donne chiesa mondo Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore L’OSSERVATORE ROMANO maggio 2014 numero 23 Intorno al velo «Sotto gli occhi di Amerigo continuavano a passare fotografie e fotografie formato tessera, tutte ugualmente ripartite di spazi bianchi e neri, l’ogiva del viso incorniciata dalle bianche bende e dal trapezio del pettorale, il tutto iscritto nel triangolo nero del velo. E doveva dir questo: o il fotografo delle monache era un grande fotografo, o sono le monache che in fotografia riescono benissimo. Non soltanto per l’armonia di quell’illustre motivo figurativo che è l’abito monacale, ma perché i visi venivano fuori naturali, somiglianti, sereni. Amerigo s’accorse che questo controllo dei documenti delle suore diventava per lui una specie di riposo dello spirito». È l’intellettuale comunista Amerigo Ormea, al centro dello splendido e complesso romanzo di Italo Calvino, La giornata d’uno scrutatore (1963), a parlare. Prestando servizio al seggio del Cottolengo di Torino in occasione delle elezioni politiche del 1953, fra le tante scoperte di quella giornata, Amerigo scopre anche le suore, figure sempre viste ma mai veramente pensate. Anche questo numero di «donne chiesa mondo» vuole cercare di pensare nel profondo una presenza quasi scontata, quel «triangolo nero del velo» che copre il capo di tante donne. Abbiamo cercato di meditarlo nelle sue diverse declinazioni: nelle religiose, nelle donne cattoliche a messa, nelle ebree, nelle musulmane. Perché oggi per molte e molti di noi, il velo che cinge il capo femminile è — pur con tutte le differenze a seconda dei contesti — l’emblema di una sorta di schiavitù mentale, simbolo più o meno forte della sottomissione di un sesso all’altro. Ma davvero questa stoffa è solo la via per nascondere, per rinchiudere, per celare nell’umiltà, per segnare una sorta di proprietà privata e riservata, per separare o educare alla docilità? Non può, invece, anche essere un simbolo che dichiara una scelta libera e consapevole? È del resto il velo che spesso, nei secoli, ha accompagnato le raffigurazioni di Maria: per festeggiare il secondo compleanno di «donne chiesa mondo», nato nel maggio del 2012, rileggiamo dunque un verso delicato e toccante di Alda Merini. «Tutti gli uccelli abbassarono il velo / sul volto di Maria, / affinché non vedesse lo scempio della sua carne». (g.g.) «Vergine di Loreto» (Santuario della Santa Casa, Tresivio, particolare) Diadema regale La fondatrice dell’abbazia Mater Ecclesiae sul lago d’Orta ci spiega il velo monastico di ANNA MARIA CANOPI icevi il velo e il santo abito, segno della tua consacrazione, e non dimenticare mai che sei stata acquistata da Cristo per servire a lui solo e al suo Corpo che è la Chiesa». Con questa formula, nel giorno della professione perpetua e consacrazione, il vescovo consegna alla monaca il velo e l’abito corale. La neo-consacrata canta: Posuit signum in fa- «R È una specie di clausura nella clausura Indica la generosità e l’intensità con cui la claustrale fa dono di sé a Dio per tutti rimanendo nascosta Per essere del tutto gratuita donne chiesa mondo ciem meam… «Il Signore ha posto un sigillo sul mio volto, perché non ammetta altro sposo fuorché lui». La grande mistica santa Geltrude nei suoi Esercizi spirituali, in cui rinnova la sua consacrazione, così pregava preparandosi a ricevere spiritualmente il velo: «O mio La benedettina Anna Maria Canopi (1931) ha fondato l’abbazia Mater Ecclesiae nell’isola di San Giulio, sul lago d’Orta (Novara). Scrittrice feconda e profonda erudita, è autrice di molti libri sulla spiritualità monastica e cristiana. Ha collaborato all’edizione della Bibbia della Conferenza episcopale italiana e al Catechismo della Chiesa cattolica. Nel 1993 ha preparato il testo della Via Crucis di Giovanni Paolo II. Di Sebastiana Papa (1932-2002) sono invece le fotografie di questa pagina. diletto, fammi riposare all’ombra della tua carità… Lì riceverò dalla tua mano il velo della purezza che, grazie alla tua guida e alla tua direzione, porterò senza ombra di macchia davanti al tribunale della tua gloria, con il frutto centuplicato di una castità che sia il più puro specchio dell’innocenza» (Esercizi spirituali, III). Il significato del velo è evidente. La monaca, consacrata nella verginità per essere esclusivamente sposa di Cristo, deve sottrarsi allo sguardo di altri possibili pretendenti e amanti. Essa vive quindi ritirata dal mondo, nel chiostro (claustrum, da cui derivano i termini claustrale, clausura), per essere sempre sotto lo sguardo di Dio e a lui solo piacere per la purezza e l’intensità dell’amore. Il velo è, quindi, una specie di clausura nella clausura, poiché anche all’interno del monastero la monaca ha uno stile di vita e un modo di relazionarsi con le altre claustrali molto riservato. Questa consuetudine non ha però nulla di opprimente, anzi il velo è molto caro alla monaca e da lei devotamente portato; lo bacia ogni volta che lo mette e che lo depone. Esso, distogliendola dal divagare con gli occhi, la aiuta a tenere lo sguardo del cuore più direttamente rivolto a Dio, nella contemplazione del suo volto sempre desiderato e cercato. Il velo è inoltre anche il segno del pudore che la nasconde, in certo senso, al suo stesso sposo. In questa luce, i Padri hanno sempre letto il Cantico dei cantici: «Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo… Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente chiusa, fontana sigillata» (4, 1.12). Questi splendidi versi esprimono l’ammirazione e il commosso stupore dello Monastero Santa Maria di Rosano (Pontassieve, 1967) Monastero Monte Carmelo (Vetralla, 1995) sposo divino davanti alla promessa sposa tutta raccolta e rivestita di un umile e delicato riserbo. È il mistero stesso dell’amore verginale a richiedere di essere delicatamente custodito dietro un velo. Con san Paolo si può veramente esclamare che grande è «questo mistero» verginale e nuziale (cfr. Efesini, 5, 32). Certamente, alla mentalità e alla sensibilità del nostro tempo riesce molto difficile comprendere e ammettere questa consuetudine delle monache, tuttavia le vocazioni alla vita claustrale non vengono meno, a testimonianza del valore della fede proprio nella nostra società così secolarizzata e in gran parte anche scristianizzata. In realtà, la vocazione monastica, per disegno di Dio, giova a compensare il vuoto di fede che c’è nel mondo; essa, infatti, non è disprezzo e dimenticanza di esso, ma è una vita che esclude il compromesso con il mondano, con ciò che è corrotto, per dedicarsi totalmente alla preghiera e all’ascesi a beneficio di tutta l’umanità. La monaca vive quindi in modo sublime il mistero nuziale e materno sul pia- regina portando sempre nel suo corpo la morte di Cristo» (De institutione virginis, 17.109). Alla verginità è anche giustamente attribuito il carattere martiriale; essa è infatti considerata una forma di martirio, essendo una vita totalmente data; di conseguenza le viene riconosciuta anche la dignità regale e viene coronata dallo sposo, re dell’universo. Il velo viene così ad avere pure il significato di diadema regale. Vi può essere più alta dignità per la donna? Ma il velo stesso la tiene nell’umiltà. Nella basilica di San Simpliciano, a Milano, si trova un’iscrizione sepolcrale del V secolo che dice semplicemente: Hic iacet Leuteria cum capite velato. Poetico verso che consegna alla memoria dei posteri una donna contraddistinta dal velo, segno della consacrazione a Cristo; segno di un’altissima nobiltà. Parlando del velo, non si può tralasciare di rivolgere l’attenzione alla Vergine Immacolata, sempre raffigurata con il velo, e talvolta con un velo così ampio da avvolgere anche il Bambino Gesù che tiene nelle sue braccia. Intorno a lei è fiorita in ogni epoca la più bella poesia; a lei sono rivolte le più accorate invocazioni perché tenga il suo velo steso su tutti noi, su tutta l’umanità di cui è stata resa Madre. «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio — canta Dante — umile e alta più che creatura / termine fisso d’eterno consiglio / Tu sei colei che l’umana natura / nobilitasti sì che il suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura… / Qui sei a noi meridiana face / di caritate; e giuso intra i mortali, / sei di speranza fontana vivace. / Donna sei tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disianza vuol volar senz’ali. / La tua benignità non pur soccorre/ a chi domanda, ma molte fiate / liberamente al domandar precorre» (Paradiso XXXIII, 1-18). Velata, ma presente — così come la Vergine Maria — è la donna tutta dedita al Signore nella preghiera; essa non diventa un essere disincarnato e impassibile, lontano dalla gente comune, bensì una donna capace di amore oblativo e universale, pienamente gratuito proprio perché vergine. Questo è il mistico significato del velo sul capo delle donne consacrate, nascoste no soprannaturale; il forte simbolismo del velo indica proprio la generosità e l’intensità con cui la claustrale fa dono di sé a Dio per tutti, rimanendo nascosta, per essere del tutto gratuita. Non posso dimenticare l’emozione provata nel momento in cui il vescovo mi consegnò il velo benedetto: fu come se il cielo si curvasse su di me per avvolgermi nella sfera del sacro, nell’intimità del cuore di Cristo, a somiglianza della Vergine Madre Maria. Quando Papa Liberio, nel IV secolo, consacrò Marcellina, sorella del vescovo Ambrogio di Milano, nel momento in cui le impose Non posso dimenticare l’emozione sul capo il velo religioso, tutto il popolo che gremiva quando il vescovo mi consegnò il velo benedetto la basilica di San Pietro feFu come se il cielo si curvasse su di me ce da testimone applaudendo e proclamando: Amen! per avvolgermi nel cuore di Cristo Amen! a somiglianza della Vergine Il rito liturgico della velatio virginum è altamente suggestivo. Anticamente il velo era in uso anche di colore rosso, a si- dal mondo per essere nel cuore del mongnificare che la vergine era stata riscattata do e portare tutti gli uomini nel cuore di dal sangue dello sposo, Cristo. Perciò in Cristo, unico sposo della Chiesa, uno dei suoi bellissimi sermoni, sant’Am- dell’umanità che egli ha redento a prezzo brogio — che può essere definito “consa- del suo sangue, per renderla santa e imcratore di vergini” — così descrive una macolata al suo cospetto; splendente di donna consacrata: «Adorna di tutte le vir- quella bellezza spirituale che deve essere tù, avvolta nel velo reso purpureo dal san- custodita da ogni profanazione, dietro il gue del suo Signore, ella avanza come una sacro velo verginale. Monastero di Santa Chiara (Cortona, 1994) donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Denis Dailleux, Le Caire A motivo degli angeli Il romanzo Non dirmi che hai paura Perché le donne si dovevano coprire la testa in chiesa di SANDRA ISETTA orse in risposta al comportamento troppo libero dei fedeli durante le assemblee, Paolo indirizza alla giovane e vivace comunità di Corinto la celebre esortazione (1 Corinzi 11, 1-16) a non abbandonare i suoi insegnamenti: «Conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse». Quando il canone delle Scritture deve ancora formarsi, le prime normative cristiane, in materia di fede, di liturgia e di disciplina, sono infatti affidate alla “tradizione”, seguita, dopo Nicea, dalle formulazioni conciliari. Nel seguito della lettera, l’apostolo ri- F Si vede dalla prima ai Corinzi che alle origini della regola c’è un problema di disciplina per una comunità eterogenea e problematica Come quella cui si rivolge Paolo chiama alcuni capisaldi della teologia della coppia: la questione del velo muliebre inizia da qui. Alle origini c’è dunque un problema di disciplina, come conferma la chiusura del brano: «Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio». Paolo cerca di ricondurre all’ordine una comunità eterogenea e problematica come quella di Corinto, in situazioni di tensione e di inosservanze che rendono conto delle sue severe istruzioni, con cui sembra collocare la donna in posizione subordinata all’uomo sulla base di una duplice gerarchia, di tipo cronologico («Non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo») e ontologico («Né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo»). E «per questo deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli», cioè il velo. La base teologica dell’enunciato è molto più complessa, coinvolge anche la pratica della profezia e non è esente da retaggi di purità rituale e religiosa, che confluirono nelle usanze delle prime comunità cristiane. Paolo d’altronde è uomo di tradizione giudaica, educato nelle scuole rabbiniche, pur essendo nato in ambiente ellenistico. Ma qui interessa la risposta esegetica di alcuni padri della Chiesa, che hanno calcato sul tasto della subordinazione femminile, peraltro confacente all’antica società giudaico-ellenistica. Il non semplice enunciato «a causa degli angeli» è spiegato dai più intransigenti con il timore di risvegliare le brame sessuali degli angeli che sarebbero caduti per essersi innamorati delle donne, secondo il racconto di Genesi 6, 4 poi sviluppato in testi apocrifi. Ulteriore colpa da imputare alla responsabile della caduta dell’uomo, «immagine e gloria di Dio» a differenza della donna solo «gloria dell’uomo» (1 Corinzi 11, 7). Il velo della donna, nelle parole dei padri della Chiesa, diviene quindi il «fardello della sua costituzionale sottomissione» o il suo «giogo» o il «simbolo di soggezione». Le donne cristiane pertanto «dovrebbero coprire non solo il capo ma tutta la faccia», imitando «quelle d’Arabia» che a malapena vedono con un solo occhio attraverso il velo. Nell’antichità non tutte le Chiese seguono la medesima tradizione, per cui sorge il problema di seguire la consuetudine più confacente con le norme insegnate da Dio. Per la soluzione della questione del velo, Tertulliano si appella all’autorità delle Chiese orientali: i corinzi, dopo la contestazione, hanno recepito e trasmesso l’insegnamento di Paolo, quindi le altre Chiese devono adeguarsi alla norma liturgica paolina. Ben presto si impone opuscolo catechetico di Tertulliano Il velo delle vergini che, pur in odore di montanismo, diviene un manuale di riferimento per le future istituzioni monastiche femminili, pur stabilendo, nonostante il titolo, la norma del velo nella preghiera non solo per le vergini, ma per tutte le donne, comprese le coniugate («donne di una pudicizia di second’ordine»). L’esigenza di conferire alla norma l’autorevolezza della Chiesa istituzionale trapela nel tardo Liber pontificalis, in cui si attribuisce a Papa Lino, su ordine proprio di san Pietro suo predecessore, la conferma dell’obbligo per le donne di partecipare alla celebrazione eucaristica col capo coperto. È certo che l’insegnamento paolino, passato al vaglio della tradizione, è riformulato nel concilio di Gangra (324 circa), in cui il velo è definito «memoriale di sottomissione», e giunge con impronta attenuata al Codex iuris canonici del 1917 che ancora distingue tra gli uomini a testa nuda e le donne con il velo e in abbigliamento di modestia. Dopo la riforma conciliare non sussistono più specifiche indicazioni. La consuetudine, nel rispetto della tradizione, sembra superata nella Gaudium et spes («La Chiesa non è legata in modo esclusivo e indissolubile […] a nessuna consuetudine antica o recente»), che tra le forme di discriminazione condanna al primo posto quelle «in ragione del sesso», riconoscendo che i diritti fondamentali della persona «non sono ancora e dappertutto ga- di RITANNA ARMENI Oggi non c’è più spazio per questo segno di sottomissione Che è stato troppo frainteso nel suo significato originario O troppo strumentalizzato rantiti pienamente (…) quando si nega alla donna la facoltà di scegliere liberamente il marito e di abbracciare un determinato stato di vita, oppure di accedere a un’educazione e a una cultura pari a quelle che si ammettono per l’uomo». Non c’è più spazio per quel segno di sottomissione, troppo frainteso, o strumentalizzato, nel suo significato originario. La domenica, quando ero bambina, se dimenticavo il velo a casa, per timore non osavo entrare in chiesa e perdevo la messa, aggiungendo peccato a peccato. Oggi quel velo lo indosserei, per rispetto. Wilhelm Leibl, «Tre donne in chiesa» (1882) Kippot e parrucche Motivazioni diverse per uomini e donne nel mondo ebraico di ANNA FOA opriti la testa perché la presenza divina è sempre al di sopra di essa» prescrivono i testi ebraici. Per gli uomini, la prescrizione di andare con il capo coperto è mol- «C Come i maschi anche per le femmine coprire il capo non è una prescrizione biblica Anche se la questione resta controversa to più rigida e vincolante di quanto non lo sia per le donne. Gli ebrei osservanti portano un copricapo a forma di zuccotto, la kippah. Questa è prescritta per tutti gli uomini, sposati o non sposati, e la portano anche i bambini molto piccoli. È considerata obbligatoria in sinagoga, quando si studiano i testi sacri e quando si mangia, ma gli ortodossi la portano sempre. Non è una prescrizione di origine biblica, anche se è già presente nei testi posteriori, la Mishnah e il Talmud babilonese. Assai diverso, come motivazione, è l’obbligo per le donne di coprirsi il capo. Infatti, se per gli uomini è un segno di rispetto per la presenza divina, per le donne è un segno di pudore, di modestia. Molte donne ebree girano liberamente a capo scoperto, e non si coprono il capo neanche per pregare, com’è d’uso in molte comunità, per esempio in quelle italiane. A farlo sono solo le donne ortodosse e ultraortodosse. Di solito portano un fazzoletto annodato dietro la nuca, detto in ebraico tichel o mitpachat, oppure dei berretti o anche dei vezzosi cappellini. In altri casi portano invece, sopra i capelli tagliati cortissimi, delle parrucche, in genere acconciate in maniera antiquata e tali da rivelare immediatamente che di parrucche e non di capelli veri si tratta. Ne abbiamo letto, fra l’altro, nei racconti e nei romanzi di Singer e in tutta la narrativa che ci viene dal mondo dello shtetl, il villaggio ebraico dell’Europa orientale dove tanti ebrei vivevano prima della Shoah. Se ne vedono molte ai nostri tempi nelle comunità ultraortodosse americane o israeliane, a Brooklyn o a Meah Shearim. La norma esige che a coprire il capo debbano essere solo le donne sposate, non le ragazze ancora da sposare. A partire dal giorno del matrimonio, il capo scoperto può essere consentito solo in famiglia o nell’intimità con il marito. All’esterno, i capelli non devono essere mai mostrati. Nessuna proibizione o nessuna usanza ha invece mai impedito, nel mondo ebraico, di mostrare il volto, sempre rimasto privo di ogni velo, in tutti i momenti stori- ci. Solo recentemente un gruppo di donne ultraortodosse ha tentato, senza riuscirci, di introdurre il burqa in Israele. Come per la kippah, il capo coperto delle donne non è una prescrizione biblica, anche se la questione resta controversa, ma sembra far parte invece di quell’ampia normativa che la Mishnah e il Talmud hanno elaborato partendo dal testo biblico fino a erigere quel «muro intorno alla Torah» che nelle intenzioni dei rabbini doveva servire a preservare l’identità ebraica dalle persecuzioni e dalle lusinghe dell’integrazione. Nel caso del capo femminile coperto, il Talmud prende spunto da un brano biblico (Numeri 5, 18), in cui i sacerdoti sciolgono i capelli di una donna in segno di umiliazione e penitenza, per dedurne che le donne portavano normalmente il capo coperto. Secondo altre interpretazioni, la necessità di coprirsi il capo appartiene più che a vere e proprie nor- me scritte, a quell’insieme di prescrizioni che vanno sotto il nome di costume, in ebraico minhag, e che obbediscono all’esigenza di mantenere la modestia, la tzniut. Il concetto di tzniut è basilare nel mondo ebraico, e riguarda tanto il comportamento che il modo di vestirsi e di acconciarsi. In origine, era un termine che si applicava tanto agli uomini che alle donne, a implicare modestia e umiltà. Poi è venuto a designare in particolare un atteggiamento e un modo di vestirsi tale, da parte delle donne, da scoraggiare lo sguardo e il desiderio degli uomini. Il carattere intensamente erotico dei capelli è spesso sottolineato nei testi, con frequenti riferimenti al Cantico dei Cantici, e grande importanza è data, nel mondo ortodosso, anche all’obbligo di portare le braccia coperte. La tzniut varia da situazione a situazione, da luogo a luogo, e appartiene all’uso di ciascuna comunità. Così in alcune comunità orientali, in particolare nello Yemen, le donne usavano coprirsi il capo con un vero e proprio velo, sotto l’influenza musulmana dell’esterno, sempre lasciando però scoperto il volto. mira siede all’aperto in un bar del centro di Milano. Jeans, maglietta, trucco agli occhi, scherza e ride con le sue amiche prima di tuffarsi nelle vie dello shopping. Una scena normale di un sabato pomeriggio di primavera, salvo per un particolare che ancora stupisce qualche passante: Amira ha la testa coperta da un velo colorato, un azzurro intenso e vivace. Interrogata risponde che quel velo lo ha scelto. Sua madre, che era arrivata molti anni prima da Algeri, non lo aveva mai messo e si era meravigliata della decisione della figlia. A scuola qualcuno l’aveva guardata male, ma lei non aveva desistito. «Il velo racconta chi sono, in che cosa credo, da dove vengo. E di tutto questo non mi vergogno» dice. «Del resto — aggiunge sorridente — non trova che mi stia bene?». Qualche mese fa in Egitto al telegiornale di mezzogiorno la conduttrice è apparsa perfettamente truccata, con una elegante giacca nera e una hijab color crema avvolta attorno alla testa. Era la prima volta che una giornalista velata appariva alla televisione pubblica e la cosa ha fatto scalpore. «Il velo non conta, finalmente anche qui il criterio non è ciò che indossi, ma le capacità» ha risposto a chi l’ha interrogata stupito. In realtà la sua immagine aveva giustamente colpito: molte donne lavoravano in televisione con il capo coperto, ma nessuna di loro fino ad allora era mai apparsa in video. Il velo non era accettato nell’immagine ufficiale di un Egitto che ci teneva ad affermare uno Stato e un governo laico anche se in molte zone del Paese e nelle stesse periferie del Cairo la tradizione era forte e seguita. Il velo lo ritroviamo ancora in Tunisia. Mentre fino a qualche anno era indossato dalle ragazze delle campagne e dei paesi, adesso è sempre più frequente nelle grandi città e nelle università dove proprio le giovani donne moderne, emancipate, desiderose di lavorare, preferiscono apparire in pubblico con la testa coperta. Il fenomeno, nato già da qualche anno, ha sollevato non pochi problemi. Mentre alcuni, per esempio l’Association tunisienne des femmes démocratiques, lo avevano giudicato «inquietante», la Lega dei diritti umani aveva denunciato l’aggressione alle donne velate da parte della polizia. Comunque negli ultimi tempi si è così diffuso che il Governo ha ritenuto opportuno allentare le restrizioni previste dalla legge. Se guardiamo a ciò che è avvenuto in questi ultimi anni nel mondo islamico possiamo parlare di ritorno — alcuni parlano addirittura di rivoluzione — del velo. Non che la tradizione religiosa e culturale di coprirsi il capo fosse mai scomparsa. Ci sono Paesi, come Arabia, Afghanistan o Iran, che non l’hanno mai abbandonata, in cui, anzi, la copertura non solo del capo ma anche del corpo è obbligatoria. Paesi in cui tutte indossano la niqab o il burqa; in cui una donna non adeguatamente coperta è pesantemente perseguitata dalle leggi e dalla riprovazione sociale. Il ritorno di cui parliamo è piuttosto quello della hijab, del foulard o del velo nei Paesi dove il loro uso era stato messo da parte; parliamo della loro riapparizione nelle città e negli ambienti che si usano definire moderni, colti ed evoluti, nei Paesi in cui la somiglianza con l’occidente era, fino a qualche tempo fa, un valore sostenuto e propugnato dai governi. Il velo non è più relegato nelle campagne fra le donne che stanno a casa o lavorano i A Il ritorno del velo Inchiesta sui cambiamenti in corso tra le nuove generazioni islamiche campi. Anche quelle che lavorano e studiano, le donne che occupano, sia pure in poche, posti di prestigio, anche alcune di quelle che si dichiarano femministe, hanno ripreso a indossarlo. E con loro lo portano le emigrate che vivono in Paesi in cui cultura e tradizioni dovrebbero spingere a una veloce omologazione e, persino, le loro figlie nate dopo l’emigrazione. La domanda che oggi ci si pone — e che molti si pongono — è se questo ritorno sia frutto di una libera scelta delle donne o se invece sia imposto dai governi e dagli Stati in cui si fanno sentire con forza movimenti tradizionalisti o addirittura integralisti. Un È stata una rivoluzione che ha colto tutti di sorpresa Perché è avvenuta nel secolo segnato dal ridimensionamento delle religioni quesito importante che ne sottintende altri: se è una scelta delle donne, che tipo di scelta è? Un semplice ritorno alla tradizione o l’affermazione di un modo diverso di manifestare la propria fede? Se è una scelta imposta dai governi, deve essere contrastata? E come si devono comportare i Paesi occidentali che vedono nelle loro strade donne velate o magari completamente coperte dal burqa e dalla niqab? Devono accettare l’uso del velo o, considerandolo manifestazione di subordinazione e di schiavitù femminile, devono contrastarlo? Come si sa, il dibattito nei Paesi occidentali su questi temi è stato ampio e anche aspro. Decine di esperti hanno studiato il fenomeno. Renata Pepicelli, studiosa del mondo islamico contemporaneo, nel suo Il velo nell’islam (Carocci 2012) ci dà la più importante delle informazioni: il ritorno al velo comincia negli anni Settanta e coincide con una straordinaria ripresa della religiosità. Le donne si sono coperte la testa mentre si co- struivano più moschee e queste venivano maggiormente frequentate. Il fenomeno ha costituito una sorpresa. Il Novecento era agli occhi dei più il tempo della secolarizzazione e del ridimensionamento delle religioni. «L’uso del termine rivoluzione per parlare della rinascita del velo — spiega Pepicelli — è giustificato dal fatto che si è trattato di un fenomeno che ha colto di sorpresa molti osservatori, sia laici che religiosi, perché è iniziato verso la fine di un secolo, il Novecento, che, come si è visto, è stato segnato da una tendenza di segno opposto». Secondo Pepicelli l’inversione di tendenza è stata ed è troppo vasta per coincidere con la ripresa dell’“Islam politico”: è indicativa di qualcosa di più importante e di più profondo. Il velo è così diventato il simbolo del mondo islamico. Ma anche delle difficoltà e delle contraddizioni nei rapporti con l’occidente (c’è chi ha parlato di scontro di civiltà). «Mai — scrive Pepicelli — un indumento è stato così tanto discusso». E non a caso. Attraverso la discussione sulla hijab, infatti, si affrontano alcuni dei problemi più importanti del ventunesimo secolo: la rinascita dell’islam, i suoi rapporti con l’occidente, la sua concezione della donna, l’idea di cambiamento. Nello stesso tempo, il velo è diventato una sorta di barometro dei Paesi in cui viene indossato: il colore, il modo di metterlo, la sua negazione o la convinta accettazione dicono su quei Paesi di più di tanti discorsi. Molte le studiose che scorgono nel ritorno al velo il segno di un’adesione ad alcuni ideali comunitari, di una ripresa spirituale, che si è nutrita anche dell’opposizione all’occidente e alla mercificazione del corpo femminile. Altre notano come la hijab venga vissuta da molte donne come un deterrente al desiderio maschile, se non addirittura una protezione dalla violenza a cui spesso sono sottoposte. Per altre ancora nel velo c’è la manifestazione di una fede femminile autonoma che si riallaccia al rapporto con Dio e alla sura XXIV del Corano: «E dì alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne». Infine, in molti notano che oggi esso non assume solo il significato di un atto di fede individuale, ma indica il ritorno della religione nella sfera pubblica anche in Paesi in cui si era affermata una separazione. Non è quindi un ritorno indietro, ma esattamente l’opposto. Naturalmente la questione rimane controversa. Non sono pochi e poche coloro che vedono nel ritorno al velo l’affermazione di un conservatorismo di molti Paesi di religione islamica e di un nuovo autoritarismo dei loro governi che, spaventati dalla diffusione dei modelli e delle libertà della civiltà occidentale, tentano in questo modo di mantenere un dominio sulla popolazione femminile. Il ritorno al velo avrebbe ragioni molto terrene che hanno poco a che fare con la religione e con la fede. E poi l’11 settembre ha influenzato il modo di leggere questo fenomeno. In nome della riaffermazione della laicità in Francia si è approvata una legge che, benché ufficialmente affermi il divieto di ostentazione di tutti i segni religiosi, nella realtà è rivolta soprattutto contro il velo. Per altri Paesi il problema non si è posto per la hijab, ma per il burqa e per la niqab che, coprendo il corpo e il viso della donna, pongono — a parere di molti — problemi di sicurezza. In Italia la legge è stata tentata, ma è stata bloccata. L’Europa è divisa tra Paesi che non ammettono alcuna copertura integrale del capo come Francia, Belgio e, in parte, Germania (la scelta spetta ai singoli Länder) e altri che non hanno affrontato il problema per via legislativa. Gli Stati Uniti non hanno mai vietato l’uso del velo integrale neppure dopo l’11 settembre. Ha la corsa nel sangue, Samia. Insieme con l’amico Ali, confidente e primo allenatore, corre per le strade di Mogadiscio. Si allungano i suoi muscoli e crescono i suoi sogni, ma anche la guerra civile e l’irrigidimento politico della Somalia. Le gambe magrissime e veloci di Samia continuano a correre, mentre l’odore della polvere da sparo diventa presenza quotidiana in una città travolta dall’odio. Vuole correre per sé, per le donne somale, per i suoi genitori (bellissima la figura del padre, che rischia, sa di rischiare e cadrà perché convinto che le sue figlie debbano scegliere il loro destino). Si allena di notte, Samia, si allena senza scarpe e senza mezzi: riuscirà così a farsi notare, fino a volare alle Olimpiadi di Pechino, pur senza vincere. Samia è sicura della sua meta: Londra 2012. Ma mentre la data si avvicina, tutto si sgretola attorno a lei: corre ormai chiusa nel burqa, il padre viene assassinato, la sorella fugge in Europa e Ali diventa un terrorista. Samia, che aveva giurato che mai avrebbe abbandonato il suo Paese, capitola: prima ad Addis Abeba da clandestina, poi il terribile viaggio dei migranti verso l’Europa, passando per Sudan, Sahara e Libia. Umiliazioni, violenze, stenti, terrore: la ragazza — la cui storia è raccontata da Giuseppe Catozzella (Non dirmi che hai paura, Feltrinelli, 2014) — si concentra su dettagli e ricordi per non impazzire. Ma alla fine cederà, richiamata dal canto delle sirene del mare vicino a Lampedusa. (@GiuliGaleotti) Il saggio Visages de Marie A volte è un pesante ma caldo drappo marrone (come in un’icona russa dedicata alla Vergine della tenerezza), a volte un succinto velo quasi trasparente che le illumina il volto (Sandro Botticelli). A volte diventa un mantello tanto lungo da cingerla completamente dal capo ai piedi, un mantello che varia dal rosso vivo (Rogier van der Weyden) al rosa perla (Beato Angelico), dal bianco candido (miniatura dell’XI secolo) al classico azzurro (Simone Martini). A volte, si estende ancora a incorniciare anche il figlio neonato (Melchiorre Broederlam) o il corpo di Gesù deposto dalla croce (Jean Fouquet). Ma il velo di Maria si rivela, per l’eternità, tessuto capace di trasformarsi in corona (Enguerrand Quarton). Sono questi solo alcuni dei tanti volti della Madonna raccontata da Jean Vanier nel libro iconografico Visages de Marie (Mame, 2001), in cui la storia della Vergine è rappresentata nei suoi tempi. Il tempo dell’attesa, il tempo della gioia, il tempo della separazione, il tempo della gloria: tra arte e letteratura, il canto di Vanier saluta Maria. E la grazia del suo velo. (@GiuliGaleotti) Il film Millefeuille Zaineb e Aicha — protagoniste di Millefeuille (2012) di Nouri Bouzid — sono due giovani donne, amiche e cugine, che vivono nella Tunisia della rivoluzione. Entrambe vogliono la libertà e l’indipendenza, ma Aicha porta il velo, Zeineb invece lo rifiuta. Entrambe si scontrano con una società che non accetta la loro scelta. Aicha, che per mantenere le sorelle e il nonno, lavora in una pasticceria, subisce ogni genere di pressioni perché si liberi del suo foulard che lei non indossa per tradizionalismo, ma come prova di fede e per proteggersi dagli uomini che la insidiano. Se vuole una promozione sul lavoro — le dicono — deve scoprire i capelli. Zeineb, che fa la cameriera nella stessa pasticceria in cui lavora Aicha, viene prima pregata poi obbligata dal fidanzato e da una famiglia, desiderosa di un buon matrimonio, a indossare il velo e a rinunciare al lavoro. Le due giovani rimangono solidali e complici e iniziano una lotta personale per la propria libertà che si inserisce, ma non coincide completamente, con la rivoluzione tunisina. L’affermazione della loro differenza esige un impegno in più. (@ritannaarmeni) women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women GEDDA, CITTÀ DELLE D ONNE IN VIOLA È dalle abitanti di Gedda con la loro abaya viola, invece della tradizionale nera, che si sta irradiando un percorso di affermazione femminile in Arabia Saudita, Paese complicato per le donne, nonostante il re Abdullah stia, piano piano, limitando le restrizioni che le riguardano. Qualche settimana fa, proprio nella città sul Mar Rosso si è tenuta una conferenza sull’economia nel mondo arabo che ha visto tante donne mescolarsi agli uomini, altro passo verso una riforma delle libertà sociali e delle opportunità di lavoro che potrebbe riflettersi sull’intero mondo arabo. «Vi è un consenso quasi universale — ha detto Fahad Nazer, una analista politica che vive a Vienna, dopo aver lavorato all’ambasciata saudita di Washington — sul fatto che la vicinanza di Gedda alla Mecca e al Mar Rosso la esponga a molteplici influenze culturali», rendendola «più cosmopolita rispetto ad altre aree del regno». I fatti sono lì a dimostrarlo: la città è stata la prima ad autorizzare le donne a lavorare in negozi di vendita al dettaglio e nei centri commerciali, dove vendono profumi e lingerie in negozi per sole famiglie. E sempre a Gedda, in marzo la Banca commerciale nazionale ha nominato Sarah Al-Suhaimi direttore esecutivo della sezione dedicata agli investimenti; Somayya Jabarti, in febbraio, è diventata la prima direttrice di un giornale nella storia saudita, la «Saudi Gazette», mentre nell’ottobre scorso Bayan Zahran è stata la prima donna a essere abilitata alla pratica legale. LAS PATRONAS E GLI IMMIGRATI Da quindici anni un gruppo di contadine messicane dà da mangiare agli immigrati aggrappati ai treni merci che passano dinnanzi ai loro campi. Ogni volta che ne transita uno, Las Patronas — questo il nome del gruppo che deriva da quello della frazione La Patrona, la Vergine Guadalupana, del comune di Amatlán de los Reyes, in Veracruz — lanciano sacchi di plastica con viveri e bottiglie d’acqua agli immigrati, che molto spesso, svenuti per la disidratazione, vengono travolti e mutilati dai vagoni. Il gesto di queste donne — che devono combattere non solo l’opposizione dei trafficanti, ma anche quella delle loro famiglie e dei loro vicini — rappresenta il loro modo concreto di mettere in pratica la fede cattolica e di servire Gesù nei fratelli. A loro è dedicato un incontro alla Pontificia università gregoriana a Roma il 13 maggio 2014. Fortunatamente, però, Las Patronas — che nel 2013 hanno ricevuto il Premio Nazionale Messicano per i Diritti Umani — non sono le sole: lungo il percorso di questo treno, soprannominato La Bestia, è nata infatti una rete di centri di assistenza, fondati da religiosi, sacerdoti diocesani, laici e laiche, per aiutare gli immigrati, per lo più honduregni, adolescenti sfiniti dal viaggio, donne stuprate, adulti accoltellati dai trafficanti o mutilati dal treno. Sono circa 400.000 le persone che ogni anno transitano per il Messico alla ricerca di un lavoro o per ricongiungersi con i familiari negli Stati Uniti o nel nord del Paese. Tra questi, più di 20.000 vengono sequestrati dai trafficanti, torturati e stuprati perché le mafie vogliono obbligare tutti a usare i loro “servizi”, invece di viaggiare “gratis” sui treni merci. Il Messico, che continua a concepirsi come Paese d’emigrazione, fatica ad accogliere l’immigrato. Per fortuna, però, dal 2011 non è più reato l’assistenza umanitaria ai clandestini. BIANCA, CHEERLEADER IN SEDIA A RUOTE Completino bianco e azzurro, fiocco in testa e pon pon coordinati: così scendono in campo le cheerleader dei Warriors Bologna, squadra italiana di football americano di serie A. Tra loro — racconta Ambra Notari sul mensile «Superabile» — anche Bianca Maria Cocchi, ventitreenne affetta da una rara forma di disautonomia familiare, una malattia rara (caratterizzata da disfunzioni nel sistema nervoso autonomo) che impedisce di avvertire il dolore e il calore. Il cheerleading è uno sport, riconosciuto dal Coni, che richiede una grande preparazione: come le compagne, Bianca ha fatto prima esperienza con le più piccole e ora è passata alle senior. Lei è al centro delle coreografie, a cui partecipa seduta sulla sua sedia a ruote. «È molto meglio essere in una squadra: puoi condividere tutto, nel bene e nel male. Soprattutto, è una questione di responsabilità: se sbagli tu, ne risentono tutti. La mia filosofia? Non giudicare mai. Se hai una testa usala: perché in qualsiasi condizione ti possa trovare, sei uguale agli altri» conclude la ragazza che lavora in una mediateca. LA SCIENZIATA ATEA CHE HA ACCERTATO IL MIRACOLO «La Chiesa voleva prove scientifiche per una guarigione e io gliele ho date. Non credo in Dio, ma non posso escludere che sia stato Lui»: così ha detto, nel corso dell’intervista al settimanale «Tempi», la sessantaquattrenne canadese Jacalyn Duffin, ematologa atea che ha avuto un ruolo decisivo nella canonizzazione di Marie-Marguerite d’Youville, primo santo del Paese nordamericano. «Secondo la scienza una remissione dalla leucemia è possibile, due no. Invece, dopo otto anni, la paziente era ancora viva»: poteva trattarsi solo di un miracolo. «Il Vaticano quindi aveva chiesto il suo consulto per la canonizzazione?» le chiede Leone Grotti. «Niente affatto. Gli esperti del Vaticano avevano già rifiutato il caso: per loro non si poteva parlare di miracolo perché, leggendo i vetrini, non avevano riscontrato la prima remissione ma solo la seconda. I postulanti in Canada si sono infuriati, hanno fatto appello e raggiunto questo accordo: affidare i vetrini a un testimone cieco, cioè io. Una volta consegnati i miei risultati sono andata in Vaticano al processo a testimoniare con una pila di documenti e di prove. Per me era una questione di principio, di scienza». E pur affermando di essere rimasta atea, Duffin conclude: «La medicina è colpevole di ignorare la Chiesa e di avere L’OSSERVATORE ROMANO maggio 2014 numero 23 Inserto mensile a cura di RITANNA ARMENI e LUCETTA SCARAFFIA, in redazione GIULIA GALEOTTI www.osservatoreromano.va - per abbonamenti: ufficiodiffusione@ossrom.va eretto un muro artificiale per dividerla dalla scienza. La mia identità è cambiata, sono più umile e sono migliore anche nel lavoro: ho imparato ad ascoltare di più i miei pazienti, ci sono cose che mi dicono che prima non ascoltavo perché pensavo solo alla malattia e a nient’altro». nel momento in cui decidono di ricorrere a una badante, trovandosi ad affrontare la difficile scelta di inserire una persona “estranea” nella casa di un congiunto non più autosufficiente, sia di fornire una guida per le badanti stesse. I problemi sono tanti: dalla selezione della persona più adatta, al rispetto di chi si assume. LA RIVISTA D ONNE DELLA BADANTE Si nasce sempre meno, la famiglia è sempre più rarefatta, l’età media si allunga, la crisi incombe, il servizio sanitario nazionale taglia sempre più: è per l’insieme di questi elementi che la figura della badante sta crescendo di importanza nelle società occidentali. In Italia, ad esempio, sono oggi 1 milione e 655 mila, ma si calcola che nel 2030 saranno 2 milioni e 155 mila, mentre sono oltre 12 milioni gli ultrasessantacinquenni, un milione dei quali malati di Alzheimer, 250 mila di Parkinson e due milioni non autosufficienti. Per cercare di capire e affrontare il fenomeno, è uscita «La Rivista della Badante», il primo free press bimestrale italiano dedicato alle badanti e alle famiglie che necessitano del loro aiuto. Con il contributo di geriatri, psicologi, nutrizionisti, avvocati e commercialisti, si parla di psicologia, medicina, alimentazione, fisioterapia, economia domestica, fisco e previdenza. L’intento è quello di sostenere sia le famiglie DI PACE A GERUSALEMME Raccontare la propria esperienza di dialogo e riconciliazione: questo il senso dell’incontro intitolato «Women of Faith for Peace» che si è svolto qualche settimana fa a Gerusalemme. Otto donne leader di cinque religioni della Terra santa hanno infatti testimoniato il proprio impegno in direzione della pace. Tra le altre, sono intervenute Adina Bar-Shalom, ebrea ortodossa; Faten Zenaty, musulmana, Nuha Farran, cristiana; Suha Ibrahim, impegnata per le donne beduine; Basema Halabi, drusa; Thehilabila Barshalom, ebrea; Dganit Fachima, haredi. «Il dialogo non è un’utopia, ma una realtà»: questo il filo conduttore dello scambio. Al termine della tavola rotonda, è stato presentato Aurora Network — nato dall’incontro tra la comunità Nuovi Orizzonti di Chiara Amirante e Lia G. Beltrami — che, nella città santa, si impegna in particolare per il dialogo interreligioso partendo proprio dalle donne. donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne La figlia di san Pietro Giovanni Maria Vian racconta la santa del mese na messa, un quadro e un misterioso affresco: ecco ciò che resta di Petronilla. Ogni anno il 31 maggio si celebra nella basilica vaticana in onore della santa, nel giorno e all’altare dedicati alla memoria di lei, la figlia dell’apostolo Pietro, davanti alla grande riproduzione in mosaico della tela del Guercino che ne raffigura la sepoltura e la gloria. Ma la celebrazione e l’enorme dipinto seicentesco sono soltanto il punto di arrivo di una storia intricata e lunga quasi venti secoli. All’inizio vi sono l’accenno alla moglie di Cefa in una lettera autentica di Paolo (1 Corinzi, 9, 5) e un celebre episodio evangelico, quando cioè Gesù guarisce dalla febbre la suocera del primo degli apostoli (Marco, 8, 14-15). A queste scarne notizie storiche si sovrappone più tardi, a metà del IV secolo, un dato altrettanto sicuro: l’immagine di una martire, Petronella, affrescata nella catacomba romana di Domitilla. Pietro dunque era sposato e, benché nei testi del Nuovo Testamento non vi sia allusione a una sua discendenza, nulla impedisce di pensare che l’abbia davvero avuta. Sua figlia entra invece apertamente in scena, pur senza nome, più tardi, nel frammento copto (IV o V secolo) appartenente a un testo apocrifo greco, gli Atti di Pietro, scritti verso la fine del II secolo. «Perché non hai soccorso tua figlia, vergine, che è cresciuta bella e ha creduto nel nome del Signore? Vedi, ha un fianco completamente paralizzato e giace là in un angolo impotente. Noi vediamo quelli che tu hai risanati mentre a tua figlia non hai prestato alcuna cura» dice la folla all’apostolo, quasi rimproverandolo. Da qui il racconto prende un andamento drammatico: per dimostrare che Dio può tutto, Pietro ottiene la guarigione della fanciulla, ma solo per un momento, e subito dopo le ordina di tornare nello stato precedente. Di fronte poi ai pianti e alle implorazioni dei presenti, spiega che la figlia era rimasta paralizzata proprio in seguito alle sue preghiere, dopo essere stata rapita dal ricchissimo Tolomeo, che la restituisce infine ai genitori. «La portammo via, lodando il Signore che aveva risparmiato U Il dibattito sul velo in Francia Accogliere o rifiutare i segni religiosi? di ANNE-BÉNÉDICTE HOFFNER erché il velo fa tanto discutere in Francia? Porre la domanda in questi termini è già un modo di evidenziare una delle sue ambiguità: si tratta del velo in generale (compreso quello indossato da alcune religiose cattoliche) o del velo musulmano? In realtà, sebbene in Francia, dalla legge del 1905 che separa le Chiese dallo Stato, ci siano sempre stati dei ferventi oppositori all’uso della tonaca in strada, ci sono pure — ed è un bene — dei sostenitori di una laicità più aperta. Nel corso degli anni si è riusciti a trovare un equilibrio, come testimoniano le scuole private cattoliche “sotto contratto con lo Stato”, i servizi di cappellania nelle carceri, gli ospedali e così via. Alla fine degli anni Novanta, è stato dunque il velo islamico a rilanciare il dibattito e a condurre alle tensioni attuali attorno ai segni religiosi. Per comprenderli si possono osservare due particolarità francesi. Da quando, nel settembre del 1989, tre alunne di Creil (Oise) hanno deciso di andare a lezione velate, nella società francese si è imposta l’idea secondo la quale le giovani e le donne musulmane che indossano il foulard islamico lo farebbero perché obbligate dal proprio padre o dal proprio marito e con un fine di proselitismo. Anche se loro stesse lo negano (con maggiori o minori argomentazioni) e sebbene i molteplici studi sociologici tendano a vedere in questo ritorno di visibilità gli effetti di una ricerca identitaria di giovani che si scontrano con difficoltà d’integrazione. Altri Paesi europei, che devono misurarsi con lo stesso problema, privilegiano l’accoglienza di queste giovani nella scuola, giustamente convinti che l’educazione sia per loro indispensabile. La Francia, da parte sua, si rifiuta di cedere sui propri principi: in nome della libertà di coscienza (la loro e quella delle loro compagne), le giovani velate vengono molto spesso escluse dal loro istituto. Alla fine, la legge del 2004, che bandisce i segni religiosi ostentati a scuola, viene generalmente considerata come un “meglio”, poiché fissa un quadro relativamente preciso dei segni vietati e soprattutto fa del dialogo con lo studente una condizione preliminare alla sanzione. Se è vero che il testo non ha affatto regolato tutte le questioni legate all’espressione di convinzioni religiose nelle scuole, bisogna però riconoscere che da allora le esclusioni sono drasticamente diminuite. Un’altra particolarità francese: oltre alla neutralità dello Stato rispetto alle religioni, la nostra laicità prevede una stretta parità di trattamento nei loro riguardi. Anche se il dibattito s’inasprisce regolarmente attorno alle pratiche musulmane, una legge non farà mai riferimento all’islam. Così, la legge del 2004 proibisce «i segni religiosi ostentati» (comprese le croci «di dimensioni palesemente eccessive») e quella del 2010 — che riguarda l’uso del niqab — vieta «l’occultamento del volto nello spazio pubblico». In altre parole, tutte queste disposizioni che mirano — secondo i loro autori — a proteggere i musulmani (e in particolare le musulmane) da una visione troppo retrograda della loro religione portano, alla fine, a restringere la libertà di religione per tutti. Ma in Francia sono in pochi a preoccuparsene! Il recente licenziamento di un’impiegata velata dell’asilo collettivo Baby-Loup ha portato alla presentazione di almeno cinque proposte di legge che limitano l’uso di segni religiosi negli istituti che accolgono la prima infanzia o chiaramente nelle altre imprese private. I cattolici stessi, all’inizio molto aperti all’uso del velo musulmano, si sono pian piano irrigiditi, nella misura in cui progrediva una corrente fondamentalista (minoritaria) e si diversificavano le rivendicazioni dei musulmani riguardo alle loro pratiche nelle mense, negli ospedali e così via. La difficoltà consiste, per l’insieme delle religioni e per quanti non si rassegnano a vederle relegate in una sfera privata sempre più limitata, nel ricordare allo Stato che sarebbe un vero peccato (e alla fine certamente controproducente) se il legittimo mantenimento dell’ordine pubblico — e dunque la lotta contro le ideologie radicali, persino quelle d’ispirazione religiosa — portasse alla scomparsa di ogni espressione dei credi nello spazio pubblico. P Una messa davanti a enorme mosaico e un misterioso affresco Ecco ciò che resta dell’affascinante storia di Petronilla la sua serva dalla violenza, l’obbrobrio e la corruzione. Ecco perché la fanciulla si trova in tale stato» conclude l’apostolo. Il pretendente ricco si pente e morendo lascia in testamento alla ragazza un terreno: Pietro lo vende ma, senza tenere nulla per sé o per la figlia, distribuisce il ricavato ai poveri. Testo di origine gnostica, gli Atti di Pietro mostrano nell’episodio una concezione negativa, e di conseguenza una svalutazione radicale, del corpo, della dimensione sessuale e del matrimonio. Tendenza accentuata nell’allusione allo stesso episodio in un altro apocrifo gnostico, gli Atti di Filippo, scritti in greco e risalenti all’inizio del IV secolo: «Pietro, il capo, perciò fuggiva da ogni luogo dove si trovava una donna. Di più fu scandalizzato a causa di sua figlia, che era molto bella. Pregò pertanto il Signore e divenne paralitica sul fianco, in modo da non essere sedotta». Una correzione in senso ortodosso della leggenda gnostica si ha nel VI secolo, quando nella Passione dei santi Nereo e Achilleo compare il nome di Petronilla (che richiama per assonanza quello di Pietro), risanata dal padre e poi pretesa in sposa dal pagano Flacco, ma che muore dopo tre giorni, evitando nozze non volute. Nella seconda metà del Duecento quest’ultima versione è inserita ed enormemente diffusa dalla Legenda aurea del domenicano Iacopo da Varazze: la paralisi viene però depotenziata in febbre, mentre la ragazza viene guarita perfettamente da Pietro, per poi sfuggire alla costrizione del matrimonio con la morte. Da qui l’iconografia, fino al dipinto del Guercino. Figlia femmina che muore senza discendenza, in età tardoantica Petronilla sottolinea con la sua storia il rifiuto di qualsiasi pretesa dinastica nella successione all’apostolo, proprio mentre severe disposizioni proibiscono la designazione del successore da parte del vescovo di Roma in carica. Nel frattempo la presenza della sepoltura di una Petronilla «figlia dolcissima» nel cimitero di Domitilla suggerisce l’identificazione con quella dell’apostolo e l’intitolazione di una basilica vicina. Inosservato sembra Veneranda e Petronilla (Catacombe di Domitilla, Roma) Giovanni Maria Vian (1952), docente di Filologia patristica alla Sapienza, ha studiato soprattutto il giudaismo e il cristianesimo antichi, la storia della tradizione cristiana, il papato contemporaneo. Dal 2007 è direttore dell’O sservatore Romano. invece restare l’affresco che nella stessa catacomba raffigura una giovane cristiana martire, Petronella, che introduce in paradiso un’altra donna, Veneranda. Passa il tempo, e a metà dell’VIII secolo, per sostenere simbolicamente l’alleanza strategica con i sovrani franchi, il sarcofago di Petronilla viene trasferito presso la basilica fatta costruire da Costantino sul sepolcro dell’apostolo, in un piccolo mausoleo teodosiano che di- viene il luogo di culto dei nuovi protettori della sede romana. Così da allora alla figlia di san Pietro si accosta la «figlia primogenita della Chiesa». Sarà infatti un cardinale francese a pagare un giovanissimo scultore fiorentino, Michelangelo Buonarroti, per una mirabile Pietà che viene collocata nell’antichissima cappella, poi demolita. Ma la nuova basilica ospiterà, a destra dell’altare berniniano della Cattedra, quello in onore di santa Petronilla. E se la modernità sembra opporsi al legame con la Francia, sono proprio i suoi ambasciatori presso la sede apostolica, da Chateaubriand ai rappresentanti della Repubblica, senza distinzione, a tenerlo vivo, fino al ripristino a metà del Novecento della messa annuale. In onore di una ragazza misteriosa, ma di cui rimane con sicurezza la testimonianza cristiana sulle orme di Pietro. Claude Monet, «Gigli e ponte giapponese» (1899 circa) di SARA BUTLER Pasquale Cati, «Il Concilio di Trento» (1588, particolare) donne chiesa mondo maggio 2014 Relazioni redente per i quali lo fa! E poi ce ne sono altre che pensano che la Chiesa abbia già una “teologia della donna” adeguata, ma le serve una “teologia dell’uomo”, vale a dire dell’essere umano maschile. In che modo dovremmo interpretare queste riserve? Mentre sono poche le donne che negano la differenza tra i sessi, sono molte quelle nella tradizione anglo-americana del femminismo liberale che respingono la teoria della complementarità dei sessi. Contestano l’idea che sia il sesso fisico a dettare i tratti specifici della personalità maschile e femminile. In altri termini, si domandano se il sesso (un fatto biologico) dia necessariamente origine al gender (vale a dire agli aspetti psicosociali dell’identità sessuale) maschile o femminile. Secondo loro, riconoscere l’importanza della differenza sessuale porta a “stereotipare”, e questo, a sua volta, porta all’ingiusta discriminazione nei confronti delle donne, per esempio escludendole da ruoli sociali, specialmente nella leadership pubblica, che per tradizione vengono svolti da uomini, e relegandole ai compiti domestici. La teoria da loro contestata suppone che i tratti della personalità siano ripartiti tra i sessi in maniera reciprocamente esclusiva, piuttosto che condivisi, e assegna le caratteristiche più apprezzate agli uomini e quelle meno desiderabili, ma “complementari”, alle donne. Pertanto giustifica un ordinamento gerarchico dei sessi. Infine, implica che le donne esistono per “completare” gli uomini, come se gli uomini rappresentassero la norma dell’essere umano mentre le donne sono solo un loro complemento, o come se ognuno dei due sessi possedesse soltanto la metà (o una qualche altra frazione) di ciò che è l’essere umano. Su questa base, le femministe considerano impossibile riconciliare la teoria della complementarità dei sessi con la vera uguaglianza; al contrario, essa sembra giustificare un ordine “patriarcale” nel quale le donne sono subordinate agli uomini. Le femministe liberali insistono sul fatto che le donne non devono essere viste come membri di una classe, bensì come individui, “persone a sé stanti”, che possiedono, o sono capaci di sviluppare, gli stessi tratti e le stesse capacità degli uomini. Poiché la designazione dei tratti della personalità come “femminili” o “maschili” varia molto da una cultura all’altra e da un’epoca storica all’altra, esse concludono che l’identità sessuale (gender) è costruita socialmente, piuttosto che essere un dono di Dio radicato oggettivamente nella natura umana. Alcune di loro, dette “femministe del gender”, respingono totalmente il “sistema di gender binario”! Queste femministe pretendono di “liberare” le donne dalla discriminazione basata sul genere, negando che la complementarità dei sessi ha una base solida nella natura umana. Sognano una società “multi-gender” in cui agli esseri umani non siano imposti limiti dal Sara Butler ha insegnato teologia prima al Mundelein Seminary (arcidiocesi di Chicago, 1989-2003) e poi, fino al 2010, al seminario St. Joseph (arcidiocesi di New York). Attualmente è tornata al Mundelein Seminary, dove è professore emerito di teologia sistematica. Già consulente teologica della Conferenza episcopale statunitense e membro della Commissione internazionale anglicana-cattolica (19912004) e della Conversazione internazionale tra cattolici e battisti (2008-2011), è nella Commissione teologica internazionale dal 2004. l’autrice P APA FRANCESCO HA PARLATO diverse volte della necessità di «creare più ampie opportunità per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa» (ad esempio in Evangelii gaudium, n. 103-104) e di trovare modi per includere le donne nei ruoli decisionali dei diversi ambiti della vita della Chiesa. È chiaramente quello che si sta impegnando a fare. D’altro canto, però, ha ripetutamente annunciato che ciò non può includere l’ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale. E diffida delle proposte che appaiono ispirate da quello che lui definisce «machismo femminile». Per contrastare quest’ultimo, auspica una «teologia della donna» più profonda. Si aspetta dalle donne un contributo specificamente femminile, di fatto qualcosa di materno, all’opera e alla testimonianza della Chiesa nel mondo. Considera la collaborazione tra uomini e donne un valore per la Chiesa, poiché la complementarità dei sessi è un valore. Anche molte donne cattoliche che sperano in più vaste opportunità e nell’ammissione ai ruoli decisionali considerano la collaborazione tra uomini e donne nella Chiesa un valore. Non tutte loro, però, aspirano a dare un contributo specificamente femminile! Le femministe cattoliche e le teologhe femministe che sperano in un “discepolato di eguali” vedono con grande sospetto gli appelli alla complementarità dei sessi. Diffidano della prospettiva del Papa e del suo interesse a sviluppare una “teologia della donna”. Si tratta di una situazione curiosa: il Papa esprime la propria intenzione di rispondere alla richiesta fatta dalle donne cattoliche, ma molte di loro sono in disaccordo con i motivi loro sesso biologico. Le femministe cattoliche magari non sposano le teorie radicali del “femminismo del gender”, ma tendono a favorire le spiegazioni che minimizzano l’importanza della differenza sessuale per l’identità personale. Vogliono poter accedere a ruoli decisionali che ora sono riservati al clero, ma non esattamente contribuire con «maternità, affetto, tenerezza, intuizione di madre» (come ha detto Papa Francesco alle partecipanti all’assemblea plenaria dell’Unione internazionale delle superiore generali l’8 maggio 2013). È vero che fino a pochissimo tempo fa la teoria della complementarità serviva da sostegno a una visione della donna come “altra”, inferiore all’uomo, definita principalmente dal suo “giusto” ruolo sessuale e dalle presunte caratteristiche della sua personalità, e intesa da Dio come subordinata all’uomo. Negli ultimi quarant’anni, però, il magistero ha affrontato più volte la questione. Giovanni Paolo IIrispose dettagliatamente alle critiche femministe nella lettera apostolica Mulieris dignitatem (1988). In occasione dell’Anno internazionale delle donne indetto dalle Nazioni unite (1995), pubblicò una Lettera alle donne e tenne una serie di catechesi, difendendo la dignità e i pari diritti delle donne. L’insegnamento papale ha chiarito e sviluppato la comprensione della complementarità dei sessi che si trova nella rivelazione cristiana. Si basa sul racconto biblico della creazione dell’uomo (uomo e donna) a immagine di Dio. Non propone una teoria fondata sui tratti della personalità maschile e femminile, né presume che tali tratti appartengano agli uomini e alle donne in modo reciprocamente esclusivo o che siano ordinati gerarchicamente a favore dell’uomo. Non suggerisce che giustamente solo gli uomini svolgono ruoli sociali nella sfera pubblica, ma incoraggia anche le donne a parteciparvi. Non presume che l’uomo rappresenti l’umanità normativa o che, dal punto di vista umano, l’uomo e la donna da soli siano incompleti. Tuttavia, la Chiesa insegna che la persona umana è completa solo facendo dono di sé (cfr. Gaudium et spes, n. 245), un dono espresso concretamente nel matrimonio e nella genitorialità. Paternità e maternità, dunque, non sono mai semplicemente “specializzazioni riproduttive” o “ruoli sociali”; sono frutto o compimento del disegno di Dio. Ciò include anche la paternità e la maternità “spirituale” (poiché la teoria femminista ignora l’importanza personale della sessualità umana per l’espressione dell’amore altruistico nel matrimonio e nella procreazione, elimina la possibilità di basare il contributo specifico delle donne su qualcosa di diverso dai tratti della personalità collegati al gender). E poiché questi due modi di essere corpo sono, di fatto, reciprocamente esclusivi, indicano i parametri fondamentali entro i quali esercitiamo la nostra libertà e ci appropriamo della nostra identità maschile o femminile. La complementarità dei sessi, nel disegno di Dio, non è solo fisica, ma anche psicologica, spirituale e ontologica (Lettera sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, n. 87). Secondo la visione biblica, l’uomo e la donna sono stati creati “l’uno per l’altro” e destinati non solo a vivere “l’uno accanto all’altro”, ma a diventare “una sola carne” in una “comunione di persone”, una “unità a due” che rispecchia la Trinità. Pertanto, la sessualità è una “componente fondamentale” della personalità umana; rivela la capacità di intrattenere rapporti interpersonali, la capacità di amare. Questo, a sua volta, rivela il volere di Dio per l’umanità, per il matrimonio e per la famiglia. In altri termini, la creazione in due sessi appartiene alla rivelazione di Dio. È dottrina cattolica e non semplicemente una teoria tra le tante (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, art. 369-372). Per superare il sessismo non occorre sradicare la differenza tra i sessi, ma basta porre fine all’opposizione che esiste tra loro e che nasce dal peccato. La relazione tra i sessi è «ferita e ha bisogno di essere guarita», ma la grazia di Cristo invita alla conversione e offre la guarigione e l’integrità nelle relazioni redente. In considerazione di ciò, la Lettera sulla collaborazione sostiene la «collaborazione attiva, proprio nel riconoscimento della stessa differenza, tra uomo e donna» (n. 4; la lettera spiega come i “valori femminili” contribuiscono alla società, ma si limita a suggerire che la Chiesa stessa ha un’identità femminile). Evidentemente è questo che ha in mente Papa Francesco. Secondo Giovanni Paolo II, «femminilità e mascolinità sono tra loro complementari non solo dal punto di vista fisico e psichico, ma ontologico. È soltanto grazie alla dualità del “maschile” e del “femminile” che l’“umano” si realizza appieno». Nella Mulieris dignitatem identifica il “genio femminile” come la speciale capacità della donna di prestare attenzione alla persona. Suggerisce che questa capacità è radicata nella costituzione fisica della donna e nella sua vocazione a essere madre. Ma qual è il “genio maschile”? Papa Francesco si aspetta dalle donne che diano uno specifico contributo femminile, ma che cosa costituisce un contributo specificatamente maschile? Se il magistero vuole affermare che la complementarità dei sessi è qualcosa di fondamentalmente positivo, vale a dire che gli uomini e le donne devono offrire un qualche contributo particolare, occorre dare una risposta a tale domanda. Se la s’ignora, l’umanità normativa sembra identificarsi con il maschile, e il femminile appare ancora una volta come “altro” e come espressione complementare dell’umanità. Questa impressione può essere corretta solo identificando il “genio maschile”. Se i pensatori femministi mettono a contrasto il “positivo femminile” con il “negativo maschile”, il rimedio sta in una qualche Fernando Botero, «Uomo e donna» (2001) articolazione del “positivo maschile”. Se la Chiesa è incapace di costruire una spiegazione positiva dell’essere uomo e della mascolinità, non c’è da stupirsi che continuiamo a essere ambivalenti riguardo alla paternità di Dio, all’importanza teologica dell’essere uomo di Gesù e al fatto che Dio abbia riservato il sacerdozio agli uomini! Qual è il tipo specifico di complementarità esistente tra uomo e donna, e perché dovrebbe essere benefico nella vita e nella missione della Chiesa? Su questo sembra esserci un consenso: l’esempio di nostro Signore Gesù Cristo, un uomo che svuota se stesso nell’obbedienza fino alla morte sulla croce, e che si dona completamente all’umanità peccatrice in amorevole servizio, sovverte tutti gli schemi patriarcali di dominio. In lui vediamo realizzata la vocazione di ogni persona, che deve compiersi attraverso il dono di sé al prossimo ma, in ultimo, a Dio. Questo esempio profondamente controculturale di Gesù servitore si riflette nell’immagine di Maria, che ha liberamente acconsentito a essere l’ancella del Signore, dando a suo figlio carne umana e accompagnandolo fino alla croce. È la nostra fede a metterci di fronte questa immagine di relazioni “redente” tra i sessi. Include sia il corpo sia l’espressione della persona, e afferma che la creazione come uomo e donna a immagine di Dio è cosa “molto buona”.
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