GIANNI MINà IL MIO ALI Con la collaborazione di Loredana Macchietti Prologo di Mina Mazzini Rizzoli Proprietà letteraria riservata © 2014 RCS Libri S.p.A., Milano © 2014 Rai Com S.p.A. - Rai Eri via Umberto Novaro, 18 - 00195 Roma rai-eri@rai.it www.eri.rai.it ISBN 978-88-17-08096-5 Prima edizione: dicembre 2014 Crediti fotografici: © Bettmann/CORBIS © LaPresse © Archivio privato Gianni Minà Progetto grafico interni e copertina: Franco De Vecchis L’Editore ha fatto il possibile per reperire i proprietari dei diritti. Rimane a disposizione per gli adempimenti d’uso. Prologo Ali Per GiAnni di Mina Mazzini Non ci riesco. Non riesco a chiamarlo Muhammad Ali. Per me è e rimarrà per sempre Cassius Clay. Quello che mi ha fatto capire la bellezza di un gesto che non sarebbe proprio stato tra i miei preferiti. Ma la boxe è un’altra cosa. Lui non faceva a cazzotti. Lui esprimeva il massimo dello splendore, della poesia, della nobiltà. Sua Maestà Cassius Clay era un gioiello. Era il paradigma sovvertito della boxe. Prima di lui nessuno l’aveva interpretata in quel modo. E nessuno si aspettava che fosse proprio un peso massimo a mettere in scena l’esagerazione della leggerezza, della velocità, della danza, della mobilità. Ray Sugar Robinson, tra i più mitici pugili dell’era pre-Clay, aveva fatto il ballerino di professione, ma sul ring non si era permesso una simile confidenza. Né lui né altri. Quando Cassius Clay vinse la medaglia d’oro a Roma tutti si resero conto che non si trattava del solito atleta di colore che, nella boxe, così come in altre discipline, esprimeva qualità irraggiungibili. Tutti seppero che lui e solo lui sarebbe stato adottato dal mondo in un Olimpo comune e non relegato in quello alternativo per questioni di parametri anatomici e fisiologici. E, visto che era dotato di una intelligenza acutissima, adottò il proprio stile per una dirompente comunicazione. Destinata a tutti. 5 Gianni Minà Non aveva voglia di parlare soltanto agli addetti allo sport. Sapeva di avere una audience planetaria e non rinunciò mai a dire la propria verità. Nessuna soggezione, nessuna paura di non essere ascoltato, nessuna paura di non essere approvato da almeno la metà dell’umanità. A pochi uomini era capitato fino ad allora. A pochi uomini ricapiterà in seguito. Poteva tirare cazzotti alla guerra in Vietnam, poteva teatralizzare le sue rivalse nel campo dei diritti e pagava il prezzo delle sue ribellioni con la tranquillità che solo i miti o gli eroi riescono a produrre. Quando voleva e poteva si dedicava alla sua arte. Quella nobile che lui si era permesso di far diventare più elegante e diversa nella tecnica e del tutto unica nella tattica. Il pugilato, che fino ad allora esprimeva fondamentalmente forza, fatto soprattutto di ganci larghi e rari montanti, dopo di lui è cambiato e, per fortuna, ci ha dilettato con una serie di suoi epigoni che non potevano rinunciare a citare Cassius come un prototipo. Possedeva un colpo che sembrava un miracolo: il jab sinistro continuo, asfissiante, mirato alla fronte dell’avversario come a tenergli alta la testa per guardargliela bene e colpirla meglio. È indimenticabile l’immagine di Frazier, con i gomiti in avanti e la testa bassa come quella del toro, che avanza e deve far capire che non si fermerà. Per tre volte si incontrano. Alla “bella”, battezzata da lui e dal suo amico Bundini Brown “Thrilla in Manila” (quella che Cassius stesso definì come «la cosa più vicina alla morte» che gli fosse capitata), all’inizio della quindicesima e ultima ripresa l’angolo di Frazier ritirò il proprio pugile perché “distrutto” dal jab di Clay. Ma troppi episodi mi tornano alla mente, troppi. Tutti. L’intera storia di Clay attraversa la seconda metà del Novecento 6 Il mio Ali senza mischiarsi con i luoghi comuni del tempo. Cambiamenti culturali o tecnologici, guerre, rivoluzioni all’acqua di rose, tragedie vere e simulate, orrori colpevoli, assassini di Stato. Lui va da solo. E obbliga tutti a pensarlo comunque, ogni volta che c’è o che sta nascosto. Continua a essere bellissimo, anche col suo tremare che commuove e che lo incastona nell’immortalità. Il gioiello di un’era, come dicevo. Ti ho amato molto, Cassius. E ti amo ancora. 7 il mio Ali Gianni Minà Muhammad Ali “canta” all’angolo con Bundini Brown in occasione dell’incontro perso da Ali con Joe Frazier (New York, Madison Square Garden, 8/3/1971) 10 Prefazione CAssius ClAy-muhAmmAd Ali, Che intuì il mArketinG PrimA del mArketinG A diciotto anni aveva conquistato la medaglia d’oro nella boxe alle Olimpiadi di Roma, categoria mediomassimi, riempiendo di botte, fra la sorpresa generale, Zbigniew Pietrzykowski, un polacco fino a quel momento onusto di vittorie olimpiche ed europee. A ventitré anni, passato professionista, aveva conquistato il titolo dei massimi cancellando un duro come Sonny Liston. Eppure la sua eccellenza sarebbe stata quella di essere un grande uomo prima che un grande pugile. Non c’è stato, infatti, uno sportivo o un protagonista del nostro tempo che abbia travalicato i confini del suo mondo come Cassius Clay-Muhammad Ali per diventare un simbolo positivo, una persona accettata da tutti, anche da chi, negli anni ’60, lo detestava per la presunzione di voler essere molto più del campione che era, molto più di quel meraviglioso innovatore della boxe alla quale aveva tolto violenza e regalato spesso le movenze di una danza, la gioia di una festa, lo stile quasi di un artista. Allora, questo giovane bello e apparentemente superbo, che condizionava gli avversari più con gli atteggiamenti irridenti che con la volontà di far loro del male, aveva voluto dar voce, approfittando della sua fama, a un popolo, quello 11 Gianni Minà di milioni di afroamericani, che cinquant’anni fa, nella stagione di Martin Luther King, faticavano ancora a far valere i propri diritti e non avevano ancora conquistato, negli Stati Uniti, una compiuta emancipazione. Mezzo secolo dopo un nero di radici africane, Barack Obama, è il Presidente di quella nazione e il merito di questa incredibile evoluzione sociale è anche di persone come questo ex ragazzo di Louisville, Kentucky, che oggi ha settant’anni e, in quell’epoca, influenzato dal leader afroamericano Malcolm X, aveva cambiato il suo nome per scegliere quello di Muhammad Ali, si era convertito alla fede islamica, si era rifiutato, perché ministro di culto, di andare a far la guerra in Vietnam e, per questo, era stato privato del titolo mondiale che avrebbe riconquistato, soltanto sei anni dopo, contro George Foreman, sconfitto per ko a Kinshasa, in Congo, in quello che era stato definito definito il “match del secolo”. Per ritornare a combattere e vincere aveva dovuto aspettare che vicende come la sua convincessero il Congresso nordamericano a cambiare la legge sull’obiezione di coscienza. Mentre, per arrivare a questa sfida Ali, da parte sua, aveva nel frattempo dovuto incontrare, e due volte su tre battere, Joe Frazier, l’avversario di sempre, in match epici che avrebbero lasciato tracce nella salute di entrambi. Un campione idealista nella vita e provocatorio nel modo di stare sul ring, che così mi spiegò una volta le sue scelte: «Il mio talento di pugile, innamorato della fantasia, che condiziona l’avversario più con gli atteggiamenti irridenti che con la volontà di fargli male, non sarebbe servito a niente se io non avessi capito che dovevo utilizzare i media, invece di farmi usare. E se veramente avessi voluto far emergere il mio disagio, la protesta, il dolore, l’orgoglio degli afroamericani, dovevo 12
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