ANNO XVI NUMERO 124 - PAG IV IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 28 MAGGIO 2011 LA GIOSTRA DEL SARACINO “Popi”, il professore di sinistra protagonista di un controverso caso di stupro negli anni Ottanta l guaio vero era che quello stupro – se davvero ci fu – sfuggiva alle spiegazioni ideologiche. A farlo non era stato un maschio tradizionale, né tantomeno un gruppo di fascisti come quello che violentò Franca Rame. Né poteva in nessun modo essere paragonato alla violenza omicida del Circeo. Nossignore, quella volta l’artefice veniva dalle fila dei rivoluzionari. Aveva frequentato la Statale, era stato un leader del movimento del Sessantotto, un buon amico di Mario Capanna, un katanga un po’ meno rude degli altri (“prendi una spranga e diventa un katanga: questo il loro motto”) . Come spiegarsi che Giuseppe Saracino detto “Popi”, un bell’uomo, poco più che trentaquattrenne, colto e gauchiste, si fosse comportato come il peggiore dei reazionari? Quello subito da Simonetta Ronconi era uno “stupro sessantottino”. Una roba difficile da digerire. Così stavano le cose viste da sinistra. Persino le femministe si divisero. Scoppiò la famosa “contraddizione in seno al popolo”. Ma oltre all’ideologia, c’erano i fatti. E le accuse vanno dimostrate: esistevano le prove? Come andò davvero quel pomeriggio del 28 maggio del 1980 fra Popi e Simonetta? Lei era la sua allieva all’Istituto tecnico per il turismo di Milano, era una diciottenne di rara bellezza, e lui le offrì un passaggio in macchina. Decisero di mangiare qualcosa insieme a un Motta. Una mezz’ora al bar poi, la più classica delle proposte: “Perché non sali a casa mia per un caffè?” Si ritrovarono nell’appartamento pieno di libri e un po’ bohémien di Popi. La mattina di quello stesso giorno i terroristi avevano sparato a Walter Tobagi, proprio davanti al Corriere della Sera, ma la studentessa e il professore ancora non lo sapevano. Continuarono a conversare del più e del meno, mentre lui preparava il caffè. Minuti piacevoli. Del resto la ragazza era già stata una volta in quella casa e lui si era “comportato mol- rapporto sessuale che lei non consente: la verità di un giovane uomo di oggi, amatissimo dalle donne, e che ne ha incontrate poche decise a dirgli di no”. Un esercizio, quello della Aspesi, non privo di raffinato cerchiobottismo. Lo scontro è duro, e allora si sceglie la strada più facile: quella di scagliarsi contro il nemico reazionario. Nella fattispecie rappresentato da Comunione e liberazione che si definisce “garantista in nome della persona umana, e quindi in questo caso del professor Saracino”. E più avanti dal Giornale di Montanelli, unico a cercare di smantellare la versione di Simonetta. In questo dibattito si raschia il fondo del barile sino ad arrivare al celebre “vis grata puellae” (la “violenza gradita alla fanciulla” dell’“Ars amatoria” di Ovidio). Sia come sia, in primo grado il professore si beccò una condanna durissima: violenza carnale aggravata, quattro anni e quattro mesi. Una sentenza corretta in secondo grado, dove il pm chiese addirittura l’assoluzione per insufficienza di prove. Questa volta a Saracino vennero comminati due anni. Era ormai il marzoaprile del 1981. In Italia il clima diventava sempre più incandescente. Si discuteva dei fatti di Polonia e delle confessioni degli assassini di Tobagi. Ma soprattutto era partita la campagna per il referendum sull’aborto. La riduzione della pena al professore venne presa molto male. Soprattutto da un certo mondo laico che ormai aveva fatto dell’aborto, e in piccolo anche di Simonetta, la sua bandiera. Passano gli anni e, nel 1984, la Cassazione annulla la sentenza di secondo grado e rinvia il processo alla Corte d’appello di Milano. Allora accadeva con una qualche frequenza che la Suprema Corte riscontrasse vizi di forma. L’Unità, ormai meno ingessata rispetto al 1980, si lancia – per la firma di Massimo Cavallini – in un duro attacco contro questa scelta: “La Corte si è chiesta, ci fu o no alla fine il consenso da parte di Simonetta? Che significato dare a quella affermazione della ‘parte lesa’ secondo la quale a un certo punto per evitare percosse, cessò ogni Tra l’aitante gauchiste e la bella allieva Simonetta ci fu violenza o semplicemente un amplesso molto focoso? La vicenda fu all’origine della legge che trasformò lo stupro da delitto contro la morale a delitto contro la persona to correttamente”. Tutto filò liscio sino a quando Popi non andò all’attacco. Da questo momento partono due versioni profondamente differenti. Simonetta racconta ai magistrati: “Tentò di baciarmi e io mi rifiutai. A quel punto mi saltò letteralmente addosso. Mi alzai dal divano dicendogli che doveva smetterla. Lui invece mi ha gettato sul tappeto, mi ha sfilato il collant e gli slip, nonostante io mi dibattessi con tutte le forze. Per tenermi ferma ha cominciato a picchiarmi violentemente sul volto e sulle natiche. Mi ha sfilato completamente il vestito e mi ha trascinata in camera da letto. Mi ha scaraventato sul letto e ha continuato a picchiarmi su tutto il corpo e a mordermi sul seno e sulla schiena, minacciandomi di prendere la frusta. Per evitare che io mi alzassi dal letto mi schiacciava con tutto il peso del suo corpo”. Simonetta – sempre secondo la sua versione – resistette a lungo, poi, spaventata, cedette. La versione di Popi era parecchio diversa. In realtà – secondo lui – l’allieva era consenziente: avevano fatto l’amore in modo travolgente, appassionato, violento quel 28 maggio, ma Simonetta l’aveva voluto quanto lui. Anzi, lo aveva spronato. Tutto era iniziato più di un mese prima quando “la ragazza si era avvicinata a un metro dalla cattedra” e aveva lanciato al professore “un’occhiata lunga, profonda, inequivocabile”. Ma non gli bastò, Saracino raccontò ai magistrati che la bella studentessa lo informò che “prendeva la pillola”. Un invito? Un segnale? Il tombeur de femme, ex katanga, rude ma non troppo, abituato a prendersi le donne come il caffè, lo interpretò così. Ci fu un primo incontro nell’appartamento di Saracino il 7 maggio, quando fecero per la prima volta l’amore. E poi, “il 28 maggio andammo a colazione e subito dopo lei venne a casa mia e mi disse: professore quando la vedo mi viene la tachicardia”. Frase galeotta che scatenò Popi in un amplesso molto “coinvolgente” in cui ci scappò – secondo lui – solo qualche graffio e qualche morso “di passione”. Tutto qui? La parola dell’uno contro quella dell’altro? No, c’era di più. Quando il professore, dopo il pomeriggio di sesso sfrenato, uscì di casa e la lasciò sola, Simonetta rovesciò rabbiosamente un po’di libri sul letto e lasciò un biglietto: “A questo serve la sua grande cultura?”, c’era scritto. I giornali dell’epoca si esercitarono nell’esegesi della battuta: segno resistenza? E poi, perché non provò a fuggire? Perché non gridò? Perché consentì la penetrazione? Perché aspettò tre giorni prima di denunciare il fatto? Perché, perché, perché… Tutte questioni delle quali si era già discusso e alle quali erano state date risposte convincenti”. E invece ora la Cassazione sostiene che “o si è Santa Maria Goretti o si riscatta col proprio sangue l’oltraggio subito, o è chiaro che, in qualche misura, il piacere ha preso il sopravvento”. Dopo il pronunciamento della Suprema Corte, Simonetta e Saracino si ritrovano comunque in aula. Questa volta non è una kermesse e il “bel Popi” ha qualche anno e qualche chilo di troppo. L’aula non è più gremita, il clima di tensione è scemato. E forse anche l’interesse verso la vicenda: siamo in pieni anni Ottanta, il Sessantotto è stato messo già sotto accusa, mentre il femminismo comincia a ripiegare le proprie bandiere e a riflettere su se stesso. Tutto è cambiato ed è persino scontato che muti anche la sentenza: Popi Saracino viene assolto “perché il fatto non sussiste”. I due protagonisti spariranno dalle cronache. Lei completamente, lui per riaffiorare come sostenitore di Mariotto Segni e come imprenditore. Poco più dell’anonimato. La loro vicenda è andata però al di là della cronaca: è stata decisiva nel convincere alla presentazione di un progetto di legge che trasformi lo stupro da delitto contro la morale a delitto contro la persona. Occorreranno più di dieci anni perché il progetto diventi legge, ma la sua approvazione segnerà un vero passo avanti in chiave liberale dell’intera questione. La violenza carnale infatti – come tutte le violenze – prima di ogni altro va contro l’individuo, contro la sua libertà, contro la sua integrità. Da una storia avvelenata da ideologie e tifoserie, nacque dunque un frutto sano. Per il resto, gli argomenti usati allora a favore dell’uomo o della donna sono rimasti identici. Come dimostra la storia di Dominique Strauss-Kahn. Questa volta il protagonista è molto più potente e più vecchio di Popi. Ma anche lui è un tombeur de femme di gran fama e che va per le spicce, anche lui è di sinistra e anche lui è accusato di stupro da una donna molto più giovane. Che sia giudicato colpevole o innocente, ha vinto di nuovo “l’istinto predatorio”. di Gabriella Mecucci I Una scena dei “Vampiri del sesso” (1957) di Édouard Molinaro indiscutibile dello stupro – secondo qualcuno; semplicemente sintomo della delusione di un amante sedotta e subito dopo mollata – secondo altri. Ma questo non era il solo indizio. Ce n’era un altro più pesante: un referto medico di un ospedale milanese che certificò che sul corpo di Simonetta c’erano contusioni guaribili in cinque giorni. Cin- “Possibile che un uomo di sinistra, un sessantottino abbia fatto una cosa simile? Non possiamo crederci” que giorni – strillavano gli innocentisti – in realtà si trattava di alcuni graffi e di due o tre succhiotti (per la prima volta appariva sulla stampa un termine così scandaloso). Di succhiotto poi ce n’era uno anche sul torace di Saracino. Tutto qui. I colpevolisti, dal canto loro, si esercitarono nel valutare l’ampiezza delle ecchimosi e la natura del rapporto sessuale intrattenuto. Cessiamo per buon gusto di riferire su questo dibattito poco elegante. Ma non si può trascurare di raccontare che la ragazza andò al Pronto soccorso con tre giorni di ritardo, consigliata a farlo dal suo fidanzato ufficiale. Figurarsi le dicerie… L’ha fatto perché non poteva spiegargli alcuni segni sul suo corpo. E allora s’è inventata la storia dello stupro, e per dimostrare che era vera, è andata in ospedale e si è fatta fare il certificato. I due partiti, insomma, se le cantarono e se la suonarono sin dall’inizio. Sin dalla prima assemblea che si svolse sull’argomento all’Istituto tecnico per il turismo. Dibattito tumultuoso, aula gremita. Popi Saracino era presente. Leggeva i volantini e commentava freddamente: “Non commetto certo l’errore di violentare una mia studentessa”. Ma riconosce “di averla invitata a casa sua”. Il collettivo femminista era scatenato, arrivavano anche le rappresentanti dell’Udi e del Movimento di liberazione delle donne per annunciare la costituzione di parte civile. Simonetta non andò ma inviò una lettera dove spiegava: “Non ho fatto la denuncia soltanto per me, ma perché bisogna continuare a dire basta a una violenza che ci tocca tutte”. All’epoca il femminismo era molto forte e fiorivano un po’ ovunque i collettivi. Tanto che Repubblica nel suo primo articolo, a firma di Gusmana Bizzarri, faceva notare sin dall’attacco: “Dieci anni fa tutto questo sarebbe stato messo a tacere: per il buon nome dell’istituto, per il prestigio della categoria degli insegnanti, per la vergogna e la paura che la studentessa avrebbe avuto a denunciare lo stupro. Da oggi non è più così”. Eppure, sempre la Bizzarri raccontava che alcune studentesse del collettivo femminista, pur solidali con la loro collega, si interrogavano: “Possibile che un uomo di sinistra, un sessantottino abbia fatto una cosa simile? Non possiamo crederci”. Prima avvisaglia di un dubbio che in seguito angoscerà il movimento. Il provveditore, dopo l’assemblea, sospese Popi. Imbarazzato e persino un po’ ridicolo, il documento dei docenti dell’istituto. Alcuni si schierarono subito a difesa del professore, ma quelli di sinistra dichiararono la loro “quasi certezza” che la ragazza non poteva essersi inventata l’accaduto e concludevano di restare comunque in attesa “delle indagini della magistratura”. Incredibile a dirsi, si arrivò al processo in tempi brevi. Il primo grado partì nell’ottobre del 1980, quattro mesi dopo il fatto. Alla prima udienza l’aula era strapiena, centinaia di persone: c’erano i vecchi amici ex rivoluzionari del professore e un sacco di femministe. Tutti commentavano, alcuni applaudivano, altri fischiavano. Insomma, una kermesse più che un processo. Popi, che all’inizio era sfuggito all’arresto, si era costituito ed entrò in aula imbronciato e soprattutto ammanettato. Allora però nessuno ci fece caso. Natalia Aspesi su Repubblica non può far a meno di notare che “per la prima volta in un processo di questo tipo le donne sono divise: e che se il collettivo della scuola è solidale con Simona, tanto da chiedere di costituirsi parte civile, ci so- no molte belle signore, ex compagne o innamorate o amiche del professore, donne che hanno fatto del femminismo quando si usava, e comunque donne intelligenti, che sono certe della sua innocenza”. Insomma, Milano è a disagio. E questo disagio è tradito dal comportamento del Corriere che, per non compromettersi, tiene la notizia rigorosamente nelle pagine di In primo grado si beccò quattro anni e quattro mesi per violenza carnale aggravata.In appello, molto tempo dopo, fu assolto cronaca cittadina. Anche l’Unità fa la stessa scelta: il Pci non sa bene che pesci prendere. Repubblica, che all’epoca aveva le mani più libere, invia invece al processo le sue migliori firme. Ma non trascura la necessità di ricucire la contraddizione nata in seno al femminismo. La Aspesi ci prova ancora, anche se il suo cuore batte dalla parte della studentessa: “Potrebbe anche essere che Simona abbia ragione ad essere certa di aver subito una violenza e Saracino abbia ragione a ritenersi del tutto innocente: che tutti e due cioè dicano la loro verità, in buona fede. La verità di una giovane donna di oggi, un nuovo soggetto storico, che ritiene violata la sua persona se le viene imposto un
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