GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFi RASSEGNA STAMPA Anno 7o- n.10 Ottobre 2014 Sommario: Paul Strand, quando la fotografia è arte……………………………………………………………pag. 2 L'America perduta di Dennis Hopper…………………………………………………………………pag. 3 Ritratti molari, ritratti mentali……………………………………………………………………………pag. 6 Tra i partigiani del Polesine, la fotografia morbida di Dondero.………………………..pag. 8 Anti-Selfie Movement. Selfie, il boom è finito……………………………………………………pag. 15 La foto-inflazione che svaluta le parole…………………………………….………………………pag. 17 "I cortili sono nostri", la fotografie è bambina.…………………………………………………pag. 19 Perché Shiva è più potente della fotografia………………………………………………………pag. 20 Scattate fotografie orribili senza saperlo. Vi stanno ingannando………………………pag. 23 DEAPHOTOEXPO2014.……………………………………………………………………….………….……pag. 25 Con solo un geranio e un balcone..……………………………………………………………………pag. 26 Tadeus Rolke………………………………………………………………………………………………………pag. 28 Da Capa a Cartier-Bresson, la nascita di Magnum……………………………………………pag. 30 Franco Fontana, l'eretico della fotografia………………………………………………………….pag. 32 Cartoline dai bordi di un'utopia perduta……………………………………………………………pag. 33 Muray, il fotografo che amò Frida Kahlo in mostra a Genova.…………………………pag. 37 Addio a René Burri,: tra i suoi scatti Che Guevara e Picasso..…………………………pag. 38 Perché non parli?.………………………………………………………………………………………………pag. 40 Nino Migliori:"I giovani devono scoprire lo scatto di una bellezza da ritrovare"..…pag. 42 Trieste Photo Days, 14/23 Novembre….……………………………………………………………pag. 44 Un abuso relativamente semplice………………………………………………………………………pag. 45 Henry Cartier-Bresson a Roma la mostra dedicata all'artista francese……………pag. 48 Proviamo a farlo insieme……………………..……………………………………………………………pag. 51 Gianni Berengo Gadin - Eliott Erwitt..….…………………………………………………………..pag. 54 Disimparare a vedere. Una storia con l'orso.…………….…………………………………….pag. 56 L'amore per l'Italia nelle foto di Leonard Fred in mostra al C.C.Candiani.………pag. 58 Le grandi foto che René non fece………………………………………………………………………pag. 59 Da Capa a Cartier Bresson, la nascita di Magnum…..………………………………………pag. 61 Il Sale della Terra, un film di Julien Salgado, Wim Wenders…………………………..pag. 63 La fotografia del surrealista Jacques-André Boiffard a Parigi.…………………………pag. 65 Franco e Luigi, una Canon per due……………………………………………………………………pag. 66 Steve Mc Curry: oltre lo sguardo, una nuova mostra alla Villa Reale di Monza…..…pag. 69 Lewis Hine, l'umanità senza nome che ha fatto grande l'America……………………pag. 71 André Kertész, il pioniere della fotografia deformata.………………………………………pag. 72 Un caffè corretto al (Mc) Curry…………………………………………….……………………………pag. 75 Parlando di fotografia con Ferdinando Scianna..………………………………………………pag. 78 La nascita di Magnum…………………………………………………………………………………………pag. 80 Spalle al muro o sulle ginocchia?……….………………………………………………………………pag. 83 Il fotografo Ferdinando Scianna: "noi siamo le persone che incontriamo"…..…pag. 86 Il karma di Lisetta…….………………………………………………………………………………….……pag. 88 1 Paul Strand, quando la fotografia è arte da http://www.ansa.it/ FOTO STRAND Grande esposizione a Philadelphia dal 12 ottobre Il mondo della fotografia deve molto a Paul Strand (New York 1890 - Orgeval 1976). E non soltanto perché fu uno dei fotografi più rappresentativi del secolo scorso o per la potenza espressiva delle sue immagini. Strand fu tra i primi a considerare la fotografia una forma d'arte, spingendo al massimo le potenzialità di questo medium che con la sua attività contribuì a far evolvere. Alla sua opera omnia è dedicata la grande retrospettiva ''Paul Strand: Master of Modern Photography'', che si aprirà il 21 ottobre al Philadelphia Museum of Art e sarà allestita fino al 4 gennaio 2015. La mostra, grazie anche alla recente acquisizione da parte del museo di oltre 3.000 stampe dal Paul Strand Archive, analizzerà la carriera del fotografo lungo i sei decenni di professione: dagli sforzi per rendere la fotografia autonoma rispetto a ogni altra arte (l'artista si batté molto contro il predominio della pittura) fino all'approdo al cinema (da ''Manhatta'' a ''Native Land''), verrà evidenziato ogni aspetto del suo stile, per restituire al visitatore un ritratto il più possibile esaustivo. Un talento puro e artigianale quello di Strand, maestro del realismo e nell'uso del bianco e nero, convinto sostenitore (insieme con il suo mentore Alfred Stieglitz) della fotografia come emblema della modernità. Dagli scatti che ritraevano la vita della strada e i suoi ''abitanti'' (come in ''Blind Woman, New York'' e ''Wall Street, New York'') alle architetture e ai paesaggi naturali, Strand fu capace con il suo obiettivo di far parlare la realtà per renderne sia l'essenza che le sfaccettatura. Ma è nei ritratti e nei reportage socio-antropologici che Strand espresse il suo impegno politico, come dimostrano i viaggi che intraprese per ricercare sempre nuovi soggetti da immortalare e grazie ai quali realizzò i suoi famosi fotolibri. 2 Oltre agli Stati Uniti, visitò il Messico, dove visse dal 1932 al 1934, il Canada, l'Italia (a Luzzara, raccontò la vita contadina nel dopoguerra insieme con Cesare Zavattini, originario della cittadina, che scrisse il testo a corredo delle fotografie) e il Ghana. Testimone del mondo che stava cambiando davanti a lui, Strand ha reso la sua macchina fotografia una lente d'ingrandimento per documentare fin nel dettaglio l'evoluzione della società, ma anche lo spirito dei popoli e la struttura del paesaggio. Il risultato è una fotografia pura, che mira dritta alla verità: per chi guarda una continua scoperta, perché in ogni scatto si nasconde ogni volta una nuova storia da raccontare. L’America perduta di Dennis Hopper di Arianna Di Genova da http://ilmanifesto.info/ Ike e Tina Turner Con l’amarissima fine del film Easy Rider, Dennis Hopper, regista e interprete di quella ballata per la libertà, sancì la caduta verticale dell’American Dream. D’altronde, la guerra del Vietnam era al suo apice e la cavalcata sulle moto di alcuni spiriti ribelli con capelli lunghi e giornate di vagabondaggio puro da spendere attraversando gli Stati Uniti, non poteva che confluire nella tragedia dietro l’angolo. Anni dopo, lo stesso attore e cineasta che aveva inventato l’immaginario della New Hollywood, corteggiato la cultura hippy, le droghe, le visioni allucinate dell’lsd, predicato e praticato la sessualità senza catene, amato la musica rock, in preda a uno dei suoi innumerevoli eccessi abbandonò la consueta spericolatezza politica per affiancarsi alla dinastia repubblicana dei Bush, trasformandosi in un tipo guerrafondaio e bigotto. Il suo mito si incrinò: l’ex adolescente 3 alternativo di Gioventù bruciata infranse il cuore di molti fan e, alla fine, rimase intrappolato anche lui in quella ragnatela fatale. Nel 2008, due anni prima di morire, fece atto di pentimento e si schierò con Barack Obama: era troppo tardi ormai e la sua stella radical, tutta genio e sregolatezza, si era offuscata inesorabilmente. A riabilitare la figura di un Dennis Hopper difficilmente classificabile fra i divi mainstream, ci pensa ora la mostra inauguratasi presso la galleria Gagosian di Roma, esponendo (fino all’8 novembre) alcune serie di fotografie che accompagnarono la quotidianità – letteralmente ora dopo ora – dell’attore e artista. Una passione smisurata, un’ossessione quella per l’inquadratura e l’obiettivo da puntare sulla realtà che dovette intuire anche uno come Francis Coppola: lo scelse, infatti, per il ruolo del fotoreporter sedotto dal carisma del colonnello Kurzt in Apocalypse Now, personaggio a cui Hopper consegnò gran parte della sua effervescenza creativa, tendente a mimare la follia. Scratching the Surface è la personale dedicata a quel ragazzo che già a 18 anni scattava senza sosta («sono sempre stato un fotografo nervoso») perché fino a quando non comparve la produzione di Easy Rider all’orizzonte (aveva 31 anni), il suo amore per la guida senza mèta, la mania di collezionare oggetti trovati casualmente in viaggio, l’adorazione per gli artisti e musicisti, il dna di «persona visuale», come gli piaceva definirsi, erano rimasti tutti impressi dentro i rullini della Nikon o delle macchine estemporanee che utilizzava. Poi, uscì allo scoperto, vagò «on the road» e, idolatrando Kerouac, condivise con molti della sua generazione l’illusione di un’America senza più frontiere, percorribile secondo le proprie geografie sentimentali e non le leggi dettate dallo star system. Così, se quel film epocale può considerarsi un western contemporaneo dove al posto dei canyon c’è la strada asfaltata e al posto dei cavalli, rombano le motociclette Harley Davidson Chopper, con gli alti manubri e le forcelle allungate che penetrano il mondo, si può dire che le fotografie di Hopper rispondono a quel medesimo desiderio di emancipazione e anarchico arbitrio per un’esistenza «fai-da-te». Non sono mai snapshot, come si potrebbe essere indotti a credere, viste le attitudini del personaggio. Le istantanee, nella poetica hopperiana, erano proprio bandite: piuttosto, era interessato «agli aspetti formali della fotografia, alla composizione, alle linee che creano un campo, una superficie, un muro…». Attento al luogo – con un debole per i graffiti parlanti sparsi per Los Angeles – oltre che alla persona, acuto osservatore dell’atteggiamento rivelatorio, Dennis Hopper era in grado di cogliere quel famoso attimo di cui andava ragionando Cartier Bresson. È un momento psicologico, un mood, una sintonia umana fra osservatore e osservato. Timido di partenza — almeno così si descriveva — Hopper usava la camera come uno schermo protettivo, per tenersi alla larga dalle persone. Era un originale filtro che poneva fra lui e gli altri. Ma la macchina fotografica era anche una «membrana trasparente», un dispositivo emozionale adatto a svuotare la mente e allertare i cinque sensi per annusare, ascoltare, toccare e vedere intorno a sé. Non ritagliava mai le foto: una volta scelta l’inquadratura giusta, sarebbe stata stampata così come era nata. Amava Duchamp e la sua idea dei readymade. E condivideva la filosofica sparizione 4 dell’autore. «L’artista del futuro sarà colui che punterà il dito davanti a sé e indicando qualcosa dirà: ’quella è arte’», proclamava il padre del dadaismo e Hopper era al suo fianco. Vicino agli artisti pop — i bellissimi ritratti di Andy Warhol, Jasper John, Robert Irwin, Oldenburg a una festa di matrimonio — Dennis Hopper era anche un collezionista compulsivo. Lo faceva per amicizia e per piacere: non è casuale la comparsa del suo nome nella lista dei cento collezionisti più importanti del mondo. L’ansia di documentare un’America diversa era finita anche sopra al suo divano di casa. Quel che cattura Hopper è l’everyday di personaggi divenuti poi leggendari, icone del cinema (Peter e Jane Fonda ) o della musica (James Brown, Grateful Dead). Ci sono anche gli States dei diritti civili, delle marce di protesta, di Martin Luther King. L’immagine di Ed Rusha, davanti alla vetrina di un negozio con elettrodomestici, è il manifesto culturale di una società in rapida mutazione antropologica. Da Gagosian sono esposte, come fossero un mosaico scomposto per luoghi e cronologie, le fotografie della fine anni Sessanta e primi Settanta, quelle appartenenti alla serie Drugstore Camera, sviluppate nei laboratori anonimi, «non luoghi» tipici dell’America di allora. E in mostra compaiono anche alcune vintage prints dove Hopper immortala i suoi amici, i viaggi, gli oggetti che andranno a comporre le nature morte. «Non ho mai guadagnato un cent con le mie fotografie. Anzi, costavano soldi, ma mi tenevano in vita». La prima macchina di buona qualità gliela regalò Brooke (avrà cinque mogli e quattro figli). Cominciò a portarsela ovunque, tanto da essere ripetutamente preso in giro dai conoscenti perché sembrava un perfetto turista in casa sua. Alla galleria Gagosian di Roma, via Francesco Crispi 16, fino all'8 novembre orario: mar-sab ore 10.30-19.00 - Info: +39.06.42086498 5 Ritratti molari, ritratti mentali di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Roger Ballen, da Asylum of the Birds, © 2014 Roger Ballen, g.c. Simone De Beauvoir aveva fretta. «Quanto ci vorrà?», chiese incauta al fotografo. Che per sua sfortuna era Henri Cartier-Bresson. «Un po’ più che dal dentista, un po’ meno che dallo psicanalista», la fulminò il taciturno. Be’, aveva mille volte ragione. Il ritratto fotografico sta in bilico fra quei due estremi, la dolorosa estrazione di un molare (i francesi diconotirer le portrait) e l’imprevedibile esplorazione dell’Io. In entrambi i casi, non è una festa spensierata come sembra. Il ritratto è il destino e la crisi della fotografia. Fa bene il Festival Internazionale di Fotografia di Roma, diretto da Marco Delogu, ad affrontarlo solo adesso, alla sua tredicesima edizione, ormai certo della conquistata maturità. Dal dagherrotipo al selfie, il ritratto fotografico ha scosso le relazioni umane di una società intera, figuriamoci un festival. «Ma… può fare ritratti?» pare abbia chiesto il fisico Arago a Daguerre, prima di annunciare la grande scoperta al mondo, giusti 175 anni or sono. Rimase un po’ deluso dalla risposta, negativa, e nella sua prolusione all’Accademia delle Scienze parigina assegnò alla fotografia mille splendidi compiti, ma non quello. E invece quello e soprattutto quello esigeva il secolo borghese: il suo specchio di Narciso, rapido ed economico, come s’addiceva al carattere del secolo pragmatico, e presto lo ebbe. Ritratti, ritratti per tutti, preziosi o seriali, d’autore o dozzinali. Come un sol uomo l’Ottocento tuffò il naso negli abbaini dell’infinito per contemplare se stesso, poetizzò sprezzante Baudelaire. Per poterlo fare, accettò torture fisiche disumane, lunghe pose con occhi lacrimanti sotto il sole 6 di vetrata, la testa stretta in una morsa: e qui, s’era decisamente vicini all’esperienza del dentista. Poi un americano pratico, George Eastman, mise il lucernaio magico nelle mani stesse dei ritrattandi, con le sue Kodak rubò la pratica del ritratto ai professionisti e la trasformò in giocattolo domestico. Oggi, lo specchio di Narciso è tascabile, danza sulla punta del braccio teso, spara all’indietro; né autoritratto né autoscatto, il selfie è puro gesto, iscrizione istantanea di sé nel mondo, da disseminare immediatamente nel mondo per essere sicuri di starci ancora dentro: e ora siamo decisamente più vicini allo psicanalista che al dentista. Teatro della commedia umana, campo di battaglia, nel ritratto la fotografia svela se stessa per quello che è: pura relazione fra gli uomini. Quando è in mano a fotografi consapevoli di quel che fanno, diventa un viaggio alla scoperta dell’Altro. Al festival una collettiva di scatti di grandi autori (tra loro Antonio Biasiucci, Piergiorgio Branzi, Bernhard Fuchs, Antonia Mulas, Paolo Pellegrin, Guy Tillim…) declinerà questo viaggio in modi diversi. Ma il ritratto non è solo un corpo-a-corpo fra un autore e una “vittima consenziente” per citare ancora Cartier-Bresson, un attore che recita se stesso incerto se essere come è, come crede di essere, come vuole che gli altri credano che sia (e questo è Roland Barthes). No, il ritratto è una delle pratiche antropologiche-sociali più crudeli e selvagge. Se nelle foto di identità sembriamo tutti criminali ricercati, è perché anche quella fu l’ambigua nascita del fotoritratto: moneta sociale per i ricchi, gogna per i reietti. Da vedere, in esposizione, i ritratti segnaletici degli anarchici rispolverati dai faldoni dell’Archivio di Stato: imposizione di colpevolezza a mezzo di lastra sensibile. August Sander, Jungbauern auf dem Wege zum Tanz, 1914, g.c. Finché un mite fotografo di Colonia di nome August Sander, trovò la via di mezzo: il grande atlante dei tipi umani, Il volto del tempo (ne trovate in mostra rari vintage), tassonomia umana entieroica che il nazismo confusamente percepì pericolosa per i suoi miti übermensch, e mandò al rogo. 7 Il ritratto fotografico, insomma, non è innocente. Forse non è quell’«oltraggio assoluto alla dignità umana, mostruosa falsificazione della natura, atto meschino e disumano» che pensava Thomas Bernhard, ma è pur sempre un atto di potere, una relazione diseguale, un incontro asimmetrico. Helmar Lerski, lo vedrete, a metà del Novecento trasformava i suoi soggetti in maschere scolpite. Asger Carslen oggi ritocca ancora più invasivamente i suoi. Larry Fink ha sicuramente un occhio complice per i Beats che nel 1958 erano suoi coetanei (aveva diciott’anni). Così come simpatetico è Assaf Shoshan, giovane fotografo israeliano, quando entra a Rebibbia per ritrarre la Pena condivisa dei detenuti e delle loro compagne; commosso e partecipe è l’incontro di Mario Carnicelli con i volti del popolo comunista ammutoliti addolorati e fieri al funerale di Togliatti. Mentre il sudafricano Roger Ballen s’aggira con sguardo di ornitologo surreale nell’Asylum of the Birds, edificio di convivenze tra umani e uccelli. Ma quando il senso di marcia si ribalta, rimbalza, rincula? Quando il ritraente è anche il ritrattato, in un cortocircuito che va oltre la pratica dell’autoscatto e dell’autoritratto? Sarà curioso vedere quanti visitatori del Festival si scatteranno un anonimo selfie davanti ai ritratti firmati e lo condivideranno online. Del resto, nella cosueta iniziativa collaterale al Festival, repubblica.it proprio questo invita i suoi lettori a fare. Chissà se, circondato da identità altrui, il Narciso spaventato, prima di tuffarsi, chiederà conferma al mondo se quell’immagine riflessa è proprio la sua, o di un altro. Se col conforto di mille altri volti isolati nelle loro cornici chiederà alla sua macchinetta di dirgli, con compassionevole ossimoro: “non sei il solo ad essere solo”. [Una versione di questo articolo è apparsa su Il Venerdì il 26 settembre 2014] Tag: Antonia Mulas, Antonio Biasiucci, Asger Carslen, Assaf Shoshan, August Sander, Bernhard Fuchs,Charles Baudelaire, Daguerre, Fotografia Festival, François Arago, George Eastman, Guy Tillim,Helmar Lerski, Henri Cartier-Bresson, Kodak, Larry Fink, Marco Delogu, Mario Carnicelli, Narciso,nercisismo, Paolo Pellegrin, Piergiorgio Branzi, ritratto, Roger Ballen, selfie, Simone de Beauvoir,Thomas Bernhard Scritto in Da vedere, ritratto | Commenti Tra i partigiani del Polesine, la fotografia morbida di Dondero da http://www.pagina99.it/ 8 9 10 11 12 1 di 8 Un mondo contadino vitale e tenace, una parte della nostra storia messa a fuoco da uno sguardo profondo e solidale. Il nuovo libro del grande fotografo. Mario Dondero prima che un fotografo è un incontro, una relazione, un instancabile curioso di professione. La sua Leica è il suo occhio e la sua voce, nonché il suo più sensibile polpastrello con cui riesce ad entrare in contatto con il prossimo. Partigiani del Polesine (Giunti, 2014), da pochi giorni nelle librerie, è il suo personale viaggio nella memoria di un mondo che fu ribelle e contadino, giovane e incantato, forte e vitale. Un mondo che lascia tracce e impressiona la pellicola di Dondero con tutta la forza del tempo accumulato. La memoria tra le fotografie di Dondero è materia morbida, priva della durezza e del peso di una monumentalità incapace di sguardo ma pretenziosa di visione e carica di ideologie sempre più inservibili. Dondero costruisce il proprio racconto senza pudori: mostra i luoghi e i protagonisti di quell’epica, la semplicità di un paesaggio di provincia oggi attraversato da una contemporaneità non più contadina, ma ugualmente ricca d’ingenuità e discrezione e da un tempo ostile ai ricordi e alle narrazioni. Il volume, arricchito con gli interventi tra gli altri di Valentino Zaghi e Massimo Raffaeli, si apre con un’immagine di Adria in un giorno di mercato: uno scorcio della piazza, un piccolo mercato e le striminzite bancarelle di frutta e verdura. Il palazzo principale ha un porticato e al suo centro ospita un campanile con un orologio: l'edificio è in ottimo stato, probabilmente da poco ristrutturato, alle sue spalle s’intravede una gru a testimoniare gli ultimi lavori ancora in corso. 13 Nell’immagine che segue invece troviamo un casale di campagna diroccato: alle finestre gli scuri sono chiusi con assi di legno, l’intonaco è corroso dall’umidità. Di fronte, i resti delle mura di un porcile. Nel mezzo un sentiero e, di spalle, due uomini. Siamo sempre ad Adria, ma in località Piantamelon: il porcile è stato l’ultimo rifugio di Eolo Boccato, partigiano fucilato all’inizio di febbraio del 1945. Le due immagini rappresentano un dialogo che si alterna tra il tempo che fu e che si ripropone oggi con tutto il peso e il fascino di un’epica, e l’attualità spesso esteticamente deludente, eppure ricca della propria stessa vitalità. Un dialogo che attraversa tutto il libro svelando e rivelando, tra le rughe che gli anni hanno posato sui volti e sui luoghi, un territorio stretto tra l’imbocco dell’Adige nel Po e il mar Adriatico che si apre ad est. Adria, Caverzere, Rovigo, Mesola sono solo alcuni dei comuni attraversati dalla Leica di Dondero, che evita la testimonianza in favore di un racconto che non si fa mai compiaciuto e ricerca nei volti delle persone la spinta iniziale, l’orgoglio libertario non tanto di una generazione ma di un umanesimo che fu il segno primario unificante e coalizzante del movimento partigiano. Dondero incontra uomini e luoghi che raccontano chi, come lui, fu già giovanissimo ribelle e sognatore. Commuovendolo come solo un semplice cippo può fare: “il ragazzo del Polesine, falciato sedici anni, gli ricordava troppo da vicino quel ragazzo ribelle che era stato lui, Mario Dondero, quando un mattino di molti anni prima aveva deciso di salire in montagna tra i partigiani della Val d’Ossola. E di diventare, da allora in poi, un convinto e tenace custode di quei valori sempre attuali incarnati dalla Resistenza italiana”. Il partigiano a cui è dedicato il cippo è Gaetano Campion, mentre il testo è estratto dalla presentazione del volume che ha la preziosa cura di Francesco Permunian. Lo scrittore di Cavarzere da cui è partita l’idea del volume è il compagno di viaggio di Dondero lungo le strade del Polesine. Il libro alterna infatti alle fotografie i testi di Permunian che inquadrano i luoghi e i personaggi con affettuosa cura. La coppia lavora fianco a fianco e il racconto cresce di pagina in pagina, di paese in paese; il tempo è quello terribile di vite e libertà violate con folle e assurda violenza. Una delle ultime fotografie non è di Mario Dondero e ritrae una ragazza distesa a pancia in su che sembra prendere il sole lungo le rive del Po, ma è solo un breve inganno: il suo corpo è inerte, uccisa dai tedeschi in ritirata negli ultimi giorni del 1945. Quelli erano i tempi vissuti sulla pelle e sulle colline di paesaggi dolcissimi sferzati dal sole e dalla fatica contadine, Mario Dondero e Francesco Permunian riportano alla memoria il ritratto collettivo, ma contemporaneamente individuale di un popolo e di un corpo che da allora stentano ad essere popolo e a riconoscere e accettare di essere uno stesso corpo. Tags: fotografia, mario dondero, leica, polesine, partigiani 14 Anti-Selfie Movement - Selfie, il boom è finito di Giulio Mandara da http://www.fotozona.it/ In USA è nato un Anti-Selfie Movement, attori famosi “si ribellano” alla mania degli autoritratti condivisi sui social network, e anche in Italia qualcuno comincia ad averne abbastanza. Ma quali sono i numeri del fenomeno Selfie? SELFIE, UN FENOMENO SOCIALE - Questa è una delle notizie di fotografia di cui parlano anche la stampa e i media generalisti, in questo caso perché è anche una notizia che riguarda la società, le tendenze, le mode. È l'inizio della fine della passione, quando non della mania, degli autoritratti scattati, soprattutto con lo smartphone, da soli o in compagnia, meglio se di personaggi celebri. Che spesso si sono prestati volentieri, come Papa Francesco. Parliamo naturalmente degli onnipresenti Selfie, tanto diffusi da aver portato alla coniazione di questo neologismo, che nel 2012 è entrato anche nel dizionarioOxford Dictionary. E c'è spazio anche per l'ironia, come per esempio il selfie della Gioconda (qui sotto). UN INDOTTO NOTEVOLE - Il fenomeno dell'autoritratto, scattato spesso soprattutto per condividerlo sui social network, secondo un esperto di nuovi media è un portato del desiderio di protagonismo nella società dell'immagine, ma anche di una società dove si vive molto in solitudine. E intanto ha generato anche un indotto non indifferente, tra app dedicate a migliorare gli autoscatti, accessori per aumentare le possibilità di riprendersi, perfino corsi universitari, dischi e programmi televisivi ispirati a questa dilagante moda del momento, che in realtà dura da qualche anno, grazie anche alla diffusione degli smartphone. Tra i prodotti più curiosi c'è anche l'asciugacapelli che scatta la 15 foto mentre assolve il suo compito principale. E i poi i Selfie Stick, bastoncini con Bluetooth per prolungare la distanza dell'autoritratto oltre quella del braccio. IL “CORTO” CON KRISTEN DUNST - Ora però qualcuno comincia a essere stufo di questa mania collettiva, a rifiutare di posare per i Slefie: per esempio l'attore Leonardo di Caprio nel giorno del suo compleanno, o l'attrice Kirsten Dunst, che ha realizzato con Mattew Frost un cortometraggio, “Aspirational”, di sensibilizzazione contro la mania degli autoritratti. Nel breve filmato tutto quello che due fans dell'attrice fanno è scattarsi degli autoritratti con lei, ma praticamente ignorandola, per poi, alla sua disponibilità a rispondere alle loro domande, chiedere solo di essere taggate su Facebook. Ecco il filmato. L'ANTI-SELFIE MOVEMENT E ALTRI OPPOSITORI - E sempre in USA è nato un movimento, Anti-Selfie Movement, che ha un proprio sito e naturalmente profili e pagine sui principali social, Twitter, Facebook, YouTube e, trattandosi di fotografia, anche Instagram. E anche un videoclip promozionale, da cui prendiamo la foto di apertura. La proposta dell'Anti-Selfie Movement non è quella più drastica, di rinunciare agli autoritratti (come invece avviene nelle Filippine, dove il governo vorrebbe proibirli, nel Paese dove – a Makati City - se ne scattano di più al mondo per abitante); ma è quella di renderli più originali, truccandosi o mascherandosi in qualche modo, anche con un po' d'ironia. La dichiarazione che troviamo sul sito recita: «È tempo di essere Unselfie» , di finirla, insomma, con la sovraesposizione mediatica, non farsi vedere sempre e da tutti, recuperare un po' di mistero, che ha il suo fascino. E se gli USA per più di un fenomeno sociale hanno fatto da apripista, in questo caso invece sono stati preceduti; e proprio dall'Italia, dove da qualche mese è stata lanciata la campagna#setiselfieticancello, in perfetto stile social. Il logo del sito dell'Anti-Selfie Movement 16 LE STATISTICHE DEL “FENOMENO SELFIE” - Concludiamo con qualche statistica, raccolta per esempio da Il Mattino online. Una l'abbiamo già citata, quella della città col più alto numero di autoritratti pro capite, ed è riferita dal Time; l'altra l'ha raccolta Samsung Italia, e dice che nel nostro Paese si scattano 28 milioni di selfie al giorno; secondo il Pew Research Center americano, oltre il 50% dei ragazzi tra 15 e 35 anni ha scattato e condiviso almeno un selfie. Secondo Selfiecity.net, infine, il 4% delle immagini su Instagram sono autoscatti. Sarà interessante verificare come cambieranno questi dati tra qualche mese. Intanto, negli spazi dei commenti, potete dirci il vostro parere sul “mondo Selfie”, loggandovi al sito. Fonte: Anti-Selfie.com La foto-inflazione che svaluta le parole di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Frederick Sommer è stato una singolare figura di artista-fotografo-filosofo. Nato in Italia, vissuto negli Usa, morto in Brasile. Stravagante, eccentrico, fulminante, attivo negli anni Trenta, ancora di più nei Sessanta. Sulla copertina di un numero diAperture del ’62 riassunse la sua filosofia della fotografia in due versi, i primi due di un suo poema. Dicevano: Words not spent today / Buy smaller images tomorrow Potremmo tradurre così: se non spendi le tue parole oggi, domani potrai comprarci meno immagini. Come David Levi Strauss, che di questi due versi ha fatto il titolo del suo ultimo libro, anche io trovo suggestiva questa idea, diciamo così, valutaria del rapporto fra linguaggio verbale e linguaggio visuale. Come se le parole fossero una cartamoneta il cui valore di scambio ci permette di procurarci un certo valore d’uso in immagini: ma il loro potere d’acquisto è minacciato dall’inflazione. 17 Una metafora curiosa, un po’ contro-intuitiva. Siamo abituati a pensare all’inflazionedelle fotografie, non delle parole, come la vera e più attuale minaccia alla nostra cultura visuale nell’era dei tutti-fotografi e della disseminazione universale delle fotografie. Ma è proprio qui che ha ragione, da profeta, il gran Sommer. Siamo di fronte a una gigantesca sovrapproduzione di immagini, senza dubbio. Ma il vero rischio – se vogliamo restare nella metafora macroeconomica – non è il numero assoluto di fotografie prodotte nel mondo. Rispetto all’era analogica, quella che è aumentata ancora più a dismisura rispetto alla produzione è la circolazione della merce-immagine. La condivisione via Web ha reso improvvisamente disponibili su un mercato planetario un genere di merci che prima, per quanto complessivamente molto cospicuo, era spezzettato e confinato nei mercali localissimi degli album, del giro di amici, delle serate di proiezione domestica di diapositive delle vacanze. La merce oggi improvvisamente resa disponibile a ogni singolo potenziale consumatore diventa smisuratamente superiore non solo alle sue capacità di acquisto, ma alla sua stessa capacità di scelta. La domanda può certo essere aumentare un po’ anch’essa, ma è decisamente anelastica rispetto all’offerta. La fotografia dunque riempie i banchi del mercato, ma resta non solo invenduta, perfino in-veduta. La moneta di parole che abbiamo in tasca non basta più che a comperare una minima parte della merce di immagini che invade la piazza e che fugge alla nostra vista. Milioni di immagini restano senza clienti: ovvero, per loro non ci sono parole che le possano comprare. Milioni di immagini senza controvalore verbale vagano nello spazio delle nostre vite: che ne sarà di loro? Ingombranti, ci travolgeranno come in quella installazione di Erik Kessels? È ora di uscire dalla metafora. Calma, non ci stanno travolgendo, non è in corso una crisi del ’29 in versione iconica. Ma il problema esiste, e ce ne stiamo accorgendo forse un po’ tardi, forse non troppo tardi. Forse allora conviene dare retta al vecchio saggio Sommer e togliere dal forziere un po’ di quelle parole che forse intendevamo risparmiare per semplice tirchieria, o magri per “comprarci” poi qualche bella immagine nel corso della nostra vecchiaia, e spenderle adesso, subito, prima che perdano valore. Il rapporto fra parole e immagini, scrive Levi Strauss in questo libro (la cui limpida introduzione di tre pagine vale forse l’intero volume, una raccolta di saggi non tutti memorabili), è un rappoorto “intrinsecamente polemico, perché parole e immagibni sono antagoniste. Le parole chiedono alle immagini di illustrarle, le immagini chiedono alle parole di cobntestualizzarle, entrambe sono legate una all’altra in una lotta che si rinnova ogni volta che appaiono assieme”. Ma quel rapporto di eterno odio-amore è anche la fonte della forza reciproca che le due antagoniste si danno. Anche se il rapporto non è poi così simmetrico. Entrambe vorrebbero fare a meno una dell’altra. Ma avverte Aristotele: “anche quando si pensa speculativamente è necessario avere immagini con cui pensare”. Viceversa, senza parole le immagini trasmettono messaggi polisemici, labili, ambigui. A volte è la loro forza: ma solo quando ci costringono a cercare da noi le parole mancanti. Il mestiere del fotoreporter, come la missione dell’artista, è sostanzialmente produrre immagini di questo tipo. 18 Ma le immagini sempre più afasiche che irrompono nei circuiti della condivisione, accompagnate da piccoli vaghi hashtag, appesi all’ironia di una parolina elittica, cercano parole che rischiano di non trovare. Le abbiamo nel portafogli, quelle parole. Non siamo tirchi. Spendiamole. Altrimenti, presto, saranno carta straccia. Tag: Aperture, David Levi Strauss, fotografia, Frederick Sommer Scritto in fotografia e società, Immagine e Internet, massificazione ‘I cortili sono nostri’, la fotografia è bambina di Leonello Bertolucci da http://www.ilfattoquotidiano.it/ Se la fotografia ha un carattere – carattere come lo intendiamo negli umani – forse assomiglia a quello di una bambina. Su questo filo si snodano le considerazioni qui sotto, che originariamente ho scritto come introduzione ad una mostra (visibile dal 6 ottobre) di otto studenti dell’Istituto Italiano di Fotografia, impegnati a raccontare visivamente la “restituzione” dei cortili condominiali di Milano ai bambini per i loro giochi, cosa che da anni non avveniva per via di rigidi regolamenti. Dunque la fotografia è bambina perché… Dalla mostra "I cortili sono nostri" (foto © Alvise Crovato) La fotografia è bambina, lo è per molte ragioni, ma non sempre ne è consapevole essendo, per l’appunto, bambina. La fotografia è bambina perché il suo carburante è la curiosità. È bambina, poi, perché la fotografia è anche un grande gioco, e quando i bambini giocano prendono il gioco molto seriamente. E che meraviglioso giocattolo è la macchina fotografica! Anche per età è bambina la fotografia: nata ieri tra le forme espressive, ha meno di duecento anni. Come una bambina, a tratti è impertinente e dà del tu a tutti, a tratti è timida e si nasconde. La fotografia, che da grande sarà grande, da bambina è cocciuta e solo così non mollerà tra mille difficoltà. Pubblicità La fotografia è bambina per mostrare agli adulti cose che gli adulti non vedono più. Dei bambini è la capacità di stupirsi, di meravigliarsi, di dire cose 19 “scorrette”, di vedere l’invisibile, di sognare a occhi aperti e intuire anche a occhi chiusi. Come la fotografia. Mettete una fotografia davanti agli occhi di un bambino e fatevi dire cosa vede: scoprirete mondi. I nostri autori Alvise, Camilla, Federica, Giulia, Jessica, Micol, Stefania e Virginia hanno avuto una bella fortuna, almeno per un po’: la possibilità di tornare bambini. Aggiusto il tiro: non la possibilità, ma la necessità. Per potersi permettere il lusso di fotografare i bambini facendolo nel modo giusto, occorre sintonizzarsi a tal punto sulle loro vibrazioni vitali da… diventare come loro, diventare loro. Empatia che arriva a una forma di transfert, occhi di bambini al mirino. La verifica è relativamente semplice: nelle fotografie che gli studenti dell’Istituto Italiano di Fotografia hanno saputo regalarci in questa immersione nei cortili milanesi “riconquistati”, non si percepisce alcun diaframma a separare fotografi e fotografati. In definitiva i fotografi, sotto il sole di quei cortili, in quella sete di acqua fresca e di vita, hanno ritrovato in qualche misura se stessi. Il fotografo, caratterialmente, è sempre qualcuno che cerca se stesso, e la fotografia è stata paragonata a una strana forma di seduta psicoanalitica. C’è chi si cerca fotograficamente guardandosi dentro, chi guardando fuori verso gli altri; non a caso John Szarkowski (mitico direttore del dipartimento di fotografia del MoMA) parlò, in proposito, di fotografi-specchio e fotografifinestra. Il lavoro sui cortili qui presentato, in questo senso, fa forse qualcosa di raro: riunisce specchi e finestre. La fotografia è bambina, ma per quanto tale resterà? Perché Shiva è più potente della fotografia di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Nella Sala delle mille colonne del tempio di Meenakshi- 20 Sundareshwara, a Madurai, gli dei dell’innumerevole pantheon indu danzano prigionieri in teche di vetro, ciascuno identificato, schedato e spiegato da apposita etichetta, con titolo, datazione, fattura. Sono diventati statue da museo,ormai: sono “opere d’arte” destinate solo ad essere ammirate dai turisti. Ma la devozione popolare non s’è arresa. In qualche modo i visitatori-adoratori trovano il modo di forzare qualche fessura delle scatole trasparenti per depositare ai piedi dei bronzi una monetina, un biglietto da visita, un “santino” con una piccola preghiera, un petalo di loto, una fototessera come saluto, o come ex-voto. Ho ammirato la potenza di quelle immagini. La loro resistenza al sequestro e alla deportazione del senso, alla museificazione che ha cercato di trasformarle in ciò che non erano, e di negare quel che erano. Ho ripensato a loro leggendo l’ultimo saggio di Claudio Marra. Che non parla affatto di statuaria indu, ovviamente. Ma parla di Fotografia e arti visive. Di come la fotografia è, o diventa, o talvolta viene costretta (dico io) a diventare arte. Stimo molto Marra, condivido gran parte del suo approccio al fotografico, condivido ad esempio la sua battaglia, abbastanza solitaria, contro gli apologeti della “morte della fotografia” per inguaribile morbo digitale, condivido fortemente la sua convinzione che la fotografia sia una immagine del tutto sui generis, in virtù del suo essere, tecnicamente e per definizione, una traccia della realtà fisica, condivido il suo fastidio per le storie troppo autarchiche della fotografia. Magari a volte non userei le sue stesse parole. Per esempio, Marra rimprovera da tempo, e io sono con lui, chi di fronte a una fotografia non vuole andare oltre l’analisi dei valori formali, puramente visivi, perché non capisce che il valore di qualsiasi fotografia va oltre il percepibile ottico, e coinvolge “l’idea della traccia, della presenza in assenza, della memoria, della temporalità manipolata”. Proprio come, per i fedeli indu, le statue di Madurai sono qualcosa di diverso da eccellenti manufatti di bronzo, molte delle fotografie che fanno parte della nostra vita, per esempio le foto dei nostri figli che portiamo nel portafogli, non le guardiamo come opere grafiche più o meno riuscite, ma come dispositivi che mettono in moto le nostre relazioni con il mondo. E io sono d’accordissimo, salvo che Marra chiama tutto questo “dimensioneconcettuale della fotografia”, e quel concettuale per me è un po’ fuorviante, rischia di confondersi con il concettuale come pratica artistica contemporanea, che è altra cosa. Io preferisco definire quel carattere ineliminabile come “dimensione relazionale della fotografia”, perché dipende dalla relazione che l’osservatore cerca, attraverso la fotografia, con qualcosa che nella fotografia non si vede, che la supera, perché rimanda a cose o persone o idee che una fotografia evoca o coinvolge. Ma a parte la scelta delle parole, la sua visione del fotografico è anche la mia. Proprio per questo mi sento di fare qualche precisazione su un’altra battaglia intellettuale di Marra. Cioè la sua critica a chi contesta l’appartenenza della fotografia al campo delle arti visive. Resistenza che ha padri illustri, fotografi celebri del passato e di oggi, che per Marra sono eccessivamente spaventati dal timore di perdere l’autonomia e la specificità del linguaggio fotografico, e di vedersi assegnato un ruolo di “sudditanza” della fotografia nel mondo dell’arte. Tranquilli, li rassicura, non siamo più nell’Ottocento, la fotografia ormai è forte, semmai è l’arte che è diventata debole. 21 Si chiede dunque Marra, e la sua domanda è ovviamente retorica: ”Qual è il problema se si cerca di riportare la fotografia che esibisce pretese estetiche, e che in questo senso chiede di essere considerata, nel sistema dell’arte?” Nessun problema, è la mia risposta. Ma solo perché c’è quel sacrosanto inciso (il corsivo è mio), che ritengo dirimente. Può essere proposta come arte (se ne ha i numeri), senza essere stravolta nelle sue intenzioni, solo quella fotografia che vuole essere considerata arte. Detta così, certo, sembra una banalità. Ma non lo è, perché il sistema-arte (ci metto dentro tutto, galleristi, critici, curatori, direttori di musei, riviste, assessori alla cultura, giornalisti specializzati, editori…) cerca invece continuamente di annettere al proprio dominio, non sempre solo culturale, molte altre fotografie, anche quelle che non voglionoessere arte. Le fotografie familiari, quelle di moda, il fotogiornalismo, la fotografia scientifica… L’appiglio, il pretesto per questa appropriazione indebita, sta nella “pretesa estetica” citata nella prima parte della frase, che rischia di essere il cavallo di Troia che svuota la clausola dell’inciso successivo. Mi spiego. Un serio fotoreporter di solito non vuole che le sue foto siano arte, vuole che siano buon giornalismo. Ma spesso le sue foto sono giudicate “belle”, e dopo tutto lui stesso si sforza di renderle efficaci anche formalmente, quindi ci mette una certa “pretesa estetica”, e dunque tac!, volente o nolente l’autore, il sistema-arte alla fine se le prende e le mette nei musei. Ora, sia chiaro, non esistono oggetti fatti dall’uomo che non abbiano un’estetica. Quello che Marra chiama il “grado zero” dell’estetica fotografica può essere solo un certo grado (minimo, mai nullo) di astensione dell’autore dall’imporre proprie connotazioni estetiche: per lasciare però che la fotocamera, oggetto capace di creare forme strutturate, imponga le sue. Dunque ogni fotografia ha un’estetica. E basta questo al sistema-arte (sulla base di una scorrettissima identificazione estetico=artistico) per appropriarsi di qualsiasi immagine. Se poi la “pretesa estetica” di una foto appare un po’ esile, se la fotografia da acquisire sembra un po’ troppo “automatica, frontale, oggettiva, seriale”, allora si chiama in servizio il povero Duchamp, che nella vita fece tantissime altre cose ma ormai è inchiodato come un Cristo ai suoi ready-made. In particolare al suo troppo famoso e spesso mal compreso orinatoio (Fontana, 1917) Che di solito serve per per dire, molto banalmente: da quando anche un orinatoio è entrato in un museo, tutto può andarci a finire. Ed essendo qualsiasi fotografia ritenuta per natura un ready-made, un objet trouvé, ogni fotografia è considerata già in parenza arte. Ma no, proprio no. Duchamp non si è mai sognato, neppure in quella sua infatuazione così celebre per pisciatoi, scolabottiglie e ruote di bicicletta, che i suoi ready-made fossero “esibizione diretta dell’oggetto, epifania assoluta del reale priva di qualsiasi intervento manuale”. Propro no. Erano oggetti estratti ed astratti, decostruiti dal loro uso primario e ricostruiti come arte. Il pisciatoio, per esempio. Era pieno di interventi manuali. Era stato firmato. Era stato deposto orizzontalmente, in modo incongruo con la sua funzione. Era stato issato su un piedistallo, almeno così lo vediamo nell’unica foto che ci rimane dell’originale, presa da Alfred Stieglitz che lo aveva esposto nella sua galleria dopo la censura. Era dunque un oggetto riformattato, non semplicemente ricollocato da una funzione d’uso a una contemplativa, ma sottoposto a una serie di passaggi manipolativi che ne abolivano le funzioni originarie (provate voi a usare una copia della Fontana di Duchamp quando la incontrate in qualche museo, e 22 vedete cosa vi fa la security…) per assegnargliene una del tutto nuova che ne cambia la natura di oggetto. E questo è precisamente quel che accade a quelle fotografie che, pur non avendo alcuna “volontà d’arte”, vengono prelevate e trascinate a via forza nel sistema dell’arte. Cambiano natura e intenzione. Non sono più quello che erano, diventano opere nuove, diverse, derivate. Ora, io non ho nulla contro l’appropriazione come strategia artistica postmoderna. Ma Sherrie Levine o Richard Prince, come Duchamp del resto, rivendicano e firmano la loro come un’opera nuova, non come un semplice prelievo-trasferimento. Io andrei oltre, e dico che anche una foto di Capa deviata dalla sua destinazione originaria (per esempio, rotocalco di informazione) e trasferita a un museo di arte contempoanea non è più una foto di Capa ma una sua rielaborazione concettuale di cui è pienamente autore-artista il curatore dell’esposizione. E allora, bisogna essere molto chiari e rigorosi quando si battezza “arte” la fotografia non nata per essere arte. Bisogna che sia chiaro che una fotografia nata per altri scopi e poi appesa in un museo d’arte è stata impoverita di molti dei suoi significati primari ericaricata con altri (del resto, è quel che accade anche a cristi e santi dipinti, cacciati dai loro altari e deportati nel white cube di un museo moderno di arte antica…). Sarebbe bello che questo rivolgimento di senso (che può essere sicuramente felice, profondo, interessante) fosse esplicitato in quache modo al visitatore (bisognerebbe che i visitatori de museo lo sapessero già da soli – ma la nostra educazione visuale, come abbiamo già scritto, va proprio nel senso opposto). Perché le fotografie non sono forti e resistenti come gli dèi indu di bronzo, che anche nelle gabbie di vetro continuano a impartire benedizioni e conforto, come erano stati creati per fare. Scattate fotografie orribili senza saperlo. Vi stanno ingannando… di Roberto Cotroneo da http://instagram.com/roberto_cotroneo 23 Sta accadendo qualcosa di impressionante, ma nessuno se ne rende conto. Sta accadendo che tutti hanno scambiato le fotocamere dei loro cellulari in macchine fotografiche vere. Con abili campagne pubblicitarie i produttori di smartphone magnificano le doti delle applicazioni digitali e degli obiettivi dei telefonini. Parlano di pixel, aggiungono stabilizzatori, citano l’alta definizione. Gli utenti leggono, provano, e ne sono felici. In effetti le foto scattate dai Galaxy e dagli iPhone sembrano incredibili. Le applicazioni digitali permettono di correggere, saturano i colori, aumentano persino la nitidezza. Quelle foto finiscono sui social, e finiscono su Instagram. Con i filtri. Con i colori saturi, con le ombre schiarite. Con goffi tentativi di post-produzione fotografica che assomiglia a certa chirurgia estetica. I seni debordanti e innaturali dei chirughi, gli zigomi che tracciano angoli vertiginosi sono identici a quei cieli rossi come non se ne sono mai visti, quei contrasti con le nuvole in rilievo, quell’azzurro degli occhi che la vostra fidanzata fino a quel momento aveva soltanto sognato. Quella nitidezza che persino la marca del rossetto riesci a leggere. E poi mari e fiumi che sembrano scannerizzati, volti indimenticabili senza un filo di grana, o di rumore, come si dice oggi per la fotografia digitale. Sta accadendo il disastro culturale e concettuale per cui le foto non sono più normali, l’uso della postproduzione è una pacchianata gigantesca, la bellezza di una foto non sta più nella capacità imperfetta di riportare un punto di vista, e non è più in un movimento accennato, nella fatica di entrare nell’inquadratura con consapevolezza, ma è nel pacchiano che ha la sua ragione: in un uso sommato di grandangoli estremi e di colori saturi. Perché gli smartphone, prima di permettere il rosso saturo, permettono il supergrandangolo, un modo di vedere affascinante in qualche caso, ma assolutamente innaturale. Gli obiettivi degli smartphone, si fa per dire, sono dei grandangoli esagerati, l’assenza del mirino permette di scattare in posizioni impossibili. Il risultato è semplicemente uno: inquadrature apparentemente sorprendenti, e nessuna dimestichezza con le aberrazioni ottiche che sono presenti. Per cui tutto è in primo piano, niente è fuori fuoco, e colori impossibili, e punti di vista che sembrano spettacolari. Ritratti che imbruttiscono quasi sempre. Ma soprattutto modifiche che fanno pena. Oltre ai cursori che ti permettono di alterare cromatismi, ombre, bilanciamento del bianco e vignettature, ci sono i soliti filtri, molto divertenti, che riproducono sostanzialmente i limiti di pellicole anni Sessanta e Settanta, che danno alla foto un’aria vintage, ma che sono delle maschere grottesche che vanno di pari passo con colori finti e punti di vista esagerati. Sabato scorso sono andato a vedere la mostra romana su Henry Cartier Bresson. E mi accorgevo di due cose. La sua impressionante capacità di comporre la foto nella sua naturalezza. Il limite ottico e cromatico delle sue foto. Le due cose erano la sua bellezza, la sua vera grandezza. La bellezza non è mai perfetta, ed è per questo che non è mai innaturale. Forse era inevitabile che la fotografia finisse sul tavolo operatorio del lifting cromatico e compositivo, ma non fino a questo punto. Stiamo formando generazioni che non sanno cosa sia il mondo, ma soprattutto non sanno guardare. E non sanno neppure quando la correzione fotografica deve fermarsi. Ma sopratuttto stiamo illudendo tutti. Le foto degli smartphone, di qualunque smartphone, sono instampabili. Le correzioni illudono perché le si guarda in un piccolissimo schermo illuminato e nitido. E le correzioni si possono ammirare, senza avere una sensazione sgradevole, perché le foto si vedono in un formato che varia 24 dal cm 5×7 a una massimo, quando va davvero bene, di un 10×15. Come si fosse ancora agli albori della fotografia, più di un secolo fa. Oltre quel formato sarebbero orribili. La possibilità di non rispettare la luce vera e scattare sempre, aumenta in automatico gli iso degli smarphone, ovvero la sensibilità, quella che un tempo era chiamata: la grana. Tutto si fa vagamente indefinito, e decisamente brutto. Le correzioni migliorano le foto se le vedete nei dispositivi, ma peggiorano moltissimo se decidete di stampare. Milioni di persone ormai da qualche anno consegnano, vite intere, ricordi e bellezza a sistemi che scattano foto orrende, che non restano perché si possono guardare solo come fossero a un microscopio. Sappiatelo. Smettete, usate macchine fotografiche vere. Anche digitali. Ma non illudetevi. E soprattutto. Lasciate ai tramonti i colori che gli spettano. E guardate meglio cosa sapeva inventarsi Cartier Bresson con una vecchia Leica e una pellicola in bianco e nero. Tag: Alfred Stieglitz, Claudio Marra, indu, Madurai, Marcel Duchamp, Meenakshi-Sundareshwara,objet trouvé, ready-made Scritto in arte, Autori, cultura visuale, estetica | Commenti » DEAPHOTOEXPO 2014 Comunicato Stampa DEAPHOTOEXPO 2014 Mostre fotografiche. Proiezioni Multimedia 8-29 Novembre 2014 Inaugurazione Sabato 8 Novembre ore 11-13 VILLA BANDINI / SALA PARADISO Via di Ripoli 118 / Via del Paradiso, 5 - Firenze Orario : lunedì 14.00-19.00 / da martedì a venerdì 9.00-19.00 sabato: 9.00 - 13.00 - bibliotecavillabandini@comune.fi.it Si apre Sabato 8 Novembre alle ore 11, presso la Sala Paradiso di Villa Bandini (Via di Ripoli 118 / Via del Paradiso 5) a Firenze, Deaphotoexpo 2014, con l’Inaugurazione delle Mostre Fotoprogetti 2014 degli Studenti del Corso di Progettazione fotografica 2913-2014 e Personal Projects degli Studenti del Corso di Stampa bn fine art. Durante l’inaugurazione saranno presentati i Fotografi e i Progetti delle due Mostre e saranno proiettati i Multimedia fotografici dei Workshop realizzati da Deaphoto durante la scorsa stagione didattica (La mia storia a cura di Rosa Maria Puglisi, Autoritratto a cura di Francesca Della Toffola e Fotografia di Scena a cura di Laura Ferrari). La mostra realizzata in collaborazione con il Quartiere 3 del Comune di Firenze resterà aperta fino al 29 Novembre nei normali orari di apertura. Programma della Inaugurazione Ore 11 Apertura delle Mostre FOTOPROGETTI 2014 Mostra finale degli Studenti del Corso di Progettazione fotografica 2013/2014 Elisa Modesti > The show must go on Giovanni Masi > Ritrarsi senza ritirarsi Antonella Tomassi > 18 ore PERSONAL PROJECTS Mostra degli studenti del Corso di Stampa bn fine art (da negativo) 2013/2014 Rino Gazzarrini (foto) e Giulia Sgherri (stampa e colorazione) > Viaggio di Nozze 1954/2014 (stampe su carta chimica baritata bn / virate al tè e colorate con acquerelli) Niccolò Vonci > Paesaggi intorno casa (stampe su carta chimica baritata bn / sviluppate a pennello e virate alla curcuma) Proiezione di Multimedia fotografici dei Workshop 2013-2014 25 La mia storia/ Creazione di un Diario fotografico esperienziale Multimedia del Workshop Deaphoto a cura di Rosa Maria Puglisi. Fotografie di: Alessandro Comandini, Diego Cicionesi, Giovanni de Leo, Giovanni Masi, Sofia Bucci Autoritratto / essere e/o non essere Multimedia fotografico del Workshop Deaphoto a cura di Francesca Della Toffola Fotografie di Alessandro Comandini, Giovanni Masi, Francesco Lucherini Fotografia di Scena Multimedia del Workshop a cura di Laura Ferrari Fotografie di Luigi Maestrelli, Luca Turini, Simone Cecchi Ore 12 Presentazione degli autori ASSOCIAZIONE CULTURALE DEAPHOTO / Didattica e progettazione fotografica Via G.A. Dosio 84/2 - 50142 Firenze –- Cell. 3388572459 www.deaphoto.it - deaphoto@tin.t Con solo un geranio e un balcone di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Fotografare, cito a memoria dai versetti dell’evangelista Susan Sontag, è attribuire importanza alla cosa fotografata. Non sono sicuro che il principio sia valido per tutte le fotografie e per tutte le epoche. Sicuramente valeva per la fotografia familiare, almeno quella dell’era pre-Web. Papà, l’iconografo ufficiale della famiglia (mamma invece ne era l’archivista) non fotografava tutti gli eventi della vita propria e dei suoi cari (come era tentato di fare l’ormai paranoide Antonino Paraggi di Italo Calvino). La selezione dei momenti degni di essere archiviati nell’album, memoria visiva esterna del nucleo familiare, era assai severa, e comprendeva appunto solo i momenti dotati per principio di un valore “costituente” degli affetti e delle relazioni. Vale a dire, i momenti clou che rafforzavano i legami (il compleanno, la vacanza al mare, il battesimo del nuovo arrivato, le “prime volte” – bagnetto, scuola…) e non certo quelli che li mettevano alla prova (la sgridata per una brutta pagella, la morte della nonna…). Le fotografie, peraltro, erano dispendiose: comprati a pacchetti, il costo marginale di ogni singolo scatto era discretamente alto. Il budget medio annuo di una famiglia foto/genica, in termini di sviluppo e stampa e accessori (album, 26 angolini adesivi…) poteva anche superare il costo della fotocamera. Non si poteva scialare, bisognava selezionare. Ma c’era in epoca analogica un’altra circostanza del tutto tecnica che poteva al contrario forzare l’economia domestica dello scatto e produrre immagini anomale, divaganti, in libertà. Quella circostanza era per l’appunto la pezzatura fissa dei rullini: 24 o più sovente 36 pose. Mi ci ha fatto pensare un amico, Pierpaolo Ascari, giornalista e studioso. Frugando nei cassetti parentali, ha notato la curiosa ricorrenza, nelle ultime pagine degli orridi albumini a tasche trasparenti, di un vero e proprio sottogenere del ritratto familiare: la fotografia sul balcone di casa. (Flashback inevitabile: i versi di una canzone di Paolo Conte, Una giornata al mare, prestata all’Equipe 84: “Nelle ombre di un sogno / forse in una fotografia / lontani dal mare / con solo un geranio e un balcone”…) Ritratti incongrui, fatti un po’ di sguincio, in fretta, magari di spalle, col modello palesemente insofferente (“papàaaaa, lasciami finire la merenda…”). Fotografie anti-climax, foto di momenti insignificanti, anzi artificiosi, assolutamente anomale rispetto al modello della “foto che attribuisce importanza”. Parlandone in un suo piccolo intelligente amarcord su Facebook, Pierpaolo ha centrato l’interpretazione giusta: [...] i rullini da terminare diventavano sempre un problema, e per vedere cosa imprigionassero bisognava armarsi di una disciplina militare. Ecco il motivo di tutte quelle foto scattate in balcone, dovevamo liberare degli ostaggi, prendere accordi con il fotografo e riportare i nostri ragazzi a casa. E già. Quelle erano le foto scattate per “finire il rullino”. E poter portare così, finalmente, dal fotografo all’angolo, la pellicola impressionata con le cose “importanti”, che giacevano in stato di immagine latente dentro la fotocamera, magari da mesi e mesi, invisibili, inutilizzabili, reclamate a gran voce dai familiari ansiosi di vedere finalmente stampate le foto “ostaggio” del rullino, dov’erano rimaste bloccate perché in numero dispari rispetto alla scansione implacabile del ritmo 36. Per liberarle, dunque, per darle alla luce, si scattavano queste fotografie di rango minore, fotografie “cadette”, fotografie a bassa intensità significante. Certo, si poteva anche portare in bottega il rullino incompleto, con qualche frame ancora vergine, ma qui insorgeva lo scrupolo parsimonioso del pater familias (perché sprecare? Ci sono ancora tre o quattro pose, usiamole…). 27 Bene: all’apparenza banali, queste fotografie supplementari, sovrabbondanti, residuali, sconvolgono in realtà l’ideologia della fotografia familiare, la sua economia. Non preservano alcun momento cardinedella vita comune. Forse preservano invece i momenti “bassi”? Quelli quotidiani? Neppure questo. Sono fotografie del tutto eventuali, artificiose, non raccontano veri frammenti di vita vissuta, non documentano certo, per dire, la funzione del balcone nella vita familiare, sono fatte in balcone solo perché lì “c’è più luce”, per non stare a uscire di casa. Foto superflue? Non credo. Almeno, non a riguardarle adesso. Scrive ancora il mio acuto amico: Adesso però credo che la nostra sia una collezione unica al mondo, non tanto o non solo perché di foto sui balconi degli altri ne abbiamo autorizzate pochissime, ma in virtù della casualità che ha ispirato l’impresa. Ci siamo tutti e quattro, ripetutamente, qualche nonna e un cane che senza un motivo diverso dalla straordinaria capienza dei rullini sorridiamo all’obiettivo in una ricchissima successione di acconciature, indumenti, epoche storiche, stagioni della vita e momenti dell’anno. Sempre lì su quel balcone, quello o il balcone della casa vecchia, dove finivamo soprattutto per il timore che rimanendo all’interno della cucina o della sala ci saremmo fatti fregare dalla luce, secondo me. Oppure no, per scattare una foto può anche darsi che sentissimo il bisogno di essere da qualche parte, di una cornice minimamente più inconsueta che la rendesse legittima. Tendo a pensare che il vero contenuto di queste fotografie sia la fotografia stessa. Una costrizione puramente tecnica ne determinava l’esistenza, la qualità e la quantità. Sono fotografie che esistono unicamente in virtù di un protocollo tecnico tipico dell’era analogica: oggi queste fotografie di complemento, semi-intenzionali, ovviamente non avrebbero senso. Sto dicendo che oggi tutte le fotografie familiari sono pienamente significanti? No, al contrario. Forse oggi tutte le fotografie familiari, private, “conversazionali”, liberate dalla tirannia del contenitore a capienza fissa, dotate di un costo marginale minimo, sono diventate in/significanti come le fotografie sul balcone. La preziosa collezione di Pierpaolo mi sembra una profezia folgorante delle neo-foto: immagini leggere, non necessarie, quasi preterintenzionali, liminari, marginali, magari inutili, comunque sovrabbondanti, a fondo perduto, eppure imposte dal sistema della fotografia, una costrizione meno visibile di un rullno, ma molto molto più potente. Tag: Antonino Paraggi, Equipe 84, fotografia familiare, fotografia privata, Italo Calvino, Paolo Conte,Pierpaolo Ascari, rullini, Susan Sontag Scritto in fotografie private, ritratto, vernacolare | Commenti » Tadeusz Rolke Comunicato stampa da http://undo.net/it F O ND AZ IO NE P A S TIF ICI O CERERE, RO MA In Polonia per saziare l'amore. Secondo appuntamento del progetto 'In Polonia, cioe' dove?'. La mostra presenta il f otografo Rolke, il quale ha documentato i retroscena del contesto artistico polacco negli anni Sessanta e Settanta. 28 Tadeusz Rolke, "Joseph Beuys", Dusseldorf, 1971, Copyright Agnecja Gazeta Nell’ambito di In Polonia, cioè dove? – progetto dedicato all’approfondimento della scena artistica contemporanea in Polonia – l’Istituto Polacco di Roma e la Fondazione Pastificio Cerere presentano la mostra In Polonia per saziare l'amore, a cura di Ilaria Gianni e Luca Lo Pinto, dal 25 settembre al 28 novembre 2014 presso gli spazi della Fondazione. La mostra è il secondo appuntamento del progetto In Polonia, cioè dove?, ideato da Ania Jagiello, responsabile del programma d’arte contemporanea dell’Istituto Polacco, e da Marcello Smarrelli, direttore artistico della Fondazione Pastificio Cerere. In Polonia per saziare l'amore si sviluppa in tre episodi che comprendono ciascuno una mostra e una conferenza introduttiva. Il progetto, realizzato in collaborazione con il MOCAK, Museo d’Arte Contemporanea di Cracovia, intende approfondire lo scenario del concettualismo polacco e le sue influenze sugli artisti delle generazioni successive, partendo dall'artista concettuale Edward Krasiński (Luck, 1925 – Varsavia, 2004), passando per un ritratto degli anni Sessanta e Settanta attraverso le immagini del fotografo Tadeusz Rolke (Varsavia, 1929), per concludersi con la prima presentazione i taliana di Krzysztof Niemczyk (Varsavia, 1938 – Cracovia, 1994), pittore autodidatta, musicista, leggendario personaggio tra gli artisti polacchi. Episodio 2 - Tadeusz Rolke Dal 22 al 30 ottobre 2014 saranno presentate le fotografie di Tadeusz Rolke, il quale ha documentato i retroscena del contesto artistico polacco negli anni Sessanta e Settanta. Negli scatti dell'artista, azioni, 29 happening e personaggi sono ritratti attraverso originale e un punto di vista privilegiato. una composizione Mercoledì 22 ottobre alle ore 18.30, l’articolato lavoro di Rolke sarà presentato da Robert Jarosz, responsabile dell'archivio del Museo d'Arte Moderna di Varsavia, attraverso una conferenza che indaga il ruolo attivo dell’artista nella storia culturale polacca del XX se colo. Le foto rimarranno in mostra fino al 30 ottobre 2014. Episodio 2 - Tadeusz Rolke Tadeusz Rolke (Varsavia, 1929) è un fotografo il cui archivio costituisce una ricca documentazione di sessant'anni di storia polacca ed europea. Ha fotografato Varsavia nella rovina e nella sua resurrezione, le manifestazioni di dissenso verso il regime comunista, i cambiamenti dopo il 1989, oltre ad essere stato anche un maestro della fotografia di moda. Ha avuto un ruolo determinante nel contesto artistico polacco e tedesco negli anni post-bellici, documentando molti degli happening del movimento della neoavanguardia e specializzandosi nella realizzazione di reportage su artisti e opere per riviste d'arte. Il suo lavoro è stato pubblicato in varie raccolte ed esposto in diverse mostre. Attualmente è professore al dipartimento di giornalismo dell'Università di Varsavia e co-fondatore della casa editrice edition.fotoTAPETA. Robert Jarosz (1966) è ricercatore, editore e fondatore dell’archivio privato TRASA WZ, dedicato alla cultura popolare degli anni 1956-1989. È curatore del progetto Archivio degli Artisti che, gestito dal Museo d'Arte Moderna di Varsavia, raccoglie oltre 4000 immagini di fotografi polacchi illustri, tra i quali Tadeusz Rolke, co -curatore della mostra permanente al Museo del Rock Polacco di Jarocin. È inoltre autore, insieme a Michal Wasaznik, del libro Generazione, che racconta l’evoluzione delle identità culturali underground e alternative in Polonia. Jarosz è autore di diversi saggi sulla scena punk e reggae di Varsavia della prima metà degli anni Ottanta, in rapporto alla storia politica e culturale nazionale e internazionale dell’epoca. Istituto Polacco di Roma: Ania Jagiello, +39 06 36 00 46 41 / +39 06 36 00 07 23, a.jagiello@instytutpolski.org UFFICIO STAMPA Ludovica Solari | +39 335 577 17 37 | press@ludovicasolari.com Chiara Valentini | +39 348 921 44 56 | chiara@chiaravalentini.org Inaugurazione 22 ottobre alle 18.30 -Fondazione Pastificio Cerere,via degli Ausoni, 7Roma Lazio Italia - Orari: lunedì – venerdì 15.00-19.00, sabato 16.00-20.00 Ingresso libero Da Capa a Cartier-Bresson, la nascita di Magnum di Nicoletta Castagni da www.ansa.it La nascita della Magnum Photos, la più celebre agenzia fotografica del mondo, è di scena dal 31 ottobre all'8 febbraio a Cremona, negli spazi del nuovo Museo del Violino. Esposti 110 scatti dei fondatori Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, 30 George Rodger e David Seymour, che si erano geograficamente divisi il mondo per andare a realizzare i loro straordinari reportage. Intitolata 'La nascita di Magnum Robert Capa Henri Cartier-Bresson George Rodger David Seymour', l'importante rassegna organizzata da Magnum Photos, Unomedia e Sgp Eventi, è stata curata da Marco Minuz, che è riuscito a mettere insieme per la prima volta gli scatti realizzati nell'immediato dopoguerra in Medio Oriente e Africa, America e Oriente dai quattro fotografi che come nessun altro hanno saputo raccontare un'epoca. Un risultato che del resto era già nelle loro intenzioni. Il 22 maggio del 1947, dopo alcune riunioni presso il ristorante del Moma di New York, viene infatti iscritta al registro delle attività americane la 'Magnum Photos Inc', nome che prendeva spunto dalla bottiglia di champagne. A firmare erano Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, George Rodger, David Seymour e William Vandivert, che insieme riuscirono a concretizzare la lunga riflessione avviata proprio da Capa durante la guerra civile spagnola e condivisa in seguito con molti colleghi impegnati come lui a raccontare la storia e la società in evoluzione nel cuore del '900. Il progetto si fondava sulla tutela del lavoro del fotografo e sul rispetto degli associati diritti fotografici. Attraverso la formula della cooperativa, i fotografi diventavano proprietari del loro lavoro, prendevano decisioni collettivamente, proponevano autonomamente alle testate i propri lavori per non rimanere assoggettati alle esigenze editoriali delle riviste, e rimanevano proprietari dei negativi, garantendo così un pieno controllo sulla diffusione delle immagini e dei testi delle didascalie associate alle foto, nonché al perentorio divieto di manipolazione. Con questi presupposti, e con la qualità del lavoro dei suoi soci, Magnum è in breve tempo diventata un riferimento imprescindibile nel mondo del fotogiornalismo. Fin dagli esordi, viene quindi prevista, per ogni fotografo, una suddivisione geografica dove operare: Henri Cartier-Bresson in Oriente, David Seymour in Europa, William Vandivert in America, George Rodger in Medio Oriente e Africa, mentre Robert Capa ha piena libertà d'azione nel mondo. Ed è con questo autore che si apre il percorso espositivo della mostra cremonese, con una sezione incentrata al lavoro di Robert Capa prima della fondazione di Magnum: dalle immagini celeberrime della guerra civile spagnola a quelle del conflitto fra Cina e Giappone e della seconda guerra mondiale. A seguire, quattro selezioni legate ai primi reportage realizzati di Rodger, CartierBresson, Seymour e dallo stesso Capa per Magnum. Suo è quello dedicato alla nascita dello stato di Israele con una particolare attenzione ai campi di rifugiati, mentre il reportage di George Rodger è dedicato alla tribù dei Nubas in Sudan. Se l'obiettivo di Henri Cartier-Bresson racconta l'India a una svolta cruciale con le ultime fotografie scattate a Gandhi prima che fosse assassinato nel gennaio del 1948, quello di David Seymour si sofferma sulle conseguenze del secondo conflitto mondiale in Europa, con una particolare attenzione al dramma degli orfani di guerra. Il reportage di George Rodger è infine dedicato alla tribù dei Nubas in Sudan. ''Questo progetto espositivo reso possibile grazie ad una forte partnership con Magnum, 31 permetterà al visitatore di comprendere un passaggio fondamentale della storia del fotogiornalismo che è rappresentato dalla nascita di Magnum sottolinea Muniz - Per la prima volta questi reportage vengono confrontanti assieme permettendo di cogliere le straordinarie personalità di questi fotografi, ma al contempo riflettere sul ruolo del fotogiornalismo nel mondo dell'informazione''. RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright AN Franco Fontana, l'eretico della fotografia da http://www.ansa.it/ Dal 15 ottobre a Roma in 130 scatti la sua lunga carriera Uno scatto di Franco Fontana (ANSA) - ROMA - "Ho scelto il colore quando tutti fotografavano in bianco e nero, i paesaggi e le citta' invece dei reportage di carattere politico o sociale. Sono stato sempre un eretico". Franco Fontana, tra i protagonisti della fotografia italiana (e non solo), a quasi 81 anni (splendidamente portati) non perde il suo piglio schietto e diretto mentre presenta la tappa romana della mostra itinerante 'Franco Fontana full color', a Palazzo Incontro da domani all'11 gennaio. Esposte tutte le serie piu' famose del maestro modenese, dai paesaggi urbani degli esordi (nel 1961) agli scatti degli ultimi decenni, come gli asfalti, le piscine, le luci americane. Non ci sta a farsi inquadrare nel cliche' del fotografo astrattista per quelle bande di colore acido, intenso, che attraversano le immagini di campagne o deserti, i gialli, l'ocra, il blu abbagliante del cielo o piu' spento del mare. "Di astratto c'e' solo il pensiero, quello che ho fotografato per tutta la vita e' reale, concreto", commenta Fontana, che ribadisce di non aver mai fatto uso di photoshop, per il semplice fatto che all'epoca non esisteva, perche' non c'erano ancora le tecniche digitali. Per i giovani e' difficile crederlo. Le grandi stampe che aprono il percorso espositivo riguardano scatti di quaranta, cinquant'anni fa. Le soluzioni di prospettiva (schiacciata dai focali), l'appiattimento immagini, aggiunge il curatore della mostra Denis Curti, si traducevano "in un'ambiguita' della visione che e' un mix di poetica e passione". Fontana, ha spiegato, "ha 32 reinventato il vocabolario visivo di un'epoca", rifuggendo il racconto di storie, di avvenimenti, proponendo una produzione che appare statica, in cui sembra, apparentemente, non succedere niente. "In realta', al termine della mostra la sensazione e' quella di stare di fronte a un immenso autoritratto, di Fontana, della societa', della natura - prosegue Curti - del resto, l'artista cerca e trova l'armonia estetica anche in una macchia sull'asfalto". E al di la' della decisione di rifuggire ogni stereotipo, la cultura visiva di Fontana e' senz'altro figlia della sua terra e della sua epoca. I rimandi sono innumerevoli, in alcuni casi al limite della citazione. Ecco la Metafisica di de Chirico nell'accavallarsi di piccoli edifici a Los Angeles, mentre le atmosfere cristallizzate delle altre vedute americane richiamano i capolavori di Hopper. Le uniche a essere popolate da persone, incapaci a comunicare, dominate da colori violenti e da un senso di estraneazione, queste scene restituiscono le stesse emozioni del pittore statunitense. Cosi' come gli asfalti, per il loro contenuto materico, sono un eco a volte dell'informale a volte della Pop Art. Ma in Franco Fontana sono solo assonanze, l'humus che accomuna un'epoca intera. Oggi sposta lo sguardo su altro. "Per me la fotografia e' la qualita' che mi ha dato la vita", dice il maestro, impegnato a scoprire la bellezza nella disarmonia delle persone disabili (e' il suo ultimo libro fotografico). "Cerco sempre la parte positiva della vita, sono nato con la bottiglia mezza piena", sottolinea per spiegare che non ha mai smesso di fare ricerca. "Avrei potuto continuare fare paesaggi, mi hanno reso famoso - ha concluso - Ma allora avrei fatto il Fontana per il resto della vita, il pensionato di me stesso". (ANSA). RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA Cartoline dai bordi di un’utopia perduta di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Temo che chi comprerà l’album di cartoline messo insieme da Paolo Caredda sospetterà quanche trucco da artista concettuale. Difficile credere che cartoline così siano state davvero pubblicate, comprate, spedite, conservate. 33 Quel che va sotto il nome – inutilmente spregiativo – di cartolinesco, qui non corrisponde più, non ci azzecca. Spiagge, fiori pacchiani, niente, cime innevate, monumenti sull’attenti, tramonti romantici, niente, niente di niente. Palazzoni di cemento, invece. Condomìni multipiano. “Biscioni” e “stecconi” di periferia. Architetture geometrili, texture di balconi e tapparelle a perdita d’occhio, alberelli rachitici da recente trapianto nelle asole quadrate tra le mattonelle del marciapiede. Strade fuori misura d’asfalto rullocompresso. Eppure, ve lo garantisco per vecchia familiarità coi cartoncini postali, queste cartoline esistevano. Parenti ma differenti di quelle che i turisti compravano negli stalli dei tabaccai del centro, queste le vendeva il cartolaio di quartiere. Spesso le stampava lui. Magari ci metteva dentro l’insegna del negozio e si faceva un po’ di réclame. Ma chi le comprava, e perché? Per mostrare a chi, che cosa? Ora sembrano, riunite così, è vero, un’operazione postmoderna. Magari un po’ snob, un po’ kitsch. Guardate un po’ che bellissime schifezze si spedvano per posta i nostri genitori… Idea non nuova. Martin Parr pubblicò le sue collezioni di Boring Postcards, cartoline noiose (ma comprendevano anche cartoline di Boring, cittadina dell’Oregon…) in piccoli album senza didascalie né introduzioni. Ma Caredda, autore televisivo, già scrittore della generazione cannibale, non sembra mosso dal fascino del banale ri-mediato in radical-trash. A suo modo, con forse un po’ di compiacimento stilistico nelle pagine di commento, quella che cionfziona è una storia di un pezzo di storia d’Italia. Pre-boom, poi boom economico conclamato. Inurbamento di massa. C’erano da tirar su appartamenti per decine di migliaia di famiglie in più ogni anno, anche nei capoluoghi di provincia, non solo nelle metropoli. Città intere che si sommavano a città. Erano gli anni dei piani regolatori ipertrofici, delle previsioni di edilizia a macchia d’olio. Della “cementificazione”, l’abbiamo chiamata. Ma senza il cemento armato, in effetti, quella sarebbe stata una stagione di slum e baracche. In fondo, non lo fu. Fu una stagione di periferie con “casermoni”, ma anche questa una parola troppo luogocomunista. Di “alveari umani”, anche. Detto con superiorità da chi non ci abitava, però. Perché queste cartoline raccontano un’altra storia. Raccontano di un certo compiacimento, di una fierezza, perfino di un orgoglio dell’abitare nel “nuovo”, da parte di chi aveva appena lasciato casolari e cascinali. Allora, dice con espressione azzeccata l’autore, “il cemento scintillava”, eh sì. 34 Le cartoline su cui ci divertiamo a orripilarci adesso per la loro “spersonalizzazione”, magari mentre abitiamo nei “quartieri residenziali immersi nel verde” che sono la rinascita postmoderna della stessa alienazione (leggete i racconti di Giorgio Falco e capirete), erano immagini di un traguardo raggiunto, per chi viveva in quei condomìni, e che magari prima di francobollare e imbucare aggiungeva con la biro una freccia che puntava verso un balcone: “noi abitiamo qui”. I cascami geometrili del razionalismo architettonico erano allora la forma del benessere. Forse non proprio la sua realizzazione, ma certo la sua promessa. Difficile da capire oggi, quando il cemento non scintilla più e quell’edilizia al risparmio si sfarina nella sua lebbra di scrostature e mostra le ossa arrigginite delle sue armature. Ma quel paesaggio di intonaci levigati e balconi ortogonali era il paesaggio di un’utopia, la stessa che s’incarnava nelle lamiere delle utilitarie (anche loro, molto volentieri, incluse nelle inquadrature e rivampate generosamente nei colori, magari aggiunti a mano); e se non ce n’era una, il fotografo parcheggiava volentieri la sua nell’inquadratura. Badate bene, poteva esserci un’altra immagine di quel paesaggio. Un’immagine magari promossa dallo Stato costruttore, o dalle imprese appaltatrici come fu per i Grand Ensembles francesi dell’anteguerra, anch’essi figli del razionalismo, ma in versione tecnocratico-centralista, come il gigantesco complesso di Drancy che poi diventò per feroce contrappasso e nemesi storica un punto di concentramento per la deportazione degli ebrei (il padiglione francese della Biennale Architettura di quest’anno ne ha corraggiosamente raccontato la storia). 35 Ma quelle operazioni urbanistiche, negli anni Trenta, vennero fotografate autoritariamente, dall’alto, in tutti i sensi. Vedute aeree, o comunque da punti di ripresa elevati e lontani, proclamavano retoricamente la modernità evitando accuratamente il dettaglio rivelatore della meschinità immobiliare (un bell’articolo su Études Photographiques per chi vuole approf0ondire). La genesi delle nostre cartoline dell’inurbamento accelerato, invece, è quasi sempre spontanea, caotica, non programmata. Iniziativa di cartolai, tabaccai, benzinai, piccoli editori che fiutavano il piccolo business dell’orgoglio dei nuovi redsidenti. Una specie di iconografia corale, comunitaria, orizzontale, affascinante, rivelatrice. E non sono immagini senza cultura visuale, al contrario ne hanno molte, magari non consapevoli ma trasparenti: scenografie da film del neorealismo, un certo futurismo delle diagonali, magari Ottone Rosai e perché no anche un po’ di Piazze d’Italia di De Chirico. I marciapiedi vuoti, gli spazi pubbliciancora non riempiti dall’arredo spontaneo e caotico di ogni periferia, vivono ancora la loro purezza di sfondi progettati. Il provvisorio, i pali della luce di legno, le aiuole ancora polverose, sono spazi in corso di promozione sociale e non già degradati. Non di queste cartoline bisogna ridere, ma della misera fine di quella promessa bisogna piangere. Era una modernità di cartapesta, da Mani sulla città, da speculazione edilizia, da deportazione proletaria, ma allora non era così chiaro. Lo è solo oggi, per chi gira quei vecchi quartieri nuovi che a volte cercano con gran fatica una propria redenzione civile, umana e anche estetica, ma a cui le cartoline non fanno più il ritratto. Lo hanno lasciato fare ai misuratori dello spazio, ai Basilico, ai Guidi, Barbieri, Chiaramonte, Jodice (Francesco) e mi scusi chi sto dimenticando. Analisti consapevoli della condizione post-urbana. Ma l’autoritratto, quello non lo abbiamo più. O forse sì. Dovremmo cercarlo forse ai bordi estremi dei selfie che i nostri figli si scattano girovagando negli spazi di una città che non abbiamo più la voglia e l’orgoglio di mostrare a nessuno. Tag: boring postcards, cartoline, cartolinesco, Drancy, Etudes photographiques, Francesco Jodice,Gabriele Basilico, Giorgio De Chirico, Giorgio Falco, Giovanni Chiaramonte, Grands Ensembles, Guido Guidi, Martin Parr, neorealismo, Olivo Barbieri, Ottone Rosai, Paolo Caredda, periferie Scritto in architettura, cartoline, condivisione | Commenti » 36 Muray: il fotografo che amò Frida Kahlo in mostra a Genova di Federica Burlando da http://genova.mentelocale.it/ Frida sulla panchina bianca © Nickolas Muray A Palazzo Ducale i Celebrity Portraits dell'artista statunitense. Da Marlene Dietrich a Marilyn Monroe e Charlie Chaplin. Le foto. Dal 16 ottobre « Fortunatamente, per me la fotografia è stata non solo una professione, ma anche un contatto tra le persone - uno strumento per comprendere la natura umana e fissare se possibile, il meglio di ogni individuo». In queste parole diNickolas Muray c'è tutto lo spirito della sua arte e non solo: anche del modo di concepire la vita. Del suo coglierne la bellezza, la poesia, la vivacità dell'anima che traspare dagli occhi e dai gesti. Giovedì 16 ottobre inaugura, a Genova, Celebrity Portraits, la mostra di Nickolas Muray. La prima esposizione monografica sull'artista in Italia viene ospitata fino a domenica 8 febbraio 2015 nel Sottoporticato di Palazzo Ducale. Un viaggio di oltre 200 scatti, in circa 40 anni di carriera di quello che è stato il fotografo delle star: daMarilyn Monroe a Marlene Dietrich, da Greta Garbo aElizabeth Taylor e Charlie Chaplin, non si contano le celebrità passate sotto il suo obiettivo. Un vita tutta da raccontare, quella del fotografo: da quando, nel 1913, venne richiamato nell'esercito ungherese, ma lui, ebreo, conoscendo il clima antisemita che vi serpeggiava, decise di vivere a New York dove trovò subito lavoro, grazie a un certificato da incisore. Un'esistenza fatta di passioni: per la fotografia e per le donne. Due amori che si mescolano negli scatti che si vedono in mostra a Palazzo Ducale. Si parte dalla sezione dedicata alle immagini in bianco e nero. Alle pareti i volti di personaggi più e meno celebri. Dalladivina Greta Garbo, di cui si possono ammirare due ritratti uno sorridente e uno serio. Un doppio che ammalia e quasi confonde lo spettatore. Poi le ballerine Isadora Duncan, che cammina eterea come fosse uno spirito, Martha Graham, in abiti spagnoleggianti e altri corpi di danzatori, a formare strutture scultoree. Quello che colpisce di più è la luce degli scatti, un'eco di quell'amore per la pittura fiamminga del XVII secolo, da Rembrandt a Vermeer, che Muray tanto amava. La stessa luce che rende particolare anche il ritratto del ballerino Leon Barte, l'unico di matrice accademica. 37 Volti e corpi che sono bellissimi, di quella bellezza che non è solo fisica, ma spirituale. «Il pensiero di Muray - spiega il curatore Salomon Grimberg - era che in ogni persona c'è qualcosa di bello. Una magia, un mistero, una dignità che le foto esaltano». Più oltre una sezione dedicata al mondo degli impressionisti. Con fotografie che echeggiano i giardini dei pittori francesi. E poi, fra i diversi ritratti dell'amico Claude Monet, anche Il ritratto, l'unica foto che Muray, fra i 25 000 scatti della sua vita, decise di tenere per sè. Lasciato il mondo del bianco e nero si viene investiti dalla luce dei colori, così vividi che sembra di poterli toccare. Prima, in esposizione, le immagini pubblicitarie, divenute vere e proprie icone. «Quando c'era da immortalare animali, bambini, soggetti difficili perché spesso in movimento, e il cibo, era Muray il punto di riferimento», racconta Grimberg. Ogni pubblicità non è solo una foto, ma ha alle spalle una storia da raccontare. Come lo scatto che ritrae dei cerali per la prima colazione. Per crearla l'artista ha prima fotografato il recipiente, poi i vari corn flakes a uno a uno, incollato questi pezzi sopra alla foto iniziale, per poi fare lo scatto finale. In questo modo si ha l'impressione del movimento e della profondità dell'immagine. Passando oltre ci si trova faccia a faccia con altri volti, uno su tutti quello di Marlene Dietrich. Un'altra foto, un altro aneddoto. «Muray si era recato a casa dell'attrice, per fotografarla - racconta il curatore. Ad aprirgli la porta di casa, una donna con grembiule, scopa in mano e foulard in testa. La stessa donna che un attimo dopo poserà, glamour, per lui». L'ultima stanza è dedicata a Frida Kahlo, amica e soprattutto amante del fotografo. Una storia d'amore lunga dieci anni, che poi si trasformò in un forte legame, troncato solo per la sopraggiunta morte di Muray. Una sentimento che traspare anche da quelle foto così vive, che hanno contribuito a rendere Kahlo un'icona pop. Pensare alla pittrice, infatti, è pensare a come Muray l'ha vista attraverso l'obiettivo. Un legame che ora si riunisce nuovamente, in quegli spazi di Palazzo Ducale che ospitano sia la mostra Frida Kahlo e Diego Rivera sia quella del fotografo statunitense. Addio a René Burri: tra suoi scatti Che Guevara e Picasso di Nicoletta Tamberlich (agenzia Ansa) da http://www.gazzettadiparma.it/ 38 1 / 10 COMMENTA Lo scatto più noto rimane quello di Che Guevara mentre fuma il sigaro issato all’angolo destro della bocca (è del gennaio del 1963, si vende ancora oggi a milioni di esemplari su poster, cartoline, magliette, ma chi la compra quasi mai ne conosce l’autore) ma Renè Burri, uno dei più grandi fotografi del '900 morto oggi in Svizzera dopo una lunga malattia, ha ritratto icone della cultura come Picasso, Giacometti e Le Corbusier, icone del mondo del cinema dello spettacolo come Ingrid Bergman e Ursula Andress a cui rubò lo sguardo, e in alcuni casi, quello che non volevano mostrare. Volti sì, ma non soltanto. Nato a Zurigo nel 1933, Burri fotografò anche gente comune incontrata, ad esempio, in Vietnam e Brasile e spesso l’architettura in ogni sua declinazione: edifici monumentali, nei confronti del contesto urbano. Prima della fotografia le passioni del fotografo svizzero furono non a caso quelle della pittura e del cinema e fu per tale motivo e per migliorare le sue conoscenze che decise di frequentare la scuola d’arte di Zurigo dove ebbe l’opportunità di studiare composizione, pittura e disegno. Finita la scuola cerca di dare seguito a questa passione tentando il mondo del cinema, ma le opportunità date dalla Svizzera in quel periodo erano davvero limitate. Decide quindi di dedicarsi alla fotografia che molto si avvicina al mondo del cinema. Nel 1950, all’età di 17 anni, entra quindi alla scuola di fotografia della sua città. E’ in questi anni che inizia a lavorare come regista ed a realizzare i suoi primi documentari. Contemporaneamente inizia ad usare la sua prima macchina fotografica, una Leica. Nel 1955 il suo amico Werner Bischof lo avvicina, mettendolo in contatto con l’agenzia Magnum Photos dove presenta il suo reportage sulla realtà dei bambini sordomuti. Il reportage, con grande soddisfazione dello stesso Burri, venne pubblicato sulla prestigiosa rivista Life nonchè su altre importanti riviste europee. Entrato a far parte della scuderia di Magnum Photos inizia la sua intensa attività come fotografo di reportage in giro per il mondo per realizzare i lavori commissionati da Magnum. Questi furono gli anni in cui Burri si recò in Italia, Cecoslovacchia, Turchia, Egitto ed altri paesi. Nel 1959 diventa membro Magnum. Pubblica il suo lavoro sulla Germania a cura di Robert Delpire e con l’introduzione di Jean Boudrillard. Realizza sempre negli anni Sessanta altri importanti reportage. Sono da ricordare infatti quello del 1963 su Picasso e successivamente quelli su Giacometti e Le Corbusier. Sempre nel 1963 realizza il ritratto di Fidel Castro e di Che Guevara. Nella seconda metà degli anni Sessanta e negli anni Settanta lavora in Egitto, Israele, Vietnam e Beirut. Nel 1982 diventa presidente della Magnum Photos. Nel 1991 viene nominato Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere dallo Stato Francese e nel 2004 viene realizzata una grande retrospettiva che nel 2005 è arrivata anche in Italia per la prima volta. 39 Perché non parli? di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Puoi mangiare una mela, dieci mele, cento mele, ma non avranno mai il sapore della banana. Puoi mangiare una banana, dieci banane, cento banane, non avranno mai il sapore di una mela. Lo scriveva una fotografa americana di cui mi sfugge ora il nome. La mela è l’immagine, la banana è la parola. Perché la macedonia a tanti non piace? “Conflitto parola-immagine”, si dice. Ma è davvero un’alternativa, o è una convivenza inevitabile? Esistono forse fotografie che non ci arrivino circondate da parole? Senza un con/testo? Fotografia e scrittura sono materiali dell’espressione umana. Il guaio è che non sono simmetriche, né equivalenti, non sono forse neppure del tutto complementari. Il rapporto è difficile, scontroso, conflittuale. Ma è inevitabile. I francesi hanno una parola splendida per sintetizzare un’affinità scorbutica: mésalliance. È un luogo comune banale che “una fotografia vale mille parole”: vale solo se qualcuno prima o poi le scrive o le dice o almeno le pensa, quelle mille parole. Che alla fine, certo, non esauriranno mai una fotografia. Ma senza le quali la polisemia, l’ambiguità essenziale delle fotografie può diventare paralizzante, o pericolosa, o illeggibile. Credo che quella tra parole e immagini sia una questione etica. Perché l’etica è anche conoscere e rispettare i limiti, le caratteristiche e la vocazione dei propri strumenti di comunicazione, sapere fin dove possono arrivare, e dove hanno bisogno di una stampella, di un completamento, di un aiuto. E tuttavia la macedonia di mela e banana non piace a molti. A molti scrittori. A molti fotografi. C’è una strana riluttanza a far incontrare scrittura e visione, a farle dialogare. Qualcuno sembra pensare che la “fotografia parlata” sia come il “calcio parlato”, una cosa da giocatori da bar. Sono due di solito le obiezioni ricorrenti. 40 Prima: “la fotografia parla da sola”. Ogni parola detta attorno a una fotografia è percepita come un intollerabile affronto, un vile attentato alla sua autonomia. Tutto quello che si deve sapere per apprezzare una fotografia, per capire una fotografia, starebbe già dentro la cornice dell’immagine. Al massimo, autore, data, luogo: che serve di più?, spesso sembrano pensarla così perfino i fotogiornalisti, che pure hanno un dovere di contestualizzazione, e questo è ancora più grave. La didascalia “parlante” su una rivista, il testo a fianco che in una mostra parla dell’opera e dell’autore, l’analisi critica dei modi e dei contesti in una monografia, sembrano essere considerate roba da circolo fotoamatoriale. Nei musei si arriva ad esiliare il cartellino con nome e titolo il più lontano possibile, magari su un’altra parete, affinché il morbo verbale non contagi l’opera. Se un testo è ammesso, nei libri e nelle mostre dei Fotografi con l’automaiuscola, allora che sia il più indecifrabile possibile, critptico, lirico, divagante, quel che volete purché si astenga dal parlare delle fotografie a cui è abbinato. Seconda obiezione: “Solo chi fa fotografia può parlare di fotografia”. Curiosa tesi questa, seguendo la quale per fare l’entomologo bisognerebbe essere uno scarafaggio o una mosca. Se chi la pensa così ha ragione, gli auguro di non avere per vicino di casa uno studioso di storia del nazismo… Come sempre, generalizzo un po’ troppo. Incontro moltissimi fotografi di ampie e buone letture. E giornalisti e scrittori di ampie e buone visioni. Ma una vena di anti-intelettualismo, di vitalismo fotografico vorrei dire, esiste. Ed è una delle ragioni, credo, per le quali in Italia non ha mai attecchito una comunità culturale della fotografia capace di condividere strumenti di “lettura” del fotografico. Riviste ce ne sono molte ma, a parte le solite lodevoli eccezioni, sono quasi sempre qualcosa a metà fra la galleria d’arte e il negozio di fotocamere. Personalmente, ci trovo poco da leggere. I pochi tentativi di creare in Italia rivistte di storia e critica del fotografico sono abortiti in pochi numeri. L’editoria libraria vede in campo alcuni editori eroici, coraggiosi, spericolati nel voler continuare a pubblicare buona saggistica che vende poche centinaia di copie a titolo. La critica fotografica esiste, ma si occupa solo di “artisti che usano la fotografia” e, tranne le solite lodevoli eccezioni, arriccia il naso quando sente parlare di fotografia come pratica sociale, di massa, relazionale: a meno che qualche artista non ne abbia fatto un “progetto”. La blogosfera è un magma dove si trova di tutto, il buono e il peggio, ma in ogni caso è uno spazio pulviscolare di individualità gelose, spesso autoreferenziali e narcisiste (includete pure il blog che state leggendo, se volete) che non è mai riuscito a farsi circuito di idee. Leggere la fotografia significa prima di tutto far parlare la fotografia. Le immagini fanno e faranno sempre più parte di messaggi multimediali, complessi, collettivamente elaborati e interattivi. L’idea dell’autore solitario che mostra muto la propria fotografia che “parla da sola” ormai è l’illusione, inefficiente, di autoproclamti artisti fuori tempo. Leggere la fotografia non vuol dire saper fare l’analisi di un’immagine. Vuol dire leggere le relazioni che la fotografia rivela, o copre. Si sta combattendo una enorme battaglia con, per e sulle immagini, che ha per posta il governo dei nuovi canali di informazione di massa. Non si può essere “gente d’immagine” senza occuparsi di questo. Leggere la fotografia, per chi vive nel presente, è per esempio vedere lo scontro di potere che sta dietro il successo delle piattaforme di condivisione 41 orizzontale, dietro l’evoluzione dei social network, dietro le nuove funzioni di teasing, di illustrazione, funzioni sempre più subordinate, strumentali e ancillari che alla fotografia vengono assegnate dai portali d’informazione di ultima generazione. Leggere la fotografia non significa solo saper godere di buone immagini, e pensare che quelle ci salveranno dalla volgarità del presente. Leggere la fotografia è leggere la cultura visuale di un’epoca, senza aver paura di respirare odori forti che non ci piacciono. Con la parola, l’uomo scoprì uno strumento magico per condividere con l’altro uomo quel che aveva pensato (e fondò la storia). Con la fotografia, l’uomo ha trovato uno strumento magico per condividere quel che ha visto, e ha fondato la civiltà delle immagini. Ma per condivdere quel che pensa sulle immagini, l’uomo ha bisogno della parola. Leggere la fotografia è spendere parole per “comprarla” dai nostri simili, cioè per farla nostra: per possederla e non farcene possedere. Un grande fotografo e filosofo della fotografia, Frederick Sommer, scrisse ormai mezzo secolo fa: se non spendi le tue parole oggi, domani potrai comprarci meno immagini. Le abbiamo nel portafogli, quelle parole. Non siamo tirchi. Spendiamole. Altrimenti, presto, saranno carta straccia. [Questo testo è una versione del mio intervento al dibattito su "Leggere la fotografia", SiFest Savignano sul Rubicone, 4 ottobre 2014] Tag: fotografia, Frederick Sommer, lettura, SIFest, testo Scritto in Testo e immagine | Commenti » Nino Migliori: "I giovani devono scoprire lo scatto di una bellezza da ritrovare" estratto da http://www.ilrestodelcarlino.it/ Nino Migliori. Il grande fotografo presiede la commissione del premio fotografico 42 Di bellezza davanti alla lente della sua macchina fotografica ne è passata tanta, ma gli occhi di Nino Migliori sono sempre pronti a cogliere il bello. Stavolta, in qualità di presidente della commissione giudicatrice, lo farà negli scatti dei ragazzi che partecipano alla quinta edizione del Premio fotografico organizzato da Qn-il Resto del Carlino e Banca popolare dell'EmiliaRomagna. Il tema di quest'anno è La bellezza ritrovata. Quando l’abbiamo persa e come l’abbiamo ritrovata, la bellezza. «Se l’avremo ritrovata ce lo diranno le foto dei ragazzi che partecipano al premio, lo scopriremo guardano i loro lavori, sempre sorprendenti». Però da qualche parte si è certamente persa… «E’ annegata nella drammaticità del momento storico che viviamo, nelle disgrazie umane e nella sfiducia verso il futuro. Ma dalla disperazione bisogna fuggire rincorrendo il piacere di rileggere le cose su un piano estetico diverso, riscoprendo il bello che è intorno a noi, sapendolo ritrovare in tutto ciò che ci circonda. La bellezza è nella luce e nei colori del quotidiano, nell’emozione di un sentimento, nelle proporzioni di una architettura, nella magia della natura, nell’armonia di un corpo, nella libertà di un gesto». Il Premio Carlino-Bper affida ai giovani dai 14 ai 25 anni il compito di andare a caccia di bellezza... «Questa iniziativa a cui partecipo con entusiasmo da anni, vuole rilanciare il pensiero dei ragazzi, è un incentivo ad uscire dalla fascia della negatività e riappropriarsi di una visione ottimistica tipicamente giovanile... ma del resto anch’io sono un inguaribile ottimista». Bellezza e gioventù: un bimonio e un’immagine. «Gli angeli del fango. Loro per me sono la bellezza ritrovata. A Genova, in questi giorni, a Firenze nel ’66… sono lì a dedicare il loro tempo, le loro energie, a ricucire qualcosa che si è strappato ferocemente». La bellezza secondo Nino Migliori? «Più che un fatto fisico è una predisposizione mentale che coinvolge i sentimenti. E’ voglia di futuro, di serenità, di riscatto. E’ un’idea che mi porto dietro dal ’45. Dopo aver vissuto cinque anni di gioventù imprigionata nel terrore, nella perenne paura di morire sotto i bombardamenti, uscii dalla gabbia di quell’angoscia e ritrovai la vita. Stare nel mondo, ritrovare la gente, vivere a contatto con gli altri: la bellezza». Bologna, la sua città: qual è il simbolo della sua bellezza? «L’ironia. Che però oggi non trovo più. Mi guardo intorno e vedo una città che non riconosco, sporca e disordinata, in cui si è perso il piacere dell’aggregazione». Selfie compulsivi, dipendenza da Instagram, cellulari sempre pronti a colpire. Questa ipertrofia dello scatto fa bene alla fotografia? «Fa benissimo! La fotografia è sempre andata di pari passo con lo sviluppo tecnologico, anche questa fase è fisiologica. E interessantissima. Altrimenti saremmo ancora ai dagherrotipi. Già decenni fa annunciavo in una mia pubblicazione 'La fotografia è morta, viva la videografia', ora guardo ancora più avanti: alla trasmissione cerebrale dell'immagine». 43 Trieste Photo Days, 14/23 novembre da REDAZIONE (PHOTOGRAPHERS) di http://www.lastampa.it/ Nasce Trieste Photo Days, nuovo festival fotografico internazionale In programma mostre di Alexandra Sophie, Pietro Masturzo e la mostra finale del concorso URBAN 2014 E verrebbe da dire “finalmente!” Crocevia e punto di incontro anche culturale tra occidente e oriente Trieste rappresenta un osservatorio privilegiato verso la fotografia dell’Est, e finalmente si sono messi d’accordo le varie anime che rappresentano la città per il settore fotografia, riuscendo a partorire la prima edizione di quello che speriamo diventerà uno degli appuntamenti fissi del panorama Italiano. Da venerdì 14 a domenica 23 novembre 2014 si terrà la prima edizione del Trieste Photo Days, un nuovo festival internazionale nato dalla cooperazione tra dotART e le principali associazioni culturali triestine che si occupano di fotografia e arti visive. Sulla scia più importanti festival fotografici europei, Trieste ospiterà per dieci giorni un contenitore creativo multimediale che riunirà mostre fotografiche di artisti italiani e stranieri, workshop, proiezioni, incontri e altri eventi collegati alle arti visive. Trieste Photo Days sarà un luogo d'incontro e scambio per fotografi professionisti e amatoriali, appassionati e curiosi. Il tema scelto dagli organizzatori per questa prima edizione è «Spazi»: uno sguardo attento e attivo alla fotografia in relazione allo “spazio dei luoghi”. Numerosi gli eventi, dislocati in varie sedi e selezionati in collaborazione con ildirettore artistico Giancarlo Torresani, direttore del Dipartimento Attività Culturali” della FIAF. MOSTRE. Tra le mostre in programma “Sui tetti di Teheran” di Pietro Masturzo, vincitore del World Press Photo of the Year 2009 (dal 19/11 presso la Sala mostre Fenice), una personale della fotografa francese Alexandra Sophie, “ The Horses of Revolution” del fotografo inglese Walther Rothwell, vincitore della categoria Stories & Portfolios al concorso URBAN 2014 (dal 14/11 presso Aqvedotto Caffè), “ Inimmaginabile Iran” della slovena Anja Čop (dal 14/11 presso il Teatro dei Salesiani), la mostra collettiva con premiazione delconcorso internazionale URBAN 44 2014 (15/11), la mostra collettiva Zero Pixel(dal 17/11 presso la Biblioteca Statale di Trieste). WORKSHOP. In calendario numerosi workshop fotografici: “Workshop Polaroid 8x10” a cura di Ennio Demarin (15/11 presso lo Studio Demarin),“Workshop Polaroid Manipulation” (18/11 presso la Biblioteca Statale di Trieste), una serie di workshop di fotografia off-camera (19/11 presso la Biblioteca Statale di Trieste), “Workshop Collodion Wetplate” a cura di Marcus Gabriel (22/11 presso lo Studio MATTEOTTI32). PROIEZIONI. Rassegna di multivisione con mostre fotografiche e proiezioni di audiovisivi “Trieste incontra la Multivisione” (dal 14/11 pressi il Teatro dei Salesiani), “Triestinità” di Ervin Skalamera (dal 14/11 presso TheArtPhotoGallery). CONCORSI. Domenica 16/11 si svolgerà il “RemiTour fotografico”, una caccia al tesoro per fotografi a premi. Parallelamente, inizierà la quinta edizione del concorso fotografico “TRIESTE 2014 e le Province del Friuli Venezia Giulia”. Il festival offrirà inoltre un'occasione ai turisti che cercano un modo diverso di visitare Trieste. Il programma è in continuo aggiornamento ed è consultabile sul sito www.triestephotodays.com. Trieste Photo Days 2014 è promosso a dotART in collaborazione con: Acquamarina, TheArtPhoto, Circolo Fincantieri-Wärtsilä, Circolo Fotografico Triestino, Circolo Ferriera di Servola sez. Fotografia, Officina Istantanea, Merlino Multivisioni, L'Opificio, Photoclub AE. Un abuso relativamente semplice di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it 45 “Una fotografia abbastanza buona non è abbastanza”, scrisse quel perfezionista di Edward Weston, per il quale ogni fotografia doveva essere tagliata ad angolo vivo e scintillante di perfezione come un diamante. Forse era troppo ottimista. Forse era solo una regola personale. Fattostà che oggi di foto abbastanza buone ci si accontenta abbastanza, in giro. Lo ammettono, a malincuore, anche i fotografi professionisti. È la frase che mi ha colpito di più nella “piattaforma” della manifestazione che, promossa dall’associazione Tau Visual, porterà a Roma il prossimo 11 novembre un numero ancora imprevedibile di fotografi professionali molto preoccupati per il futuro del loro mestiere minacciato dalla concorrenzza sleale di fotografi più o meno estemporanei. La frase è questa: “poiché è relativamente semplice ottenere risultati accettabili sul piano fotografico, un numero sempre crescente e ora inaccettabilmente elevato di privati cittadini ha iniziato a ricercare attivamente clientela, proponendosi come fotografi, ma senza configurarsi in alcun modo né formalmente, né fiscalmente”. Lo so, adesso dovrei parlarvi dei motivi e degli obiettivi della “giornata di sensibilizzazione” (il mio amico Roberto Tomesani di Tau mi invita a non chiamarla “protesta”), ma che volete farci, Fotocrazia ama le riflessioni tangenziali, e quel passaggio, “poiché è relativamente semplice ottenere risultati accettabili sul piano fotografico” mi rimbalza in testa e mi fa riflettere. E allora vi rimando al documento della manifestazione per approfondimenti e adesioni, e parto per la tangente. “Alla portata dell’ultimo degli imbecilli”, disse Nadar della tecnica fotografica. Dellatecnica però, non del sentire fotografico. La storia è vecchia: la tecnica, cosa che s’impara in due minuti, “un centocinquantesimo, f/11 col sole e f/5.6 con l’ombra” e via andare: su questo, c’è un secolo e mezzo di citazioni. Ma per tutto il resto, o c’è l’occhio o non c’è. Così almeno si era d’accordo tutti nel pensare. Fino a ieri? Forse. In quel “relativamente semplice”, leggo ora un’amara riflessione dei professionisti, gente che i propri strumenti li conosce, sull’abbassamento di quello scalino che sembrava così insuperabile fra tecnica e capacità, fra tecnica ed esperienza. Quello scalino di competenza, pratica, mestiere che soli garantivano la qualità del prodotto professionale rispetto a quello dilettantesco. Quello scalino è ormai definitvamete limato dai progressi della tecnologia applicata. “Relativamente semplice” mi pare l’ammissione a mezzavoce di una realtà dura da ammettere: che oggi le fotocamere fortemente presettate, anche quelle semiprofessionali, non solo ti garantiscono che una foto in qualche modo venga fuori, ma che venga fuori abbastanza buona: nel senso, anche esteticamente, formalmente. Abbastanza per le esigenze di un cliente. Sbaglio, Roberto? E dunque, sembra di capire, il grimaldello che mette in crisi il mercato dei professionali funziona così: i promessi sposi che vogliono l’album di matrimonio, o l’aziendina che fa il catalogo o il poster pubblicitario, scritturano, magari in nero o in grigio (qui gli amici puntano il dito sull’ambigua fattispecie fiscale della “prestazione occasionale”, ma è un dettaglio), l’amico dell’amico che ha una supercamera, perché ormai sanno di poter ottenere fotografie accettabili anche a buon mercato. Conta poco che i professionali avvertano, magari con ragione, che quell‘accettabile è quasi sempre assai scadente. La domanda vera a questo punto è: i committenti lo sanno, che il prodotto abusivo e low-cost di cui si 46 accontantano è scadente (e allora sono solo taccagni consapevoli che alla fine ricevono poco perché vogliono spendere poco)? Oppure sono convinti che quel che ricevono sia abbastanza soddisfacente, almeno per i loro scopi, oltre che a buon mercato? E se (qui mi arrivano i cazzotti, lo so) il lavoro del dilettante non fosse poi sempre così evidentemente e irrimediabilmente scadente? Quale livello minimo di qualità ritiene sufficiente la coppia di sposi o il piccolo imprenditore? Siamo sicuri che tutti esigano il massimo? E non invece il miglior rapporto prezzo-qualità? Dalla risposta dipende tutto il resto. Sempre lotta all’abusivismo è (sull’odiosità dell’evasione fiscale non si discute), ma nel primo caso (taccagni che s’accontentano di poco) va fatta in nome della necessaria qualità di un lavoro visuale fatto a regola d’arte. Nel secondo caso (taccagni convinti di avere abbastanza), invece, la difesa della professione deve vedersela, prima ancora che con le fatture in regola, con un cambiamento profondo nel gusto di massa, e allora le cose sono un po’ più difficili. Penso, scusate, che sia più vera la seconda. Anche perché è un circolo vizioso, il prodotto basso abbassa il gusto che abbassa il prodotto ecc., e il “manifesto” della manifestazione lo sa bene , infatti parla di “una spirale di peggioramento della qualità delle produzioni fotografiche ad ogni livello, ed un conseguente impoverimento ed appiattimento della qualità e – per molti versi – della cultura fotografica”. Certo, non si va in piazza contro il cattivo gusto o contro il kitsch di massa. Infatti i “Fotografi uniti” chiedono tutela contro la concorrenza delle evasioni e delle elusioni fiscali, non contro il collasso estetico di una cultura visuale. Ma temo che il nodo sia lì. Anche se gli amici di Tau sono abbastanza intelligenti da non cadere nella trappola dell’elitarismo snob, non si scagliano contro la proliferazione della fotografia nell’era della “fotocamera in ogni taschino”, anzi ne riconoscono i lati positivi: “La fotografia è divenuto il mezzo con cui, anche in chiave ludica, chiunque comunica con gli altri, con grande efficacia. [...] Questo fenomeno rappresenta un’evoluzione naturale e, pur avendo comportato un’erosione delle possibilità di lavoro di una parte di fotografi professionisti, NON è certo questo il disagio oggetto della nostra segnalazione e manifestazione”. Parole sagge. Ma bisogna pur fare i conti con quelle due paroline dal sen fuggite:relativamente semplice. E domandarsi se magari gli abusivi della professione (ce ne sono in tutte le professioni) che prosperano in un contesto di crisi della qualità e del gusto, in fotografia non siano anche un effetto collaterale, perfino un po’ calcolato, delle politiche dimarketing dei produttori di attrezzature. Anche questi ultimi, in fondo, vedono le loro quote di mercato tradizionali minacciate dalla diffusione degli apparecchi integrati negli smartphone, prodotti da altre imprese. E capiscono che, se le loro macchine di qualità hanno ancora una chance di resistere all’impatto, sarà promettendo ai fotoamatori evoluti di sbagliare sempre meno, di realizzare quasi ad ogni colpo fotografie accettabili. Colossi dai piedi improvvisamente argillosi, le major della fotografia classica, che sentono sul collo il fiato dei fabbricanti di supertelefonini, promettono al fotoamatore di sconfiggere quella sindrome che lady Elizabeth Eastlake, precosissima madrina della categoria, sintetizzò con penna brillante: “Fotografia, il tuo nome è delusione”. Niente più delusioni, assicura l’apparecchio superprogrammato. “I Am”, la fotocamera oggi promette a tutti l’affermazione sicura dell’Io. L’industria fotografica garantisce ai fotoamatori di farli diventare, a colpi 47 di software evoluti, dei quasi-professionali. E sei sei un quasi-professionale, perché non provare ad esserlo fino in fondo, senza il quasi, magari solo ogni tanto, alla domenica? Lo dico chiaro: temo che l’industria delle fotocamere per prima abbia “mollato” i professionisti al loro destino, annullando via via quel famoso scalino. Dunque siete sicuri, amici fotografi di cui condivido le preoccupazioni professionali e legalitarie, che la minaccia venga dal basso e non da dietro le vostre spalle? Tag: Edward Weston, Elizabeth Eastlake, fotoamatori, fotografia professionale, Roberto Tomesani, Tau Visual Scritto in dispute, massificazione, mercato, professionisti | Commenti » Henri Cartier-Bresson la mostra fotografica dedicata all’artista francese: fino al 25 gennaio 2015, Roma di Maila Daniela Tritto da http://oubliettemagazine.com/ «Ho capito all’improvviso che la fotografia poteva fissare l’eternità in un attimo», così afferma il fotografo francese Henri Cartier-Bresson a proposito del suo lavoro, che l’ha visto antesignano del foto-giornalismo tanto da meritare l’appellativo di «occhio del secolo». A lui è dedicata la retrospettiva organizzata a Roma presso il Museo dell’Ara Pacis, in cui sarà possibile assistere a un’esposizione unica nel suo genere, giacché le opere provengono dal Centre Pompidou di Parigi. Un’occasione, dunque, per ammirare i lavori di un artista che, con la fotografia, ha reso l’immagine a testimonianza del mondo. La mostra, curata dallo storico della fotografia Clément Chéroux, tuttavia non è solo l’antologia di stampe fotografiche e di quadri che dimostrano il lavoro incessante dell’artista, ma anche di documenti, riviste, libri e disegni che gli restituiscono l’immagine di una personalità attratta dai momenti storici di maggiore rilievo come la Seconda guerra mondiale, in cui entra nella resistenza francese e continua a svolgere il suo lavoro. Nella produzione artistica di Henri Cartier-Bresson si possono riconoscere tre periodi, che fanno capo alle diverse esperienze vissute con l’ambiente surrealista francese, il periodo centrale della Seconda guerra mondiale e, infine, nel 1947, in cui fonda con Robert Capa, George Rodger, David Seymour e William Vandivert la famosa Agenzia Magnum, una delle più importanti agenzie fotografiche del mondo. «Non è la mera fotografia che m’interessa. Quello che voglio è catturare quel minuto, parte della realtà», dice l’artista, il quale ha elaborato un modo nuovo di fotografare definito snap-shooting, in altre paroleincentrato sulla spontaneità piuttosto che sulla tecnica. Così, le sue opere non sono mere 48 rappresentazioni dell’oggettività, bensì diventano una forma tangibile grazie alla quale può affascinare i suoi spettatori. d’arte D’altra parte lui stesso afferma: «La mia Leica è letteralmente il prolungamento del mio occhio. Il modo in cui la tengo in mano, stretta sulla fronte, il suo segno quando sposto lo sguardo da una parte all’altra, mi dà l’impressione di essere un arbitro in una partita che mi svolge davanti agli occhi, di cui coglierò l’atmosfera al centesimo di secondo». E ancora: «Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il suo rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere». In realtà, il suo amore per l’arte si unisce al dovere di partecipare con lucidità ai grandi movimenti socioculturali del suo tempo. Dapprima, infatti, s’interessa di pittura, eseguendo i suoi studi con Jacques-Emile Blanche e André Lhote. Poi sarà affascinato dalla fotografia, in particolare del reportage di guerra e della pazienza che avrà nel rendere documentario lo stile delle sue foto, cosicché il maestro sarà riconosciuto quale precursore di quella che a oggi è chiamata street photography, in altre parole un genere fotografico che vuole riprendere i soggetti in situazioni reali e spontanee. Tuttavia questa definizione non indica l’arte connessa alla strada come sfondo, bensì qualsiasi luogo è perfetto per catturare con l’obiettivo le interazioni sociali: «In fotografia la più piccola cosa può essere un grande soggetto. Il più piccolo dettaglio umano può diventare un leitmotiv». Il suo continuo viaggio per le strade del mondo, lo indurrà a usare prima una Leica 1 e poi una Leica M3, con cui scatterà fotografie in luoghi diversi per usi e costumi, come in Europa, Messico, Canada, Stati Uniti, Cuba, India, Giappone, Unione Sovietica e altri paesi che, per la loro varietà multiculturale, gli hanno consentito di creare alcuni reportage di fama internazionale, come Viva la Francia pubblicato da Laffont-Sélection del 1970 che ha ricevuto il Premio Nadar l’anno seguente. 49 In effetti, la scelta di una macchina fotografia più leggera e meno ingombrante di una reflex di medie dimensioni, è il simbolo della sua produzione, giacché predilige un modo nuovo di confrontarsi con la realtà. Pertanto, ritiene che: «Una foto si vede nella sua totalità, in una sola volta. La composizione è una coalizione simultanea, la coordinazione organica di elementi visuali. Non si compone in maniera gratuita, ve ne deve essere una necessità e non si può separare la sostanza dalla forma». Ne derivano fotografie nelle quali il punto di vista è immediato e lo spettatore può guardare le immagini nella loro globalità. Dal punto di vista editoriale, il reportage Scrap Book, che Henri CartierBresson preparò per la mostra del MOMA nel 1946, è singolare, poiché è nato quasi dal nulla. Il fotografo, infatti, era partito per gli Stati Uniti portando con sé circa 300 fotografie, che tuttavia non avevano un ordine preciso ma arrivato sul luogo comprò un album – scrap book, in inglese – e inserì le immagini per sottoporle ai curatori dell’esposizione. In seguito, l’album fu dimenticato e oggi ne restano solo tredici pagine integre. Tuttavia,nel 2007 grazie al lavoro eseguito dalla fondazione dedicata a Cartier-Bresson, si ha un’edizione restaurata e pubblicata in Italia da Contrasto. Quest’album è, dunque, un’importante documentazione della sua fama. Eppure la sua carriera non l’ha visto partecipe solo nell’ambiente artistico della fotografia, al contrario ha lavorato anche come assistente del regista francese Jean Renoir, in tre film importanti: La vie est à nous(1936), di carattere propagandistico giacché è stato commissionato a Renoir dal partito comunista francese, Una partie de campagne (1936), tratto da una novella di Guy de Maupassant, e La règle du Jeu(1939), che è uno dei maggiori capolavori della cinematografia europea. Di conseguenza, persino nella sua partecipazione ai film di Renoir si nota l’impegno politico e il bisogno di rappresentare la realtà dietro la cinepresa. L’artista diceva che: «Il mestiere di reporter ha solo trent’anni, si è perfezionato grazie alle macchine piccole e maneggevoli, agli obiettivi molto luminosi e alle pellicole a grana fine molto sensibili realizzate per soddisfare l’esigenza del cinema. L’apparecchio è per noi uno strumento, non un giocattolino meccanico. È sufficiente trovarsi bene con l’apparecchio più adatto a quello che vogliamo fare. Le regolazioni, il diaframma, i tempi ecc, devono diventare un riflesso, come cambiare marcia in automobile. In realtà la fotografia di reportage ha bisogno di un occhio, un dito, due gambe». Come già accennato, infatti, sebbene più volte avesse ripetuto di non essere per nulla interessato alla fotografia in quanto tale, bensì al messaggio che si vuole trasmettere con essa, ottiene un enorme successo grazie alla sua indole e alle 50 immagini che trasmettono emozioni, le stesse che sarà possibile provare durante la mostra di Roma. Perché le fotografie di Henri CartierBresson sono un mosaico di volti espressivi, ognuno dei quali racconta la Storia dell’umanità. Dal 26 settembre 2014 al 25 gennaio 2015 al Museo dell’Ara Pacis, Nuovo spazio espositivo Ara Pacis. Biglietto d’ingresso: intero € 11,00 – ridotto € 9,00. Speciale scuole € 4,00 ad alunno (ingresso gratuito ad un docente accompagnatore ogni 10 alunni), speciale famiglie € 22,00 (2 adulti più figli al disotto dei diciotto anni). Orari: Martedì-domenica 9.00-19.00 (la biglietteria chiude un’ora prima). Il venerdì e sabato, per l’intera durata della mostra, prolungamento dell’orario di apertura, del solo spazio espositivo (Via di Ripetta), fino alle 22.00 (ultimo ingresso ore 21.00). Chiuso il lunedì. Proviamo a farlo insieme di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it “C’è vita sulla Terra”, mi dicevo con sollievo aggirandomi nei duemila metri quadri della MirMar, fabbrica dismessa alle porte di Savignano sul Rubicone, dove il SiFest di quest’annoha prodotto (mia personale opinione) la sua migliore sorpresa da alcuni anni a questa parte. Alla fine è stata quasi l’unica mostra che ho visto quest’anno. La sorpresa di atlante.itha riempito la mia giornata. C’è vita in questa Italia che siamo troppo abituati a considerare in affanno su tutti i terreni, fotografia compresa. Non dev’essere stato semplice per Stefania Rössl e Massimo Sordi, i curatori, portare a buon fine questa rilevazione/rivelazione dei collettivi fotografici italiani. Alla fine ne hanno scovati trentacinque. In alcuni di loro Fotocrazia si è già imbattuta, e ne ha scritto qua e là. Ma l’effetto soglia, a Savignano, è stato quello decisivo. Dimostra che non ci sono solo belle esperienze isolate, ma esiste forse una nuova corrente, nel senso proprio di corrente elettrica, che dà la scossa alla scena fotografica italiana. Il lavoro collettivo in fotografia ormai fa massa critica. Fotografare insieme: una sfida al mito dell’autore isolato e romantico. Idea finalmente dimostrata che la fotografia oggi, anche quella di ricerca, non può più essere un oggetto visuale autosufficiente, ma fa necessariamente parte di un “pacchetto” articolato di messaggi. Ma è anche una sfida al sistema della fotografia in crisi di idee e di contenuti. Fotografare insieme per fotografare qualcosa: mica scontato. 51 Gallerie reali e virtuali, mostre e mostriciattole italiane sono molto spesso piene (bisognerebbe dire vuote) di “progetti fotografici” che non fotografano niente se non la mancanza di idee di chi se li è inventati. Invece i collettivi fotografici hanno scelto di fotografare l’Italia. Quel che abbiamo attorno, addosso, questo paese (luogo comune della deprecatio autolesionista: non a caso preso e ribaltato di senso da uno di questi esperimenti). Non semplici club, non vecchi circoli, ma progetti di immagine condivisa, fortemente glocal: radicati nei territori e attenti agli scenari sociali, ecologici, umani, economici. Quel che più conta, lo fanno quasi sempre di propria iniziativa, e quasi sempre a proprio rischio. La grande stagione delle committenze pubbliche, se mai è stata grande, è finita, falcidiata dalla spending review (la crisi in corso del MuFoCo di Cinisello Balsamo ne è la conferma). Gli assessori all’urbanistica non hanno più soldi da spendere per campagne di “lettura fotografica del territorio” da chiudere nei cassetti subito dopo la conferenza stampa. Qua e là segni di attenzione pubblica resistono, patrocìni e piccoli finanziamenti pubblici sono citati, in qualche raro caso le istituzioni prendono ancora l’iniziativa di sostenere piccoli centri di ricerca visuale, soprattutto nei centri minori. Ma in buona sostanza, sono quasi sempre auto-commissioni in cerca di attenzione, un po’ di crowd-funding, e qualche sponsor. Forse è presto per parlare di un movimento omogeneo, di una nuova generazione, di un approccio “italiano” al rapporto fra fotografia e realtà. In fondo, quando si scende nel dettaglio, si capisce che le esperienze sono molto diverse una dall’altra. In qualche caso è il gruppo che fa il progetto, in qualche caso è vero il viceversa. C’è il collettivo vero, orizzontale, paritario e ad alto tasso di condivisione della paternità del lavoro (fino alla soppressione delle firme individuali), c’è l’associazione dove ogni autore fa un po’ la sua strada; c’è il gruppo già strutturato in impresa commerciale e c’è l’esperienza nata da un workshop, dove si avverte l’impronta di un primus inter pares; c’è l’aggregazione nata su Facebook e quella radicata in un quartiere; c’è l’esperienza finalizzata e conclusa una volta raggiunto l’obbiettivo, e quella che si sviluppa e cambia nel tempo… Ma in tutti mi è sembrato di poter trovare un filo rosso. Torna, prepotente, la voglia di fotografia che scopre, scava, analizza e interpreta la scena sociale, la scena urbana e antropica, quasi sempre con forti e dichiarate motivazioni etiche e politiche. E torna accompagnata dalla consapevolezza che serve una nuova forma, un nuovo modo per dirlo. Non sto parlando solo del modo di esporre, che a Savignano era generosamente, volutamente, allegramente caotico. Né del modo di comunicare, di depositare il lavoro: anche se il banco delle pubblicazioni, delle auto-edizioni, pieno di invenzioni editoriali, ribollente di voglia di stupire, di cambiare registro, di sovvertire gli schemi dell’editoria tradizionale, era forse il luogo più vitale ed emozionante della mostra intera. No, parlo proprio del modo di lavorare. Dell’abbandono, quasi sempre, della presunzione dell’occhio dell’esperto, di quella hybris del fotografo come veggente assoluto, del testimone eroico con la vocazione all raddrizzamento dei legni storti che ha percorso nel bene e nel male tutto il Novecento della fotografia documentaria e sociale. Vedo ragazzi che depongono certe presunzioni autoriali e cominciano a pensare alla fotografia come una chiave di una tastiera più ampia per “suonare” il mondo che ci circonda. Che non consideranio le immagini di per 52 loro “rivelazioni della verità”, ma strumenti d’indagine, cucchiai che raccolgono tracce, indizi, impronte da studiare, assieme a parole, oggetti, documenti. Il progetto Confotogafia in questo mi ha colpito: cinquanta fotografi a L’Aquila, un seminario iniziale con esperti, poi ciascuno si è trovato unoscout, una guida indiana, un abitante delle zone terremotate, delle new townsdella vergognosa ricostruzione propagandistica, che lo ha portato lungo i percorsi della propria esperienza dei luoghi, indicandogli quel che c’era da vedere e far vedere, e spiegandoglielo. Mappe, documenti, riflesisoniconclusive completano il “pacchetto”. Questa non è più fotografia sociale d’inchiesta, è inchiesta sociale con – tra l’altro – fotografie. Ma il caso aquilano è solo quello che mi è sembrato più emblematico. Non vale la pena di fare graduatorie. Vale la pena invece di nominarli tutti, questi trentacinque incoraggianti piccoli miracoli che spero cresceranno. Visitaeli. Eccoveli, con tutti i link che sono riuscito a trovare (segnalatemi eventuali errori):Adriatic Project, Calamita/à, Cesuralab, Confotografia, Corpi di Reato, Deaphoto/Notturni urbani, DER Lab, Documentary Platform, Exposed, Fotoromanzo Italiano, Habitat Project, Lab, Laboratorio Irregolare, Landscape Stories, LNM10, Lugo Land, Lungofiume,Micamera, Micro, Nastynasty/Blisterzine, Osservatorio Fotografico, Pelagica, Presente Infinito, Planar, Punto di Svista, Officine Fotografiche, Questo Paese, Rorhof, Spazio Labò,Synap(see), Terra Project, The View from Lucania, Urbanautica, 150, 3/3. Sia chiaro: non tutto mi è piaciuto, non tutto ho capito bene. Ma credo che i difetti, le ingenuità, i “già visto”, le ridondanze, le retoriche inevitabili di questi sforzi passino del tutto in secondo piano rispetto alla sorpresa, quasi miracolosa, di vedere che questi sforziesistono. Tag: collettivi, fotografia, Massimo Sordi, SIFest, Stefania Rössl Scritto in Eventi, fotografia e società | 27 Commenti » 53 Gianni Berengo Gardin - Elliott Erwitt Comunicato stampa da http://undo.net/ Un'amicizia ai sali d'argento. Fotografie 1950 - 2014. In mostra 120 immagini ripercorrono la carriera dei due fotografi. Ci sono anche i provini delle piu' importanti foto e una ricostruzione del loro studio. a cura di Alessandra Mauro Un’amicizia ai sali di argento a Roma presso l’AuditoriumExpo dell’Auditorium Parco della Musica. La mostra, a cura di Alessandra Mauro, sarà presentata nell’ambito di Auditorium Foto grafia, un progetto della Fondazione Musica per Roma in collaborazione con Contrasto e Fondazione Forma per la Fotografia. La mostra sarà aperta dal 14 ottobre al 2 novembre 2014 e dal 18 novembre al 1 febbraio 2015. L’esposizione, per la prima volta, mette a confronto due grandi interpreti della fotografia, due maestri della camera oscura. Nella loro lunga carriera, Berengo Gardin e Erwitt ancora oggi percorrono il mondo guardandolo attraverso il visore di una macchina fotografica, strumento e pretesto di vita, per poi scegliere, sui provini a contatto, le foto migliori di cui la stampa finale, quella definitiva, avrà i segni, le luci e le ombre dei sali d’argento e della realtà. Molte celebri, altre poco note, altre ancora appena realizzate e mai mostrate finora, in questa mostra le immagini di Gianni Berengo Gardin e quelle di Elliott Erwitt dialogano una con l’altra, in un percorso 54 incrociato di stili, recuperando il senso di uno sguardo, quello partecipe e intenso dei fotogiornalisti, e di un legame f orte, come appunto l’amicizia. Un’amicizia fatta di camera oscura, di acidi di sviluppo e di sali d’argento. Centoventi fotografie ripercorrono la carriera dei due fotografi, dai primi anni Cinquanta fino agli ultimi reportage realizzati in questi recent i mesi sulle grandi navi a Venezia per Berengo Gardin e uno reportage sulla Scozia per Elliott Erwitt. Ma in mostra ci saranno anche i provini delle più importanti immagini dei grandi fotografi e una ricostruzione del loro studio: il luogo magico dove tutto avviene o meglio, tutto si rivela. Un libro pubblicato da Contrasto accompagna l’esposizione. Gianni Berengo Gardin è nato a Santa Margherita Ligure nel 1930. Nel 1963 vince il World Press Photo. Dopo essersi trasferito a Milano si è dedicato principalmente alla fotografia di reportage, all’indagine sociale, alla documentazione di architettura e alla descrizione ambientale. Nel 1979 ha iniziato la collaborazione con Renzo Piano, per il quale documenta le fasi di realizzazione dei progetti architettoni ci. Nel 1995 ha vinto il Leica Oskar Barnack Award. È molto impegnato nella pubblicazione di libri (oltre 200) e nel settore delle mostre (oltre 200 individuali). Contrasto ha appena pubblicato Il libro dei libri (2014) che raccoglie tutta i volumi pubblicati (oltre 250). Elliott Erwitt è nato a Parigi nel 1928 da genitori russi. La famiglia si trasferisce negli Stati Uniti nel 1939 per sfuggire le leggi razziali, fatto questo che permette a Erwitt di studiare cinema a New York. Svolge il servizio di fotografo in Europa presso l’US ARMY Signal Corps, ruolo che gli permise di entrare in contatto con Robert Capa che lo indroduce in Magnum Photos di cui diventa membro nel 1970. Ha esposto nei più importanti musei del mondo e i suoi libri sono dei best sellers fotografici. L’ESPERIENZA DELLA CAMERA OSCURA Nell’ambito della mostra, nel nuovo spazio AuditoriumExpo completamente rinnovato, proseguiranno le iniziative di Auditorium Fotografia. Incontri con gli autori, presentazioni di libri, conferenze, lezioni di fotografia e una inedita esperienza in camera oscura accompagneranno la programmazione delle mostre di fotografia dell’Auditorium di Roma. Organizzata insieme all’associazione Antropomorpha, L’esperienza della Camera Oscura permette ai visitatori di sperimentare la pratica del fotografo analogico entrando nella camera oscura ed imparando, sotto la guida di un esperto, le principali tecniche di stampa e come realizzare le fotografie ai sali d’argento. Gli incontri avverranno di sabato alle 10 del matti no, avranno una durata di due ore, un costo di 50 euro (comprensivo anche del biglietto della mostra). Date incontri: 18 e 25 ottobre; 1, 15, 22 e 29 novembre Numero massimo di partecipanti: 10 persone 55 È indispensabile la prenotazione inviando indirizzo: promozione@musicaperroma.it una mail al seguente Gianni Berengo Gardin incontrerà il pubblico lunedì 13 ottobre alle 19 a Roma in occasione della inaugurazione della mostra Gianni Berengo Gardin – Elliott Erwitt. Ufficio stampa Contrasto- Tel +39 06 328281 Fax +39 06 32828240 ufficiostampa@contrasto.it Auditorium Parco della Musica , viale Pietro de Coubertin 30 - 00196 Roma Orario: dalle ore 11 alle 18. Domenica e festivi dalle ore 10 alle 18. Disimparare a vedere. Una storia con l’orso di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Barry Lopez (photo © David Liittschwager, g.c.) Se sei uno scrittore naturalista, se ti trovi su una scialuppa negli anfratti del pack, in mezzo a una tormenta di neve, e avvisti un orso bianco che cerca di cavarsela fra i lastroni di ghiaccio, e se hai una macchina fotografica, non hai scelta. Barry Lopez afferrò la sua fotocamera e cominciò a scattare quel che vedeva. Quel che pensava di vedere. Più tardi, al calduccio dell’Oceanographer, la nave della sua spedizione artica, ricapitolò gli eventi, per farne quel che era suo scopo primario farne: scriverne. E provò una sensazione di disagio, quasi di panico. Provai a richiamare alla mente tutti i dettagli dell’incontro con l’orso. Cosa aveva fatto quando ci aveva visti? Aveva cambiato direzione? Come aveva proceduto? Come aveva fatto esattamente ad arrampicarsi sul lastrone di ghiaccio galleggiante per uscire dall’acqua? Come funzionava quel suo movimento? Quando si era scrollato di dosso l’acqua del mare, in cosa era 56 stato diverso rispetto a un cane che compie lo stesso movimento? Quando aveva sibilato, che colore aveva l’interno della sua bocca? [...] Per il mio lavoro di scrittore, ricordare cosa era accaduto in un incontro era cruciale; ma occuparmi delle macchine fotografiche, durante quel tempo passato con l’orso, aveva alterato e ridotto il mio ricordo. Mentre l’orso polare faceva qualcosa, io stavo controllando il regolatore dell’apertura per cercare di inquadrare e mettere a fuoco da una barca in movimento. Barry Lopez è un giornalista, saggista e scrittore californiano, discretamente noto per i suoi libri sulla fauna selvatica e sul paesaggio nordico. Per una quindicina d’anni è stato anche fotografo naturalista, ammiratore dei grandi fotografi americani, da Adams a Weston, amico di Robert Adams. In capitolo del suo libro di appunti autobiografici, Una geografia profonda, appena tradotto in italiano, riflette anche sul rapporto fra le sue immagini e la sua scrittura. E l’episodio dell’orso è cruciale nella sua decisione di allontanarsi definitivamente dalla fotografia praticata. Una scelta che ha molte ragioni, non ultima una sua crescente perplessità sull’immagine fotografica della fauna selvatica che viene proposta dalle grandi riviste di viaggio, geografia e natura. In particolare, non gli piaceva che, nelle fotografie sui media, gli animali selvatici nel mondo naturale fossero vivaci e decorativi. Indicati come eleganti, coraggiosi, aggraziati, sinistri, astuti e così via, in base alla specie, gli animali venivano privati della loro personalità e della capacità di essere originali [...] un paesaggio di animali selvaggi piacevole ma non necessariamente coerente (immagini che essenzialmente mentivano ai bambini). Ma quell’incontro sul pack, mediato, anzi schermato dall’obiettivo, dice a lui e a noi qualcosa di più. Ossia che il fotografo, spesso, non vede. Che lo scrittore, dunque, devedisimparare a vedere come (non) vede il fotografo. Cercando sia di fotografare sia di scrivere, io non facevo altro che creare due storie parallele ma indipendenti. Lo sforzo era diventato disorientante, e molto faticoso. [...] Avevo iniziato a sospettare che le fotografie scattate in fase di raccolta appunti rinchiudessero le mie parole in uno schema che si andava determinando troppo presto. In un certo senso, le fotografie introducevano preconcetti in un processo che io volevo mantenere fluido. Barry si convinse che il fotografo che deve fissare visioni immediate per una visione differita, e lo scrittore che deve archiviare visioni immediate per una scrittura differita, non vedono le stesse cose. Stavo anche iniziando a provare disagio per il modo in cui le fotografie tendono a collassare gli eventi in un singolo momento, dunque per tutto ciò che lasciano fuori. (Gli archeologi devono affrontare un problema simile quando di uno scavo salvano solo quello che riconoscono. Anni dopo, quando il contesto è stato distrutto da tempo, l’archeologo può domandarsi cosa c’era, allora, che non aveva riconosciuto). Sintesi contro analisi. Raccolta contro elaborazione. Davvero questo è il grande solco che divide le due culture, verbale e visuale? Tag: Ansel Adams, Barry Lopez, Edward Weston, fotografia naturalistica, geografia, orso, Robert Adams, scrittura Scritto in natura, Testo e immagine | 12 Commenti » 57 L’AMORE PER L’ITALIA NELLE FOTOGRAFIE DI LEONARD FREED IN MOSTRA AL CENTRO CULTURALE CANDIANI da CANDIANI NEWS Io amo l’Italia è il titolo della mostra di Leonard Freed che verrà inaugurata giovedì 20 novembre alle ore 18.00 al Centro Culturale Candiani, e che sarà visitabile dal 21 novembre 2014 al primo febbraio 2015. La mostra, organizzata dal Centro Candiani, associazione culturale ADMIRA+,Associazione Culturale Civico5, e curata da Enrica Viganò, sarà composta da una selezione di 100 fotografie, che ci accompagneranno negli oltre quarantacinque viaggi che Leonard Freed ha fatto nella nostra Italia, paese con il quale il fotografo ha dichiarato di avere una vera e propria love story. Da qui il titolo Io amo l’Italia. Un lungo innamoramento, che nasce da un viaggio in Europa, prende forma dai primi scatti a Little Italy e si sviluppa in 50 anni di studio puntuale della naturaumana, di cui gli italiani, secondo lui, ne rappresentavano una delle migliori manifestazioni. Attraverso il suo strumento, la macchina fotografica, usato magistralmente e guidato da un’istintiva comprensione dell’uomo e della sua natura, scatena quello che è il suo maggior interesse: l’attenzione per l’uomo e per le motivazioni del suo essere. Come Freed stesso ammette: “La mia macchina fotografica è il mio lettino dello psichiatra”. Per capire ancora di più il suo lavoro in Italia basta ascoltare le sue riflessioni: “La cosa che sto cercando di mettere nelle mie fotografie è l’elemento del tempo. Il tempo passa e noi abbiamo bisogno di esserne consapevoli. La fotografia ci può dare questa consapevolezza”. Probabilmente proprio questa diventa una componente determinante del suo innamoramento per il nostro paese, un luogo dove presente e passato convivono e interagiscono in maniera tangibile e metamorfica. Accompagnerà la mostra il catalogo edito da Admira Edizioni, Leonard Freed, Io amo l’Italia, Milano 2011, testo critico di Michael Miller. La mostra - organizzata nell’ambito del progetto Candiani fotografia. Impronte, tracce, segni: dalla luce all’immagine, un itinerario nella fotografia d’autore attraverso le opere di importanti maestri, italiani e stranieri - sarà arricchita da una serie di eventi flash tra i quali la presentazione del libro La fotografia come fonte di storia, a cura di Gian Piero Brunetta, giovedì 4 dicembre alle ore 18.00 e il finissage “Per le storie è meglio il bianco e nero” Musica e parole nell’Italia di Freed in programma il 31 gennaio sempre alle ore 18.00. IO AMO L’ITALIA Fotografie di Leonard Freed - a cura di Enrica Viganò Organizzata da Centro Culturale Candiani in collaborazione con associazione culturale ADMIRA+ e Associazione Culturale CivicoCinque Dal 21 novembre 2014 al 1 febbraio 2015 Inaugurazione mostra: giovedì 20 novembre, ore 18.00 - orario: dal mercoledì alla domenica 16.00 - 20.00, aperture straordinarie: 8 dicembre e 6 gennaio 16.00 – 20.00 - sala espositiva secondo piano ingresso: intero 5 euro – ridotto 3 euro (Candiani Card, Cinema Più, IMG Card, studenti) - Il servizio di biglietteria termina mezz’ora prima della chiusura. 58 Catalogo: Michael Miller, testo critico a cura di, Leonard Freed, Io amo l’Italia, Admira Edizioni, Milano 2011 Eventi flash: giovedì 4 dicembre, ore 18.00 Presentazione del libro La fotografia come fonte di storia. (AA. VV, 2014) - Atti delle giornate di studio (Venezia, Istituto Veneto di Scienze e Lettere, 4-6 ottobre 2012). Partecipano all’incontro Roberto Ellero e Gian Piero Brunetta - sala seminariale primo piano ingresso libero sabato 31 gennaio, ore 18.00: Finissage “Per le storie è meglio il bianco e nero” Musica e parole nell’Italia di Freed - A cura di Simonetta Nardi e Voci di Carta - sala espositiva s Le grandi foto che René non fece di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it René Burri e il suo ritratto del Che (foto Ansa) Su un marciapiede di New York, ferma al semaforo, René Burri riconobbe Greta Garbo. Già lontana dalle scene, fuggiva il mondo, divina auto-esiliata dietro enormi occhiali scuri, che proprio in quel momento si tolse. Qualunque fotografo avrebbe agito d’istinto. Lui non portò la Leica all’occhio. «Sarebbe stata una fotografia troppo ovvia», raccontò poi, senza rimpianti. Cavaliere di un ordine religioso chiamato fotografia, l’infaticabile monaco errante Burri, scomparso il 20 ottobre a 81 anni di età nella sua Zurigo, sapeva rispettare il sacro. Andava più fiero delle foto mai fatte che delle trentamila che lo hanno reso celebre come uno degli occhi più penetranti del Novecento (da un anno conservate al museodell’Elysée di Losanna dalla fondazione che porta il suo nome, che ha in programma per il 2015 una grande retrospettiva). Ebbe un giorno nel mirino l’anziano Fidel Castro sotto l’insegna “uscita” di un albergo: non scattò. Nei suoi servizi dal Vietnam è difficile trovare un cadavere. Diceva: «Un giorno farò un libro con tutte le foto che non ho mai scattato, sarà un enorme successo». Così, è piuttosto difficile pensare che la sua immagine più famosa, quella per la quale verrà ricordato in tutto il mondo, il ritratto di Che Guevara con quel sigaro issato all’angolo destro della bocca come una bandiera, o come un cannone puntato (d’accordo: anche come un simbolo fallico, se volete), sia stata per lui un’icona premeditata. 59 Icona lo fu certamente, virale e travolgente: l’unica in grado di fare concorrenza a quell’altra più fortunata ancora, il Che-Cristo con basco e la stella che Giangiacomo Feltrinelli portò via al fotografo cubano Alberto Korda, posterizzò e incollò sulla copertina del diario boliviano del Comandante, proiettandola nell’immaginario ribelle di ogni adolescenza, e di ogni ideologia. Anche il Che di Burri si vendette a milioni di esemplari su poster, cartoline, magliette, anche il suo sant’Ernesto dal sigaro immacolato diventò più famoso del suo autore. Ma a differenza dell’altra, non ha mai smesso di essere una fotografia. Non è diventata un arazzo liturgico come tanti ritratti del rivoluzionario vivente (e morente). Perché era una fotografia, fin dall’inizio: e perché Burri era un fotografo, da cima a fondo. Svizzero, come tanti grandi fotografi del Novecento, da Werner Bischof a Robert Frank. Photomaton Rene Burri, giugno 2013, © Musee de l’Elysee, g.c. Nel 1959 fu proprio Bischof, amico, mito e ispiratore (quando morì in un incidente in Perù, ne sposò la vedova Rosellina), a presentare a Magnum, confraternita del fotogiornalismo indipendente, quel ragazzino promettente e molto timido che aveva studiato design, e che all’inizio amava forse il cinema più della fotografia, ma a 13 anni aveva fatto un piccolo scoop fotografando 60 Winston Churchill al finstrino di un’auto diplomatica mentre attrraversava le vie di Zurigo. Il suo primo reportage, su una scuola di bambini sordomuti, passò a pieni voti l’esame dei sacerdoti dell’obiettivo, Capa e Cartier-Bresson. E Magnum cominciò a spedirlo in giro per i due emisferi a caccia di immagini da vendere a Life o a Du, Medio Oriente, Indocina, Brasile… Finì così, quella mattina del gennaio del 1963, in un ufficio del ministero dell’Industria di un’Avana ancora scossa dalla crisi dei missili, dove la giornalista Laura Bergquist di Look aveva ottenuto un’intervista esclusiva con un giovane barbudo spettinato, in tuta verde militare e anfibi, che sembrava quasi incredulo di essere proprio lui il ministro. «Due ore di grande tensione», che Burri sfruttò per farsi invisibile e cogliere il comandate con la guardia abbassata, fuori posa. Scattò otto rullini. Il Che non gli offrì neanche un sigaro. Sono tutti da guardare, come un film, quei provini presi in stato di grazia di un Che non ancora imbalsamato dall’Hasta siempre!, che si lascia sfuggire sorrisi da bimbo, che prova pose davanti alla carta geografia di Cuba, che si stropiccia gli occhi sfinito dal duello con l’intervistatrice. Anche Burri sfuggì al monumento di quella foto troppo famosache poteva schiacciarlo. Come solo i grandi sanno fare, cambiò continuamente direzione. Appassionato di architettura, conquistò la fiducia di Le Corbusier di cui documentò il lavoro maturo, culmine la chiesa di Ronchamp; girò documentari (anche per la Disney), espugnò la diffidenza di Picasso, e il suo primo libro ebbe una prefazione di Baudrillard. Visse la sua «doppia vita», forse quadrupla, sestupla, di reporter in bianco e nero e a colori, di fotografo e cineasta, di giornalista e di artista, «e questo mi ha difeso dal diventare cinico». La fama mondiale della sua fotografia-icona, più potente di lui, lo divertiva. Anni dopo, di nuovo a Cuba, ne scovò una gigantografia appesa nell’androne di una banca dell’Avana. Provò a rifotografarla. Fu immediatamente arrestato. [Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 21 ottobre 2014] Tag: Alberto Korda, Avana, Che Guevara, Cuba, Du, Fidel Castro, Giangiacomo Feltrinelli, Greta Garbo,Henri Cartier-Bresson, Jean Baudrillard, Laura Bergquist, Le Corbusier, Life, Look, Pablo Picasso, René Burri, Robert Capa, Robert Frank, Werner Bischof Scritto in Il valzer degli addii, Venerati maestri | 11 Commenti » Da Capa a Cartier-Bresson, la nascita di Magnum di Nicoletta Castagni da www.ansa.it La nascita della Magnum Photos, la più celebre agenzia fotografica del mondo, è di scena dal 31 ottobre all'8 febbraio a Cremona, negli spazi del nuovo Museo del Violino. Esposti 110 scatti dei fondatori Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, George Rodger e David Seymour, che si erano geograficamente divisi il mondo per andare a realizzare i loro straordinari reportage. Intitolata 'La nascita di Magnum Robert Capa Henri Cartier-Bresson George Rodger David Seymour', l'importante rassegna organizzata da Magnum Photos, Unomedia e Sgp Eventi, è stata curata da Marco Minuz, che è riuscito a 61 mettere insieme per la prima volta gli scatti realizzati nell'immediato dopoguerra in Medio Oriente e Africa, America e Oriente dai quattro fotografi che come nessun altro hanno saputo raccontare un'epoca. Un risultato che del resto era già nelle loro intenzioni. Il 22 maggio del 1947, dopo alcune riunioni presso il ristorante del Moma di New York, viene infatti iscritta al registro delle attività americane la 'Magnum Photos Inc', nome che prendeva spunto dalla bottiglia di champagne. A firmare erano Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, George Rodger, David Seymour e William Vandivert, che insieme riuscirono a concretizzare la lunga riflessione avviata proprio da Capa durante la guerra civile spagnola e condivisa in seguito con molti colleghi impegnati come lui a raccontare la storia e la società in evoluzione nel cuore del '900. Il progetto si fondava sulla tutela del lavoro del fotografo e sul rispetto degli associati diritti fotografici. Attraverso la formula della cooperativa, i fotografi diventavano proprietari del loro lavoro, prendevano decisioni collettivamente, proponevano autonomamente alle testate i propri lavori per non rimanere assoggettati alle esigenze editoriali delle riviste, e rimanevano proprietari dei negativi, garantendo così un pieno controllo sulla diffusione delle immagini e dei testi delle didascalie associate alle foto, nonché al perentorio divieto di manipolazione. Con questi presupposti, e con la qualità del lavoro dei suoi soci, Magnum è in breve tempo diventata un riferimento imprescindibile nel mondo del fotogiornalismo. Fin dagli esordi, viene quindi prevista, per ogni fotografo, una suddivisione geografica dove operare: Henri Cartier-Bresson in Oriente, David Seymour in Europa, William Vandivert in America, George Rodger in Medio Oriente e Africa, mentre Robert Capa ha piena libertà d'azione nel mondo. Ed è con questo autore che si apre il percorso espositivo della mostra cremonese, con una sezione incentrata al lavoro di Robert Capa prima della fondazione di Magnum: dalle immagini celeberrime della guerra civile spagnola a quelle del conflitto fra Cina e Giappone e della seconda guerra mondiale. A seguire, quattro selezioni legate ai primi reportage realizzati di Rodger, CartierBresson, Seymour e dallo stesso Capa per Magnum. Suo è quello dedicato alla nascita dello stato di Israele con una particolare attenzione ai campi di rifugiati, mentre il reportage di George Rodger è dedicato alla tribù dei Nubas in Sudan. Se l'obiettivo di Henri Cartier-Bresson racconta l'India a una svolta cruciale con le ultime fotografie scattate a Gandhi prima che fosse assassinato nel gennaio del 1948, quello di David Seymour si sofferma sulle conseguenze del secondo conflitto mondiale in Europa, con una particolare attenzione al dramma degli orfani di guerra. Il reportage di George Rodger è infine dedicato alla tribù dei Nubas in Sudan. ''Questo progetto espositivo reso possibile grazie ad una forte partnership con Magnum, permetterà al visitatore di comprendere un passaggio fondamentale della storia del fotogiornalismo che è rappresentato dalla nascita di Magnum sottolinea Muniz - Per la prima volta questi reportage vengono confrontanti assieme permettendo di cogliere le straordinarie personalità di questi fotografi, ma al contempo riflettere sul ruolo del fotogiornalismo nel mondo dell'informazione''. 62 Il sale della Terra un film di Juliano Salgado, Wim Wenders di Arianna Pagliara da http://www.cinecriticaweb.it/ Già presentato e apprezzato a Cannes, l’ultimo lavoro di Wenders è arrivato anche nelle sale italiane, dopo essere stato proiettato al MAXXI nell’ambito del Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione Wired Next Cinema, che ha ospitato anche un incontro con il regista moderato da Mario Sesti. Wenders ha parlato, in questa occasione, anche del suo speciale rapporto con la fotografia, che come è noto occupa un posto di rilievo all’interno del suo lungo e ricco percorso creativo: pensiamo a Palermo Shooting (2008), (auto)riflessione sulla vita di un fotografo, e anche – esempio forse ancor più calzante – al progetto Immagini dal pianeta terra, grandiosa e suggestiva mostra di fotografie delle quali Wenders è autore, ospitata nel 2006 a Roma dalle Scuderie del Quirinale. Ma stavolta il regista tedesco, con Il sale della terra, pone in atto un’operazione del tutto diversa, che consiste in un omaggio profondamente sentito, visivamente potente e affascinante, all’imponente opera del fotografo brasiliano Sebastião Salgado. Un incontro, questo, in un certo senso imprescindibile, dovuto: siamo di fronte all’incrociarsi di due sguardi per così dire paralleli e complementari, ed è proprio dall’intima affinità tra l’occhio di Wenders e quello di Salgado che si origina l’estrema empatia con cui il regista descrive e racconta la vita avventurosa e le molte immagini (ora straordinarie, ora commoventi) del fotografo. L’intento del regista non è, in questo caso, quello di portare avanti una analisi critica – che “vivisezioni” e indaghi un processo creativo – né una riflessione sul mezzo – cioè l’obiettivo che media tra realtà e rappresentazione della realtà, tra l’oggetto rappresentato e il soggetto che rappresenta - o meglio, se ciò accade, all’interno del documentario, è solo in minima parte. Tuttavia ciò non appare né un limite né, tanto meno, un difetto, quanto piuttosto una scelta di 63 campo quasi radicale, voluta e difesa fino all’ultimo. Si è accennato, peraltro, durante l’incontro all’Auditorium Parco della Musica, al rischio che le immagini di Salgado sembrano correre, quello cioè di essere estetizzanti finanche nella loro rappresentazione della sofferenza o del dolore: si potrebbe aprire il campo, procedendo in questa direzione, a una potenziale dissertazione entro cui bellezza e verità si pongono dialetticamente come elementi oppositivi. Ma il punto di vista di Wenders, come ha suggerito durante l’incontro e come a conti fatti il suo film conferma, supera questa ideale contraddizione, conciliandola nel momento in cui sceglie una discriminante del tutto differente, quella cioè della dignità. E le immagini di Salgado, ora maestose ora laceranti, possiedono sempre – oltre a una rara e innegabile potenza espressiva, che forse ha pochi eguali – un enorme rispetto per ciò che viene rappresentato, che spesso (trattandosi in gran parte di reportage di stampo sociale e umanitario, che documentano e denunciano) coincide con esempi drammatici di sofferenza, devastazione e disperazione. Dalle zone desertiche del Sahel all’inferno del Ruanda, Salgado ha documentato con coraggio e ostinazione, attraverso lunghi e innumerevoli viaggi, alcune tra le maggiori tragedie umanitarie degli ultimi tempi. Mano a mano però il suo interesse si è spostato anche su altri campi: luoghi e popolazioni rimasti miracolosamente quasi incontaminati vengono ad esempio descritti e raccontanti nel progetto Genesi. Insieme al lavoro di Sebastião Salgado, Wenders mette in scena però anche la sua vita familiare, soprattutto attraverso lo sguardo privato e coinvolto del figlio Juliano Salgado, coregista del film. In questo modo si alternano alle fotografie di Salgado immagini d’archivio e interviste, come quella fatta dal nipote al nonno (padre di Sebastião), che racconterà di un’immensa fazenda distrutta dalla siccità, che tuttavia tornerà infine a nuova vita proprio grazie al fotografo. Da un’idea della moglie Lelia nasce infatti il progetto di riforestazione della terra dove Sebastião era cresciuto: viene fondato l’Instituto Terra e ricreata la mata atlantica (la tipica foresta pluviale), piantando circa due milioni di alberi e ricreando così, a partire da zero, un perfetto ecosistema in circa dieci anni. Il film si chiude su questa impresa incredibile e miracolosa con un congedo dolce e beneaugurante, attraverso immagini che esaltano e celebrano simbolicamente la rinascita in un possibile percorso di contrapposizione e riscatto rispetto alla drammaticità e durezza dell’esistere testimoniate dall’opera di Salgado stesso. Trama Il documentario ripercorre la vita e il lavoro del grande fotografo brasiliano Sebastião Salgado, raccontando i suoi moltissimi viaggi in luoghi tragicamente devastati dalle guerre (come Ruanda ed Ex-Jugoslavia) oppure fascinosi e quasi inesplorati (Antartide, Amazzoni. 64 Le fotografie del surrealista Jacques-André Boiffard a Parigi di Maurizio G. Ge Bonis da http://www.huffingtonpost.it/ La mostra più significativa, complessa e ben orchestrata che io abbia mai visto è stata quella denominata La Subversion des images, esposizione che riguardava la storia visuale del surrealismo, attraverso un percorso denso di incredibili materiali (alcuni rarissimi). La seconda? Presto detto: Hitchcock et l'Art, uno straordinario studio sulla relazione profonda e solidissima tra la poetica dell'autore de La finestra sul cortile e le forme artistiche del Novecento. La prima fu allestita nel 2010, la seconda nel 2001. Ma cosa unisce queste esperienze espositive? Il luogo dove sono state ospitate: Il Centro Pompidou di Parigi. Questi sono solo due esempi dell'importantissima opera di divulgazione culturale che svolge da anni l'ente francese, ma l'aspetto che mi colpisce in questi giorni è la notizia che un intero settore del Museo, circa 200 mq, sarà interamente dedicato alla fotografia, dunque alla valorizzazione di una disciplina visuale fondamentale per i nostri tempi. Il tutto grazie alla collezione permanente composta a quanto pare da decine di migliaia di negativi e stampe. Questo nuovo ambiente dedicato alla fotografia ospiterà tre mostre all'anno e rappresenterà dunque una sorta di centro di aggregazione per appassionati e studiosi di fotografia che intendono approfondire tematiche relative alla fotografia del Novecento, in particolar modo di quel periodo del XX secolo in cui si sviluppò ad esempio un movimento significativo come quello surrealista. Proprio a un esponente meno noto di quest'area espressiva sarà dedicato il primo appuntamento, a partire dal novembre 2014. Sto parlando di JacquesAndré Boiffard, autore che affinò la sua poetica fotografica alla corte di Man Ray, per il quale, oltretutto, fu assistente operatore in occasione della realizzazione dei film dello stesso Ray intitolati: L'étoile de mer (1928) e Les Mystères du Château de Dé (1929). Vedi: http://www.youtube.com/watch?v=6TamgrnVL4s Ebbene, scoprii Jacques-André Boiffard proprio in occasione della straordinaria mostra La subversion des images che visitai al Centro Pompidou con grande interesse. Alcune sue opere erano presentate sia nell'allestimento che nel ponderoso e importantissimo catalogo pubblicato proprio dalle Editions du Centre Pompidou. Dalle immagini che vidi all'epoca capii quanto Boiffard avesse recepito perfettamente la poetica surrealista. Le sue opere erano un mix di incongruenza semantica, visione onirico-erotica dell'esistenza, psicanalisi e slittamenti di senso. Vedi: http://www.youtube.com/watch?v=DFEJ_nMtB5s Dal 5 novembre 2014 al 2 febbraio 2015 sarà visitabile al Centro Pompidou la prima ampia retrospettiva dedicata a questo autore 'appartato'. Questa mostra si configura come un'intelligente iniziativa di divulgazione culturale. Un grande ente museale moderno dovrebbe operare sul piano della ricerca e della scoperta di angoli nascosti della storia dell'arte passata e contemporanea e non solo sulla riproposizione delle solite spettacolari "mostre pacchetto" dei soliti noti che spesso vediamo nei nostri musei. 65 Franco e Luigi, una Canon per due di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it La Canon FT se l’erano comperata dividendo alla romana, ed era di tutti e due. E quella “comproprietà indivisa”, nella sua materiale semplicità, era una dichiarazione di intenzioni: di lavorare per opere a due, indivisibili. Non fu facile. Luigi Ghirri e Franco Guerzoni, Affreschi, 1973, © 2014 Franco Guerzoni, © 2014 eredi di Luigi Ghirri, g.c. Materialmente, le foto le scattava Luigi (ma non sempre). Franco però stabiliva cosa, e dove. Luigi sceglieva il come, ma non sempre. Franco pensava che ogni foto fossepossibile, quando aveva bisogno di una foto fatta proprio così. Luigi lottava contro la luce scarsa e le prospettive distorte. Ogni tanto Franco sospettava che Luigi scattasse seza mettere il rullino, così, solo per farlo contento. Franco voleva foto in bianco e nero,“scariche”, cioè poco contrastate, poco aggressive nel tono e nella composizione, ortogonali, asciutte. Luigi di nascosto metteva qualche rullino a colori, ma sapeva che quelle foto di contrabbando poi sarebbero state solo sue, non appartenevano ai “viaggi randagi” della simbiosi di coppia. Franco, in camera oscura, aveva fretta, per lui era sempre “buona la prima”. Luigi sbuffava e diceva “no, ne faccio un’altra”. Per Franco, la fotografia era l’inizio. Appena nata, cominciava a “lavorarla”, versandole addosso polvere e vernici, incollandole addosso oggetti e carte. Per Luigi, la foto era la mèta: per lui era autosufficiente, andava bene così. E tuttavia “si adoperava a collaborare, ma rimaneva persuaso che il deposto di informazioni offerto da una fotografia risiedesse esclusivamente nello scatto primario”. Però i patti erano chiari, si lavorava così. E in fondo, ma questo non lo vuole dire così chiaro, Franco sapeva bene che l’ultima parola era sempre la 66 sua, che quella collaborazione stracolma di amicizia era creativamente asimmetrica. Anche Luigi lo sapeva, ma era un amico, e le foto le faceva per un amico. Però forse un po’ sbuffava. Però gliele faceva. “Si vedeva, a volte gli dispiaceva che intervenissi sulle sue fotografie”, mi raccontaoggi Franco Guerzoni, e si vede che gli dispiace anche a lui, un po’, retrospettivamente, di quel dispiacere. Perché quella con Luigi Ghirri era un’amicizia vera, non un semplice sodalizio d’artisti. Franco ha deciso qualche mese fa che era ora di liberare gli ostaggi. Di permettere a quello che chiama “un mazzo di carte”, alle migliaia di fotografie prese da e con Luigi Ghirri, di uscire dai suoi cassetti, dove un po’ le aveva perfino dimenticate. Per Arturo Carlo Quintavalle “questo ritrovamento è destinato a cambiare la storia, finora non indagata a fondo, delle origini di Ghirri e del suo rappporto con l’arte concettuale”. Verissimo, almeno dal punto di vista del critico, del biografo e del filologo. Luigi Ghirri e Franco Guerzoni, Aia, 1970 , © 2014 Franco Guerzoni, © 2014 eredi di Luigi Ghirri, g.c. Ma quelle foto, mica erano tutte “dei Ghirri”, come quelle che avrebbe fatto pochissimi anni dopo. Delle opere compiute, voglio dire, delle immagini “autorzzate”. C’erano anche le foto del matrimonio di Franco, per dire, bianco/nero a patina matt. In generale, erano le fotografie che Franco aveva pensato di chiedere di fare per lui a quell’amico a cui riconosceva un occhio fotografico migliore del suo. Anche Franco scattava, a volte: e infatti non era soddisfatto. E Ghirri poi non era ancora Ghirri, in quei Settanta. Aveva poco più di trent’anni ed era geometra. Grandi fotocamere, abbiamo visto, non ne possedeva. Una volta affittarono una Leica. E allora cos’erano quelle foto? Ma che bellissima domanda. Modena allora era vivacissima. Altro che provincia. Era piena di maturi ragazzi che non stavano nelle loro scarpe. Avevano un tutore poco più anziano di loro, burbero e paterno, di nome Franco Vaccari. Avevano una gran voglia di fare quel che nessuno aveva ancora fatto. A che gli servivano, a Franco, quelle foto? Un po’, servivano a rendere permanente il transitorio. Franco creava opere effimere con specchi, pannelli di legno, neon, tessuti, costumi da orso… Erano installazioni e “gesti d’arte” che pochissimi videro dal vero, smantellati e distrutti a volte subito dopo lo scatto (non sempre, distrutti: alcuni oggetti poi diventavano arredi rimediati per la casa dei suoceri…). 67 Luigi Ghirri e Franco Guerzoni, Pozze d’acqua, 1969 , © 2014 Franco Guerzoni, © 2014 eredi di Luigi Ghirri, g.c. Era la sua idea di opera-performance. Le fotografie ne lasciavano traccia. Non è cosa nuova. Tutta la land art del Novecento, tutta la body artesistono oggi solo nelle fotografie. Ma erano poi anche oggetti prelevati e trasfigurati in imamgine, materia prima di opere più costruite. Materia prima. In gran parte, restavano inutilizzate. In grandissima parte. Solo alcune, le prescelte, dopo un travaglio metamorfico, diventavano Opera. Franco voleva certe foto (rovine di mattoni in campagna, facciate di case semicrollate dove restava l’intonaco pallido delle stanze) per le sue Antropologie, per i suoi Affreschi… Voleva foto “scariche” da caricare con altra materia. Be’, non la faccio lunga. Guardatele nel libro ”sorridente” che Franco ha fatto per Skira (forse più ancora che nella mostra alla Triennale, dove in realtà ha presentato soprattutto opere nuove ispirate a quelle di allora). Dopo qualche anno il sodalizio si ruppe senza drammi né rancori, Ghirri riscattò l’altra quota della Canon condominiale, e due vite d’artista presero due strade d’artista. Luigi Ghirri e Franco Guerzoni,Verosimile, Orsi a Modena, primi anni Settanta, © 2014 Franco Guerzoni, © 2014 eredi di Luigi Ghirri, g.c. Ma leggetelo quel lungo racconto di un’avventura randagia di due amici visionari, così uguali così diversi. E fatevi le domande che mi sono fatto io, su cos’è un’opera, e di chi è. 68 E cos’è una fotografia, quando viene semplicemente scattata, prima di ogni finalizzazion, prima di essere risolta, finita, “autorizzata”. Be’ di sicuro è una relazione,lo dico spesso. E queste lo sono state in un modo così chiaro, così entusiasmante. Ma se quelle finite erano Opere, qualunque sia in esse la quota di autore dell’uno o dell’altro, le foto che non servirono a creare opere, oggi cosa sono? Nulla? Scarti? Semilavorati senza finalità, semi-opere non concluse? Franco fruga il suo “mazzo di carte” sparso sui suoi tavoli e si rende conto che quelle foto che lui voleva così e così, alla fine “tradivano l’aspettativa: portano il segno distintivo del suo sguardo più che del mio”. No, alla fine non sono davvero “opere a due”, “foto a quattro occhi”, forse non lo erano fin dall’inizio, ed entrambi lo sapevano, forse erano il terreno mobile di un’amicizia che sapeva superare le dissimmetrie. Che cosa dunque sono, davvero e per sempre, quelle foto? Materiale intermedio, mozziconi di intenzione abortita che avrebbero dovuto esser lasciati al loro posto? Lo dicano i filologi. Una cosa lo sono di sicuro. Sono la forma incarnata (incartata? incantata?) di una relazione umana e intellettuale, come tutte le migliori fotografie aspirano ad essere. Sono, conclude Franco con generosa lucidità, “il repertorio dei nostri sguardi condivisi, segmenti che una volta ricongiunti potrebbero diventare il montaggio del film di una grande amicizia”. E a noi per questo piace poterle vedere. Tag: Arturo Carlo Quintavalle, Canon, Franco Guerzoni, Franco Vaccari, Luigi Ghirri, Modena Scritto in arte, Autori, Bianco e nero, Venerati maestri | Un Commento Steve McCurry: Oltre lo sguardo, una nuova mostra nella Villa Reale di Monza da lettera@artribune.com 69 La prima rassegna italiana dedicata a Steve McCurry, allestita a Milano a Palazzo della Ragione nel 2009, ha offerto al grande pubblico la possibilità di scoprire la sua straordinaria produzione fotografica, ben oltre quella vera e propria icona che era già la ragazza afghana dagli occhi verdi, apparsa qualche anno prima sulla copertina di National Geographic. A quel primo appuntamento espositivo ne sono seguiti altri, in varie città italiane, che hanno ogni volta ampliato la conoscenza del suo vasto repertorio, messo in scena nei più diversi contesti con suggestivi allestimenti. A cinque anni di distanza sono più di 500.000 i visitatori di quelle mostre; ma nel frattempo Steve McCurry ha vissuto una stagione particolarmente produttiva della sua ormai più che trentennale carriera di fotoreporter, con incarichi prestigiosi come il calendario Pirelli 2013 e il progetto The last roll realizzato con l’ultimo rullino prodotto da Kodak, ma soprattutto con lavori molto impegnativi che ha realizzato viaggiando nei luoghi del mondo che predilige, dall’India alla Birmania, dall’Afghanistan alla Cambogia, ma anche in Giappone, in Italia, in Brasile, in Africa, e continuando una ricerca iniziata negli anni 70 con il portfolio realizzato in India e poi con il primo importante reportage in Afghanistan. Per questo, dopo aver accompagnato McCurry in un progetto espositivo di così lungo respiro, Civita e SudEst57 hanno deciso di realizzare una nuova mostra, per presentare il suo lavoro in una nuova prospettiva, che, a partire dai suoi inimitabili ritratti, si spinge “oltre lo sguardo”, alla ricerca di una dimensione quasi metafisica dello spazio e dell’umanità che lo attraversa o lo sospende con la sua assenza. Oltre le porte e le finestre, oltre le cortine e le sbarre, oltre il dolore e la paura. Tra linee di fuga e riflessi che si confondono con le architetture della Villa Reale in un suggestivo gioco di rimandi. La mostra si sviluppa a partire dai lavori più recenti di Steve McCurry e da una serie di scatti che sono legati a questa sorprendente ricerca, anche se non mancano alcune delle sue immagini più conosciute, a partire dal ritratto di Sharbat Gula, che è diventata una delle icone assolute della fotografia mondiale. Oltre a presentare una inedita selezione della produzione fotografica di Steve McCurry, la rassegna intende raccontare l’avventura della sua vita e della sua professione, anche grazie ad una ricca documentazione e ad una serie di video costruiti intorno alle sue “massime”. Per seguire il filo rosso delle sue passioni, per conoscere la sua tecnica ma anche la sua voglia di condividere la prossimità con la sofferenza e talvolta con la guerra, con la gioia e con la sorpresa. Per capire il suo modo di conquistare la fiducia delle persone che fotografa: «Ho imparato a essere paziente. Se aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te». Ad una nuova mostra non poteva che corrispondere un allestimento del tutto nuovo, progettato appositamente da Peter Bottazzi per accompagnare il visitatore nel mondo di McCurry e stabilire un dialogo con gli ambienti monumentali della Villa Reale appena restaurata e la decorazione neoclassica che li caratterizza. 70 _______________________________________ 30 ottobre 2014 – 6 aprile 2015 - Villa Reale di Monza, Secondo Piano Nobile Informazioni e prenotazioni: www.mostrastevemccurry.it Un progetto di Civita e SudEst57 - Organizzazione e servizi: Cultura Domani- Con il contributo di Jacob Cohёn e Lavazza -Sponsor Tecnico: Epson. Media Partners: Corriere della Sera, Life Gate - Ufficio Stampa Civita: Barbara Izzo-Arianna Diana Tel. 06692050220-258 izzo@civita.it ,Ombretta Roverselli Tel. 0243353527roverselli@civita.it Immagini: Un uomo anziano della tribù Rabari, Rajasthan, 2010 -An elderly man from the Rabari tribe, Rajasthan, India, 2010 Giochi di ombre, Preah Khan, Angkor, Cambodia, 1999 - Shadow play, Preah Khan, Angkor, Cambodia, 1999 Un ragazzo seduto su una sedia, Omo Valley, Ethiopia,2013 -A boy sits on a chair, Omo Valley, Ethiopia, 2013 Lewis Hine, l’umanità senza nome che ha fatto grande l’America Alla Casa dei Tre Oci della Giudecca una splendida mostra sul grande fotografo statunitense che invento gli “scatti sociali” di Silva Menetto da http://nuovavenezia.gelocal.it/ VENEZIA. C’è una donna seduta con un bimbo in braccio e un altro ai suoi piedi. Ricorda la Madonna della sedia di Raffaello ma non è un dipinto: è una foto in bianco e nero degli inizi del Novecento, è la “Madonna delle case popolari” così come l’ha colta in uno dei suoi straordinari scatti Lewis Hine. C’è un’emigrata albanese avvolta non in un drappo di seta ma in una cappa di cotone, ha il volto stanco eppure fiero, nell’attesa estenuante a Ellis Island, per entrare nella terra promessa americana. C’è una famiglia di emigranti italiani che aspetta nel caos degli sbarchi dai bastimenti transoceanici di ritrovare il proprio bagaglio smarrito. Sono ritratti teneri e feroci a un tempo, hanno rimandi classici nella postura, nei richiami culturali che vivono nell’occhio e nella mente del fotografo che però usa la propria arte come 71 mezzo di denuncia di una realtà sociale che non lo soddisfa. «Forse siete stufi di immagini di lavoro minorile. Bene lo siamo tutti» dirà Hine «ma noi ci proponiamo di rendere voi e tutto il paese così a disagio di fronte a questa faccenda, che quando arriverà il tempo dell’azione, le immagini del lavoro minorile saranno soltanto una testimonianza del passato». Lewis Hine ha inventato la “fotografia sociale” per raccontare una realtà in continua e inarrestabile evoluzione in anni in cui gli operai lavoravano come acrobati, a centinaia di metri da terra per costruire i nuovi tall buildings nella patria del sogno americano. A fianco a questi pionieri delle costruzioni, anonimi eppure indispensabili eroi della modernità, anche il fotografo si arrampica ad altezze vertiginose per seguirli da vicino e catturarne la quotidiana fatica, va ad Ellis Island nell’inferno degli emigranti in attesa di un visto o nelle aziende della Pennsylvania, del North Carolina e della Virginia tra i lavoratori bambini, come Edith che a 5 anni fa la raccoglitrice il cotone, ed è poco più grande di una bambola. Le foto di Hine sono foto di denuncia che hanno fatto il giro del mondo per la loro irripetibile bellezza, pur raccontando la cruda realtà ma sempre con un tocco di poesia. Perché per costruire quella nazione splendida e potente che è diventata l’America ci sono voluti tantissimi uomini e donne, spesso ai margini della società, che hanno garantito con il loro lavoro lo sviluppo e il benessere di un’intera nazione. A quegli uomini e a quelle donne di cui oggi nessuno ricorda più i nomi è dedicata la mostra allestita alla Casa dei Tre Oci alla Giudecca, , una mostra che oltre al valore artistico intrinseco, ha un valore aggiunto: il valore della memoria, della tutela dei ricordi. Lewis Hine (1874-1940) era insegnante alla Ethical Culture School di New York. Quando iniziò a utilizzare la macchina fotografica ne intuì immediatamente le potenzialità come mezzo di indagine sociologica. Davanti al suo obiettivo passa una varia umanità che vive, quando va bene, nelle case popolari, dove i figli sono costretti a lavorare anche in piccolissima età mentre i padri sono impegnati magari nella costruzione dell’Empire State Building. Da questo tipo di fotografia sociale prenderanno spunto tutte le generazioni successive di artisti che utilizzeranno la macchina fotografica come strumento di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. L’esposizione, curata da Enrico Viganò, riunisce per la prima volta opere originali provenienti dalla collezione della famiglia Rosenblum di New York, il più consistente fondo archivistico privato di stampe vintage di Hine. “Lewis Hine - Building a Nation. Venezia, Casa dei Tre Oci, fino all’8 dicembre. Tutti i giorni, tranne il martedì, dalle 10 alle 18. André Kertesz, il pioniere della fotografia deformata di Giorgia Basili da http://dailystorm.it/ Intimità dei soggetti, atmosfere evenescenti, attaccamento ai lati più semplici della vita quotidiana. Sono le caratteristiche degli scatti del grande fotografo ungherese che amava il silenzio delle immagini Difficile classificarlo, dare una definizione al suo modo di approcciarsi all’estetica e alle correnti artistiche. Artista impavido, rifugge dalle limitazioni di indirizzi prestabiliti, non si sbilancia né si fa etichettare, fedele soltanto ai propri pensieri e al proprio sentire. Provarono a definirlo “surrealizzante” ma lui non prese mai una specifica posizione. Il valore di 72 questo interprete dell’arte fotosensibile, come vero e proprio pioniere, risulta evidente osservando le sue fotografie: l’uso della prospettiva aerea, le forme strutturate diagonalmente, le luci difficili. Nasce a Budapest nel 1894 da una famiglia della media borghesia ebraica, nel 1912 André Kertesz consegue il diploma all’Accademia industriale di Budapest e acquista la prima macchina fotografica ICA4.5×6, molto maneggevole. Si arruola nell’esercito austro-ungarico e dall’esperienza sul fronte russo-polacco nasce un reportage sulla vita nelle trincee, realizzato grazie a una piccola fotocamera, la Goerz Tenax, munita di un obiettivo fotografico da 75mm. Nel 1925 la depressione post-bellica e l’aria che si respirava a Budapest, elegante ma troppo stretta per il suo spirito modernista, spingono l’artista a raggiungere Parigi, ricca di nuovi fermenti, brulicante di voci artistiche all’avanguardia e personalità come Robert Capa, Man Ray, Berenice Abbott, Germaine Krull. Kertesz stringe un fortissimo legame fatto di amicizia sincera e di scambio artistico anche con Brassai(Gyula Halász, suo connazionale), amante di una Parigi dai toni gotico-romantici, notturna, piovosa, coi suoi vicoletti antichi, le sue ville, i suoi giardini, il Lungo-Senna. Kertesz gli insegna a muovere i primi passi nell’arte della fotografia, a realizzare fotografie notturne. Interessante la serie dei Graffiti, che immortalano questa forma d’arte spontanea a metà tra i segni/disegni dei bambini e degli outsider. La muratura sgraffiata, incisa, “trapanata”quasi a cavare fuori forme e sensazioni dall’immaginario comune,dell’uomo comune anticipa empaticamente l’essenzialità dell’art brut di Jean Dubuffet, senza una spiegazione logica, al di là della formula grezza e dell’ispirazione del tratto espressivo. Passo decisivo per Kertesz è poi, nel 1928, l’avvio della sua carriera come professionista per la rivistaVu insieme al collega Henri CartierBresson. Questo impiego gli apre le porte di varie esposizioni importanti: 73 nel 1929 partecipa alla prima mostra indipendente di fotografia Salon de l’Escalier con altri grandi protagonisti, come Man Ray e Paul Outerbridge. Nell’ottobre 1936 si trasferisce a New York e comincia a lavorare con l’agenzia Keystone, ma il suo stile lirico e molto autoreferenziale non è adatto al panorama giornalistico statunitense che esige uno stile rigoroso, poco sentimentale, asettico. “Le sue immagini dicevano troppo” così, ad esempio, viene liquidato un suo lavoro dalla rivista Life. Abbandona infine la Keystone, passato solo un anno, per collaborare come freelance con molte riviste, tra cui la Harper’s Bazaar, Vogue, Look. La sua passione per la fotografia è da considerarsi quasi maniacale: non si stacca dal suo terzo, prezioso, occhio neanche quando malato, rimane confinato in casa. Da questa sua “prigionia” nasce il libro From my Window (1981), realizzato puntando un obiettivo zoom dalla finestra della sua casa affacciata sullo Washington Square Park, dolce dedica alla moglie morta di cancro nel 1977. Pur ricercando per tutta la vita apprezzamenti e consensi, i suoi meriti non furono messi in luce da parte di critica e pubblico ma certamente non poté non sollevare l’interesse di chi, più vicino al suo temperamento e alla sua pratica artistica riconobbe in lui un vero e proprio pioniere della fotografia moderna. La freschezza del suo sguardo, l’intimità dei suoi soggetti, l’attaccamento ai lati più evanescenti, semplici della vita quotidiana sono le qualità che più emergono dai suoi scatti. Kertesz scelse di mantenersi lontano sia dallo sperimentalismo intraprendente di Man Ray sia dall’impegno sociale e politico, strada che verrà percorsa da molti nei duri anni della Guerra di Spagna (indimenticabile la fotografia “Soldato morente” di Robert Capa, soprattutto per le polemiche e i dubbi sulla sua classificazione come istantanea). Non è interessato alla cronaca e alla 74 mondanità. Ê attratto dai silenzi, da quelle pause che restituiscono gli oggetti come immacolati martiri di una realtà caotica e irrefrenabile: il piacere di un semplice nodo di luci ed ombre ricreati da una forchetta poggiata su un piatto bianchissimo. La bellezza nella quiete dell’inanimato e la sconvolgente deformità che può celare un corpo umano. Non un corpo qualsiasi, un nudo femminile: il soggetto accademico più ricercato, la sfida per ogni pittore abile e raffinato. Kertesz con il suo apparecchio sente di poter svelare il reale, svelare le intime concordanze e gli intimi dissidi interiori dell’uomo, quale prova più difficile di reinventare il nudo femminile? Questa è la sua sfida personale, le sue personalissime Distorsioni (1933). Si era confrontato con la tematica delle distorsioni già nel 1917 per delle immagini che ritraevano un nuotatore. Ora sceglie due modelle,Hajinskaya Verackhatz e Nadia Kasine, le pone di fronte ad unospecchio deformante da circo. Lo specchio è il vero demiurgo, ispiratore mistico di nuovi corpi-fantocci, corpi completamente trasfigurati, inumani. I corpi nudi delle due modelle si prestano ad un gioco erotico quasi sadico. Gli arti si allungano spropositatamente, la pelle si dilata, malleabile, prendendo forme aliene e sensazionali. Che cosa rimane della calma amenità classica? Questi scatti hanno una bellezza disarmante che mira a far crollare le idee acclamate di normalità e pudore. Le modelle diventano bambole di pezza, infinitamente malleabili e incredibilmente elastiche. I canoni dorati di armonia e proporzioni sono completamente accantonati, alla bellezza da ammirare è stata sostituita una sessualità che destabilizza. La raccoltaDistorsioni sembra affermare: la realtà sottosta a molteplici punti di vista, ad insospettabili interpretazioni e io, fotografo, riporto quello che penso di vedere, sta a voi lasciarvi sconvolgere! 75 Un caffé corretto al (Mc)Curry di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it “Queste vostre novissime scatole di biscotti fini superano in finezza e in bontà le migliori di Inghilterra”. Firmato Gabriele D’Annunzio. Non troverete questa prosa decisamente dimenticabile in un’antologia del Vate (in una sua biografia forse sì). Fu pubblicata, consenziente e verosimilmente remunerato il poeta, sulle scatole di latta dei biscotti Saiwa. Né troverete, nella filmografia di Kevin Costner, lo spot che ha interpretato per una scatoletta di salmone Riomare, dove il danzatore coi lupi, visibilmente annoiato dalla parte, è stato pure doppiato in modo esilarante. Sullo scaffale della mia libreria c’è una tazzina di caffé della collezione Illy, decorata con una fotografia di Sebastião Salgado che vista così è abbastanza difficile decifrare. Non la troverete esposta in una tappa del tour mondiale di Genesis (forse nel bookshop sì). Che cosa voglio dire? Che le reazioni indignate, addolorate, scandalizzate o sarcastiche lette in questi giorni sul grande Web dopo la presentazione del calendarioLavazza 2015 firmato da Steve McCurry mi sembrano affette da vizio ottico di parallasse. Credono di giudicare un lavoro di reportage, e invece stanno guardando un pacchetto promozionale. Quando un autore non fa l’Autore, o lo fa in un contesto molto doverso dal suo solito, bisogna stare attenti. Recensire la lista della lavanderia di un grande poeta come se fosse un suo inedito ha effetti comici: leggere Saperla lunga di Woody Allen per goderseli. E questo perché ogni cosa ha il suo scopo. Una lista della lavanderia è buona se alla fine i panni tornano tutti a casa belli puliti, non per le sue qualità letterarie. Fare pubblicità, ovviamente, non è come scrivere liste per la lavanderia. È produrre messaggi intenzionali, pubblici, finalizzati. Quindi un giudizio di ordine estetico, culturale, è ancora legittimo. Ma non può basarsi sugli stessi criteri della recensione di una mostra o di un romanzo. Quando fa calendari, e ha tutto il diritto di farlo, come di fare foto di moda eccetera, un fotografo di reportage ha temporaneamente cambiato mestiere, e come usa dire oggi: sapevàtelo. 76 E questo, non certo per ragioni etiche (gli inorriditi dalla sola ipotesi che un grande fotografo faccia lavoro pubblicitario evidentemente non conoscono la storia della fotografia…). Ma perché si può giudicare una fotografia solo tenendo conto degli obbiettvi che quella fotografia intendeva raggiungere. Del suo scopo. Invece, quelli che ho letto in questi giorni dal “popolo del Web”, quando non sono le beffarde rivincite dei suoi molti critici, mi sembrano spesso lamenti di lutto per un eroe perduto, anzi di grida al delitto: chi ha ucciso McCurry? E la risposta, pare un’eco di quella canzone degli 883: “Hanno ucciso l’Uomo Ragno, non si sa neanche il perché / avrà fatto qualche sgarro ad un’industria del caffè”… Molte di quelle reazioni, insomma, vanno sotto il segno della Delusione (non riconosco il McCurry che amavo!) , addirittura del Tradimento (tu quoque Steve…); oppure, all’opposto, dello Svelamento (io l’ho sempre detto che McCurry fa pena). In tutti i casi, a tutti quanti pare evidente che McCurry dovrebbe sempre fare “dei McCurry”, dovrebbe lavorare solo in un modo, posedere un solo stile e un solo linguaggio. Io invece credo che sarebbe stato ancora più criticabile, McCurry, proprio se avesse pensato che fare un servizio sul monsone e confezionare un gadget per un’etichetta alimentare fossero la stessa cosa, e avessero bisogno dello stesso tipo di immagini. Se avesse voluto fare un reportage in forma di calendario del caffè. E allora, cosa voleva essere questo calendario? E queste immagini sono coerenti con il suo scopo? Ecco la domanda. Come forse già sapete, questo Calendario, a differenza di altri celebri concorrenti, intende collocarsi sul versante del marketing “coscienzioso” e socialmente responsabile. Propone le storie di dodici “Earth Defenders”, dodici “guardiani delle tradizioni alimentari nel continente africano”, a partire da dodici loro ritratti “ambientati” (i proventi del calendario sosterrano il progetto “10.000 orti in Africa” di Slow Food). A questo punto, consapevole di cosa sto guardando, posso dire che certo, le dodici immagini del Calendario McCurry, sul piano dell’immagine, sembrano anche a me, come a molti, persino fastidiose nella loro strabordante pre- e post-produzione, nella loro un po’ stucchevole, artificiosa composizione formale e tonale. Ma sono immagni promozionali (con tazzine marchiate in mano, pure), e nella pubblicità tutto è permesso, no?, purché funzioni. Ma funziona? Ecco la domanda. La saturazione estrema dei colori, la definizione e la leggibilità perfetta delle ombre, un aspetto generale da Hdr molto “tirato” sono evidentemente scelte deliberate di stile che ammiccano a gusti visuali accattivanti e dominanti. La pubblicità lo fa spesso, di lusingare il luogo comune. Ma in questo modo, e qui mi sembra il vero punto di giudizio, le foto del calendario scelgono di collocarsi nel regime estetico della fiction (cinema di animazione, spot televisivi, videogames). Il risultato, non so quanto consapevole, mi sembra questo: un’operazione che vorrebbe fare appello alla nostra coscienza ecologica e politica, che presume di raccontarci qualcosa del mondo reale, proietta le sue narrazioni in una dimensione percepita come immaginaria, artificiale, iper-reale. Stupisce che Slow-Food non si sia accorta della contraddizione fra i suoi progetti di resistenza e resilienza contro l’industrializzazione omologante dell’agricoltura e lascelta, per presentarli, di una fotografia fortemente omologataagli stuli proposti dal mercato, pirna di additivi e di ogm visuali. 77 Lo storytelling mi pare contraddetto dalla “narrazione” visuale, con esito controproducente. Paradossalmente McCurry avrebbe forse dovuto davvero fingere uno stile reportagistico (sarebbe sempre stata una finzione) invece di trasformare i suoi soggetti reali in personaggi della Pixar. Dunque la mia conclusione, ovviamente del tutto opinabile, è che questo calendario mi sembra assai poco riuscito proprio in rapporto agli obbiettivi che si proponeva, e cioè essere un’operazione promozionale “illuminata”, che accredita l’azienda proponente come attenta al mondo reale e ai suoi problemi. Quindi sì, forse aveva ragione Max Pezzali, il nostro uomo ragno (e tutto lo staff cominicativo che ovviamente ha ragionato con lui) potrebbe davvero aver fatto suo malgrado uno sgarro ad un’industria del caffé… Ma alla fine nessun omicidio, anzi son tutti contenti. Tranne i Delusi e i Traditi, ovviamente. Ma inclusi gli Smascheratori. Del resto, una volta capito di cosa stiamo parlando, qualche ragione ce l’hanno anche loro. La fotografia è un piacere: se non è buona, che piacere è? Tag: 883, calendario, Gabriele D'Annunzio, Illy, Kevin Costner, Lavazza, Max Pezzali, Slow Food, Steve McCurry, Uomo Ragno Scritto in Autori, dispute, pubblicità | Commenti » Parlando di fotografia con Ferdinando Scianna da http://www.sprintnews.joomlafree.it/ Immaginate un tiepido pomeriggio di fine estate, un delizioso locale che ricorda la Versilia degli anni ruggenti, dove fotografia e food sono uniti in un binomio perfetto, una moderna locanda quasi centenaria con i muri ricoperti da immagini di fotografi emergenti e non, un luogo accogliente dove ci si può ritrovare per mangiare e per parlare di fotografia. E’ in questo posto magico che e ho avuto il piacere di parlare con Ferdinando Scianna, uno dei più grandi fotografi del ‘900. Invitato nell’ambito del “Caffè Corretto”, una serie di iniziative che per tutta l’estate hanno portato a La Bottega di Pietrasanta nomi importanti della fotografia internazionale, il Maestro (che non ha bisogno di tante presentazioni) ha parlato di sé, del suo modo di interpretare la fotografia moderna e dei suoi libri: “Ti mangio con gli occhi” e “Visti e Scritti”. 78 Il giardino de La Bottega La mia grande fortuna, che ho affrontato in un turbine di emozioni contrastanti, è stata quella di poter avere con lui un breve colloquio privato. Persona dai modi affascinanti, dai profondi occhi azzurri, pronto sempre alla battuta in un inconfondibile accento siciliano, ha iniziato il suo racconto partendo dal lontano 1970, analizzando i cambiamenti della fotografia nel corso di questi anni, raccontando la sua esperienza, mai paragonando, ma basando le sue riflessioni sulle differenze di significato attribuito alle immagini dell’era pre e post digitale, ecco un piccolo riassunto del nostro colloquio. Assieme a Bresson, Capa e molti altri grandi, Scianna ha documentato il mondo, ha descritto realtà spesso inaccessibili, guardando al futuro e al progresso con ottimismo. Questo modo di fotografare adesso non esiste più, non vi è più rapporto con i soggetti, le fotografie non raccontano, sempre più spesso parlano di noi, di qualcosa che vogliamo mostrare agli altri, probabilmente la chirurgia plastica stessa è figlia dell’estremo fotoritocco. Sfogliando il libro “Visti e Scritti” ho capito il significato di queste affermazioni. Ritratti di gente comune, di personaggi famosi fotografati anche in pose divertenti, immagini di una vita passata a raccontare spontaneamente senza convenzioni sociali né cliché. In contrapposizione penso all’eccessiva sovraesposizione di soggetti che spesso rappresenta solo la volontà di apparire…questo mi ha fatto riflettere, molto! Ed è proprio la parola realtà che il Maestro ripete più volte, come a voler rafforzare il concetto per cui oggi è la narrazione del vero a essere parte mancante della fotografia moderna…sempre se di fotografia possiamo parlare. Ferdinando Scianna, Eleonora Cozzella e Chiara 79 “Probabilmente chiamiamo ancora fotografia qualcosa che, all’atto pratico, non ha più lo stesso significato di una volta" Con l’avvento del digitale e il conseguente abbandono della pellicola si è persa anche la capacità di attendere, la spontaneità dell’immagine, spesso ci lasciamo condizionare dalla nostra continua esigenza di guardare lo scatto sul display perdendo la capacità di preselezionare e intuire l’azione ancora prima che avvenga. lI digitale, sempre secondo Scianna, ha portato anche alla perdita dell’artigianalità, della filiera che iniziava con la scelta del rullino adeguato arrivando allo sviluppo dell’immagine stampata: la sensibilità della pellicola, la filigrana, il fissaggio, l’ingrandimento, magie che nessun software di fotoritocco potrà mai riprodurre. Ogni cambiamento però è caratterizzato da aspetti negativi e da aspetti positivi, tutto sta a saperli cogliere e saper sfruttare queste variazioni a proprio vantaggio. A un giovane fotografo Ferdinando Scianna consiglia di studiare, di scegliere il mezzo fotografico a sé più congeniale e di sfruttare gli strumenti digitali per continuare a diffondere ed esprimere le proprie idee, raccontare gli eventi positivi e il disagio, di essere vivo e partecipe perché non importa il mezzo ma il messaggio che si vuole trasmettere. Alla mia domanda “Conosce Instagram?” ho avuto come risposta “no non lo conosco, ma so che lo usa mia figlia”. Ferdinando Scianna preferisce produrre libri fotografici che passare ore sui social network…ho sorriso perché l’ho immaginato con lo smartphone sempre in mano, sempre a testa bassa e ho pensato a quanto abbia ragione. Chissà quante sue foto ci saremmo persi se fosse stato sempre a testa bassa su uno smartphone… per questo ho sorriso! Ho immaginato questa scena e in cuor mio ho capito che per la fotografia è un bene che Ferdinando Scianna continui a fare foto come ha sempre fatto e per questo non smetterò mai di ringraziarlo. Dopo l’intervista è seguito un incontro pubblico nel giardino de La Bottega (pieno di gente), moderato dalla brava giornalista de L’ Espresso Eleonora Cozzella, durante il quale il Scianna ha parlato con commozione del suo rapporto con l’amico e mentore Leonardo Sciascia, dei suoi libri, della Magnum Photos e del suo primo incontro con Cartier Bresson. Vorrei poter raccontare tutte le esperienze descritte in tre ore di intervento, un lasso di tempo volato via alternato da ricordi e battute in siciliano, preferisco però concludere con una sua frase che mi ha profondamente colpito: “il mestiere del fotografo è un mestiere fatto con i piedi” chiedetevi perché… la risposta non è banale come può sembrare! La nascita di Magnum da http://undo.net/it COMUNICATO STAMPA a cura di Marco Minuz “La nascita di MAGNUM. Robert Capa Henri Cartier -Bresson George Rodger David Seymour” esplora la nascita della più celebre agenzia fotografica del mondo, la Magnum Photos. E lo fa, al nuovo Museo del Violino a Cremona (dal 31 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015), attraverso 80 le immagini di coloro che di quella nuova, grand e avventura furono i primi protagonisti. Un percorso ospitato all’interno di questa nuova struttura museale che rimarca il legame antico e indissolubile fra Cremona e la liuteria. Il 22 maggio del 1947, dopo alcune riunioni presso il ristorante del Museum of Modern Art di New York, viene iscritta al registro delle attività americane la “Magnum Photos Inc”, nome che prendeva spunto dalla celebre bottiglia di champagne. A firmare erano Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, George Rodger, David Seymour e William Vandivert. Nasceva così una realtà che era concretizzazione di una lunga riflessione avviata da Robert Capa durante la guerra civile spagnola e che, negli anni, era stata estesa anche ai fotografi che frequentava. Un progetto che si fondava sulla tutela del lavoro del fotografo e sul rispetto degli associati diritti fotografici. Attraverso la formula della cooperativa, i fotografi diventavano proprietari del loro lavoro, prendevano decisioni collettivamente, proponevano autonomamente alle testate i propri lavori per non rimanere assoggettati alle esigenze editoriali delle riviste, e rimanevano proprietari dei negativi, garantendo così un pieno controllo sulla diffusione delle immagini. Un controllo che si estendeva anche ad un minuzioso controllo dei testi delle didascalie associate alle foto e al perentorio divieto di manipolare le immagini. Con questi presupposti, e con la qualità del lavoro dei suoi soci, Magnum diventa ben presto un riferimento nel mondo del fotogiornalismo. Magnum rappresentava così una diretta conseguenza del grande sviluppo nella stampa illustrata e delle agenzie fotogiornalistiche che era avvenuto durante i due conflitti mondiali. Fin dai suoi esordi viene prevista, per ogni fotografo, una suddivisione geografica dove operare: Henri Cartier-Bresson in Oriente, David Seymour l’Europa, William Vandivert l’America, George Rodger il Medio Oriente e l’Africa e Robert Capa piena libertà d’azione nel mondo. L’avventura di Magnum, o meglio gli esordi di essa, viene raccontata a l Museo del Violino da un corpus di ben centodieci fotografie che 81 rappresentano una vera eccezionalità: per la prima volta infatti i primi reportage dei fondatori di Magnum vengono raccolti assieme permettendo di costruire uno straordinario spaccato sull’a vvio di questa agenzia. Inoltre è occasione per avviare una riflessione sul ruolo del fotogiornalismo e sulle trasformazione che Magnum innescò in questo settore. Ad introdurre il percorso espositivo è una sezione dedicata a Robert Capa “prima di Magnum”, con celebri immagini della guerra civile spagnola, di quella del conflitto fra Cina e Giappone e della seconda guerra mondiale. A seguire, quattro selezioni legate ai primi reportage realizzati di Rodger, Cartier-Bresson, Seymour e dallo stesso Capa per Magnum. Si tratta del reportage di Capa dedicato alla nascita dello stato di Israele con una particolare attenzione ai campi di rifugiati, il reportage di George Rodger dedicato alla tribù dei Nubas in Sudan, il lavoro di Henri Cartier-Bresson dedicato all’India con le ultime fotografie scattate a Gandhi prima che fosse assassinato nel gennaio del 1948 ed infine le fotografie di David Seymour incentrato sulle conseguenze del secondo conflitto mondiale in Europa, con una particolare attenzione al dramma degli orfani di guerra. La mostra sarà arricchita da una serie di iniziative dedicate ad approfondire il lavoro di ognuno di questi grandi fotografi, ma contemporaneamente offrire occasioni di riflessione sul ruolo del fotogiornalismo. Il catalogo, firmato Silvana Editoriale, raccoglierà una serie di interviste ad importanti figure del mondo della fotografia a livello internazionale incentrate sul ruolo del fotogiornalista. Come afferma il curatore Marco Minuz “questo progetto reso possibile grazie ad una f orte partnership con Magnum, permetterà al visitatore di comprendere un passaggio fondamentale della storia del fotogiornalismo che è rappresentato dalla nascita di Magnum. Per la prima volta questi reportage vengono confrontanti assieme permettendo di cogliere le straordinarie personalità di questi fotografi, ma al contempo riflettere sul ruolo del fotogiornalismo nel mondo dell’informazione”. Organizzata da Magnum Photos, Unomedia e SGP Eventi. Con il patrocinio di Regione Lombardia, Provincia di Crem ona, Comune di Cremona e Camera di Commercio di Cremona. Con il supporto di Banca Popolare di Milano e delle aziende che sostengono il Museo del Violino di Cremona, MdV friends. Ufficio stampa: Studio Esseci Tel: 049 663499 gestione3@studioesseci.net Museo del Violino, Padiglione Esposizioni Temporanee, piazza Stradivari Cremona - Orari: tutti i giorni 10-19, lunedì chiuso - Chiuso il 25 dicembre, 1 gennaio - Euro 6 (intero) - 4 (ridotto) - 11 (biglietto cumulativo Mostra e Museo del Violino) 82 Spalle al muro, o sulle ginocchia? di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Wayne Miller, Edward Steichen studia il modellino della mostra The Family of Man. © Wayne Miller/Magnum Photos, g.c. Fin dall’inizio, il sogno della ragione generò mostre. Quando il secolo positivistapartorì il suo strumento perfetto, la fotocamera, bruciò dalla voglia di farne vedere i prodotti a tutta l’umanità. Dimostrarli al mondo. Novum monstrum, così papa Leone XIII definì la macchina per immagini appena inventata: e i mostri, nel senso di meraviglie, vennero mostrati. Del resto, per Walter Benjamin è proprio con la fotografia che l’arte rimpiazza il valore di culto con quello di esposizione. Ed ecco che un bel volume a più mani (Photoshow, a cura di Alessandra Mauro) ci racconta la storia di come questo valore è stato messo all’opera in quasi due secoli di storia del fotografare. Accadde subito. Fin dai giorni successivi all’invenzione, nelle prime settimane del 1939. Ma non dove si aspettava che accadesse. Tutta Parigi ai primi del 1839 parlava degli esperimenti di Daguerre, ma nessuno li aveva ancora visti, perché il presidente dell’Accademia delle scienze, il fisico François Arago, aveva posto l’embargo fino alla seduta solenne di agosto, quando l’invenzione sarebbe stata presentata al mondo in tutti i suoi dettagli. Errore di comunicazione? Forse, perché questa esitazione diede modo al concorrente inglese, William Henry Fox Talbot, di recuperare lo smacco del secondo arrivato bruciando sul tempo il competitore francese, se non nell’annuncio, almeno nella pubblica presentazione dell’invenzione. E così il 25 gennaio espose i suoi disegni fotogenici di carta alla Royal Academy di Londra, in quella che può essere considerata la prima mostra fotografica della storia. Daguerre recuperò solo mesi dopo. La storia della fotografia comincia insomma come una corsa a chi la mette per primo con le spalle al muro. 83 In verità, un altro conflitto sembra dominare il destino della fotografia come oggetto da mostrare. Il dilemma fra tra la parete del museo e la pagina del libro. Una fotografia funziona meglio se la metti al muro, o sulle ginocchia? Ma la sfida fra verticale e orizzontale in realtà comincia solo nel Novecento. Per almeno mezzo secolo, prima del perfezionamento dei metodi foto-tipografici, la riproducibilità tecnica della fotografia si limitò a poche decine di copie (col dagherrotipo, esemplare unico, neppure quelle), quindi per mostrare al mondo gli “specchi fedeli del mondo” altro mezzo non c’era se non far sfilare il mondo davanti a loro. Verticale fu allora il campo della lunga battaglia per il riconoscimento della fotografia come arte, verticale fu viceversa lo sdegno di Baudelaire quando vide le fotografie al Salon del 1859, contro le pretese dell’“umilissima serva” che voleva farsi padrona dell’immaginario (e ci riuscì). L’interno del Crystal Palace durante la Great Exhibition del 1851 Verticale fu soprattutto la scoperta dell’infinita versatilità dell’arte meccanica che ha rifondato la civiltà delle immagini. Se nelle esposizioni universali le fotografie erano ancora curiosità mescolate alle invenzioni macchiniste del secolo automatizzato, a Vienna qualcuno capì che la fotografia meritava un’attenzione speciale e profonda: fu Maria Teresa, sovrana fotografa dilettante, a volere che si presentasse la fotografia come rivoluzione tecnologica, sociale, culturale, non come pittura meccanica. Era la strada giusta, ma attecchì solo in terra germanofona, forse per una particolare inclinazione di quelle parti verso la praticità. Infatti, l’idea che la fotografia fosse uno strumento umano e nuovo linguaggio visuale della modernità senza debiti con nessunoriemerse nel 1929 con la mostra Film und Foto di Stoccarda. Altrove invece si erano aperte le porte dei musei d’arte, e i fotografi pittorialisti con complesso di inferiorità vi si tuffarono in cerca del meritato riscatto d’artisti. A New York, però, con le sue piccole gallerie raffinatissime, Alfred Stieglitz inaugurò l’allestimento moderno, da allora quasi immutato, della mostra fotografica: essenziale, lineare, con le immagini in cornici sottili ben distanziate su pareti uniformi e libere (mentre le mostre dell’Ottocento erano ancora caotiche soffocanti “quadrerie” dominate dell’horror vacui). Comunque, questo va riconosciuto, fu dalle pareti di un museo d’arte che la fotografia conquistò la sua autonomia di medium del Novecento. Accadde al MoMa, dove l’ex pittorialista Edward Steichen cominciò arruolando la fotografia come arma da guerra (la guerra del fronte interno, la guerra del morale della nazione in guerra) con decine di mostre patriottiche, la più importante Road to 84 Victory, dove le fotografie, considerate come “frasi di un discorso” erano disciplinatamente messe al servizio di un concept, di una tesi da dimostrare. Quelle mostre in uniforme nel 1955 divennero il modello della postbellica, umanista e utopistica The Family of Man, la più celebrata e visitata mostra di fotografia della storia (nove milioni di visitatori nel mondo), forse anche la più controversa (fu stroncata sanguinosamente da Roland Barthes), certo la più rivoluzionaria: le foto esplodevano, siliberavano dalle cornici, si staccavano dal muro per impegnare il visitatore in un’esperienza spaziale, cinetica, corporale. Eclisse dell’autore, trionfo del curatore: le fotografie non erano più opere a proprio titolo, ma tessere di un mosaico il cui progettista era il curatore e solo lui: espressione grafica di un’idea, non più immagini autosufficienti ma elementi dialettici di una narrazione. La mostra in sé era l’opera d’autore. L’umiliazione dell’autore lasciò il segno. Forse Steichen aveva esagerato, le critiche furono molte, i fotografi non si fidavano più. Non ci furono più mostre-concept dal piglio autoritario. Il modello “galleria d’arte” riprese il sopravvento nei modelli espositivi di una fotografia ormai senza complessi d’inferiorità, anzi capace di dettar legge sul mercato dell’arte: le mostre di John Szarkowski al MoMa di New York, quelle di Robert Delpire al Cnp di Parigi. Anche il foto-giornalismo, a quel punto, scelse la white box del museo come possibile allettante medium per raggiungere il pubblico garantendo una sopravvivenza ad immagini che rischiavano di morire con al carta dei rotocalchi. Veduta dell’allestimento della mostra Here Is New York, Prince street, New York, 2001 Eppure, di nuovo, ecco una mostra fuori da tutti gli schemi: nel 2001, pochi giorni dopo il crollo delle Twin Towers, un negozio a pochi isolati da Ground Zero cominciò a riempirsi di fotografie conferite spontaneamente dai cittadini, fotoamatori, passanti ma anche grandi autori: appese a fili stesi, riempivano tutto lo spazio, vennero vendute a poco prezzo per raccogliere fondi, diventarono un flusso: questa fuHere Is New York, “una democrazia di immagini”. Non ha più bisogno di pareti, oggi, la fotografia dell’era Internet: e neppure di pagine di libro. Appese a miliardi sui muri virtuali dei social network, le neofoto si mostrano in quantità superiori alle nostre capacità di vederle tutte. È il parossismo del valore d’esposizione, la profezia di Benjamin si divora da sola. Ce lo ha dimostrato, sempre con una mostra, un geniale curatore, Erik Kessels, che stampò tutte le foto caricate in un solo giorno su Flickr e le riversò fisicamente in una galleria d’arte ad Amsterdam. Le pareti ovviamente non 85 bastarono. Neppure i pavimenti. A mucchi, onde, montagne, i cartoncini franavano addosso ai visitatori. L’immagine ora ci inghiotte. La mostra è diventata un mostro. [Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 18 ottobre 2014] Tag: Alfred Stieglitz, Charles Baudelaire, Daguerre, Edward Steichen, esposizioni, Film und Foto,François Arago, Here Is New York, invenzione della fotografia, John Szarkowski, Leone XIII, Maria Teresa d'Austria, MoMa, mostre, Robert Delpire, Roland Barthes, The Family of Man, Walter Benjamin,William Henry Fox Talbot Scritto in da leggere, musei, storia | Commenti » Il fotografo Ferdinando Scianna: «Noi siamo le persone che incontriamo» di Katia Moro da http://www.barinedita.it/ BARI - «Noi “siamo” le persone che incontriamo nella nostra vita. Il nostro destino è determinato dagli incontri che facciamo, dai maestri scelti o casuali che ci segnano per sempre». Con queste poche parole uno dei maggiori rappresentanti della fotografia d’autore italiana, Ferdinando Scianna, 70enne siciliano trapiantato a Milano, fotoreporter, giornalista, fotografo di moda di fama internazionale e autore di tanti testi, ha racchiuso il senso di un’intera esistenza testimoniata nella sua ultima pubblicazione “Visti&Scritti”.Notizia sul portale e di sua proprietà. Si tratta di una raccolta di 370 ritratti, tutti rigorosamente in bianco e nero, che l’autore ha scattato nel corso della sua lunga carriera. Ogni scatto è affiancato da un breve testo scritto dallo stesso Scianna per testimoniare un suo ricordo personale, un aneddoto relativo alle sensazioni provate nel momento dello scatto. In questa fusione di immagini e parole, l’autore fa immergere il lettore in un’ampia galleria che raccoglie i ritratti di alcune delle più grandi personalità del nostro tempo: da Leonardo Sciascia a Italo Calvino, da Jean Paul Sartre a Martin Scorsese, passando per il Dalai Lama, Giovanni Paolo II, Michail Baryšnikov, i Beatles e i fotografi Henri Cartier Bresson e Gianni Berengo Gardin. Ma a questi “vip” sono affiancati e mescolati i volti delle persone “normali” che Scianna ha incontrato nel corso della sua esistenza: la sua mamma, i suoi famigliari, i suoi compagni di classe, il suo portinaio. (Vedi foto galleria). Abbiamo intervistato l’autore, intervenuto a Bari mercoledì scorso in un incontro al Cineporto organizzato dall'Apulia Film Commission e dalla scuola di fotografia F.project. pubblicata sul portale e di à. “Visti&Scritti” sembra essere il consuntivo di un'intera esistenza... 86 Alla veneranda età di 70 anni e dopo circa un milione di fotografie scattate avevo il diritto di pubblicare una selezione dei miei ritratti preferiti. In realtà questo volume è solo l’ultimo atto di una trilogia dopo “Quelli di Bagheria” e “Ti mangio con gli occhi” , che con quest’ultimo compongono il mio “trittico della memoria”. Il primo era una raccolta di scatti, con le annotazioni a margine che lo trasformano in un diario personale, scattate prima della scoperta della mia vocazione di fotografo e racchiude tutti i ricordi della mia infanzia e adolescenza vissute nel mio paese di nascita, Bagheria. Il secondo, “Ti mangio con gli occhi”, rappresenta anche questo una fusione di testi scritti e immagini con cui rievoco i gusti, i sapori e gli odori che hanno caratterizzato la mia vita soprattutto da quando per esigenze lavorative ho dovuto abbandonare la Sicilia e le sue meravigliose pietanze. pubblicata sul Quindi ha concluso un suo personale viaggio nella memoria? Sì, “Visti&Scritti” è l’ultima tappa di un percorso interiore. Avevo un sogno ricorrente: entravo in una piazza gremita e scoprivo che c’erano tante persone, quelle attraverso le quali ho vissuto la mia vita. I vivi, i morti, i miei cari, gli amici, i tanti maestri. E in tutti mi riconoscevo. Quella piazza è diventato questo libro. I 370 ritratti più significativi tra quelli da me scattati, che compongono un unico autoritratto: la storia della mia vita che è la storia degli incontri che mi hanno segnato. sul sua proprietà. Quali sono stati gli incontri più significativi? La fortuna di ogni uomo è nelle mani di un altro uomo. Io sono stato fortunato perché ho incontrato esseri davvero speciali e la mia unica bravura è stata quella di saper attingere da loro il più possibile. Parlo ad esempio del mio più grande maestro, angelo paterno e amico: Leonardo Sciascia. Quando l’ho conosciuto, nel 1962, avevo solo 19 anni e avevo già iniziato a fotografare, ma lui mi ha fatto correttamente interpretare retrospettivamente la mia vita, mi ha insegnato a darne un senso. Da lui ho imparato la dirittura morale, l’onestà intellettuale, il dono dell’amicizia e l’importanza della cultura. sul portale proprietà. È stato l’unico maestro? No. Nel campo della fotografia il mio maestro assoluto è stato Henri Cartier Bresson, colui che mi ha permesso di divenire il primo fotografo italiano ammesso nella Magnum photos (la più importante agenzia del mondo fondata nel 1947). È stato lui ad insegnarmi che il vero fotografo è colui che è capace di mettere esattamente su una stessa asse la testa, gli occhi e il cuore. Mi ha fatto capire che la fotografia è un obiettivo ambiguo, è geometria e passione: l’eterno ossimoro della realtà e della sua interpretazione. Ma tra i miei grandi maestri io annovero sempre anche il portinaio dello stabile dove si trova il mio studio di Milano, il cui ritratto chiude il libro. Quest’uomo che ha dedicato l’intera vita al lavoro, tra affanni e ristrettezze, mi ha insegnato molto. Ogni volta che i miei malanni e le mie stanchezze prendono il sopravvento, penso a lui e questo mi aiuta a rimettere le cose nella giusta prospettiva. pubblicata sul portale In questa raccolta ha inserito anche i suoi familiari. Tra noi autori spesso c’è una certa ritrosia a rendere pubbliche le nostre fotografie private. Ma io conservo gelosamente tutti gli scatti di compleanno delle mie bambine, le fotografie di tutte le mie fidanzate e dei familiari oramai morti. In questa pubblicazione ho voluto inserire anche mia madre, mia sorella, le mie figlie e altri ancora. Probabilmente la figura più importante nella mia vita è stata quella di mio padre, anche se il nostro rapporto è sempre stato segnato 87 dalla contrapposizione e dal disaccordo, ma sono forse questi i legami che ci segnano di più. Anche lui è stato a suo modo un mio maestro, anche se forse soprattutto un maestro di “paura”. Ma senza di lui non sarei quel che sono. Dunque il volume rappresenta una specie di album personale. Esattamente. E la maggior ambizione di uno scatto è quello di entrare a far parte di un album di famiglia. La fotografia come dice Roland Barthes, altro mio grande maestro presente nel volume, non è arte, non è oggetto museale, è “tragica traccia di vita, di realtà”. Si suole dire quando si fotografa qualcuno: “ti immortalo”. Un’iperbole che è il residuo del mito faustiano che gli uomini da sempre inseguono: fermare il tempo, non fosse che per un istante. Un’affascinante illusione perché anche la fotografia è materialmente soggetta al trascorrere del tempo, può distruggersi, scomparire e non lasciare traccia. Ma allora qual è il vero compito della fotografia? Quando esposi per la prima volta le fotografie del volume “Quelli di Bagheria”, a Lugano, mi si avvicinò una donna svizzera evidentemente commossa. Si era immedesimata e riconosciuta in quelle immagini della mia infanzia e adolescenza siciliana. Lei, una donna nata in Svizzera. Questo mi fece capire che il ruolo della fotografia, come della scrittura o di qualunque forma d’arte capace di raccontare è quello di permettere a chiunque di riconoscersi, di potersi rispecchiare. Quante volte abbiamo ascoltato la frase: “la mia vita è un romanzo, se sapessi scrivere, lo scriverei”. Ebbene, il compito degli artisti è quello di scrivere quel romanzo. Di “parlare” al posto di chi non ha gli strumenti per farlo. pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà. © RIPRODUZIONE RISERVATA Il karma di Lisetta di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Nella penombra del suo trullo pugliese riconvertito in ashram induista, una celebre pianista, grande fotografa, una 88 soave novantenne vestita di bianco, ebrea perseguitata dal fascismo che la cacciò di scuola a 14 anni, soave meditatrice, antica militante comunista, ogni giorno per ore traccia con infinita calma calligrammi cinesi. Troppo, vero? Sembra davvero troppo per una vita sola, infatti Lisetta Carmi di vite ne ha vissute almeno cinque (tante ne ha contate la sua biografa, Giovanna Calvenzi). Ci sono esistenze non comuni che attraversano la storia in diagonale, tagliando il flusso della vita comune, e forse per questo la gente comune le incrocia ma subito le perde di vista. Chi ama la fotografia, ad esempio, non può non aver incontrato almeno una volta le immagini di Lisetta, almeno quelle che fecero scalpore, come i suoi ritratti coinvolgenti e travolgenti di travestiti (uno dei quali pare abbia ispirato la Bocca di Rosa di De André…) che un noto editore milanese di sinistra si rifiutò di pubblicare benché fossero gli anni Settanta e spirasse un qualche alito libertario. Oppure il suo viaggio fra le passioni pietrificate di Staglieno, il cimitero monumentale della sua città, Genova: tutte quelle passioni scolpite, quei dolori di marmo non commossero la dolce Lisetta, anzi la irritarono un po’, ci vide l’ipocrisia borghese fatta monumento, i pregiudizi di classe (rispettabilità, subordinazione della donna, pruderie e repressione sessuale, status sociale, ricchezza) scalpellati nella pietra, intitolò il lavoroErotismo e autoritarismo a Staglieno, e ovviamente nessuno in Italia gliene fece un libro. O ancora la sua dura inchiesta sulle condizioni di lavoro dei portuali di Genova (si infiltrò nei cantieri spacciandosi per la cugina di un camallo) che diventò una mostra-denuncia del sindacato; o la sequenza sul parto di una ragazza ventenne, crudo magico emozionante schiaffo ai pudori e alla retorica perbenista sulla nascita… Immagini partorite, lasciate, ritrovate:un po’ somigliano alla sua stessa vita. Non le avesse riscoperte Uliano Lucas un decennio or sono, dedicandole una mostra-rivelazione, non le avesse riproposte oggi Giovanna Chiti in un sorprendente volume, Ho fotografato per capire, sarebbero forse perdute, perché Lisetta Carmi non ha mai rimpianto nessuna delle sue esistenze trascorse. Spesso le ha troncate dalla sera alla mattina, come la carriera di concertista classica che per ben ventidue anni aveva portato nei grandi teatri d’Europa quel «donnino esile, capelli da pecorella ed occhi da extraterrestre» (Barbara Alberti): un bel giorno del giugno 1960 il suo maestro di musica le vietò di partecipare a un nervoso corteo-sciopero dei portuali per timore di 89 incidenti, «metti che ti rompi una mano…», e lei, tra la salute delle sue dita d’oro e la sua coscienza politica, scelse la seconda, e lasciò la carriera musicale per sempre. Anche la fotografia, del resto, sua compagna di vita per altri sedici anni, iniziò e finì per lei da un giorno all’altro. Un viaggio in Puglia al seguito di un etno-musicologo le fece venir voglia di provare, armata d’una modestissima Agfa Silette: funzionò. Ma un sadhu, Babaji Herakhan Baba, incontrato in India durante un altro viaggio per caso, cambiò di nuovo la sua rotta. Lui le tagliò i capelli ricci e la ribattezzò Janki Rani. Lei porta ancora il suo volto in un ovale, al collo. Tornata in Italia, convertì in ashramun trullo a Cisternino. Oggi Bhole Baba è un centro spirituale riconosciuto dallo Stato italiano. Lisetta non lo dirige più di persona, però. Ha inseguito altre vite. Ha ricominciato a suonare il pianoforte, ispirata dalle riflessioni psicanalitiche di un suo ex allievo, Paolo Ferrari. Ha scoperto il Tao attraverso la calligrafia. Un regista, Daniele Segre, ha girato un film su di lei, Un’anima in cammino: avrà dovuto tenere il suo passo, mica facile. Le chiedono spesso il segreto della sua così evidente serenità. Risponde con parole del suo guru adorato. Ma di lei si racconta un certo illuminante episodio: sulla soglia dell’ashram pugliese, un giorno, Lisetta fu colpita da un fulmine. Portata di corsa all’ospedale, gli amici temevano il peggio: aveva solo un livido. I medici non seppero spiegare. Lei sì: «Non ho opposto resistenza». In verità lo ha fatto molte volte: anche alle sue stesse vocazioni. Però mai al suo karma. Tag: ashram, Babaji Herakhan Baba, Barbara Alberti, camalli, Cisternino, Giovanna Calvenzi, Giovanna Chiti, Janki Rani, Lisetta Carmi, Staglieno, Uliano Lucas Scritto in Autori | Commenti » --------------Rassegna Stampa del Gruppo Fotografico Antenore www.fotoantenore.org info@fotoantenore.org a cura di G.Millozzi www.gustavomillozzi.it gm@gustavomillozzi.it 90
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