’11 settembre ha influenzato il modo di leggere questo fenomeno. In nome della riaffermazione della laicità
in Francia si è approvata una legge che, benché ufficialmente affermi il divieto di ostentazione di tutti i segni religiosi, nella realtà è
rivolta soprattutto contro il velo. Per altri
Paesi il problema non si è posto per la hijab,
ma per il burqa e per la niqab che, coprendo
il corpo e il viso della donna, pongono — a
parere di molti — problemi di sicurezza. In
Italia la legge è stata tentata, ma è stata bloccata. L’Europa è divisa tra Paesi che non ammettono alcuna copertura integrale del capo
come Francia, Belgio e, in parte, Germania
(la scelta spetta ai singoli Länder) e altri che
non hanno affrontato il problema per via legislativa. Gli Stati Uniti non hanno mai vietato l’uso del velo integrale neppure dopo
l’11 settembre.
Ha la corsa nel sangue, Samia. Insieme
con l’amico Ali, confidente e primo
allenatore, corre per le strade di
Mogadiscio. Si allungano i suoi muscoli e
crescono i suoi sogni, ma anche la guerra
civile e l’irrigidimento politico della
Somalia. Le gambe magrissime e veloci di
Samia continuano a correre, mentre
l’odore della polvere da sparo diventa
presenza quotidiana in una città travolta
dall’odio. Vuole correre per sé, per le
donne somale, per i suoi genitori
(bellissima la figura del padre, che rischia,
sa di rischiare e cadrà perché convinto che
le sue figlie debbano scegliere il loro
destino). Si allena di notte, Samia, si
allena senza scarpe e senza mezzi: riuscirà
così a farsi notare, fino a volare alle
Olimpiadi di Pechino, pur senza vincere.
Samia è sicura della sua meta: Londra
2012. Ma mentre la data si avvicina, tutto
si sgretola attorno a lei: corre ormai
chiusa nel burqa, il padre viene
assassinato, la sorella fugge in Europa e
Ali diventa un terrorista. Samia, che aveva
giurato che mai avrebbe abbandonato il
suo Paese, capitola: prima ad Addis
Abeba da clandestina, poi il terribile
viaggio dei migranti verso l’Europa,
passando per Sudan, Sahara e Libia.
Umiliazioni, violenze, stenti, terrore: la
ragazza — la cui storia è raccontata da
Giuseppe Catozzella (Non dirmi che hai
paura, Feltrinelli, 2014) — si concentra su
dettagli e ricordi per non impazzire. Ma
alla fine cederà, richiamata dal canto delle
sirene del mare vicino a Lampedusa.
(@GiuliGaleotti)
Il saggio
Visages de Marie
A volte è un pesante ma caldo drappo
marrone (come in un’icona russa dedicata
alla Vergine della tenerezza), a volte un
succinto velo quasi trasparente che le
illumina il volto (Sandro Botticelli). A
volte diventa un mantello tanto lungo da
cingerla completamente dal capo ai piedi,
un mantello che varia dal rosso vivo
(Rogier van der Weyden) al rosa perla
(Beato Angelico), dal bianco candido
(miniatura dell’XI secolo) al classico
azzurro (Simone Martini). A volte, si
estende ancora a incorniciare anche il
figlio neonato (Melchiorre Broederlam) o
il corpo di Gesù deposto dalla croce (Jean
Fouquet). Ma il velo di Maria si rivela,
per l’eternità, tessuto capace di
trasformarsi in corona (Enguerrand
Quarton). Sono questi solo alcuni dei
tanti volti della Madonna raccontata da
Jean Vanier nel libro iconografico Visages
de Marie (Mame, 2001), in cui la storia
della Vergine è rappresentata nei suoi
tempi. Il tempo dell’attesa, il tempo della
gioia, il tempo della separazione, il tempo
della gloria: tra arte e letteratura, il canto
di Vanier saluta Maria. E la grazia del suo
velo. (@GiuliGaleotti)
Il film
Millefeuille
Zaineb e Aicha — protagoniste di
Millefeuille (2012) di Nouri Bouzid — sono
due giovani donne, amiche e cugine, che
vivono nella Tunisia della rivoluzione.
Entrambe vogliono
la libertà e
l’indipendenza, ma
Aicha porta il velo,
Zeineb invece lo
rifiuta. Entrambe si
scontrano con una
società che non
accetta la loro
scelta. Aicha, che
per mantenere le
sorelle e il nonno,
lavora in una
pasticceria, subisce
ogni genere di
pressioni perché si liberi del suo foulard
che lei non indossa per tradizionalismo,
ma come prova di fede e per proteggersi
dagli uomini che la insidiano. Se vuole
una promozione sul lavoro — le dicono —
deve scoprire i capelli. Zeineb, che fa la
cameriera nella stessa pasticceria in cui
lavora Aicha, viene prima pregata poi
obbligata dal fidanzato e da una famiglia,
desiderosa di un buon matrimonio, a
indossare il velo e a rinunciare al lavoro.
Le due giovani rimangono solidali e
complici e iniziano una lotta personale
per la propria libertà che si inserisce, ma
non coincide completamente, con la
rivoluzione tunisina. L’affermazione della
loro differenza esige un impegno in più.
(@ritannaarmeni)
women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women
GEDDA,
CITTÀ DELLE D ONNE IN VIOLA
È dalle abitanti di Gedda con la loro abaya viola, invece
della tradizionale nera, che si sta irradiando un percorso
di affermazione femminile in Arabia Saudita, Paese
complicato per le donne, nonostante il re Abdullah stia,
piano piano, limitando le restrizioni che le riguardano.
Qualche settimana fa, proprio nella città sul Mar Rosso si
è tenuta una conferenza sull’economia nel mondo arabo
che ha visto tante donne mescolarsi agli uomini, altro
passo verso una riforma delle libertà sociali e delle
opportunità di lavoro che potrebbe riflettersi sull’intero
mondo arabo. «Vi è un consenso quasi universale — ha
detto Fahad Nazer, una analista politica che vive a
Vienna, dopo aver lavorato all’ambasciata saudita di
Washington — sul fatto che la vicinanza di Gedda alla
Mecca e al Mar Rosso la esponga a molteplici influenze
culturali», rendendola «più cosmopolita rispetto ad altre
aree del regno». I fatti sono lì a dimostrarlo: la città è
stata la prima ad autorizzare le donne a lavorare in
negozi di vendita al dettaglio e nei centri commerciali,
dove vendono profumi e lingerie in negozi per sole
famiglie. E sempre a Gedda, in marzo la Banca
commerciale nazionale ha nominato Sarah Al-Suhaimi
direttore esecutivo della sezione dedicata agli
investimenti; Somayya Jabarti, in febbraio, è diventata la
prima direttrice di un giornale nella storia saudita, la
«Saudi Gazette», mentre nell’ottobre scorso Bayan
Zahran è stata la prima donna a essere abilitata alla
pratica legale.
LAS PATRONAS
E GLI IMMIGRATI
Da quindici anni un gruppo di contadine messicane dà
da mangiare agli immigrati aggrappati ai treni merci che
passano dinnanzi ai loro campi. Ogni volta che ne
transita uno, Las Patronas — questo il nome del gruppo
che deriva da quello della frazione La Patrona, la Vergine
Guadalupana, del comune di Amatlán de los Reyes, in
Veracruz — lanciano sacchi di plastica con viveri e
bottiglie d’acqua agli immigrati, che molto spesso, svenuti
per la disidratazione, vengono travolti e mutilati dai
vagoni. Il gesto di queste donne — che devono
combattere non solo l’opposizione dei trafficanti, ma
anche quella delle loro famiglie e dei loro vicini —
rappresenta il loro modo concreto di mettere in pratica la
fede cattolica e di servire Gesù nei fratelli. A loro è
dedicato un incontro alla Pontificia università gregoriana
a Roma il 13 maggio 2014. Fortunatamente, però, Las
Patronas — che nel 2013 hanno ricevuto il Premio
Nazionale Messicano per i Diritti Umani — non sono le
sole: lungo il percorso di questo treno, soprannominato
La Bestia, è nata infatti una rete di centri di assistenza,
fondati da religiosi, sacerdoti diocesani, laici e laiche, per
aiutare gli immigrati, per lo più honduregni, adolescenti
sfiniti dal viaggio, donne stuprate, adulti accoltellati dai
trafficanti o mutilati dal treno. Sono circa 400.000 le
persone che ogni anno transitano per il Messico alla
ricerca di un lavoro o per ricongiungersi con i familiari
negli Stati Uniti o nel nord del Paese. Tra questi, più di
20.000 vengono sequestrati dai trafficanti, torturati e
stuprati perché le mafie vogliono obbligare tutti a usare i
loro “servizi”, invece di viaggiare “gratis” sui treni merci.
Il Messico, che continua a concepirsi come Paese
d’emigrazione, fatica ad accogliere l’immigrato. Per
fortuna, però, dal 2011 non è più reato l’assistenza
umanitaria ai clandestini.
BIANCA,
CHEERLEADER IN SEDIA A RUOTE
Completino bianco e azzurro, fiocco in testa e pon pon
coordinati: così scendono in campo le cheerleader dei
Warriors Bologna, squadra italiana di football americano
di serie A. Tra loro — racconta Ambra Notari sul mensile
«Superabile» — anche Bianca Maria Cocchi, ventitreenne
affetta da una rara forma di disautonomia familiare, una
malattia rara (caratterizzata da disfunzioni nel sistema
nervoso autonomo) che impedisce di avvertire il dolore e
il calore. Il cheerleading è uno sport, riconosciuto dal
Coni, che richiede una grande preparazione: come le
compagne, Bianca ha fatto prima esperienza con le più
piccole e ora è passata alle senior. Lei è al centro delle
coreografie, a cui partecipa seduta sulla sua sedia a ruote.
«È molto meglio essere in una squadra: puoi condividere
tutto, nel bene e nel male. Soprattutto, è una questione
di responsabilità: se sbagli tu, ne risentono tutti. La mia
filosofia? Non giudicare mai. Se hai una testa usala:
perché in qualsiasi condizione ti possa trovare, sei uguale
agli altri» conclude la ragazza che lavora in una
mediateca.
LA
SCIENZIATA ATEA CHE HA ACCERTATO IL MIRACOLO
«La Chiesa voleva prove scientifiche per una guarigione e
io gliele ho date. Non credo in Dio, ma non posso
escludere che sia stato Lui»: così ha detto, nel corso
dell’intervista al settimanale «Tempi», la
sessantaquattrenne canadese Jacalyn Duffin, ematologa
atea che ha avuto un ruolo decisivo nella canonizzazione
di Marie-Marguerite d’Youville, primo santo del Paese
nordamericano. «Secondo la scienza una remissione dalla
leucemia è possibile, due no. Invece, dopo otto anni, la
paziente era ancora viva»: poteva trattarsi solo di un
miracolo. «Il Vaticano quindi aveva chiesto il suo
consulto per la canonizzazione?» le chiede Leone Grotti.
«Niente affatto. Gli esperti del Vaticano avevano già
rifiutato il caso: per loro non si poteva parlare di
miracolo perché, leggendo i vetrini, non avevano
riscontrato la prima remissione ma solo la seconda. I
postulanti in Canada si sono infuriati, hanno fatto
appello e raggiunto questo accordo: affidare i vetrini a un
testimone cieco, cioè io. Una volta consegnati i miei
risultati sono andata in Vaticano al processo a
testimoniare con una pila di documenti e di prove. Per
me era una questione di principio, di scienza». E pur
affermando di essere rimasta atea, Duffin conclude: «La
medicina è colpevole di ignorare la Chiesa e di avere
L’OSSERVATORE ROMANO maggio 2014 numero 23
Inserto mensile a cura di RITANNA ARMENI e LUCETTA SCARAFFIA, in redazione GIULIA GALEOTTI
www.osservatoreromano.va - per abbonamenti: ufficiodiffusione@ossrom.va
eretto un muro artificiale per dividerla dalla scienza. La
mia identità è cambiata, sono più umile e sono migliore
anche nel lavoro: ho imparato ad ascoltare di più i miei
pazienti, ci sono cose che mi dicono che prima non
ascoltavo perché pensavo solo alla malattia e a
nient’altro».
nel momento in cui decidono di ricorrere a una badante,
trovandosi ad affrontare la difficile scelta di inserire una
persona “estranea” nella casa di un congiunto non più
autosufficiente, sia di fornire una guida per le badanti
stesse. I problemi sono tanti: dalla selezione della persona
più adatta, al rispetto di chi si assume.
LA RIVISTA
D ONNE
DELLA
BADANTE
Si nasce sempre meno, la famiglia è sempre più rarefatta,
l’età media si allunga, la crisi incombe, il servizio
sanitario nazionale taglia sempre più: è per l’insieme di
questi elementi che la figura della badante sta crescendo
di importanza nelle società occidentali. In Italia, ad
esempio, sono oggi 1 milione e 655 mila, ma si calcola che
nel 2030 saranno 2 milioni e 155 mila, mentre sono oltre
12 milioni gli ultrasessantacinquenni, un milione dei quali
malati di Alzheimer, 250 mila di Parkinson e due milioni
non autosufficienti. Per cercare di capire e affrontare il
fenomeno, è uscita «La Rivista della Badante», il primo
free press bimestrale italiano dedicato alle badanti e alle
famiglie che necessitano del loro aiuto. Con il contributo
di geriatri, psicologi, nutrizionisti, avvocati e
commercialisti, si parla di psicologia, medicina,
alimentazione, fisioterapia, economia domestica, fisco e
previdenza. L’intento è quello di sostenere sia le famiglie
DI PACE A
GERUSALEMME
Raccontare la propria esperienza di dialogo e
riconciliazione: questo il senso dell’incontro intitolato
«Women of Faith for Peace» che si è svolto qualche
settimana fa a Gerusalemme. Otto donne leader di cinque
religioni della Terra santa hanno infatti testimoniato il
proprio impegno in direzione della pace. Tra le altre,
sono intervenute Adina Bar-Shalom, ebrea ortodossa;
Faten Zenaty, musulmana, Nuha Farran, cristiana; Suha
Ibrahim, impegnata per le donne beduine; Basema
Halabi, drusa; Thehilabila Barshalom, ebrea; Dganit
Fachima, haredi. «Il dialogo non è un’utopia, ma una
realtà»: questo il filo conduttore dello scambio. Al
termine della tavola rotonda, è stato presentato Aurora
Network — nato dall’incontro tra la comunità Nuovi
Orizzonti di Chiara Amirante e Lia G. Beltrami — che,
nella città santa, si impegna in particolare per il dialogo
interreligioso partendo proprio dalle donne.
donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne
La figlia di san Pietro
Giovanni Maria Vian racconta la santa del mese
na messa, un quadro e un
misterioso affresco: ecco
ciò che resta di Petronilla.
Ogni anno il 31 maggio si
celebra nella basilica vaticana in onore della santa, nel giorno e
all’altare dedicati alla memoria di lei, la
figlia dell’apostolo Pietro, davanti alla
grande riproduzione in mosaico della
tela del Guercino che ne raffigura la sepoltura e la gloria. Ma la celebrazione e
l’enorme dipinto seicentesco sono soltanto il punto di arrivo di una storia intricata e lunga quasi venti secoli. All’inizio vi sono l’accenno alla moglie di Cefa in una lettera autentica di Paolo (1
Corinzi, 9, 5) e un celebre episodio evangelico, quando cioè Gesù guarisce dalla
febbre la suocera del primo degli apostoli (Marco, 8, 14-15). A queste scarne
notizie storiche si sovrappone più tardi,
a metà del IV secolo, un dato altrettanto
sicuro: l’immagine di una martire, Petronella, affrescata nella catacomba romana
di Domitilla.
Pietro dunque era sposato e, benché
nei testi del Nuovo Testamento non vi
sia allusione a una sua discendenza,
nulla impedisce di pensare che l’abbia
davvero avuta. Sua figlia entra invece
apertamente in scena, pur senza nome,
più tardi, nel frammento copto (IV o V
secolo) appartenente a un testo apocrifo
greco, gli Atti di Pietro, scritti verso la fine del II secolo. «Perché non hai soccorso tua figlia, vergine, che è cresciuta
bella e ha creduto nel nome del Signore? Vedi, ha un fianco completamente
paralizzato e giace là in un angolo impotente. Noi vediamo quelli che tu hai
risanati mentre a tua figlia non hai prestato alcuna cura» dice la folla all’apostolo, quasi rimproverandolo.
Da qui il racconto prende un andamento drammatico: per dimostrare che
Dio può tutto, Pietro ottiene la guarigione della fanciulla, ma solo per un
momento, e subito dopo le ordina di
tornare nello stato precedente. Di fronte
poi ai pianti e alle implorazioni dei presenti, spiega che la figlia era rimasta paralizzata proprio in seguito alle sue preghiere, dopo essere stata rapita dal ricchissimo Tolomeo, che la restituisce infine ai genitori. «La portammo via, lodando il Signore che aveva risparmiato
U
Il dibattito sul velo in Francia
Accogliere
o rifiutare
i segni religiosi?
di ANNE-BÉNÉDICTE HOFFNER
erché il velo fa tanto discutere in Francia? Porre
la domanda in questi termini è già un modo di
evidenziare una delle sue ambiguità: si tratta
del velo in generale (compreso quello indossato da alcune religiose cattoliche) o del velo musulmano?
In realtà, sebbene in Francia, dalla legge del 1905
che separa le Chiese dallo Stato, ci siano sempre stati
dei ferventi oppositori all’uso della tonaca in strada,
ci sono pure — ed è un bene — dei sostenitori di una
laicità più aperta. Nel corso degli anni si è riusciti a
trovare un equilibrio, come testimoniano le scuole
private cattoliche “sotto contratto con lo Stato”, i servizi di cappellania nelle carceri, gli ospedali e così
via. Alla fine degli anni Novanta, è stato dunque il
velo islamico a rilanciare il dibattito e a condurre alle
tensioni attuali attorno ai segni religiosi.
Per comprenderli si possono osservare due particolarità francesi. Da quando, nel settembre del 1989, tre
alunne di Creil (Oise) hanno deciso di andare a lezione velate, nella società francese si è imposta l’idea
secondo la quale le giovani e le donne musulmane
che indossano il foulard islamico lo farebbero perché
obbligate dal proprio padre o dal proprio marito e
con un fine di proselitismo. Anche se loro stesse lo
negano (con maggiori o minori argomentazioni) e
sebbene i molteplici studi sociologici tendano a vedere in questo ritorno di visibilità gli effetti di una ricerca identitaria di giovani che si scontrano con difficoltà d’integrazione.
Altri Paesi europei, che devono misurarsi con lo
stesso problema, privilegiano l’accoglienza di queste
giovani nella scuola, giustamente convinti che l’educazione sia per loro indispensabile. La Francia, da
parte sua, si rifiuta di cedere sui propri principi: in
nome della libertà di coscienza (la loro e quella delle
loro compagne), le giovani velate vengono molto
spesso escluse dal loro istituto. Alla fine, la legge del
2004, che bandisce i segni religiosi ostentati a scuola,
viene generalmente considerata come un “meglio”,
poiché fissa un quadro relativamente preciso dei segni
vietati e soprattutto fa del dialogo con lo studente
una condizione preliminare alla sanzione. Se è vero
che il testo non ha affatto regolato tutte le questioni
legate all’espressione di convinzioni religiose nelle
scuole, bisogna però riconoscere che da allora le
esclusioni sono drasticamente diminuite.
Un’altra particolarità francese: oltre alla neutralità
dello Stato rispetto alle religioni, la nostra laicità prevede una stretta parità di trattamento nei loro riguardi. Anche se il dibattito s’inasprisce regolarmente attorno alle pratiche musulmane, una legge non farà
mai riferimento all’islam.
Così, la legge del 2004 proibisce «i segni religiosi
ostentati» (comprese le croci «di dimensioni palesemente eccessive») e quella del 2010 — che riguarda
l’uso del niqab — vieta «l’occultamento del volto nello spazio pubblico». In altre parole, tutte queste disposizioni che mirano — secondo i loro autori — a
proteggere i musulmani (e in particolare le musulmane) da una visione troppo retrograda della loro religione portano, alla fine, a restringere la libertà di religione per tutti. Ma in Francia sono in pochi a preoccuparsene! Il recente licenziamento di un’impiegata
velata dell’asilo collettivo Baby-Loup ha portato alla
presentazione di almeno cinque proposte di legge che
limitano l’uso di segni religiosi negli istituti che accolgono la prima infanzia o chiaramente nelle altre imprese private.
I cattolici stessi, all’inizio molto aperti all’uso del
velo musulmano, si sono pian piano irrigiditi, nella
misura in cui progrediva una corrente fondamentalista (minoritaria) e si diversificavano le rivendicazioni
dei musulmani riguardo alle loro pratiche nelle mense, negli ospedali e così via.
La difficoltà consiste, per l’insieme delle religioni e
per quanti non si rassegnano a vederle relegate in una
sfera privata sempre più limitata, nel ricordare allo
Stato che sarebbe un vero peccato (e alla fine certamente controproducente) se il legittimo mantenimento dell’ordine pubblico — e dunque la lotta contro le
ideologie radicali, persino quelle d’ispirazione religiosa — portasse alla scomparsa di ogni espressione dei
credi nello spazio pubblico.
P
Una messa davanti a enorme mosaico
e un misterioso affresco
Ecco ciò che resta
dell’affascinante storia di Petronilla
la sua serva dalla violenza, l’obbrobrio e
la corruzione. Ecco perché la fanciulla si
trova in tale stato» conclude l’apostolo.
Il pretendente ricco si pente e morendo
lascia in testamento alla ragazza un terreno: Pietro lo vende ma, senza tenere
nulla per sé o per la figlia, distribuisce
il ricavato ai poveri.
Testo di origine gnostica, gli Atti di
Pietro mostrano nell’episodio una concezione negativa, e di conseguenza una
svalutazione radicale, del corpo, della
dimensione sessuale e del matrimonio.
Tendenza accentuata nell’allusione allo
stesso episodio in un altro apocrifo gnostico, gli Atti di Filippo, scritti in greco e
risalenti all’inizio del IV secolo: «Pietro,
il capo, perciò fuggiva da ogni luogo
dove si trovava una donna. Di più fu
scandalizzato a causa di sua figlia, che
era molto bella. Pregò pertanto il Signore e divenne paralitica sul fianco, in
modo da non essere sedotta».
Una correzione in senso ortodosso
della leggenda gnostica si ha nel VI secolo, quando nella Passione dei santi Nereo e Achilleo compare il nome di Petronilla (che richiama per assonanza quello
di Pietro), risanata dal padre e poi pretesa in sposa dal pagano Flacco, ma che
muore dopo tre giorni, evitando nozze
non volute. Nella seconda metà del
Duecento quest’ultima versione è inserita ed enormemente diffusa dalla Legenda
aurea del domenicano Iacopo da Varazze: la paralisi viene però depotenziata in
febbre, mentre la ragazza viene guarita
perfettamente da Pietro, per poi sfuggire alla costrizione del matrimonio con la
morte. Da qui l’iconografia, fino al dipinto del Guercino.
Figlia femmina che muore senza discendenza, in età tardoantica Petronilla
sottolinea con la sua storia il rifiuto di
qualsiasi pretesa dinastica nella successione all’apostolo, proprio mentre severe
disposizioni proibiscono la designazione
del successore da parte del vescovo di
Roma in carica. Nel frattempo la presenza della sepoltura di una Petronilla
«figlia dolcissima» nel cimitero di Domitilla suggerisce l’identificazione con
quella dell’apostolo e l’intitolazione di
una basilica vicina. Inosservato sembra
Veneranda e Petronilla
(Catacombe di Domitilla, Roma)
Giovanni Maria
Vian (1952),
docente di
Filologia patristica
alla Sapienza, ha
studiato soprattutto
il giudaismo e il
cristianesimo
antichi, la storia
della tradizione
cristiana, il papato
contemporaneo.
Dal 2007 è
direttore
dell’O sservatore
Romano.
invece restare l’affresco che nella stessa
catacomba raffigura una giovane cristiana martire, Petronella, che introduce in
paradiso un’altra donna, Veneranda.
Passa il tempo, e a metà dell’VIII secolo, per sostenere simbolicamente l’alleanza strategica con i sovrani franchi, il
sarcofago di Petronilla viene trasferito
presso la basilica fatta costruire da Costantino sul sepolcro dell’apostolo, in
un piccolo mausoleo teodosiano che di-
viene il luogo di culto dei nuovi protettori della sede romana. Così da allora
alla figlia di san Pietro si accosta la «figlia primogenita della Chiesa». Sarà infatti un cardinale francese a pagare un
giovanissimo scultore fiorentino, Michelangelo Buonarroti, per una mirabile
Pietà che viene collocata nell’antichissima cappella, poi demolita. Ma la nuova
basilica ospiterà, a destra dell’altare berniniano della Cattedra, quello in onore
di santa Petronilla. E se la modernità
sembra opporsi al legame con la Francia, sono proprio i suoi ambasciatori
presso la sede apostolica, da Chateaubriand ai rappresentanti della Repubblica, senza distinzione, a tenerlo vivo, fino al ripristino a metà del Novecento
della messa annuale. In onore di una ragazza misteriosa, ma di cui rimane con
sicurezza la testimonianza cristiana sulle
orme di Pietro.
Claude Monet,
«Gigli e ponte giapponese»
(1899 circa)
di SARA BUTLER
Pasquale Cati, «Il Concilio di Trento» (1588, particolare)
donne chiesa mondo
maggio 2014
Relazioni redente
per i quali lo fa! E poi ce ne sono altre che
pensano che la Chiesa abbia già una “teologia
della donna” adeguata, ma le serve una
“teologia dell’uomo”, vale a dire dell’essere
umano maschile. In che modo dovremmo
interpretare queste riserve? Mentre sono
poche le donne che negano la differenza tra i
sessi, sono molte quelle nella tradizione
anglo-americana del femminismo liberale che
respingono la teoria della complementarità
dei sessi. Contestano l’idea che sia il sesso
fisico a dettare i tratti specifici della
personalità maschile e femminile. In altri
termini, si domandano se il sesso (un fatto
biologico) dia necessariamente origine al
gender (vale a dire agli aspetti psicosociali
dell’identità sessuale) maschile o femminile.
Secondo loro, riconoscere l’importanza della
differenza sessuale porta a “stereotipare”, e
questo, a sua volta, porta all’ingiusta
discriminazione nei confronti delle donne, per
esempio escludendole da ruoli sociali,
specialmente nella leadership pubblica, che
per tradizione vengono svolti da uomini, e
relegandole ai compiti domestici. La teoria da
loro contestata suppone che i tratti della
personalità siano ripartiti tra i sessi in maniera
reciprocamente esclusiva, piuttosto che
condivisi, e assegna le caratteristiche più
apprezzate agli uomini e quelle meno
desiderabili, ma “complementari”, alle donne.
Pertanto giustifica un ordinamento gerarchico
dei sessi. Infine, implica che le donne
esistono per “completare” gli uomini, come se
gli uomini rappresentassero la norma
dell’essere umano mentre le donne sono solo
un loro complemento, o come se ognuno dei
due sessi possedesse soltanto la metà (o una
qualche altra frazione) di ciò che è l’essere
umano. Su questa base, le femministe
considerano impossibile riconciliare la teoria
della complementarità dei sessi con la vera
uguaglianza; al contrario, essa sembra
giustificare un ordine “patriarcale” nel quale
le donne sono subordinate agli uomini. Le
femministe liberali insistono sul fatto che le
donne non devono essere viste come membri
di una classe, bensì come individui, “persone
a sé stanti”, che possiedono, o sono capaci di
sviluppare, gli stessi tratti e le stesse capacità
degli uomini. Poiché la designazione dei tratti
della personalità come “femminili” o
“maschili” varia molto da una cultura all’altra
e da un’epoca storica all’altra, esse
concludono che l’identità sessuale (gender) è
costruita socialmente, piuttosto che essere un
dono di Dio radicato oggettivamente nella
natura umana. Alcune di loro, dette
“femministe del gender”, respingono
totalmente il “sistema di gender binario”!
Queste femministe pretendono di “liberare” le
donne dalla discriminazione basata sul
genere, negando che la complementarità dei
sessi ha una base solida nella natura umana.
Sognano una società “multi-gender” in cui
agli esseri umani non siano imposti limiti dal
Sara Butler ha insegnato teologia prima al Mundelein Seminary (arcidiocesi di Chicago,
1989-2003) e poi, fino al
2010, al seminario St. Joseph
(arcidiocesi di New York). Attualmente è tornata al Mundelein Seminary, dove è professore emerito di teologia
sistematica. Già consulente teologica della Conferenza episcopale statunitense e membro
della Commissione internazionale anglicana-cattolica (19912004) e della Conversazione
internazionale tra cattolici e
battisti (2008-2011), è nella
Commissione teologica internazionale dal 2004.
l’autrice
P
APA FRANCESCO HA PARLATO
diverse volte della necessità di
«creare più ampie opportunità
per una presenza femminile più
incisiva nella Chiesa» (ad
esempio in Evangelii gaudium, n.
103-104) e di trovare modi per
includere le donne nei ruoli
decisionali dei diversi ambiti della
vita della Chiesa. È chiaramente
quello che si sta impegnando a
fare. D’altro canto, però, ha
ripetutamente annunciato che ciò
non può includere l’ammissione
delle donne al sacerdozio ministeriale. E
diffida delle proposte che appaiono ispirate
da quello che lui definisce «machismo
femminile». Per contrastare quest’ultimo,
auspica una «teologia della donna» più
profonda. Si aspetta dalle donne un
contributo specificamente femminile, di fatto
qualcosa di materno, all’opera e alla
testimonianza della Chiesa nel mondo.
Considera la collaborazione tra uomini e
donne un valore per la Chiesa, poiché la
complementarità dei sessi è un valore. Anche
molte donne cattoliche che sperano in più
vaste opportunità e nell’ammissione ai ruoli
decisionali considerano la collaborazione tra
uomini e donne nella Chiesa un valore. Non
tutte loro, però, aspirano a dare un contributo
specificamente femminile! Le femministe
cattoliche e le teologhe femministe che
sperano in un “discepolato di eguali” vedono
con grande sospetto gli appelli alla
complementarità dei sessi. Diffidano della
prospettiva del Papa e del suo interesse a
sviluppare una “teologia della donna”. Si
tratta di una situazione curiosa: il Papa
esprime la propria intenzione di rispondere
alla richiesta fatta dalle donne cattoliche, ma
molte di loro sono in disaccordo con i motivi
loro sesso biologico. Le femministe cattoliche
magari non sposano le teorie radicali del
“femminismo del gender”, ma tendono a
favorire le spiegazioni che minimizzano
l’importanza della differenza sessuale per
l’identità personale. Vogliono poter accedere a
ruoli decisionali che ora sono riservati al
clero, ma non esattamente contribuire con
«maternità, affetto, tenerezza, intuizione di
madre» (come ha detto Papa Francesco alle
partecipanti all’assemblea plenaria
dell’Unione internazionale delle superiore
generali l’8 maggio 2013). È vero che fino a
pochissimo tempo fa la teoria della
complementarità serviva da sostegno a una
visione della donna come “altra”, inferiore
all’uomo, definita principalmente dal suo
“giusto” ruolo sessuale e dalle presunte
caratteristiche della sua personalità, e intesa
da Dio come subordinata all’uomo. Negli
ultimi quarant’anni, però, il magistero ha
affrontato più volte la questione. Giovanni
Paolo IIrispose dettagliatamente alle critiche
femministe nella lettera apostolica Mulieris
dignitatem (1988). In occasione dell’Anno
internazionale delle donne indetto dalle
Nazioni unite (1995), pubblicò una Lettera alle
donne e tenne una serie di catechesi,
difendendo la dignità e i pari diritti delle
donne. L’insegnamento papale ha chiarito e
sviluppato la comprensione della
complementarità dei sessi che si trova nella
rivelazione cristiana. Si basa sul racconto
biblico della creazione dell’uomo (uomo e
donna) a immagine di Dio. Non propone una
teoria fondata sui tratti della personalità
maschile e femminile, né presume che tali
tratti appartengano agli uomini e alle donne
in modo reciprocamente esclusivo o che siano
ordinati gerarchicamente a favore dell’uomo.
Non suggerisce che giustamente solo gli
uomini svolgono ruoli sociali nella sfera
pubblica, ma incoraggia anche le donne a
parteciparvi. Non presume che l’uomo
rappresenti l’umanità normativa o che, dal
punto di vista umano, l’uomo e la donna da
soli siano incompleti. Tuttavia, la Chiesa
insegna che la persona umana è completa
solo facendo dono di sé (cfr. Gaudium et spes,
n. 245), un dono espresso concretamente nel
matrimonio e nella genitorialità. Paternità e
maternità, dunque, non sono mai
semplicemente “specializzazioni riproduttive”
o “ruoli sociali”; sono frutto o compimento
del disegno di Dio. Ciò include anche la
paternità e la maternità “spirituale” (poiché la
teoria femminista ignora l’importanza
personale della sessualità umana per
l’espressione dell’amore altruistico nel
matrimonio e nella procreazione, elimina la
possibilità di basare il contributo specifico
delle donne su qualcosa di diverso dai tratti
della personalità collegati al gender). E
poiché questi due modi di essere corpo sono,
di fatto, reciprocamente esclusivi, indicano i
parametri fondamentali entro i quali
esercitiamo la nostra libertà e ci appropriamo
della nostra identità maschile o femminile. La
complementarità dei sessi, nel disegno di Dio,
non è solo fisica, ma anche psicologica,
spirituale e ontologica (Lettera sulla
collaborazione dell’uomo e della donna nella
Chiesa e nel mondo, n. 87). Secondo la visione
biblica, l’uomo e la donna sono stati creati
“l’uno per l’altro” e destinati non solo a vivere
“l’uno accanto all’altro”, ma a diventare “una
sola carne” in una “comunione di persone”,
una “unità a due” che rispecchia la Trinità.
Pertanto, la sessualità è una “componente
fondamentale” della personalità umana; rivela
la capacità di intrattenere rapporti
interpersonali, la capacità di amare. Questo, a
sua volta, rivela il volere di Dio per l’umanità,
per il matrimonio e per la famiglia. In altri
termini, la creazione in due sessi appartiene
alla rivelazione di Dio. È dottrina cattolica e
non semplicemente una teoria tra le tante (cfr.
Catechismo della Chiesa cattolica, art. 369-372).
Per superare il sessismo non occorre sradicare
la differenza tra i sessi, ma basta porre fine
all’opposizione che esiste tra loro e che nasce
dal peccato. La relazione tra i sessi è «ferita e
ha bisogno di essere guarita», ma la grazia di
Cristo invita alla conversione e offre la
guarigione e l’integrità nelle relazioni redente.
In considerazione di ciò, la Lettera sulla
collaborazione sostiene la «collaborazione
attiva, proprio nel riconoscimento della stessa
differenza, tra uomo e donna» (n. 4; la lettera
spiega come i “valori femminili”
contribuiscono alla società, ma si limita a
suggerire che la Chiesa stessa ha un’identità
femminile). Evidentemente è questo che ha in
mente Papa Francesco. Secondo Giovanni
Paolo II, «femminilità e mascolinità sono tra
loro complementari non solo dal punto di
vista fisico e psichico, ma ontologico. È
soltanto grazie alla dualità del “maschile” e
del “femminile” che l’“umano” si realizza
appieno». Nella Mulieris dignitatem identifica
il “genio femminile” come la speciale capacità
della donna di prestare attenzione alla
persona. Suggerisce che questa capacità è
radicata nella costituzione fisica della donna e
nella sua vocazione a essere madre. Ma qual è
il “genio maschile”? Papa Francesco si aspetta
dalle donne che diano uno specifico
contributo femminile, ma che cosa costituisce
un contributo specificatamente maschile? Se il
magistero vuole affermare che la
complementarità dei sessi è qualcosa di
fondamentalmente positivo, vale a dire che gli
uomini e le donne devono offrire un qualche
contributo particolare, occorre dare una
risposta a tale domanda. Se la s’ignora,
l’umanità normativa sembra identificarsi con
il maschile, e il femminile appare ancora una
volta come “altro” e come espressione
complementare dell’umanità. Questa
impressione può essere corretta solo
identificando il “genio maschile”. Se i
pensatori femministi mettono a contrasto il
“positivo femminile” con il “negativo
maschile”, il rimedio sta in una qualche
Fernando Botero, «Uomo e donna» (2001)
articolazione del “positivo maschile”. Se la
Chiesa è incapace di costruire una spiegazione
positiva dell’essere uomo e della mascolinità,
non c’è da stupirsi che continuiamo a essere
ambivalenti riguardo alla paternità di Dio,
all’importanza teologica dell’essere uomo di
Gesù e al fatto che Dio abbia riservato il
sacerdozio agli uomini! Qual è il tipo
specifico di complementarità esistente tra
uomo e donna, e perché dovrebbe essere
benefico nella vita e nella missione della
Chiesa? Su questo sembra esserci un
consenso: l’esempio di nostro Signore Gesù
Cristo, un uomo che svuota se stesso
nell’obbedienza fino alla morte sulla croce, e
che si dona completamente all’umanità
peccatrice in amorevole servizio, sovverte tutti
gli schemi patriarcali di dominio. In lui
vediamo realizzata la vocazione di ogni
persona, che deve compiersi attraverso il dono
di sé al prossimo ma, in ultimo, a Dio.
Questo esempio profondamente controculturale di Gesù servitore si riflette
nell’immagine di Maria, che ha liberamente
acconsentito a essere l’ancella del Signore,
dando a suo figlio carne umana e
accompagnandolo fino alla croce. È la nostra
fede a metterci di fronte questa immagine di
relazioni “redente” tra i sessi. Include sia il
corpo sia l’espressione della persona, e
afferma che la creazione come uomo e donna
a immagine di Dio è cosa “molto buona”.