JUS ET FAS - Aracne editrice

JUS ET FAS
COLLANA DI STUDI INTERDISCIPLINARI

Direttore
Agata C. A M
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Comitato scientifico
Ángela A
Universidad de Navarra
Maria Pia B
Libera Università “Maria SS. Assunta” (LUMSA) di Roma
Jesús B
Universitat de València
Hermann–Josef B
Universität Erfurt
Gabriella C
“Sapienza” Università di Roma
Francesco D’A
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Maria Rosa D S
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Stelio M
Istituto di Studi sui Sistemi Regionali Federali
e sulle Autonomie “Massimo Saverio Giannini” (ISSIRFA)
Gian Piero M
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Cesare M
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Guido S
Università degli Studi di Teramo
Sandra S
Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno
Elda T B
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
JUS ET FAS
COLLANA DI STUDI INTERDISCIPLINARI
Il vivace e assai spesso aspro dibattito intorno alla legittimità o
meno della presenza di simboli e di riferimenti religiosi in luoghi pubblici testimonia una difficile, quanto ardua, separazione di ambiti. Del
resto, non appena si guarda al diritto, alla politica e alla religione, non
si può non notare una permanente comunicazione tra le dimensioni.
Jus e lex, certo diversi, richiamano comunque l’idea di ordine: ora
l’ordine determinato dall’opposizione tra ciò che è giusto e ciò che è
ingiusto, ora l’ordine posto in via generale e astratta dalla volontà di
un’unità politica. E fas è l’assise mistica, invisibile, quell’assise che si
ripercuote sul piano del vissuto e che sostiene tutte le condotte e le
relazioni, visibili, definite dal diritto.
Se così, la complessità del rapporto diritto/religione è tale da non
poter essere banalizzata nel suo significato più autentico. La collana di studi interdisciplinari “Jus et fas” si propone di approfondire
i profili e le prospettive di questi due ambiti che ad alcuni possono
apparire come due mondi differenti e anche opposti, e ad altri simili o
convergenti.
Nella collana “Jus et fas” il direttore approva le opere e le sottopone a referaggio con il
sistema del double blind peer review process, nel rispetto dell’anonimato sia dell’autore, sia
dei due revisori scelti, uno, da un elenco deliberato dal comitato scientifico, e l’altro, dallo
stesso comitato in funzione di revisore interno. Nel caso di giudizio discordante fra i due
revisori, la decisione finale sarà assunta dal direttore, salvo casi particolari in cui il direttore
provvederà a nominare tempestivamente un terzo revisore a cui rimettere la valutazione
dell’elaborato. Il termine per la valutazione non deve superare i venti giorni, decorsi i quali
il direttore della collana, in assenza di osservazioni negative, ritiene approvata la proposta.
Sono escluse dalla valutazione gli atti di convegno, gli scritti dei membri del comitato
scientifico e le opere di autori di chiara fama.
Roberto Platania
Carl Schmitt e la teologia politica
Copyright © MMXIV
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
info@aracneeditrice.it
via Raffaele Garofalo, /A–B
 Roma
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: dicembre 
Se si studiassero le cose svolgersi dall'origine,
anche qui come altrove se ne avrebbe
una visione quanto mai chiara.
Aristotele, POLITICA, I, 2
Ognuno è tanto grande quanto ciò che nega.
Carl Schmitt, Die Sichtbarkeit der Kirche
Indice
11 Prefazione
17 Introduzione
PARTE I
Profili “in disiecta membra”.
23
Capitolo I
Propedeutica delle questioni.
1.1. Una premessa (gnoseologica), 23 – 1.2. Sulla superficie del Novecento. Carl Schmittt e “la cultura
della crisi“, 29.
33
Capitolo II
Teologia politica res mixta.
2.1. Il significato, 33 – 2.2. L’Imperium eusebiano, 44 – 2.3. Eusebio di Cesarea, Padre della Chiesa ed
imputato, 53 - 2.4. Il tempo dell’iniquità, 57 – 2.5. La sostanza, 64.
67
Capitolo III
Diritto e profanazione
3.1. La dissoluzione, 67 - 3.2. La parola al Nemico, 68 - 3.3. La “scoperta” della coscienza, 72 – 3.4. Il
rapporto dialettico tra teologia e diritto, 78 – 3.5. L’inammissibilità scientifica, 80 – 3.6. La liquidazione
epigonale, 86.
9
10
Indice
PARTE II
Gli effetti
91
Capitolo IV
Resistenza in nome del Dogma
4.1. L’opposizione politica al Monoteismo politico, 91 - 4.2. La madre di tutte le discussioni. Il
Triakontaeterikos Logos di Eusebio, 92- 4.3 Audita altera parte: un glossario per Der monotheismus als
politisches Problem, 95 – 4.4. Debiti fuori bilancio, 98 – 4.5. Una escatologia. Due effetti, 108 – 4.6. La
diagnosi, 111 – 4.7. Ulteriori notazioni, 119 – 4.8. L’utopia aulica (o della “scienza rischiosa”), 122.
125
Capitolo V
Quali prospettive
5.1. Dentro la storia, 125 - 5.2. La sedazione delle discordie, 127 - 5.3. Reviviscenza di un “anacronismo”?
Un quesito a schema aperto, 130 – 5.4. Teologia politica come codice di comprensione, 138 – 5.5.
L’asserita soppressione della trascendenza, 141 – 5.6. La neutralizzazione, 145 - 5.7. Secolarizzazione e
diritto, 152.
163
Capitolo VI
Fungibilità del concetto
6.1. Teologia politica e contingenza, 163 – 6.2. Pòlemos e verità, 168 - 6.3. Sovranità, trascendenza,
eccezione, 174.
187
Bibliografia
Prefazione
di Stefano Pietropaoli
Nel corso dell’ultimo decennio gli studi dedicati al tema della «teologia
politica» si sono moltiplicati con un’intensità senza precedenti.
Una semplice ricerca bibliografica condotta sui testi pubblicati in lingua
italiana dimostra che alla «teologia politica» sono stati dedicati nei pochi
anni del nuovo millennio più contributi che in tutto l’arco del ventesimo
secolo. Tale profluvio di saggi, monografie e opere collettanee potrebbe
essere considerato come il sintomo di una nuova attenzione critica per un
tema antico e pur sempre attuale, un tema, in altre parole, «classico». Ma una
simile conclusione, per quanto giustificabile sotto alcuni aspetti, non coglie
nel segno.
Se è vero che sulla teologia politica si sono esercitati molti e valenti
studiosi, ivi compresi autori pienamente affermati nei propri campi
disciplinari (soltanto per restare in Italia basti ricordare i nomi di Massimo
Cacciari e di Roberto Esposito), è anche vero che nella congerie di materiali
oggi disponibili è sempre più difficile rintracciare una minima organicità
tematica. Non dubito che possano senz’altro esistere ottime ragioni per
rintracciare, come è stato fatto, una dimensione teologico-politica in Platone
e in Foucault, in Bellarmino e in Weber, in Rosmini e addirittura in Julian
Assange. E neppure voglio mettere in dubbio che un discorso sulla «teologia
politica» possa fornire una chiave di lettura della crisi economica o gettare
nuova luce sulla teoria dei diritti umani. Tuttavia, mi pare sempre più forte il
rischio che l’espressione «teologia politica», invece di definire un «tema» e
quindi un «problema», diventi quella che i linguisti definiscono un
«sintagma cristallizzato», uno stereotipo di cui si è perso il senso profondo,
un’etichetta buona per prodotti che poco o nulla hanno a che vedere l’uno
con l’altro.
È ovvio che l’espressione «teologia politica» rinvii a una pluralità di temi,
e che sia quindi tetragona a riduzionismi e semplificazioni che ne vogliano
comprimere il polimorfismo. Ma è altrettanto ovvio che essa non possa
neppure diventare una perifrasi dai contorni tanto ampi da risultare indefiniti,
un artificio retorico vuoto e quindi suscettibile di essere riempito con
qualsiasi contenuto.
11
6 Carl
Schmitt e la teologia politica
12
Prefazione
La via maestra per evitare un simile risultato è, mi pare, soltanto una: il
confronto serio e costante con gli autori che hanno contribuito
all’elaborazione del concetto in questione. Questo non significa che
occuparsi di «teologia politica» sia possibile soltanto in termini ricostruttivi
e «genealogici». Ma significa che chi intende affrontare il tema della
«teologia politica» deve necessariamente misurarsi con gli autori che hanno
contribuito a determinare le coordinate teoriche fondamentali che tale
espressione coinvolge.
Nella prospettiva appena delineata, qualsiasi discorso riguardante la
teologia politica del Novecento non può esimersi da un serrato confronto con
il pensatore cui più di ogni altro essa deve la propria fortuna: Carl Schmitt.
Questa difficile — e oggi non più scontata — scelta di fondo contrassegna il
testo di Roberto Platania. Nella sua interpretazione del problema della
teologia politica, Platania riconduce il “classico” tema schmittiano nell’alveo
degli studi ad esso dedicati nel corso del Novecento, che erano stati
caratterizzati dal Leitmotiv della polemica tra Carl Schmitt ed Erik Peterson.
Come il lettore può intuire sin dalle prime pagine del testo, si tratta di una
scelta perfettamente consapevole dell’autore. Una scelta, questa, che Platania
motiva con grande e sincera modestia, quasi a voler dire che i tentativi di reinterpretare nel tempo attuale il tema della teologia politica devono essere
lasciati a chi è sufficientemente attrezzato per reggere il confronto con gli
autori che ne hanno segnato la storia. Tuttavia, vi è dell’altro. Dietro alla sua
proposta interpretativa può essere riscontrato un senso di disagio verso
l’eccessiva sbrigatività con cui il “vecchio” problema della teologia politica
è stato liquidato negli ultimi anni, nell’affannoso e vano tentativo di liberarsi
definitivamente da un paradigma — quello della modernità — sentito
sempre più asfissiante.
Con questo volume l’autore cerca dunque di riannodare fili troppo
rapidamente recisi, in una prospettiva che potrebbe sembrare ad alcuni
anacronistica, e che invece a mio parere rivela una forte sensibilità storica.
Nelle pagine che Platania ci sottopone, il problema della teologia politica
rivela infatti come il superamento del “moderno” sia tutt’altro che una partita
chiusa. Se, infatti, questo volume non si propone di leggere il tema della
«teologia politica» in una prospettiva attualizzante, non è soltanto perché tale
compito è considerato dall’autore al di là dei propri obiettivi, ma è anche —
e forse soprattutto — perché per Platania l’epoca che stiamo attraversando
non è ancora pienamente ascrivibile al post-moderno.
Ecco dunque che la migliore chiave di accesso alla teologia politica si
rivela ancora oggi il confronto tra Carl Schmitt ed Erik Peterson. La
Prefazione
13
polemica che li vide protagonisti anima uno spazio significativo del lavoro di
Platania, perché in essa egli individua il senso profondo del problema della
teologia politica del Novecento: la questione del rapporto tra trascendenza,
ordine politico e ordinamento giuridico. A differenza di molti autori,
Platania infatti non si limita a considerare le due polarità intrinseche del
problema — il «teologico» versus il «politico» —, ma tiene costantemente
presente che la teologia politica, in quanto forma con cui l’Occidente ha
pensato il potere, investe il pensiero giuridico della modernità. In questo
senso, l’immagine di Carl Schmitt che ci viene restituita è quella di un
giurista (o per usare una sua autodefinizione, quella di un «teologo della
giurisprudenza») che, consapevole della crisi terminale di un’epoca
straordinaria del razionalismo occidentale, ha cercato nuove risposte al
problema del «giuridico».
La scelta di mettere in primo piano la prestazione teorica schmittiana in
quanto espressione di un particolare pensiero giuridico rivela una
condivisione da parte dell’autore del peculiare approccio schmittiano al
diritto. La centralità della decisione, la pregnanza del caso di eccezione, il
dilemma tra trascendenza e realizzazione del diritto, la non corrispondenza
tra nomos e legge, sono tutti elementi inconciliabili con i canoni del
giuspositivismo normativistico. Si spiega quindi da sola la chiara presa di
posizione a favore di Schmitt nella polemica che oppose questi a Peterson.
Se sul versante teorico-giuridico il principale bersaglio polemico schmittiano
era rappresentato dalla «dottrina pura» di Hans Kelsen — che aspirava alla
creazione di una scienza giuridica sublimata dalla scorie politiche e morali
—, sul versante teologico Schmitt non poteva condividere il progetto
petersoniano di una «teologia pura».
Peterson vedeva nella dottrina schmittiana della sovranità il rischio della
giustificazione di uno sciagurato dispotismo. Sostenendo la «impossibilità
teologica di una teologia politica», egli intendeva preservare il messaggio
evangelico da ogni deformazione ideologica contingente. A questo fine, egli
contrapponeva il dogma trinitario alla mitizzazione del sovrano in chiave
monoteistica, finendo col ritenere la «monarchia divina» ultimo e necessario
esito di ogni teologia politica.
La differenza tra le posizioni di Schmitt e di Peterson trova dunque una
immediata corrispondenza nelle divergenti valutazioni dei due autori sulla
figura di Eusebio di Cesarea. Come ricorda Platania, Peterson condanna
radicalmente non soltanto le posizioni filo-imperiali di Eusebio, ma la chiesa
costantiniana in generale, in quanto compromessa con il potere secolare.
8 Carl
Schmitt e la teologia politica
14
Prefazione
Eusebio — sostenitore di una posizione di ascendenza monarchiana e quindi
in rapporto problematico con la teologia trinitaria — è considerato
responsabile di un’imperdonabile commistione tra teologia e politica e, cosa
ancora più grave, di aver condizionato con la propria dottrina la successiva
storia del cristianesimo.
L’avversione di Peterson celava una presa di posizione che non è possibile
considerare impolitica. Pur preferendo, prudentemente, mantenere il proprio
discorso in ambito teologico, Peterson intendeva esprimere la propria
opposizione al nazionalsocialismo. Come ha notato Schmitt, la
«liquidazione» di Eusebio era una risposta politica a una domanda politica.
La via d’uscita proposta da Peterson passava dal recupero di un dogmatismo
capace di fare «sicura purezza» a un «teologo puro». La replica di Schmitt è
lapidaria: una decisione su ciò che è impolitico comporta sempre una
decisione politica. La teologia, nel momento in cui pretende di separarsi in
maniera assoluta e definitiva dalla politica, non può più «liquidare» la
questione della teologia politica. Inoltre, la identificazione operata in chiave
polemica da Peterson tra monoteismo puro e monarchia imperiale, non fa
che confermare la tesi della derivazione dei concetti politici da concetti
teologici sostenuta da Schmitt, che ha buon gioco nel replicare che il
monoteismo trinitario richiede forme politiche complesse e non monistiche.
Ma non basta: secondo Schmitt, la fuga verso una dimensione teologica pura
spalanca le porte al dominio della tecnica.
Nella lettura proposta da Platania, Peterson non sembra aver compreso la
crisi della modernità con la stessa profondità dimostrata da Schmitt. La posta
in gioco, per quest’ultimo, non era soltanto il futuro dello Stato liberale o il
contenimento del neopaganesimo nazionalista, ma era il destino stesso
dell’Occidente. In questo senso, se da una parte Kelsen tentava di liberare il
diritto da ogni riferimento al trascendente, dall’altra Peterson tentava di
liberare la teologia da ogni riferimento al politico. Si trattava di due tentativi
speculari ma nel contempo accomunati dalla negazione di una
corrispondenza reciproca necessaria, rispettivamente, tra religione e diritto e
tra religione e politica. Al contrario, Schmitt ritiene che non vi possa essere
altra strada che mettere in luce il ruolo fondamentale che la trascendenza
gioca in ogni ordine politico e in ogni ordinamento giuridico. Egli è certo
consapevole del rischio insito nella giustificazione sul piano teologico di un
regime politico, e tuttavia non può che registrare come la sovranità, in
quanto espressione di un potere originario, conservi sempre una «eccedenza»
rispetto alla forma in cui si esprime. Il diritto conserva in sé un elemento
trascendente, perché — e in questo sta l’analogia con la teologia — la
Prefazione
15
mediazione tra idea del diritto e realtà giuridica corrisponde al processo di
secolarizzazione di un’istanza trascendente.
Sempre secondo Schmitt, il sovrano ristabilisce l’ordine partendo da una
situazione «eccezionale». Egli è dunque contemporaneamente “fuori” e
“dentro” l’ordinamento giuridico normalmente vigente. Con il suo atto
volitivo fondamentale — la decisione — il titolare della sovranità risolve il
problema del passaggio dalla natura ideale del diritto alla sua espressione
concreta. In altre parole, secondo Schmitt, il diritto richiede una decisione
concreta che implica necessariamente un momento di indifferenza
contenutistica. La decisione, in quanto atto formale privo di un contenuto
sostanziale predefinito, deriva da un “nulla normativo” che coincide con la
concretezza del reale, la cui massima espressione è l’eccezione. Soltanto così
è possibile comprendere giuridicamente lo stato di eccezione, e dunque la anormalità di una situazione concreta: la “forma giuridica” della decisione
non è una forma vuota, ma è una forma originata dall’eccezione del caso
concreto.
È in questa prospettiva che Schmitt sostiene che «lo stato di eccezione ha
per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia».
Come il miracolo, manifestazione della sovranità divina, “sospende” le leggi
naturali, così lo stato di eccezione, espressione della sovranità terrena,
sospende le leggi umane. Ma se la teologia può limitarsi a richiamare un
principio trascendente, la teoria giuridica deve trovare anche un nesso con la
realtà.
Come ricorda Platania, l’analisi della crisi della trascendenza che, in
particolare con l’illuminismo, ha segnato la modernità, ha portato Schmitt a
confrontarsi costantemente con autori “controrivoluzionari” come Louis de
Bonald, Joseph de Maistre e Juan Donoso Cortés, accomunati tanto dalla
contestazione del deismo razionalistico (che escludeva qualsiasi intervento
di Dio nel mondo e dunque rifiutava tanto il “miracolo” quanto
l’“eccezione”) quanto dalla riproposizione della «personalità» del potere
sovrano incarnato dal monarca.
Nell’affrontare il tema della teologia politica, Schmitt si concentra sul
concetto di sovranità, interpretandolo come riaffermazione del necessario
nesso tra teologia, politica e diritto. Egli mette così in evidenza
l’insufficienza di un’ermeneutica immanentistica per impostare il problema
dell’ordine moderno. La teologia politica schmittiana è dunque la chiave
interpretativa della modernità nel momento della sua crisi terminale.
10 Carl
Schmitt e la teologia politica
16
Prefazione
Come costantemente ricorda Platania, Schmitt era un «giurista». La sua
ricostruzione, che fa emergere come la scienza giuridica moderna si sia
appropriata di alcuni tratti fondamentali della potestas spiritualis della
Chiesa medievale, non può essere interpretata (nel modo suggerito da
Peterson) come un «furto sacrilego». Si tratta, piuttosto, di un ultimo,
estremo tentativo di salvare la tradizione del razionalismo occidentale. Il
prezzo da pagare per rimediare all’assenza di un fondamento trascendente
dell’ordine politico-giuridico è rappresentato dalle implicazioni
“personalistiche” e “soggettivistiche” che la concretizzazione del diritto
comporta. E se questa prospettiva, in cui la razionalità ha a che fare più con
la carnalità della storia che con la fredda logica della tecnica, si è rivelata
perdente, questo non vuol dire che non fosse animata da una visione
lucidissima del proprio tempo. Si tratta soltanto di uno dei molti problemi e
delle mille contraddizioni che la parabola intellettuale di Schmitt ci mette
davanti ancora oggi.
Il testo di Platania ci consente dunque di riflettere ancora una volta su Carl
Schmitt, credente eppure scomunicato, animato da un radicale pessimismo
antropologico ma confidente nella redenzione, cattolico ma sempre attento al
pensiero di autori non cattolici come Jacob Taubes, Hans Blumenberg, Karl
Barth, Friedrich Gogarten, Walter Benjamin.
Introduzione
Il proponimento di redigere questo scritto è scaturito dallo sviluppo di certi
interrogativi sui meccanismi “esistenziali” del diritto, interrogativi ai quali
l’immodesto scriba ha tentato dare una qualche collocazione in questo
esangue “prontuario”: sia chiaro, solo nel remoto intento di veder frenare,
certamente su una scala molto piccola e colloquiale, la rimozione
dell’arcanum giuridico, in controtendenza con le sollecitazioni e le blandizie
della società del vuoto “fare”.
Lo svolgimento del tema – ostico e inflazionato in pari tempo - ha
condotto la scia argomentativa assai lontano, tanto da non tardare ad
incontrarsi con la politica. Ciò, a parte la sensibilità di chi scrive, forse
proprio perché - omnibus perpensis - necessità e decisione, forme e conflitto,
salvezza e differenza si compenetrano nel profondo. E' stato così possibile e
necessario, volendo ricercare un approdo, disegnare una sorta “teatro della
memoria”, del quale si è voluto dare atto in questa rassegna. In tal senso il
lavoro ha voluto costituire l'esito di un orientamento, mai insensibile di
fronte alla tentazione di compiere qualche escursione.
Il pericolo era che il quadro d'insieme disegnato potesse sconfinare – oltre i
limiti del ragionevole – dal diritto a ciò che a prima vista sembrerebbe stargli
lontano, per esempio nella teologia fondamentale o in altre forme di
deduzione della fede, di pensiero e di “discorso” intorno alla fede. Il
risultato che si dà al lettore con questo strumento offre la possibilità di
stabilire se le tessere del mosaico siano state composte con equilibrio e
pertinenza.
17
12 Carl
Schmitt e la teologia politica
18
Introduzione
Non possiamo ritrarci dal riconoscere che l'odierna monografia – che potrà
anche sembrare un sussidiario ambizioso ed incompleto – paga un chiaro
pegno alla simpatia in vinculis per lo studioso di Plettenberg. Quel che si è
scritto, crediamo, ha però svelato un dato oggettivo, ovvero che anche il più
sereno tentativo multidisciplinare – fatalmente obbligato nel caso di chi
voglia accostarsi a Schmitt - si porta dietro uno lungo strascico di postille, di
dissensi e di polemiche. Posizionare in un modo o in un altro questo o
quell'aspetto dell’argomento è un compito che, per chi voglia porsi
l'obiettivo di svelare le tesi teologico-politiche, fa i conti anche con i temi
della creazione e della rivelazione, rendendo necessario un terreno comune
di convergenza sotto il profilo metodologico. Le cose si vedono molto
diversamente a seconda che si sia giuristi “puri”, filosofi del diritto,
politologi, costituzionalisti, sociologi della religione, studiosi della
“fenomenologia del sacro”, teologi morali, patrologi, biblisti e così via.
La celebre diatriba tra Erik Peterson e Carl Schmitt – iniziata nel 1935 dal
teologo, nelle circostanze che vedremo – e che negli anni ha assunto un
valore emblematico - ha sollecitato una particolare attenzione che coinvolge
la storia di entrambi i protagonisti. La divergenza ha implicato la figura di
Eusebio di Cesarea, attorno alla quale le pagine che seguono condurranno
con gradualità il lettore. Il piano più pregnante della vicenda che ci interessa
sta nella inconciliabilità di due diversi modelli della Chiesa, della storia e
della politica che vennero alla luce proprio attraverso il Padre della Chiesa
nel ruolo di casus belli,.
Su Peterson può dirsi che, pur non avendo un “grande pubblico”, ha offerto
nel tempo spunti di apprezzata ricchezza. Qui tutti i suoi materiali teorici non
potevano essere investigati e forse neppure sono stati proporzionatamente
messi in rilievo. A ben vedere, anche il solo profilo di Peterson presenta
difatti una propria complessità. Morto ad Amburgo nel 1960, dopo essersi
stabilito per diversi anni in Italia, il teologo ha attraversato non poche
difficoltà personali, sperimentando una certa incomprensione negli ambienti
della Curia di Roma. Il suo pensiero ha uno stretto addentellato con la crisi
della teologia liberale, ma percepisce l'influenza del pietismo tedesco per cui
affronta diversamente il lascito ottocentesco rispetto a Karl Barth, che ne è il
grande contestatore. La sua concezione di dogma, come espressione della
cogenza assoluta della rivelazione cristiana, resta un tassello non secondario
del patrimonio teologico contemporaneo. Si fa oggi notare che
sull'importanza della liturgia nella Chiesa Peterson ha scritto cose
fondamentali che sono riprese, in via mediata, nella costituzione liturgica. Ed
Introduzione
19
è sempre su di lui che si registra una rinnovata attenzione, diretta a trarlo
fuori da una certa “nicchia” nella quale la critica lo ha nel tempo
immeritatamente collocato, a volte considerandolo – per le sue posizioni ed i
suoi interessi - anacronistico e “superato”. Della sua ricchezza di spunti una
testimonianza che rende giustizia è data dal lavoro teologico di Joseph
Ratzinger, che si è confrontato con diversi dei temi affrontati da Peterson nel
corso del suo cammino.
Più conosciuto e dibattuto Schmitt, sul quale in questi anni si sta scrivendo
molto. Pur omettendo qui ogni cenno biografico corre l'obbligo di rilevare
che l'ampio orizzonte teorico e la sua stessa erudizione onnivora
costituiscono una fonte di continue riflessioni, di riferimenti paralleli, a volte
tutti da sviscerare. Oltre a rendere necessaria una preparazione a tutto
campo, storica, politologica, filosofica e letteraria, per la quale si rischia una
insana dispersione. Al riguardo a noi basta confermare che queste pagine si
concentreranno solo sugli aspetti della sua opera ritenuti maggiormente
significativi rispetto alla nostra indagine.
A tutti gli effetti, parlare di Schmitt significa coinvolgere i suoi critici e i
suoi interlocutori. Gli avversari di vaglio debbono a questo studioso le
ricchezze intellettuali e le sfumature dialettiche contenute in opere ed
interventi che, a parte le contingenze, sono stati dati alla luce per cercare di
confutarlo. In questo stesso modo si è dovuta riconoscere la sua centralità nel
panorama della cultura occidentale.
Accostarsi a Schmitt con la volontà di afferrarne i convincimenti più
radicali e profondi richiede senza dubbio la conoscenza dei protagonisti del
suo tempo. Parliamo di Hans Kelsen, Martin Heidegger, Karl Loewith,
Walter Benjamin, Ernst Junger, Leo Strauss e tanti altri. Ma non dovremmo
neppure dimenticare nomi più o meno “eccentrici”, quelli dei personaggi a
cui Schmitt ha dedicato ripetute riflessioni e l’importanza dei quali ha un
senso soprattutto nello Schmitt “privato”, se questa definizione ha una sua
plausibilità: Max Stirner, Theodor Daubler, Konrad Weiss. Tutto ciò a voler
tacere dei grandi nomi del passato che sovrastano lo scenario, tra i quali
affiorano – come ben sanno i conoscitori del giurista - Jean Bodin e Thomas
Hobbes. Tutti costoro, nella loro eterogeneità, obbligano a sottolineare
appunto quanto non sia semplice una reale comprensione a tutto campo
dell'opera schmittiana. Nel nostro caso la deliberata economia di certi
14 Carl
Schmitt e la teologia politica
20
Introduzione
riferimenti ha concesso la possibilità di questa epitome ed ha forse favorito
l’alleggerimento teoretico delle questioni sul tappeto. Con ciò, tra i demeriti,
si è almeno beneficiato della fattiva deflazione di un contenzioso complicato,
pur con una parte dei quesiti - più o meno essenziali - rimasti appunto
convenientemente sospesi a metà. Tra questi, per fare un solo esempio, la
difficile sintesi tra lo Schmitt cattolico e lo Schmitt esoterico, segnata
dall'impervia percorrenza di un itinerario interiore oscillante tra questi due
poli, il secondo dei quali è stato – anche dagli studiosi più appassionati - più
intuito che oggettivamente dedotto. E se – anticipando qui il tema, uno tra i
tanti - a nostro giudizio mancano i dati oggettivi a legittimare la figura di
uno Schmitt gnostico – come appunto di seguito sosterremo, non difettano in
via indiretta gli indizi per dedurne una singolare (o contraddittoria)
contiguità rispetto ad un sapere altro, caratteristico di tutta un'epoca in
ebollizione.
Se passiamo sinteticamente agli aspetti metodologici, precisiamo di esserci
attenuti al principio della maggiore comodità di consultazione da parte del
lettore, riportando nelle note e nell’appendice bibliografica soltanto quelle
fonti accessibili alla pluralità degli interessati. Lo specialista ben saprà
dell’esistenza di fonti straniere ancora non tradotte e portatrici di contributi
di spessore.
Resta da esternare il personale apprezzamento per l’attenzione critica
fornita a margine delle presenti pagine dal Prof. Stefano Pietropaoli, dal
Prof. Giuseppe Ruggieri, dal Dr. Enrico Bini e dal Dr. Marco Pratesi.
Unisco a costoro il Prof. Massimo Iiritano e la Dr.ssa Rita Fulco.
L’autore