Aggiornamenti Sociali, Marzo 2014

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politiche per un’impresa “liquida”
Conti pubblici 2013: l’operato
del Governo delle larghe intese
Impresa
Diritto d’asilo
Legge elettorale
Unione Europea
Popolarismo sturziano
Finanza pubblica
Politica industriale
Kennedy e Krusciov
aggiornamenti sociali
Perché la Corte Costituzionale
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diritti & giustizia
internazionali
ECONOMIA
POLITICA
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sessant’anni affronta gli snodi cruciali della vita sociale,
politica ed ecclesiale articolando fede cristiana e giustizia.
Offre strumenti per orientarsi in un mondo in continuo
cambiamento, con un approccio interdisciplinare e nel
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È frutto del lavoro di una équipe redazionale composta
da gesuiti e laici delle sedi di Milano e di Palermo e di un
ampio gruppo di collaboratori qualificati.
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e dei Centri di ricerca e azione sociale dei gesuiti
in Europa (Eurojess), e della Federazione «Jesuit Social
Network-Italia Onlus».
anno 65 / 3
marzo 2014
Fondazione Culturale
San Fedele
Tutti i diritti sono riservati. È vietata
la riproduzione, anche parziale,
con qualsiasi mezzo, compresa
stampa, copia fotostatica, microfilm
e memorizzazione elettronica, se non
espressamente autorizzata per iscritto.
© Fondazione Culturale San Fedele
IT ISSN 0002-094X
Registrazione Tribunale di Milano
18-11-1960 n. 5442
La testata fruisce dei contributi
statali diretti di cui alla legge
7 agosto 1990, n. 250.
Chiuso in tipografia il: 18/2/2014.
Il fascicolo precedente è stato
consegnato alle poste di Milano
(CMP Roserio) per la spedizione
il 31/1/2014.
Direttore responsabile: Giacomo Costa SJ
Direttore emerito: Bartolomeo Sorge SJ
Redazione: Stefano Bittasi SJ, Paolo Foglizzo, Chiara Tintori,
Giuseppe Riggio SJ, Giuseppe Trotta SJ
A Palermo: Emanuele Iula SJ, Gianfranco Matarazzo SJ,
Giuseppe Notarstefano, Giuseppina Tumminelli
Comitato di consulenza scientifica: Floriana Cerniglia,
Chiara Giaccardi, Berardino Guarino,
Antonio La Spina, Mauro Magatti, Giulio Parnofiello SJ,
Antonietta Pedrinazzi, Luca R. Perfetti,
Filippo Pizzolato, Massimo Reichlin,
Giuseppe Verde, Tommaso Vitale
Editing: Francesca Ceccotti
Segreteria e layout: Cinzia Giovari
Progetto grafico: Amelia Verga
Editore: Fondazione Culturale San Fedele
Piazza San Fedele 4, 20121 Milano
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Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano
editoriale
marzo 2014
Giacomo Costa SJ – Paolo Foglizzo
Conflitti sociali e strumenti di governance
al tempo dell’impresa liquida
181-188
I casi di FIAT, Electrolux e Alitalia mostrano che sempre di più le strategie
imprenditoriali prescindono dai confini nazionali. Cambiano di conseguenza
i conflitti sociali ed economici e le risposte da parte degli Stati.
mappe
Competitività | Concorrenza | Economia internazionale | Globalizzazione | Impresa |
Italia | Lavoro | Politica industriale | Produttività | Sindacato | Unione Europea
punti di vista
Bartolomeo Sorge SJ
Prospettive per una «buona politica». Papa Francesco
e le intuizioni di Sturzo
190-199
Riletto alla luce della Evangelii gaudium di papa Francesco il popolarismo
sturziano mostra segni di grande attualità e vitalità per ispirare l’impegno
politico dei cristiani italiani.
Cattolicesimo politico | Democrazia | papa Francesco | Politica italiana | Popolarismo |
Populismo | Rapporto Chiesa-politica | Sturzo
approfondimenti
Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi
Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese”
200-213
L’analisi della politica economica del Governo Letta ne rivela la esigua
efficacia, dovuta al precario equilibrio della maggioranza che lo sosteneva
e alla conseguente impossibilità di compiere scelte decise.
Finanza pubblica | Governo | Legge
Spesa pubblica
finanziaria
| Politica
economica
| Politica
fiscale
|
scheda / normativa Il caos delle imposte immobiliari comunali
214
oltre la notizia
Filippo Pizzolato
La legge elettorale nel giudizio della Corte Costituzionale.
Anatomia patologica del Porcellum
Un commento alla sentenza 1/2014 con cui la Corte Costituzionale ha
dichiarato incostituzionale il “Porcellum” per l’attribuzione dei premi di
maggioranza e l’impossibilità di esprimere voti di preferenza.
Corte Costituzionale | Costituzione | Democrazia | Legge elettorale | Politica italiana |
Verifica di costituzionalità
178
215-224
sommario
ricerche e analisi
Chiara Peri
La protezione interrotta. Il Regolamento “Dublino III”
e il diritto d’asilo in Europa
225-236
Una ricerca condotta dal JRS indaga se alla luce del nuovo Regolamento
europeo “Dublino III” i richiedenti asilo e i rifugiati riescono a ottenere una
protezione efficace in Europa.
Aiuto ai rifugiati | Diritto d’asilo | Gesuiti | Politica
Unione Europea
migratoria
| Rifugiato
politico
|
scheda / libro Rifugiati, profughi, sfollati
237
cristiani e cittadini
James W. Douglass
Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII:
storia di una pace inaspettata
239-246
Una interessante lettura della risoluzione della crisi dei missili di Cuba
del 1962, secondo cui Kennedy e Krusciov riuscirono a evitare il conflitto
mondiale grazie alle esortazioni alla pace di Giovanni XXIII.
Dottrina sociale della Chiesa | Giovanni XXIII | Guerra fredda | John Fitzgerald Kennedy
| Nikita Krusciov | Pace | URSS | USA
immagini
bussola
Sonia Frangi
Finestre 2014: Parabole
247-248
bibbia aperta / Assumersi la responsabilità
di Stefano Bittasi SJ
250-253
tools / Paul Ricœur e l’«uomo capace»
di Secondo Bongiovanni SJ
254-258
recensione / La vita buona nell’economia e nella società
di Giorgio Nardone SJ
259-261
vetrina / Libri, film, eventi
262-264
179
contatti e informazioni
Padre Gianfranco Matarazzo è stato nominato
nuovo Provinciale d’Italia della Compagnia di Gesù.
Succederà nell’incarico a padre Carlo Casalone.
Padre Matarazzo è nato a Teano (Caserta) nel 1963. Il
10 maggio 2003 è stato ordinato sacerdote e inviato
al Centro Arrupe di Palermo, del quale è diventato
direttore nel 2010. Dal 2006 è membro della redazione palermitana di
Aggiornamenti Sociali.
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e iniziative connesse.
Conflitti sociali
e strumenti di governance
al tempo dell’impresa liquida
editoriale
Giacomo Costa SJ
Direttore di Aggiornamenti Sociali
<costa.g@aggiornamentisociali.it>
Paolo Foglizzo
Redazione di Aggiornamenti Sociali
<foglizzo.p@aggiornamentisociali.it>
L
e cronache recenti hanno dato ampio spazio alle vicende di
alcune grandi imprese: la neonata FIAT Chrysler Automobiles (FCA) che pone la propria sede legale nei Paesi Bassi
e quella fiscale a Londra; Electrolux, che minaccia di trasferire la
produzione di elettrodomestici in Polonia; l’ennesimo “salvataggio”
di Alitalia, che per sopravvivere deve accettare di entrare nell’orbita
della compagnia aerea di Abu Dhabi, Etihad.
Si tratta di tre casi, certamente significativi, ma non isolati od
originali. Negli stessi giorni, ad esempio, il produttore di piastrelle
Del Conca inaugurava un nuovo stabilimento in Tennessee (USA),
mentre attende da 10 anni i permessi per ampliare l’impianto in
Romagna. Nell’intervista apparsa sul n. 1 (2014) di Limes, intitolata «Finmeccanica è orgogliosamente italiana, ma anche “polacca”»,
Alessandro Pansa, amministratore delegato del colosso dell’industria
aerospaziale e della difesa, il cui socio di maggioranza è il Ministero
del Tesoro italiano, risponde alla domanda «Che cos’è la Polonia
per Finmeccanica?» con queste parole: «È un mercato domestico,
proprio come l’Italia, gli Stati Uniti o la Gran Bretagna».
Non è un fenomeno solo italiano: in Francia, secondo alcune indiscrezioni, il piano di salvataggio del gruppo Peugeot-Citroën potrebbe prevedere l’ingresso dello Stato (francese) e dell’azienda automobilistica cinese Dongfeng nel capitale della società, a fianco della
famiglia Peugeot che ne perderebbe il controllo. Spostandoci oltre
Atlantico, a fine gennaio Google ha annunciato la vendita di Motorola Mobility (produttore di telefoni cellulari) alla cinese Lenovo, che
nel 2005 aveva già acquisito la divisione personal computer di IBM.
Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (181-188)
181
Le notizie sul trasferimento di imprese e stabilimenti generano timore per ulteriori perdite di posti di lavoro e richieste di
interventi governativi per bloccare questa dinamica. Per quanto
comprensibili, queste reazioni rischiano di arrestarsi ai sintomi,
mentre è necessaria una lettura più profonda del fenomeno. Siamo
di fronte all’onda lunga della globalizzazione, che prosegue indipendentemente dalle vicende nazionali e, tutto sommato, anche
dall’andamento della crisi economica mondiale: è lo scenario al cui
interno dobbiamo proiettare l’economia, la politica e, in qualche
modo, tutta la nostra vita. Che la globalizzazione sia un fenomeno
complesso, sfaccettato e ambiguo (cioè con aspetti positivi e negativi
al tempo stesso), non è una novità; soprattutto richiede di essere
governata e indirizzata perché i benefici vadano a vantaggio di tutti
e non solo di pochi.
In questa linea proporremo alcune riflessioni, necessariamente limitate, che puntano a meglio comprendere quanto accade e a
identificare i conflitti in corso: senza questa crescita in capacità di
discernimento dei fenomeni socioeconomici, rischiamo di sbagliare
l’obiettivo delle nostre battaglie e di perdere la possibilità di orientare i processi nella direzione del bene comune.
Le imprese non hanno (più) passaporto
I fenomeni di cui ci stiamo occupando sono la conseguenza più
recente di un intreccio di dinamiche in corso da decenni. La drastica riduzione dei costi di trasporto consente di produrre merci in aree
anche molto distanti dai mercati ove sono vendute, senza renderne il
prezzo esorbitante. Il vertiginoso sviluppo delle tecnologie informatiche rende possibile il governo di processi produttivi e distributivi
su scala globale: una vera e propria rivoluzione manageriale, che
consente il coordinamento in tempo reale di attività sparse nel
mondo intero.
Inoltre, da almeno trent’anni l’evoluzione della normativa che disciplina l’attività economica è ispirata a un progressivo abbattimento
delle barriere al commercio internazionale. Viviamo nell’epoca della
libera circolazione: dei capitali innanzi tutto, che possono spostarsi
alla ricerca del massimo profitto; delle merci, che viaggiano alla
ricerca dei consumatori disposti a comprarle a un prezzo più alto; e,
pur con limitazioni molto più stringenti, anche delle persone, che si
spostano alla ricerca di opportunità di lavoro.
La conseguenza è che lo scenario sul quale le imprese proiettano le proprie scelte prescinde in larga misura dai confini
nazionali. Dobbiamo imparare a considerarle come soggetti senza
passaporto o, forse, con molti passaporti. Ad esempio FIAT, ormai
182
Giacomo Costa SJ – Paolo Foglizzo
editoriale
diventata FCA, è un produttore globale di automobili con sede legale nei Paesi Bassi, sede fiscale nel Regno Unito, mercato borsistico
di riferimento a Wall Street, un assetto proprietario aperto ad azionisti di ogni parte del mondo (per lungo tempo una partecipazione
consistente è stata in mani libiche), sedi operative principali in Italia
e USA, impianti in svariati Paesi del mondo e filiali commerciali
ancora più diffuse: ha davvero senso chiedersi qual è la sua identità
nazionale? Assai spesso per le imprese, anche medie e piccole, l’internazionalizzazione è una scelta obbligata per cercare di sopravvivere a una competizione sempre più serrata.
In questo scenario anche i conflitti che da sempre oppongono i
diversi attori economici e produttivi si modificano drasticamente:
è un elemento chiave da tener presente per non leggere la realtà di
oggi sulla base di categorie obsolete.
Innanzi tutto aumenta il grado di competizione tra produttori:
solo pochi decenni fa sul mercato europeo le auto prodotte in Corea non erano in condizione di fare concorrenza a quelle prodotte
in Italia. Oggi lo sono. Anzi, questo è esattamente l’obiettivo delle
politiche di libera circolazione, nella convinzione che maggiore concorrenza metta a disposizione dei consumatori prodotti migliori e
meno cari. Il che in molti casi accade. Ovviamente l’aumento della
competizione comporta un incremento dei rischi per le imprese:
errori e inefficienze rischiano di costare molto cari in termini di
perdita di quote di mercato. Di qui la pressione per ottenere una
flessibilità sempre più elevata.
La concorrenza ha inoltre assunto una dimensione “geopolitica”:
oggi sono i Paesi a competere tra di loro per attirare investimenti
produttivi sul proprio territorio, come è successo tra Italia e Serbia
nel momento in cui FIAT ha scelto dove localizzare l’impianto che
avrebbe prodotto la 500L.
Cresce anche la competizione fra lavoratori di aree diverse,
come ci ricorda il caso Electrolux. A differenza delle imprese, tuttavia, i sistemi di tutela dei diritti dei lavoratori (sindacati, diritto
del lavoro, welfare, ecc.) restano ancorati ai confini nazionali e questo introduce elementi di tensione e di disequilibrio nelle relazioni
tra capitale e lavoro. Da tempo gli esponenti più lungimiranti del
mondo sindacale hanno chiara la necessità di una globalizzazione
dei diritti e delle tutele, anche se questo stenta a tradursi in pratica.
Infine, emerge con prepotenza il conflitto tra consumatori e
lavoratori: la possibilità di acquistare prodotti tessili a basso costo
provenienti dall’Asia meridionale e orientale grazie all’eliminazione
di dazi e barriere all’importazione rappresenta una opportunità per
i consumatori italiani; ma non si può dire lo stesso per quanti lavoConflitti sociali e strumenti di governance al tempo dell’impresa liquida
183
ravano nelle industrie tessili che non hanno retto la concorrenza o
che, per riuscirci, hanno delocalizzato la produzione.
Appare qui con evidenza l’ambivalenza della globalizzazione:
le opportunità per alcuni (imprese, ma anche Stati, lavoratori, consumatori) diventano una condanna per altri. Si tratta di due facce
della stessa medaglia, che non è possibile districare, anche se, molto
spesso, l’accesso alle opportunità risulta possibile (o almeno molto
più agevole) a chi occupa una posizione di forza o di privilegio. Per
questo tutti gli indicatori ci dicono che l’era della globalizzazione è
anche un’epoca di disuguaglianze crescenti.
Spunti di riflessione in prospettiva italiana
In questo quadro le tensioni tendono a scaricarsi con particolare
intensità sul livello nazionale, al quale è rimasta ancorata la politica:
è ai Governi nazionali che si rivolge l’appello – talvolta il “comandamento” – di non interferire con la “mano invisibile” del mercato;
che, alle prime avvisaglie di crisi, si trasforma in richieste di aiuto
e programmi di sostegno. E sono i Governi nazionali a doversi fare
carico delle conseguenze delle delocalizzazioni, in termini di ammortizzatori sociali quando queste avvengono, o di concessione di
incentivi quando sono solo minacciate. Si tratta di una partita politica estremamente delicata, in cui i principi sono chiari – evitare
che a farne le spese siano sempre i più poveri e i meno favoriti –,
ma non altrettanto le modalità di concretizzarli, che devono essere
innovative per tenere il passo dell’evoluzione dell’economia.
La prospettiva nazionale, dunque, mantiene la sua pertinenza per quanto attiene all’orientamento dei processi. È necessario
però cambiare lo sguardo. Presentiamo qui tre spunti a partire dalla
situazione italiana, che suggeriscono piste per una politica industriale sostenibile ed efficace nel mondo dell’impresa liquida.
a) Non è solo questione di costo del lavoro
Affermare che le delocalizzazioni sono la risposta delle imprese
a un eccessivo costo del lavoro è ormai diventato un luogo comune. In realtà alcuni studi (cfr ad esempio Accetturo A. et al., «Il
sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi», Questioni di
economia e finanza, n. 193, Banca d’Italia, luglio 2013) suggeriscono
una maggiore cautela: la questione della produttività – il vero
fattore critico in termini di competitività internazionale – non
può essere ridotta alla dinamica salariale. La Germania oggi ha
problemi di produttività e di competitività internazionale assai minori dell’Italia, ma il costo del lavoro tedesco è ben più elevato di
quello italiano.
184
Giacomo Costa SJ – Paolo Foglizzo
editoriale
La produttività è infatti un fenomeno estremamente complesso, che dipende non tanto dai prezzi dei singoli fattori produttivi,
quanto dalla loro disponibilità adeguata (in termini quantitativi e
qualitativi) e dalla loro interazione. Il deficit di produttività di cui
l’Italia soffre è dunque un problema sistemico: imputarlo unicamente alla dinamica dei salari ne occulta le reali dimensioni e soprattutto rischia di fare il gioco di chi cerca di speculare per ridurre
ulteriormente il “prezzo” del lavoro. Anzi, i lavoratori italiani già
pagano le conseguenze della scarsa produttività del sistema Italia, a
cui va addebitato il fatto che i salari reali italiani siano notevolmente
inferiori a quelli dei principali Paesi dell’Europa occidentale. Il che,
tra l’altro, contribuisce a spiegare la contrazione dei consumi che
rappresenta uno degli ostacoli all’uscita dalla crisi.
Serve dunque un’attenzione equilibrata a tutte le determinanti della produttività. Almeno per quanto riguarda il settore
manifatturiero, ad esempio, l’energia ha una importanza strategica e
le imprese italiane in questo campo devono affrontare costi superiori
a quelli dei principali concorrenti europei. Per alcune produzioni
(come nel caso della metallurgia) questo fattore può rivelarsi più
importante del costo del lavoro nelle decisioni sulla localizzazione
di un impianto. Discorsi analoghi valgono per gli altri campi in cui
il Paese soffre di un deficit infrastrutturale: dalla congestione del
sistema dei trasporti (in particolare in alcune aree) alla minore diffusione della banda larga e ultralarga per l’accesso a Internet. Spingono ugualmente nella direzione della riduzione della produttività
le inefficienze della pubblica amministrazione, le lentezze della burocrazia e della giustizia, un sistema scolastico meno competitivo di
quello di altri Paesi, l’alto grado di corruzione ed evasione fiscale, un
sistema di imposizione fiscale che non incentiva l’attività imprenditoriale, ecc. Sono aree in cui il ritardo storico dell’Italia è aumentato
lungo gli ultimi vent’anni, che – come ha affermato L’Osservatore
Romano – si sono rivelati «poco utili, almeno sotto l’aspetto della
modernizzazione istituzionale ed economica» (Bellizzi M., «Letta
si è dimesso. Renzi verso l’incarico», 14 febbraio 2014).
Quando i blocchi che si registrano in questi campi risultano insormontabili, tutta la pressione per il mantenimento della
competitività si scarica sui salari, cioè sulle spalle dei più deboli.
b) Una politica industriale proattiva
Agire sui fattori che deprimono la produttività e quindi la competitività del Paese rappresenta l’obiettivo prioritario di una politica
industriale adeguata al contesto economico in cui ci muoviamo. Le
strategie tradizionali della politica industriale italiana, cioè l’interConflitti sociali e strumenti di governance al tempo dell’impresa liquida
185
vento diretto dello Stato imprenditore (imprese pubbliche, partecipazioni statali, ecc.) e la concessione di incentivi a determinate industrie o settori, si rivelano oggi sostanzialmente impercorribili, sia
per l’esigenza di mantenere in equilibrio i conti pubblici (che spinge
verso ulteriori privatizzazioni, cioè riduzione del ruolo imprenditoriale dello Stato), sia perché cozzano contro la normativa europea in
materia di aiuti di Stato e tutela della concorrenza.
Peraltro la loro evoluzione nel tempo ha finito per privilegiarne il carattere difensivo: questo li rende poco adatti a uno
scenario dinamico come quello della globalizzazione, soprattutto in
un’ottica di medio-lungo termine. Il tempo in cui la politica industriale serviva a creare imprese italiane e poi a difenderle è terminato: il suo obiettivo oggi è dotare il Paese di tutto ciò che serve perché
le imprese – italiane, straniere o globali che siano – lo trovino attraente per insediarvi le loro attività. Abbandonare un’ottica difensiva
significa anche decidere di puntare sui settori nei quali l’Italia gode
di un vantaggio all’interno della competizione globale (dall’agroalimentare al turismo, da moda e design alla manifattura tecnologicamente avanzata), in modo che possano costituire la “locomotiva” a
cui agganciare il resto del sistema economico.
Questa prospettiva non significa rinunciare alla tutela di chi opera nei settori in cui l’Italia non potrà risultare competitiva: le persone non possono essere abbandonate, ma vanno accompagnate e
sostenute in un processo che ne permetta una ricollocazione autenticamente produttiva, nell’ottica di quella che a livello europeo viene
definita flessicurezza o flexicurity. Dopo decenni di immobilità, gli
ultimi due anni hanno visto interventi di riforma (per ora parziale)
degli ammortizzatori sociali ed è in corso un ampio dibattito in vista
di passi ulteriori. L’evoluzione sembra andare da strumenti che “guardano al passato”, sostanzialmente all’impiego perduto (come in fondo fa la Cassa integrazione), a programmi che cercano di guardare
al futuro, al “lavoro che verrà” (come i sussidi legati a formazione e
riqualificazione professionale). Senza entrare nel dettaglio delle singole misure, ci sembra una linea di tendenza promettente.
c) Governare la competizione fra Paesi
Come abbiamo visto a più riprese, nell’economia globalizzata i
Paesi fanno a gara per attirare le imprese. Si tratta di una competizione solo parzialmente regolata da strumenti giuridici internazionali (su diversa scala), ed è assai elevato il rischio di dinamiche che la
letteratura economica identifica con l’espressione inglese beggar thy
neighbour (impoverisci il tuo vicino): un continuo gioco al ribasso
nel tentativo di “farsi le scarpe” a vicenda.
186
Giacomo Costa SJ – Paolo Foglizzo
editoriale
Classicamente queste politiche conducevano a un progressivo
aumento dei dazi sulle importazioni e dei sussidi alle esportazioni
per sottrarre quote di mercato ai Paesi concorrenti: queste pratiche
sono oggi proibite e sanzionate, almeno a livello UE. Ma dinamiche analoghe possono scatenarsi per quanto riguarda regimi fiscali
sempre più vantaggiosi, o un diritto commerciale o del lavoro, o una
legislazione ambientale sempre più accondiscendente, con l’unico
effetto di accrescere i margini di profitto delle imprese a danno dei
bilanci pubblici o dei diritti dei lavoratori. La Commissione europea, così occhiuta nella repressione degli aiuti di Stato e scrupolosa
nella difesa della libertà di circolazione, non sembra esserlo altrettanto su questi fronti.
In un orizzonte di lungo periodo, è del tutto legittimo che l’Italia,
qui con gli altri Paesi dell’UE, si proponga come obiettivo l’identificazione di adeguate forme di governance della competizione fra
Stati in materia fiscale e di diritto societario. Anzi, la creazione
di un vero mercato unico nella prospettiva dell’economia sociale –
quella che l’UE ha scelto – lo esige come componente irrinunciabile.
Del resto è ormai riconosciuto a livello scientifico che un eccesso di
competizione fiscale può risultare dannoso per il buon funzionamento dell’economia. Sappiamo bene quanto possano essere lunghi
e faticosi i processi in sede europea (e ancora di più a livello globale),
ma non è un motivo per rinunciare a porre i problemi. I progressi
registrati in materia di unione bancaria europea e di paradisi fiscali
a livello globale mostrano che è possibile agire anche su questi piani.
Non solo Stato
Qualunque politica industriale proattiva che raggiunga il
risultato di rendere l’Italia un luogo adatto a fare impresa sarà
frustrata se poi non ci saranno imprenditori. Questo è un fattore
cruciale per il successo di una politica economica. Da questo punto
di vista, alcune statistiche recenti segnalano come l’Europa presenti
un deficit rispetto ad altre regioni del mondo per quanto riguarda
la propensione all’imprenditorialità (cfr European Commission,
Entrepreneurship in the EU and Beyond, Flash Eurobarometer 354,
2013). Nel caso dell’Italia, si aggiunge il problema del radicamento
familiare di buona parte delle medie e piccole imprese, che rappresentano una quota molto più elevata che all’estero. Lo studio delle
loro storie mostra come spesso, di fronte a prospettive di crescita che
richiederebbero il passaggio a una forma organizzativa più complessa o investimenti troppo onerosi per i proprietari, questi preferiscano
rinunciare alle opportunità per non perdere il controllo dell’attività.
Ovviamente questo frena la dinamicità complessiva del sistema.
Conflitti sociali e strumenti di governance al tempo dell’impresa liquida
187
La risposta che ci permetterà di “agganciare” la ripresa non si
gioca dunque solo sul piano delle politiche o del quadro normativo e
fiscale: non è solo responsabilità dello Stato e della politica. Entrano
in gioco anche precisi fattori culturali, inerenti alla propensione
al rischio, alle scelte di investimento, alle prospettive di vita. Da
questo punto di vista la demografia gioca contro di noi: in modo
quasi naturale la propensione a investire e a intraprendere, e la capacità di innovare, si riducono al crescere dell’età e questo può risultare
preoccupante in un Paese in cui la percentuale di giovani continua
a diminuire.
Altrettanto importanti sono gli orientamenti culturali di fondo
rispetto a ciò a cui una società dà valore e promuove, anche attraverso le leggi che si dà. Ormai da tempo nell’immaginario collettivo
finanza e speculazione hanno sostituito industria e manifattura come
fonti per acquisire ricchezza e potere. Lo stesso accade nelle scelte di
destinazione del risparmio: gli impieghi speculativi, anche grazie al
moltiplicarsi degli strumenti finanziari e alle prospettive di redditività
che promettono, soppiantano man mano quelli legati all’economia
reale e al mondo produttivo. Una dinamica di questo genere non è
priva di conseguenze in termini di vitalità del tessuto imprenditoriale.
Tocchiamo qui uno tra i più profondi conflitti che percorrono la nostra società: quello tra coloro che guadagnano producendo (lavoratori e imprenditori stanno entrambi da questo lato) e
coloro che guadagnano perché godono di una qualche forma
di rendita, che si tratti di quella di matrice speculativa (immobiliare o finanziaria) o di quella derivante dall’occupare posizioni
di potere o di privilegio (le tante caste professionali, le cui elevate
remunerazioni sono difese da barriere ben presidiate). Non è un
caso che proprio su quest’ultimo scoglio si siano infranti i tentativi
di modernizzazione e liberalizzazione che pure a varie riprese erano
stati avviati. A farne le spese sono, ancora una volta, quei soggetti
economici produttivi che già devono fare i conti con gli altri fattori
che deprimono la competitività del Paese.
Intervenire su queste dinamiche è un problema squisitamente
politico, in quanto attiene alla ripartizione di costi e benefici all’interno del corpo sociale. Ma la sua soluzione non può essere demandata alla sola politica: richiede infatti che nella società maturi il
consenso a sostegno delle riforme. Serve grande forza politica per
poter avere la libertà (dai poteri precostituiti e dagli interessi
di parte) necessaria a liberalizzare il sistema. Se non la si vuole
giocare solo sulla depressione dei livelli salariali, è questa la strada
per vincere la sfida della competitività.
188
Giacomo Costa SJ – Paolo Foglizzo
approfondimenti
Gli snodi del vivere in comune
attraverso lo studio degli esperti
oltre la notizia
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ricerche e analisi
Parole e numeri per narrare i fenomeni
sociali
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Opinioni e idee
con cui confrontarsi
Prospettive
per una «buona politica»
punti di vista
Papa Francesco e le intuizioni di Sturzo
Bartolomeo Sorge SJ
Direttore emerito di Aggiornamenti Sociali
L’Editoriale dello scorso numero 1 suggeriva come il testo della
Evangelii gaudium da un lato offra stimoli per una lettura più
approfondita delle dinamiche politiche e sociali italiane, pur
non essendo stata scritta per questo scopo; dall’altro, come
affrontarne la lettura a partire dalla concretezza di una situazione specifica permetta di coglierne la ricchezza e la forza.
ln una lezione tenuta il 16 gennaio 2014 al Corso di formazione sociopolitica d’ispirazione cristiana promosso dal Quinto
decanato della Diocesi di Napoli, di cui pubblichiamo il testo,
il direttore emerito della Rivista rilegge alcuni passaggi dell’Esortazione apostolica alla luce dell’ispirazione del popolarismo
sturziano: il dialogo tra Sturzo e papa Francesco si rivela fecondo per una migliore comprensione del servizio che i cristiani
italiani sono chiamati a rendere in ambito politico.
L
a lunga crisi della società attuale non poteva non portare con
sé anche la crisi della politica. Una crisi di natura strutturale,
etica e culturale, il cui sintomo forse più allarmante è l’espandersi del fenomeno del “populismo”, la peggiore infermità che possa colpire la democrazia. Si tratta di una degenerazione devastante
che, insieme con il fenomeno dell’“antipolitica”, alligna ogni qual
1 Costa G., «Italia: verso la Repubblica 3.0», in Aggiornamenti Sociali, 2 (2014)
93-101.
190
Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (190-199)
punti di vista
volta la politica perde l’anima etica e la carica ideale. “Populismo”
significa privilegiare il rapporto diretto con il popolo e con la
piazza, anziché passare attraverso le istituzioni e le regole di
mediazione politica, proprie della democrazia rappresentativa.
È una infermità che può risultare mortale, perché, se non è curata
prontamente, delegittima le istituzioni e le regole democratiche, alimenta il qualunquismo e il pragmatismo, genera forme inaccettabili
di intolleranza. Proprio per prevenire tale rischio, la nostra Carta
repubblicana nel suo primo articolo, dopo aver ribadito che «la sovranità appartiene al popolo», aggiunge che essa va esercitata «nelle
forme e nei limiti della Costituzione».
Il populismo nega appunto questo principio fondamentale,
porta a sottovalutare gli istituti della rappresentanza democratica
a cominciare dai partiti e dallo stesso Parlamento, fino a vedere
nel bilanciamento dei poteri (strumento fondamentale per il retto
funzionamento del sistema democratico) e nelle istituzioni di tutela
democratica (quali il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale) non una garanzia, ma un ostacolo.
I cattolici italiani potrebbero mai assistere inerti a questa
dissipazione del patrimonio di vita democratica, che hanno
contribuito in forma singolare a creare e a difendere, fino a pagare un prezzo altissimo con il sangue di alcuni dei loro uomini
migliori? Potremo mai dimenticare la loro decisiva partecipazione
all’elaborazione della Carta costituzionale, alla ricostruzione postbellica, alla rinascita della democrazia dopo il ventennio fascista,
alla difesa delle libertà democratiche contro l’attacco eversivo del
terrorismo, alla costruzione (anzi, all’idea stessa) della “casa comune” europea?
Ecco perché è necessario trovare finalmente una soluzione al
problema, tuttora irrisolto dopo la fine della DC, di individuare un
modo nuovo di fare politica, che, da un lato, tragga i cristiani fuori
dalla palude della loro attuale insignificanza e, dall’altro, li metta
in grado di contribuire, insieme con tutti i sinceri democratici, al
superamento della grave crisi politica. Non si tratta tanto di far rivivere forme vecchie di partiti cattolici, che hanno fatto il loro tempo,
quanto appunto di elaborare un modo nuovo di fare politica, per rispondere sia alle sfide inedite che la crisi pone al Paese, sia all’invito
a rinnovare l’impegno politico, che viene insistentemente dal concilio Vaticano II e dal costante insegnamento sociale della Chiesa.
Oggi, con l’elezione di papa Francesco al soglio di Pietro, si è
aperta certamente una stagione nuova della vita della Chiesa e della
presenza dei cristiani nel mondo. L’insegnamento “rivoluzionario”
contenuto nei gesti e nelle parole del nuovo Papa, pur essendo di
Prospettive per una «buona politica»
191
natura strettamente religiosa, non può
non portare al rinnovamento anche
dell’impegno temporale dei cristiani.
In particolare, colpisce che nella recente esortazione apostolica Evangelii
gaudium 2 vi siano alcuni passaggi che,
senza volerlo direttamente, costituiscono di fatto un aggiornamento del popolarismo sturziano. L’intuizione di
don Sturzo è tuttora l’antidoto più
efficace contro la deriva del “populismo” e, nello stesso tempo, rimane
fino a oggi la traduzione più coerente e insuperata di quanto la dottrina
sociale della Chiesa insegna in tema
d’impegno politico dei cristiani. Perfino l’insistenza sulla necessità di promuovere la «cultura dell’incontro», che papa Francesco
– pastore di «una Chiesa in uscita» – rivolge indistintamente a tutti,
richiama da vicino l’Appello che, il 18 gennaio 1919, don Sturzo
rivolse non solo ai cattolici, ma a tutti «i liberi e forti», credenti e
non credenti.
È importante dunque approfondire questa consonanza dell’insegnamento della Evangelii gaudium con gli elementi fondamentali
del popolarismo sturziano. Perciò, compiremo tre passi: 1) anzitutto
ricorderemo quali sono gli elementi fondamentali del popolarismo
sturziano; 2) poi vedremo che il progetto di don Sturzo finora non
si è potuto mai realizzare pienamente; 3) infine, chiariremo in che
senso alcuni paragrafi della esortazione apostolica Evangelii gaudium costituiscano di fatto – senza volerlo essere direttamente – una
rilettura aggiornata e attualizzata del popolarismo sturziano.
Il 18 gennaio 1919 don Luigi Sturzo lancia
il cosiddetto Appello ai liberi e forti, che
segna la nascita del Partito popolare italiano, chiamando a raccolta tutti gli uomini
liberi e forti, a prescindere dalla confessione di appartenenza, per dare vita a un
partito riformatore, di centro, di ispirazione
antifascista, tratteggiando così i punti fondamentali del popolarismo. Ne ricordiamo
il celebre incipit: «A tutti gli uomini liberi
e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori
della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme
propugnino nella loro interezza gli ideali di
giustizia e libertà».
1. Gli elementi fondamentali del popolarismo sturziano
Il popolarismo, più che una elaborazione dottrinale, fu una intuizione. Sturzo non lo concepì a tavolino, non lo dedusse dall’alto
della riflessione filosofica, ma lo maturò partendo dal basso, dal
terreno concreto dell’azione sociale, nel contatto diretto con le lotte
contadine, nella difesa dei ceti medio-bassi, svolgendo le funzioni
amministrative che gli vennero affidate. Dinanzi alla necessità di
armonizzare le differenti istanze locali, i bisogni e le attese delle
classi popolari in vista del bene comune nazionale, l’originalità
del popolarismo sta nell’aver intuito che l’antidoto più efficace
2 Papa Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium [EG], n. 205. Tutti i
testi pontifici citati sono disponibili in <www.vatican.va>.
192
Bartolomeo Sorge SJ
punti di vista
contro il populismo risiede nell’armonizzare quelli che Sturzo
considera i quattro elementi fondamentali della buona politica:
a) Ispirazione religiosa. Il primo elemento di una buona politica sta – secondo don Sturzo – nel porre l’ispirazione religiosa a
garanzia dei diritti civili e delle libertà fondamentali. Egli parte dal
presupposto che è necessaria una ispirazione trascendente della politica. La dimensione religiosa (in concreto quella cristiana), nel pieno
rispetto della laicità – spiega – non può non avere rilevanza anche
politica, perché è «la realizzazione concreta del bisogno dell’assoluto», su cui si fondano diritti e doveri; «l’errore moderno è consistito
nel separare e contrapporre umanesimo e cristianesimo: dell’umanesimo si è fatta un’entità divina; della religione cristiana un affare
privato […]. Bisogna ristabilire l’unione e la sintesi dell’umano e del
cristiano» 3. In ciò Sturzo anticipa quello che anche autorevoli esponenti della cultura laica contemporanea (da Benedetto Croce a Norberto Bobbio, da Ernst-Wolfgang Böckenförde, a Jürgen Habermas)
affermano sulla necessità che la politica sia alimentata da valori trascendenti di origine religiosa. Sturzo, che sempre si oppose decisamente a ogni forma di confessionalismo anche mascherato, capì che
l’ispirazione religiosa era necessaria alla politica. Lo ammise perfino
Benedetto Croce, il quale sosteneva che nessun modello di società
poteva stare in piedi senza un fondamento etico, ma – aggiungeva –
nessun fondamento etico valido vi poteva essere senza il fondamento
di una coscienza religiosa. In ogni caso, Sturzo, convinto assertore
della laicità della politica, sosteneva che la necessaria ispirazione non
dovesse tradursi nel richiamo formale al nome “cristiano” (infatti,
fu sempre contrario al nome di “Democrazia cristiana”), quanto
piuttosto nel rigore morale e nella tensione ideale del servizio.
b) Laicità. Popolarismo – dice Sturzo –, in secondo luogo, è dare voce a una tendenza della base sociale del Paese, di tutti i «liberi e
forti» (credenti e non credenti) che si riconoscono in un programma
di cose da fare, ispirato ai valori di un umanesimo trascendente, ma
mediati in scelte laiche, condivisibili da tutti gli uomini di buona
volontà, in vista del bene politico comune che è laico. Che questa
intuizione fosse realizzabile lo dimostra anche la nostra Costituzione
repubblicana, i cui valori ispiratori sono chiaramente laici ma, nello
stesso tempo, concordano con i principi fondamentali della dottrina
sociale della Chiesa: primato della persona, solidarietà, sussidiarietà,
bene comune.
c) Territorialità. Sturzo inoltre era persuaso che un popolarismo
autentico poteva nascere solo dalla base: la società viene prima dello
3
Sturzo L., Politica e morale, Zanichelli, Bologna 1972, 130.
Prospettive per una «buona politica»
193
Stato. Era convinto, perciò, del ruolo insostituibile delle autonomie
locali, in seguito all’esperienza diretta che ne fece, come consigliere
comunale e provinciale e come pro-sindaco di Caltagirone. Venne
da qui il suo impegno regionalista, con il quale si adoperò per porre
un argine alla deriva dell’individualismo liberista e populista.
d) Riformismo coraggioso e responsabile. Dai precedenti elementi fondamentali Sturzo derivava il quarto, cioè la natura necessariamente riformista del popolarismo. Il primato della società
civile – dice Sturzo – porta diritto al rifiuto del “conservatorismo”
e del “moderatismo” e alla ricerca di un riformismo coraggioso e
responsabile: «I conservatori – così conclude il famoso discorso di
Caltagirone (24 dicembre 1905) – sono dei fossili, per noi, siano
pure dei cattolici; non possiamo assumerne alcuna responsabilità.
Ci si dirà: ciò scinderà le forze cattoliche. Se è così, che avvenga.
[…] Due forze contrarie che si elidono arrestano il movimento e
paralizzano la vita».
Il vero riformismo, secondo Sturzo, si deve fondare sul nesso
tra sussidiarietà e solidarietà. «I mondi vitali, le classi, i Comuni, le
Province, le Regioni sono – nella concezione popolare sturziana –
gli organi naturali della società. Ognuno di questi organi ha le sue
caratteristiche, la sua autonomia, la sua ragion d’essere che nessuno
può violare. Nella solidarietà di questi organi tra di loro e in vista
del bene comune sta la forza del riformismo democratico, che porta
lo Stato a essere sempre più un’espressione adeguata della società,
delle sue esigenze, delle sue aspirazioni» 4.
2. Un progetto finora mai completamente realizzato
Questo popolarismo, così come l’aveva esposto don Sturzo nell’«Appello ai liberi e forti», si rivelò un’intuizione prematura. In
realtà, il progetto sturziano non si è potuto mai realizzare pienamente. Il Partito popolare, fondato dallo stesso Sturzo il 18
gennaio 1919, che doveva essere la traduzione fedele della sua
intuizione, di fatto dovette assumere la forma di uno dei tanti
partiti ideologici, perché obbligato a confrontarsi con quelli che
s’ispiravano all’ideologia socialista, a quella liberale e a quella fascista. Inoltre, ebbe vita breve e gli mancò il tempo di radicarsi nella
società: incompreso e ostacolato anche dalla Chiesa, fu soppresso da
Mussolini nel 1926.
Neppure la DC di De Gasperi, nata in clandestinità nel 1944,
pur ispirandosi a Sturzo, ne realizzò pienamente il progetto. Il partito dello Scudo crociato dovette fare i conti – all’esterno – con
4
194
Bartolomeo Sorge SJ
Sorge B., Cattolici e politica, Armando, Roma 1991, 276s.
punti di vista
le condizioni della ricostruzione postbellica, imposte dai vincitori
della guerra, e – all’interno – con un mondo cattolico che, passato
attraverso il ventennio fascista, era riuscito a sopravvivere, non però
a sviluppare una visione politica autonoma. Il concilio Vaticano II
non era neppure all’orizzonte. Lo stesso Sturzo non considerò mai
la DC come la realizzazione del “suo” popolarismo.
Dopo la fine della DC, decapitata da Tangentopoli, furono molti i cattolici che videro con speranza la nascita del nuovo Partito
popolare italiano di Mino Martinazzoli, il 18 gennaio 1994. Si fece un gran parlare di “neopopolarismo”, cioè di un aggiornamento
dell’intuizione sturziana, ma il salto di qualità non riuscì. Anziché
dare vita a un nuovo popolarismo, si finì col riverniciare la vecchia
DC. Invece dei neopopolari, nacquero i neodemocristiani. Infatti,
il PPI di Martinazzoli vedeva la luce, strutturato ancora secondo gli
schemi della forma partito ideologica, proprio nel momento in cui
le vecchie ideologie stavano giungendo al capolinea. Le esperienze
successive della Margherita (2002), dell’Ulivo (2004) e del Partito
democratico (2007), pur movendosi nell’ottica della cultura dell’incontro, caratteristica del popolarismo sturziano, portarono di fatto
a coalizioni di compromesso e a un progressivo svuotamento dell’ideale originario. Che cosa è mancato o non ha funzionato?
3. Le prospettive nuove, aperte da papa Francesco
Il ritorno al Vangelo annunziato e testimoniato da papa Francesco ha come scopo principale quello di rimettere in marcia il rinnovamento della vita cristiana iniziato dal concilio Vaticano II e rimasto incompiuto, soprattutto per quanto riguarda la riforma interna
della Chiesa. Ovviamente la “rivoluzione” di papa Francesco, con
il suo richiamo all’autenticità della fede, apre orizzonti nuovi
anche all’impegno sociale e politico dei cristiani.
Ora, proprio su questo tema specifico, alcuni paragrafi dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium 5 – in piena continuità con il
Concilio e con il magistero sociale recente – propongono un ideale
di politica buona, intesa come vocazione e non come professione:
«La politica, tanto denigrata – scrive papa Francesco –, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune. Dobbiamo convincerci che la carità “è il
principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari,
di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali,
economici, politici” [Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 2]. Prego
5 Cfr «Il bene comune e la pace sociale», in Aggiornamenti Sociali, 2 (2014) 102106, che ripropone proprio il testo dei nn. 217-237 della Evangelii gaudium.
Prospettive per una «buona politica»
195
il Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la
società, il popolo, la vita dei poveri!» (EG, n. 205).
Il Papa non si rivolge solo ai fedeli cristiani laici, ma propone
a tutti una sorta di «bussola per la buona politica» 6. Enuncia perciò, quasi ne fossero i punti cardinali, quattro «criteri evangelici», necessari per sviluppare «una cultura dell’incontro in una
pluriforme armonia» (ivi, n. 220), cioè il bene comune, che è
il fine stesso della politica. A questo punto, colpisce il fatto che
questi criteri, enunciati da papa Francesco, corrispondano ai quattro
elementi fondamentali del popolarismo sturziano, offrendone una
rilettura aggiornata e ampliata. Vediamo come.
a) Il tempo è superiore allo spazio. Questo è il primo criterio
evangelico indicato da papa Francesco. Oggi – egli spiega – è molto
forte la tendenza a conquistare spazi di potere sempre maggiori per
poter ottenere risultati immediati, di cui c’è urgente bisogno; d’altro
canto, non è meno urgente realizzare progetti coraggiosi di riforma,
i quali però richiedono tempi lunghi. A quale delle due urgenze
dare la precedenza per una buona politica? Alla luce del valore trascendente dell’esistenza umana, il Papa afferma che la precedenza
deve andare all’impegno di iniziare i processi di cambiamento, più
che preoccuparsi di acquisire spazi sempre più ampi di potere. Dice,
perciò, che il tempo è superiore allo spazio. «Sono convinto – scrive papa Francesco – che a partire da un’apertura alla trascendenza
potrebbe formarsi una nuova mentalità politica ed economica che
aiuterebbe a superare la dicotomia assoluta tra l’economia e il bene
comune sociale» (EG, n. 205). Come la semina precede il raccolto,
così l’elaborazione di un progetto, ispirato ai valori trascendenti,
deve precedere l’impegno di accrescere lo spazio quantitativo del
consenso e del potere. Oggi è tempo di seminare, non di raccogliere.
Come si vede, il Papa fa una rilettura ampliata di quanto
già diceva don Sturzo, quando, escluso ogni confessionalismo
e clericalismo, scorgeva nella ispirazione trascendente della
religione una condizione necessaria per iniziare i processi di
riforma, richiesta da una buona politica. Nel medesimo senso
va intesa anche la posizione di papa Ratzinger, quando scrive: «La
ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo
vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata
dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura
di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo
dell’umanità» 7.
6
7
196
Bartolomeo Sorge SJ
Cfr in proposito Costa G., «Italia: verso la Repubblica 3.0», cit.
Benedetto XVI, enciclica Caritas in veritate [CV], 2009, n. 56.
punti di vista
b) L’unità è superiore al conflitto. Il secondo criterio evangelico di una buona politica sta – per papa Francesco – nella “cultura
dell’incontro”, cioè nell’imparare a vivere uniti rispettandoci nella
nostra diversità. «Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato.
Deve essere accettato. Ma se vi rimaniamo intrappolati, perdiamo la
prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata. Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo
il senso dell’unità profonda della realtà» (EG, n. 226).
La cultura dell’incontro si fonda sulla cosiddetta «laicità positiva», necessaria a superare gli inevitabili conflitti della vita politica
e a «sviluppare una comunione nelle differenze» (ivi, n. 228), in un
mondo che si globalizza. Laicità diviene cioè sinonimo di solidarietà: diviene, cioè, «uno stile di costruzione della storia, un ambito
vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere
una pluriforme unità che genera nuova vita» (ivi). E ciò vale non
solo nei rapporti tra Stato e Chiesa, ma anche nei rapporti tra partiti e gruppi ideologici diversi, non meno che tra i popoli a livello
internazionale.
È il medesimo concetto di «laicità positiva», enunciato da Benedetto XVI nel discorso all’Eliseo, il 12 settembre 2008: «In questo
momento storico, in cui le culture si incrociano tra loro sempre di
più, sono profondamente convinto che una nuova riflessione sul
vero significato e sull’importanza della laicità è divenuta necessaria.
È fondamentale infatti, da una parte, insistere sulla distinzione tra
l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà
religiosa dei cittadini sia la responsabilità dello Stato verso di essi
e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione
insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del
contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società». Pertanto, anche
il secondo criterio evangelico proposto da papa Francesco può essere
ritenuto un ampliamento di quanto diceva Sturzo sul superamento
del vecchio concetto illuministico di laicità, di fronte alla necessità
della politica, che, pur essendo laica e dovendo rimanere laica,
non può fare a meno di alimentarsi anche alla dimensione trascendente della coscienza religiosa.
c) Il tutto è superiore alla parte. Questo terzo criterio evangelico – spiega papa Francesco – chiede che si faccia politica pensando
in modo universale, mentre si agisce nel particolare. È necessario
fare attenzione alla dimensione globale dei problemi, per non cadere
nel provincialismo e nel localismo; nello stesso tempo, però, non va
persa di vista la dimensione locale dei problemi, per non finire nel
generico o nell’astrattismo: «Bisogna sempre allargare lo sguardo per
Prospettive per una «buona politica»
197
riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. […]
Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva
più ampia» (ivi, n. 235). Oggi, con un brutto neologismo, si parla
di «glo-cale», un termine che unisce i concetti di globale e locale.
Anche questo è un modo ampliato d’intendere il territorialismo
di don Sturzo. «Il modello non è la sfera […], dove ogni punto è
equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e
l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte
le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. Sia l’azione
pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro
il meglio di ciascuno. Lì sono inseriti i poveri, con la loro cultura, i
loro progetti e le loro proprie potenzialità» (ivi, n. 236). È la traduzione politica dell’esortazione religiosa insistente di papa Francesco:
«Andate alle periferie!».
d) La realtà è superiore all’idea. Infine, il quarto criterio evangelico per una buona politica riguarda il rischio, piuttosto frequente, di formulare proposte e promesse chiare, logiche e seducenti,
ma irrealizzabili, lontane dalla concretezza della realtà. È la difficoltà di tradurre le idee in realtà. Scrive papa Francesco: «La realtà
è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante,
evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà […] Vi sono politici – e anche dirigenti religiosi – che si domandano perché il popolo
non li comprende e non li segue, se le loro proposte sono così logiche
e chiare. Probabilmente è perché si sono collocati nel regno delle pure idee e hanno ridotto la politica o la fede alla retorica. Altri hanno
dimenticato la semplicità e hanno importato dall’esterno una razionalità estranea alla gente» (ivi, n. 231). La realtà è superiore all’idea.
Anche questo è un ampliamento del discorso che Sturzo faceva
sulla necessità di un riformismo coraggioso e responsabile, in grado di coinvolgere direttamente l’interesse e la partecipazione dei
cittadini, unendo insieme sussidiarietà e solidarietà. «La pace sociale – scrive papa Francesco, spezzando una lancia in favore del
riformismo – non può essere intesa come irenismo […]. Sarebbe
parimenti una falsa pace quella che servisse come scusa per giustificare un’organizzazione sociale che metta a tacere o tranquillizzi
i più poveri, in modo che quelli che godono dei maggiori benefici
possano mantenere il loro stile di vita senza scosse mentre gli altri
sopravvivono come possono» (ivi, n. 218).
Sulla medesima linea si muove Benedetto XVI nella Caritas in
veritate. Dopo aver ribadito la necessità di «incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva
di lavorare per la giustizia e la pace dell’umanità», papa Ratzinger
sottolinea: «Il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamen198
Bartolomeo Sorge SJ
punti di vista
te connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la
sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è
altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno» (CV, n. 58).
Qual è, dunque, il senso di questi criteri proposti da papa Francesco? Non è certo una intrusione sul piano politico. Lo spiega egli
stesso: «Nel dialogo con lo Stato e la società, la Chiesa non dispone
di soluzioni per tutte le questioni particolari. Tuttavia, insieme con
le diverse forze sociali, accompagna le proposte che meglio possono
rispondere alla dignità della persona umana e al bene comune. Nel
farlo, propone sempre con chiarezza i valori fondamentali dell’esistenza umana, per trasmettere convinzioni che poi possano tradursi
in azioni politiche» (ivi, n. 241).
Concludendo, dobbiamo dire che oggi è possibile riattualizzare il popolarismo sturziano, come impegno di tutti per una
buona politica, debitamente ripensato, poiché non solo interessa
i cristiani impegnati in politica, ma è un valido strumento – offerto a «tutti i liberi e forti» (non solo ai cristiani) – per superare
la grave crisi politica attuale, essendo l’efficace antidoto contro
il pericolo d’involuzione populista. Nello stesso tempo, l’insegnamento di papa Francesco apre ai cristiani impegnati in politica prospettive nuove e più ampie. È il richiamo non a dar vita a un partito
d’ispirazione cristiana, contraddistinto e opposto agli altri, ma a
essere tutti missionari, cioè portatori di un ideale alto di politica,
fondato sulla cultura dell’incontro, illuminato da valori trascendenti
e guidato da criteri etici condivisibili laicamente da tutti.
Prospettive per una «buona politica»
199
approfondimenti
Finanza pubblica: bilancio
delle “larghe intese”
Maria Flavia Ambrosanio
Professore di Scienza delle Finanze nell’Università
Cattolica di Milano, <maria.ambrosanio@unicatt.it>
Paolo Balduzzi
Ricercatore di Scienza delle Finanze nell’Università
Cattolica di Milano, <paolo.balduzzi@unicatt.it>
L’economia, in perdurante crisi, con il dramma dell’aumento della disoccupazione e senza allentamenti delle esigenze
di rigore nei conti pubblici, rappresentava senza dubbio una
delle principali sfide del Governo delle “larghe intese”. Lungo
il 2013 non sono mancati annunci e promesse: che cosa
effettivamente è stato realizzato? In quale direzione si sono
mossi i principali provvedimenti di politica economica fino
all’approvazione della Legge di stabilità per il 2014?
L
e elezioni del 24-25 febbraio 2013, con il loro inatteso risultato, hanno aperto una fase di avvitamento del sistema politico,
che ha portato alla rielezione del presidente Napolitano e al
varo del Governo delle “larghe intese” guidato da Enrico Letta 1.
Questo si è posto obiettivi ambiziosi sul fronte dei conti pubblici
e della crescita economica, ma la sua azione ha dovuto scontare gli
effetti del precario equilibrio su cui si reggeva, sia in termini di
visioni divergenti delle forze politiche che lo sostenevano, sia per i
numerosi fattori di incertezza dovuti alle repentine trasformazioni
dello scenario politico, in particolare a partire dall’estate 2013.
Il presente articolo prende in esame i principali provvedimenti in materia economica approvati lungo il 2013, sostanzialmente fino alla Legge di stabilità per il 2014, mettendone
1 Cfr Costa G., «Italia: verso la Repubblica 3.0», in Aggiornamenti Sociali, 2
(2014), 93-101 [N.d.R.].
200
Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (200-213)
approfondimenti
in evidenza gli effetti e gli aspetti critici. Dall’analisi non si rileva
un sostanziale cambiamento di rotta rispetto al passato: nonostante
gli annunci, ci troviamo di fronte a interventi poco incisivi per il
rilancio dell’economia, nessuna azione per la riduzione degli sprechi,
poca attenzione per la diminuzione della pressione fiscale almeno
nel breve periodo.
Le dimissioni di Enrico Letta da presidente del Consiglio, rassegnate lo scorso 14 febbraio, segnano un mutamento sostanziale del
quadro politico. La formazione di un nuovo Governo inciderà anche
sulle questioni di politica economica. A riguardo pare perciò doveroso precisare che l’attenzione di questo studio si focalizza sulle misure
assunte dal Governo delle “larghe intese”, escludendo quindi qualsiasi considerazione in merito agli orientamenti del nuovo Esecutivo.
1. Lo scenario economico e di finanza pubblica
L’economia italiana stenta a riprendersi dalla seconda fase di
recessione, iniziata nella seconda metà del 2011 e protrattasi per
tutto il 2012, anno in cui si registra una riduzione del Prodotto
interno lordo (PIL) del 2,4% in termini reali (cioè al netto dell’effetto dell’inflazione); solo le esportazioni hanno fatto registrare un
aumento del 2,5%, mentre sono diminuiti la spesa delle famiglie
(-4,3%), gli investimenti (-8%) e le importazioni (-7,7%); è rimasto relativamente basso il tasso d’inflazione, intorno all’1,5%, ma
Glossario
Amministrazioni pubbliche (PA): ai fini statistici di finanza pubblica, il comparto delle PA risulta composto da amministrazioni
centrali, amministrazioni locali ed enti previdenziali.
Debito pubblico: insieme delle passività finanziarie delle PA.
Indebitamento netto: differenza (negativa)
tra entrate complessive e spese complessive
delle PA; se positiva è detta accreditamento
netto.
Pressione fiscale: rapporto fra le risorse prelevate dalle PA (come imposte, tasse, tributi
e contributi sociali) e il PIL. Rappresenta un
indicatore sintetico della quota di reddito
prelevata dalle PA.
Saldo primario: differenza fra entrate totali e
spese totali delle PA, al netto degli interessi
passivi. Si definisce avanzo se è positiva,
disavanzo o deficit nel caso opposto.
Spesa corrente: spesa per il funzionamento delle PA (ad es.: stipendi dei dipendenti
pubblici, medicinali a carico del SSN, riscaldamento degli edifici pubblici, benzina
per le ambulanze, ecc.) e per far fronte alle
loro obbligazioni (pagamento delle pensioni
e degli interessi passivi sul debito).
Spesa corrente primaria: spesa corrente al
netto degli interessi passivi sul debito pubblico.
Spese in conto capitale: investimenti diretti
delle PA (ad es. per realizzare nuove infrastrutture) e trasferimenti in conto capitale,
compresi i contributi a investimenti realizzati da soggetti a esse esterni (ad esempio
sostegni all’ammodernamento tecnologico
delle imprese).
Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese”
201
è drammaticamente aumentato quello di disoccupazione, che ha rag2011
2012
2013
2014
giunto il 10,7%.
Spese correnti primarie
42,4
42,6
43,2
42,5
Il quadro del 2013
non è molto più roseo: si
Spese per interessi passivi
5,0
5,5
5,4
5,4
è registrata una ulterioSpese correnti totali
47,4
48,1
48,6
47,8
re caduta del PIL reale
Spese in conto capitale
3.0
3.1
3.3
2.8
(-1,8% circa, attestandoSpese totali
50,4
51,2
51,9
50,7
si su un livello lievemenEntrate tributarie
28,8
30,2
30,3
30,4
te inferiore a quello del
2009), della spesa delle
Contributi sociali
13,7
13,8
14,0
13,8
famiglie (-2,5%) e degli
Entrate totali
46,6
48,1
48,7
48,3
investimenti
(-5,5%),
Pressione fiscale
42,5
44,0
44,3
44,2
mentre il tasso di diSaldo primario
1,2
2,5
2,3
2,9
soccupazione è salito
al 12,7% (ma nel terzo
Indebitamento netto
3,8
3,0
3,1
2,5
trimestre 2013 ha supeDebito pubblico
120.8
127.0
132.9
132.8
rato il 40% per la comFonte: Nota di Aggiornamento del DEF, settembre 2013
ponente giovanile, tra i
15 e i 24 anni di età). La
situazione italiana appare ancora più debole se si considera che la
contrazione del PIL reale nell’area euro è stata dello 0,6% nel 2012
e intorno allo 0,4% nel 2013. Solo Grecia e Portogallo hanno conseguito risultati peggiori dell’Italia.
Secondo la Nota di Aggiornamento del Documento di economia
e finanza (DEF) 2013 2, presentata dal Governo lo scorso 20 settembre, si intravedono prospettive di ripresa nel corso del 2014,
con una previsione di crescita del PIL reale intorno all’1%; tuttavia,
Banca d’Italia e Fondo monetario internazionale formulano una
previsione meno ottimistica (crescita del PIL tra lo 0,6 e lo 0,7%),
che si confronta con l’1% circa dell’area euro e dell’intera UE. La
ripresa sarebbe trainata soprattutto da esportazioni e investimenti
delle imprese.
Nonostante la politica di bilancio sia stata improntata al massimo rigore con l’obiettivo della “tenuta” dei conti pubblici, i risultati
scontano inevitabilmente gli effetti della recessione. La Tab. 1 illustra l’andamento dei principali aggregati di finanza pubblica nel
2011, 2012 (consuntivo), 2013 (preconsuntivo) e 2014 (previsioni a
legislazione vigente).
Nel 2012, rispetto al 2011, l’indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche si è ridotto dal 3,8% al 3% del PIL, permet-
tabella 1
Il quadro di finanza pubblica
(dati espressi in % rispetto al PIL)
2
202
Disponibile in <www.tesoro.it>.
Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi
approfondimenti
tendo così la chiusura della procedura per i disavanzi eccessivi, avviata dall’UE nel 2009, e il saldo primario è aumentato dall’1,2%
al 2,5% del PIL; ha continuato invece a crescere il debito pubblico
fino al 127% del PIL. La dinamica delle entrate pubbliche è stata
determinata da due fattori di segno opposto: la recessione ha agito
in senso riduttivo del gettito, per la contrazione delle basi imponibili delle principali imposte, mentre la manovra restrittiva attuata
nella seconda metà del 2011 ha determinato un aumento del carico
fiscale; ne è risultato un aumento della pressione fiscale dal 42,5%
al 44% del PIL. Le spese complessive sono aumentate dal 50,4% al
51,2% del PIL, soprattutto per i maggiori oneri per interessi passivi;
hanno segnato una crescita molto modesta le spese correnti primarie
e le spese in conto capitale. In relazione alle prime, occorre osservare
che l’aumento delle prestazioni sociali (ad esempio gli ammortizzatori sociali) è stato in parte compensato da minori spese per il
personale e per consumi intermedi.
Il preconsuntivo per il 2013 indica un lieve peggioramento
dei saldi: indebitamento netto al 3% del PIL, saldo primario al
2,3% e ancora una crescita sostenuta del debito pubblico, che dovrebbe attestarsi circa al 133% del PIL; la pressione fiscale è ancora
lievemente aumentata al 44,3% del PIL, mentre la spesa pubblica
risente soprattutto dell’aumento della spesa pensionistica. Le previsioni per il 2014 indicano invece un netto miglioramento di
tutti i parametri rilevanti di finanza pubblica, anche sulla base
delle migliori prospettive economiche (sperando che non si sia ecceduto nell’ottimismo).
Indebitamento
netto
Saldo
primario
Pressione
fiscale
Spesa
primaria
Interessi
passivi
Debito
pubblico
4,9
-2,3
46,4
54,0
2,6
90,2
Germania
-0,2
2,6
40,4
42,5
2,5
81,9
Grecia
10,0
-5,0
36,5
49,8
5,0
156,9
Italia
3,0
2,5
44,0
45,6
5,5
127,0
Portogallo
6,4
-2,0
34,4
43,0
4,4
123,6
Spagna
10,6
-7,7
33,2
44,0
3,0
84,2
Svezia
0,7
0,2
44,5
51,1
0,9
38,2
Regno Unito
6,3
-3,4
36,9
45,5
3,0
90,0
Area euro
3,7
-0,6
41,3
46,8
3,1
90,6
UE 27
4,0
-1,0
40,3
46,5
2,9
85,3
Paesi
Francia
Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese”
tabella 2
Indicatori di finanza pubblica in Europa (2012, in % del PIL)
203
Il confronto con i partner europei consente di identificare il tallone d’Achille del nostro Paese. La Tab. 2 (alla p. precedente), che si
riferisce al 2012, mostra che la spesa primaria italiana (in rapporto
al PIL) è più bassa della media dell’area euro e dell’intera UE; i saldi di bilancio sono di gran lunga migliori della media; la pressione
fiscale è sopra la media. Il problema, o meglio il padre di tutti i
problemi, è l’enorme accumulo di debito, che, come abbiamo visto,
continua a crescere nonostante le politiche restrittive, a causa della
recessione: è il serpente che si morde la coda!
Che cosa è stato fatto per tentare di uscire dal circolo vizioso
in cui ci troviamo? Non molto, per lo più piccoli interventi, spesso
confusi e contraddittori, per dare “un colpo al cerchio e uno alla
botte”, senza rendere chiare le effettive priorità, al di là delle affermazioni di principio, che appaiono ormai quasi degli slogan pubblicitari. L’analisi che segue dei provvedimenti del Governo Letta ne è
una chiara dimostrazione.
2. Le misure del Governo Letta prima della Legge di stabilità
Nel corso dei primi mesi del proprio mandato, il Governo Letta
ha approvato diverse misure con la finalità, per usare le sue parole,
di «rilanciare l’economia», ma anche di stabilizzare i conti pubblici.
Si tratta di ben nove decreti legge, che hanno affrontato materie
diverse, dal finanziamento degli ammortizzatori sociali all’IMU
sull’abitazione principale, dalle aliquote dell’IPrincipali provvedimenti del Governo Letta,
VA all’aumento delle
maggio-dicembre 2013
accise, dalle spese della
Pubblica amministrazioDL 54/2013, L. 85/2013: Finanziamento degli ammortizzatori sociali e sospensione IMU.
ne alla fiscalità locale (cfr
riquadro a lato).
DL 63/2013, L. 90/2013: Agevolazioni fiscali per il recupero del patrimonio edilizio.
La Tab. 3 ne sintetizza gli effetti sui conDL 69/2013, L. 98/2013: Decreto del “fare”.
ti pubblici. Per quanto
DL 76/2013, L. 99/2013: Disposizioni in materia di IVA.
riguarda le entrate, nel
DL 91/2013, L. 112/2013: Aumento accise.
2013 la previsione di
DL 101/2013, L. 125/2013: Razionalizzazione della spesa
maggiore gettito deriva
per il personale nella P.A.
dall’aumento degli acDL 102/2013, L. 124/2013: IMU, fiscalità immobiliare e
conti IRPEF (Imposta
locale, debiti P.A.
sul reddito delle persone
DL 104/2013, L. 128/2013: Fiscalità immobiliare e altri
fisiche) e IRES (Imposta
interventi.
sul reddito delle società)
DL 120/2013, L. 137/2013: Fiscalità locale.
da versare a fine anno
(secondo una tradizione
Fonte: Banca d’Italia; Ministero dell’economia e delle finanze
204
Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi
ben consolidata quando occorre fare Effetti dei provvedimenti del Governo
Letta, maggio-dicembre 2013
cassa) per circa 865 milioni, dall’incasso
(milioni di euro)
dell’IVA (Imposta sul valore aggiunto)
sui debiti pagati dalla Pubblica Ammi2013
2014
nistrazione (925 milioni) e dal recupero
Maggiori entrate
3.305
1.780
di imposte dovute dai concessionari di
Minori entrate
3.779
1.083
slot machine (600 milioni). Per il 2014,
Variazione netta entrate
-474
697
invece, si tratta soprattutto di aumenti
Maggiori spese
1.054
2.053
delle imposte indirette, in particolare
IVA e accise (1,25 miliardi). Nel bienMinori spese
1.596
1.683
nio 2013-2014 si stimano maggiori
Variazione netta spese
-542
370
entrate per circa 5 miliardi di euro, soEffetti sull’indebitamento
-68
-326
stanzialmente compensate dalle perdite
netto della P.A.
di gettito (circa 4,9 miliardi di euro nel Fonte: Nota di Aggiornamento al DEF, settembre 2013
biennio), derivanti principalmente dal
differimento dell’aumento dell’IVA al
22% (previsto in origine al 1° luglio e poi rinviato al 1° ottobre 2013,
con minori entrate per circa 1 miliardo) e dall’abolizione dell’IMU
sull’abitazione principale (-2,4 miliardi; cfr Scheda a p. 214).
Sul fronte della spesa, gli interventi più significativi riguardano
il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali in deroga, il cosiddetto “sblocco” di alcuni cantieri di lavori pubblici e interventi nel
campo dell’edilizia scolastica; sono comunque più che compensati
dalla riduzione di altre spese (in particolare dotazione di Fondi vari
e consumi intermedi).
L’effetto di questo insieme di misure sui conti pubblici è praticamente impercettibile. Di scarsissimo rilievo è anche quello
sull’economia, valutato dal Governo stesso in 0,1 punti di PIL:
«Tanto rumore per nulla!», verrebbe voglia di commentare.
tabella 3
approfondimenti
3. La Legge di stabilità
L’effetto complessivo della manovra prevista dalla Legge di stabilità per il 2014 3 ha un segno espansivo, in quanto produce un
aumento dell’indebitamento netto per circa 2,5 miliardi di euro
(cfr Tab. 4 alla p. seguente); questo si attesterebbe al 2,5% del PIL e
il saldo primario aumenterebbe al 2,9% del PIL. Il segno espansivo
deriva interamente dall’aumento della spesa (maggiori spese nette
per 4,6 miliardi), mentre dal lato delle entrate si tratta ancora una
volta di una manovra restrittiva (maggiori entrate nette per poco più
di 2 miliardi); in sintesi, dunque, più tasse e più spesa pubblica:
anche questa non è una novità.
3 Legge 27 dicembre 2013, n. 147, Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014).
Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese”
205
tabella 4
a) La manovra sulle entrate
Le misure contenute nella Legge di stabilità producono minori
entrate per circa 6 miliardi di euro.
La perdita di gettito più rilevante, circa 1,5 miliardi di
euro, deriva dall’aumento delle detrazioni IRPEF per i redditi da lavoro dipendente e assimilati. Il risparmio d’imposta sarà massimo per chi ha un reddito intorno ai 15.000
euro e pari a circa 220 euro, un ammontare abbastanza
esiguo. A fronte dell’aumento di queste detrazioni era
originariamente prevista una revisione di
La manovra per il 2014
quelle per oneri personali (ad esempio spe(in milioni di euro)
se mediche), che avrebbe garantito maggiori entrate per circa 500 milioni (compenMinori entrate
6.080,8
sando dunque gli sgravi introdotti per circa
Maggiori entrate
8.212,4
un terzo). Questa revisione avrebbe dovuto essere attuata entro il 31 gennaio 2014,
Maggiori entrate nette
2.131,6
tenendo conto dell’esigenza di tutelare le
Minori spese
3.987,1
persone invalide, disabili o non autosufMaggiori spese
8.576,6
ficienti. In mancanza del provvedimento
in questione si sarebbe proceduto al taglio
Maggiori spese nette
4.589,4
lineare, con la riduzione dell’aliquota dal
Aumento dell’indebitamento netto 2.457,8
19% al 18% per le spese sostenute nel 2013
e al 17% per quelle sostenute nel 2014. Al
momento in cui scriviamo sembra invece che si eviteranno
questi tagli recuperando risorse dalla spending review.
Le altre perdite di gettito più consistenti riguardano: la
proroga delle detrazioni per interventi di ristrutturazione
e riqualificazione energetica di immobili (1 miliardo); la
riduzione dei premi e contributi INAIL per la maggior
parte dei lavoratori (1 miliardo); l’esenzione dall’IMU
per i fabbricati rurali strumentali; la parziale detraibilità
dell’IMU per i fabbricati strumentali non rurali (830 milioni), le detrazioni dalla TASI a vantaggio dell’abitazione
principale (500 milioni). Impatto negativo sulle entrate,
ma in esercizi futuri, avrà anche il potenziamento dell’ACE (Aiuto alla crescita economica), misura introdotta dal
Governo Monti che prevede incentivi fiscali alla capitalizzazione delle imprese.
A fronte degli sgravi sono però previsti aumenti di imposte per
più di 8 miliardi di euro, che scenderanno a 7,5 se effettivamente
sarà cancellato il taglio delle detrazioni IRPEF per oneri personali.
La lista delle fonti di questo maggiore gettito è sterminata:
dalla proroga del contributo di solidarietà sulle pensioni
206
Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi
approfondimenti
superiori a 91.250 euro e sui redditi superiori a 300mila
euro al contributo forfettario di 50 euro per l’iscrizione
agli esami da avvocato o notaio, dall’aumento dell’IVA
su alimenti e bevande somministrati da distributori automatici, dall’aumento delle accise sui prodotti da fumo
(dal 1° maggio 2014), alla riattribuzione delle concessioni
per la gestione del gioco del Bingo, dall’assoggettamento
all’IRPEF del 50% dei redditi degli immobili ad uso abitativo non locati ubicati nel Comune di residenza, a una
serie di variazioni del trattamento fiscale dei prodotti finanziari o di specifiche poste di bilancio di alcune tipologie di imprese (svalutazione o rivalutazione di cespiti, ecc.).
Senza entrare nel dettaglio delle singole misure, il problema è
che gli sgravi concessi vengono finanziati da aumenti di altre
imposte: perdura l’incapacità – o l’impossibilità politica – di
affrontare il problema del carico tributario nella sua interezza,
all’interno di una visione di insieme e non attraverso singoli interventi puntuali. Illuminante a questo riguardo il caso delle detrazioni
IRPEF per oneri personali: una rivisitazione della materia sarebbe
utile, ad esempio per eliminare quelle che non hanno forse più ragione di esistere, ma procedere con tagli lineari come clausola di
salvaguardia equivale a non compiere scelte e a non a porre priorità.
Il massimo della confusione si registra sul tema che ha rappresentato la “bandiera” dello scontro propagandistico tra le forze che
sostenevano il Governo delle larghe intese: la tassazione degli immobili residenziali e le imposte locali sui servizi. Il balletto sui nomi
– l’IMU (Imposta municipale unica) è stata sostituita dalla IUC
(Imposta unica comunale) – assomiglia al gioco delle tre carte, in
cui i risparmi per i contribuenti dall’esenzione IMU sull’abitazione
principale saranno probabilmente compensati (e forse più che compensati) dall’aumento delle nuove imposte locali. La Scheda a p.
214 prova a ricapitolare il quadro della situazione a questo riguardo.
Nel frattempo, prosegue l’iter parlamentare del ddl delega
per la riforma del sistema tributario 4: approvato dalla Camera
e con modificazioni dal Senato il 4 febbraio 2014, è stato quindi
ritrasmesso alla Camera, ove si trova nel momento in cui scriviamo.
I punti salienti riguardano: la revisione del catasto degli immobili;
l’introduzione di norme per la misurazione e il monitoraggio dell’evasione e dell’erosione fiscale (cioè di regimi di favore fiscale che
appaiono, in tutto o in parte, ingiustificati o superati alla luce delle
mutate esigenze sociali o economiche o che costituiscono una du4 Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita, A.S. 1058, A.C. 282 (XVII Legislatura).
Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese”
207
plicazione); la disciplina dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale
(uso distorto di strumenti giuridici al fine di ottenere un risparmio
d’imposta); la revisione del sistema sanzionatorio, del contenzioso
tributario e della riscossione dei tributi degli enti locali; la revisione
della tassazione in funzione della crescita e dell’internazionalizzazione delle imprese commerciali; la razionalizzazione della determinazione del reddito d’impresa (con particolare riferimento alle
operazioni transfrontaliere); la razionalizzazione dell’IVA e di altre
imposte indirette (aliquote e regimi speciali); la fiscalità energetica e
ambientale (incentivi, green taxes e revisione delle accise sui prodotti energetici); i giochi pubblici (prevenire i fenomeni di ludopatia,
assicurare una efficace tutela dei minori). C’è solo da sperare che
questo ddl incontri miglior fortuna dei numerosi predecessori 5,
che si sono risolti in un nulla di fatto.
b) La manovra sulle spese
Come mostrava la Tab. 4, la manovra per il 2014 produce aumenti di spesa per oltre 8,5 miliardi di euro, finanziati per poco
meno della metà dalla riduzione di altre spese, e per il resto da un
aumento delle imposte (poco oltre 2 miliardi) e del disavanzo (circa
2,5 miliardi).
Gli incrementi di spesa corrente più rilevanti riguardano:
la maggiore dotazione al Fondo per le missioni internazionali di pace (614 milioni); il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali in deroga e dei lavori socialmente utili (486
milioni); interventi nel campo dell’assistenza sociale, tra
cui l’estensione della carta acquisti a cittadini non italiani
con permesso di soggiorno e il sostegno a ulteriori 23mila
lavoratori “esodati” (circa 604 milioni); interventi nel settore dell’istruzione (contributi alle scuole private), dell’università (finanziamento ordinario degli atenei pubblici)
e della sanità (quasi 600 milioni); contributi agli autotrasportatori (440 milioni); e l’estensione al 2014 della possibilità di destinare la quota del cinque per mille dell’IRPEF
a finalità di interesse sociale (400 milioni).
5
Si veda ad esempio quello con identico titolo presentato dal Governo Monti il 15
giugno 2012, approvato dalla Camera il 12 ottobre 2012 e poi arenatosi al Senato
(A.C. 5291 e A.S. 3519, XVI Legislatura; a riguardo cfr Ambrosanio M. F., «Finanza
pubblica: un anno di Governo Monti», in Aggiornamenti Sociali, 12 [2012], 840851); o il precedente ddl Delega al Governo per la riforma fiscale e assistenziale,
presentato il 29 luglio 2011 dall’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti, e
arrivato solo all’esame in Commissione alla Camera (A.C. 4566, XVI Legislatura; a
riguardo cfr Ambrosanio M. F., «Finanza pubblica: la resa dei conti?», in Aggiornamenti Sociali, 11 [2011], 651-663).
208
Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi
approfondimenti
Sul fronte delle spese in conto capitale, le maggiori risorse
sono destinate al finanziamento di opere pubbliche (manutenzione straordinaria della rete stradale, realizzazione
di nuove opere e prosecuzione di interventi già previsti),
al contratto di servizio con le Ferrovie (complessivamente
1,1 miliardi) e all’allentamento del patto di stabilità interno per le amministrazioni locali, che hanno ripagato dei
debiti o che intendono realizzare investimenti (nel 2014 si
liberano risorse pari ad 850 milioni per i Comuni e 150
milioni per le Province, se utilizzati per investimenti nel
corso del primo semestre, nonché altri 500 milioni utilizzati per pagare debiti maturati fino al 2012).
Per quanto riguarda le minori spese correnti, i risparmi più significativi derivano dai nuovi tetti di spesa delle Regioni (1 miliardo); dalla riduzione dell’indicizzazione delle pensioni nel triennio 2014-2016
e da interventi per la riduzione del costo dei dipendenti pubblici (allungamento dei tempi di erogazione dei trattamenti di fine servizio,
riduzione del turn over e delle indennità di servizio all’estero, blocco
dell’indennità di vacanza contrattuale), complessivamente per quasi
un miliardo; dal contenimento della spesa per locazione di immobili
e per consumi intermedi (quasi 800 milioni). A ciò si aggiungono i
proventi dalla dismissione di immobili pubblici (500 milioni).
4. Osservazioni conclusive
Secondo la presentazione ufficiale della Legge di stabilità da parte
del Governo, essa «permetterà di ridurre debito, deficit, tasse e spesa
pubblica: il debito scenderà già nel 2014 e continuerà a scendere
nei prossimi anni, anche grazie alla ritrovata crescita (aspetto spesso
dimenticato, decisivo); il deficit è al 3% quest’anno e sarà al 2,5%
il prossimo; le tasse scenderanno anno per anno; la spesa pubblica
scenderà» 6. Se da un punto di vista aritmetico queste affermazioni
sono coerenti, almeno con gli scenari previsivi alla base del provvedimento, un’analisi più approfondita dischiude prospettive meno
rosee, soprattutto in riferimento ai tre nodi strutturali che segnano
la situazione economica del Paese: pressione fiscale, spesa pubblica,
sostegno alla crescita economica e all’occupazione.
a) La pressione fiscale
Come indicava la Tab. 1, le variazioni della pressione fiscale risultano di entità esigua e quasi impercettibile. Per quanto
6 Legge di stabilità 2014. Che cosa c’è da sapere, 31 dicembre 2013, <www.
governo.it/Notizie/Palazzo%20Chigi/dettaglio.asp?d=74325>.
Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese”
209
riguarda il 2014, la diminuzione del carico fiscale derivante dall’abolizione dell’IMU sull’abitazione principale (circa 2,2 miliardi di
euro) è più che compensato dall’aumento dal 21% al 22% dell’aliquota ordinaria dell’IVA, che dovrebbe produrre, secondo calcoli
approssimativi, un maggior gettito per circa 4 miliardi l’anno. È
inoltre opportuno ricordare che tale prelievo è generalmente considerato regressivo rispetto al reddito dei contribuenti, vale a dire che
il peso dell’imposta sui consumi è maggiore sui redditi più bassi e
diminuisce all’aumentare del reddito. Inoltre, gli sgravi concessi per
il 2014 vengono finanziati con aumenti di altre imposte, mentre è
impossibile a oggi formulare previsioni attendibili sull’evoluzione
delle imposte locali. Il passaggio alla IUC con le sue tre componenti
(cfr Scheda a p. 214) potrebbe infatti generare un aumento della
pressione tributaria a livello locale, in particolare nei Comuni che
dovessero trovarsi nella condizione di applicare le aliquote massime.
A nostro avviso, ci sarebbero stati margini di manovra per
agire diversamente. In particolare – anche se questo era probabilmente impraticabile dal punto di vista politico – sarebbe stato preferibile mantenere l’IMU anche sull’abitazione principale, sia pure
nell’ambito di una revisione complessiva della tassazione immobiliare, accompagnata dalla riforma del catasto, ed evitare l’aumento
dell’IVA 7. Forse si sarebbe anche potuto evitare l’aumento dell’IVA
e contemporaneamente abolire l’IMU sull’abitazione principale, se
si considera che sono stati recuperati dalla lotta all’evasione fiscale
12,5 miliardi di euro nel 2012 e 5,8 nei primi 10 mesi del 2013 e
che nello scorso anno la spesa per interessi passivi è risultata inferiore alle previsioni per circa 6 miliardi, grazie alla riduzione dei tassi
di interesse sul debito pubblico.
L’utilizzo di queste risorse per ridurre la pressione fiscale viene
invece rimandato al futuro e resta comunque subordinato al
conseguimento degli obiettivi di bilancio. Sulla scia di un provvedimento del Governo Monti, la Legge di stabilità ha infatti istituito un Fondo per la riduzione della pressione fiscale, nel quale, fermo
restando il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, a
partire dal 2014 dovrebbero confluire i risparmi di spesa derivanti
dalla razionalizzazione della spesa pubblica e le maggiori risorse,
rispetto alle previsioni, derivanti dall’attività di contrasto dell’evasione fiscale; le risorse del Fondo risulterebbero utilizzabili a partire
dall’esercizio successivo a quello della loro contabilizzazione, dopo il
loro effettivo accertamento in sede di consuntivo, attraverso la Legge di stabilità. Già a partire dal 2013, le informazioni sull’attività di
7 Sulla maggiore equità delle imposte patrimoniali rispetto a quelle sui consumi, cfr
Ambrosanio M. F., «Finanza pubblica: un anno di Governo Monti», cit., 849.
210
Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi
approfondimenti
accertamento e sul recupero di gettito sono contenute in un’apposita
sezione del DEF. La riduzione della pressione fiscale nel corso del
2014 sarebbe possibile solo se fosse recuperato gettito da misure straordinarie di contrasto dell’evasione fiscale, quindi non computate
nei saldi di finanza pubblica, e se il disavanzo si mantenesse in linea
con il valore programmato.
b) La spesa pubblica
Nonostante le affermazioni del Governo, la Legge di stabilità
produce aumenti di spesa, e non solo per investimenti pubblici. Anche se l’aumento di alcune voci, ad esempio nel campo della spesa
sociale, appare condivisibile, resta aperto l’interrogativo sul futuro
andamento della spesa primaria. Come mostrava la Tab. 2, infatti, il rapporto tra quest’ultima e il PIL si colloca per l’Italia al di
sotto della media europea, il che fa pensare che non sarà agevole
recuperare margini per riduzioni significative. Ciò non significa che
nulla possa essere fatto: il primo passo dovrebbe essere l’eliminazione degli sprechi, garantendo gli stessi interventi con minori risorse.
Questo richiede un’operazione molto selettiva, che mal si concilia
con i tagli lineari, che raramente hanno prodotto in pieno gli effetti
previsti. L’alternativa per la riduzione della spesa è individuare
le priorità dell’azione pubblica, vale a dire ridurre o azzerare il
finanziamento di quei programmi ritenuti di importanza secondaria. Questo implica giudizi di valore e un elevato livello di
conflittualità tra visioni politiche differenti e interessi contrapposti.
Un Governo politicamente debole non è certo in grado di affrontare
questo problema.
Su questo fronte, il Governo delle “larghe intese” ha rimandato tutto al futuro, facendo affidamento sulla spending review.
Il cosiddetto “Decreto del fare” 8 ha infatti prorogato i termini per
l’attività del Commissario straordinario per la spending review, che
ha l’arduo compito di conseguire gli obiettivi minimi di risparmi di
spesa per il triennio 2015-2017 (3,6 miliardi nel 2015, 8,3 miliardi
nel 2016 e 11,3 miliardi a decorrere dal 2017). Tali obiettivi sono
stati recepiti dalla Legge di stabilità, che, in modo non sorprendente, ha introdotto una nuova clausola di salvaguardia: eventuali
risparmi di spesa inferiori a quanto preventivato verrebbero compensati da aumenti di aliquote d’imposta e da riduzioni di agevolazioni e detrazioni fiscali; “per cautela”, tali risorse sono già state
contabilizzate tra le maggiori entrate (3 miliardi di euro nel 2015,
8 Decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia, poi convertito con modificazioni dalla L. n. 98/20013.
Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese”
211
7 miliardi nel 2016 e 10 miliardi a partire dal 2017). Dunque, leggendo tra le righe della Legge di stabilità, non è possibile escludere
uno scenario in cui siano ancora una volta le imposte ad aumentare.
c) Crescita, occupazione e politiche sociali
Il Governo ha posto grande enfasi sulle misure volte ad affrontare «i due principali fattori di criticità del sistema produttivo: l’alto
costo del lavoro e la difficoltà di accesso al credito» 9. Per quanto
riguarda il primo, si tratta delle deduzioni IRAP per l’incremento
stabile dell’occupazione, dell’aumento delle detrazioni IRPEF per i
redditi da lavoro dipendente e assimilati e della riduzione dei premi
e contributi INAIL: l’insieme di queste misure vale nel 2014 circa
2,6 miliardi di euro, pari solo allo 0,16% del PIL. Paiono dunque
condivisibili le critiche da più parti rivolte al Governo sull’esiguità dell’intervento. Per ciò che concerne l’accesso al credito, si
tratta di ulteriori finanziamenti del Fondo di garanzia per le PMI
(200 milioni l’anno nel periodo 2014-2016, cui si potrebbero aggiungere altri 600 milioni assegnati dal CIPE, Comitato interministeriale per la programmazione economica) e dell’estensione dell’ambito operativo della Cassa depositi e prestiti, che potrà intervenire in
favore di tutte le imprese.
A questo si aggiunge qualche piccolo intervento in favore dell’occupazione giovanile. È positiva la ripresa delle spese per investimenti
pubblici, che però aumenterebbero solo dall’1,8% all’1,9% del PIL,
per poi stabilizzarsi negli anni successivi, a meno di ulteriori immissioni di risorse. I cosiddetti «investimenti sulle intelligenze» 10
(Fondo di finanziamento ordinario delle università, rifinanziamento
delle scuole di specializzazione in medicina e rafforzamento delle
borse di studio per studenti universitari) valgono circa 200 milioni
di euro, mentre gli interventi sul fronte delle politiche sociali valgono circa 1 miliardo.
***
Sui tre nodi cruciali gli interventi sono dunque di ammontare
tale da non poter risultare davvero incisivi, mentre, come abbiamo
visto, provvedimenti più significativi continuano a essere rimandati
al futuro: riduzione della spesa attraverso la spending review, riduzione della pressione fiscale grazie ai risparmi e alla lotta all’evasione,
riforma complessiva del sistema fiscale nel senso di una maggiore
equità e di un orientamento alla crescita. Più che nella crisi economica e finanziaria, che pure è reale, o nella necessità di tenere
9
Legge di stabilità 2014. Che cosa c’è da sapere, cit.
Ivi.
10
212
Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi
approfondimenti
i conti pubblici in ordine, che resta stringente, la causa di questa
situazione deve rintracciarsi probabilmente nella precarietà degli equilibri politici che hanno segnato la stagione delle “larghe
intese”: questa non ha permesso di compiere scelte più radicali, che
inevitabilmente generano scontento e conflitto.
Ma questa strategia dilatoria non è replicabile all’infinito, e
soprattutto non evita l’acuirsi del disagio provocato dalla percezione
diffusa di dover continuare a fare sacrifici a fronte di una politica
stagnante, incapace di riformare e limitare sé stessa. Peraltro non
va dimenticato che la stessa disponibilità a “fare sacrifici” dipende
anche dalla loro giustificazione in un quadro complessivo che renda
ragione della direzione di marcia in cui il Paese viene condotto. Se
la conclusione della parabola del Governo Letta aprirà davvero la
strada a una diversa stagione politica lo capiremo probabilmente
proprio dal fatto se a breve saranno compiute scelte coraggiose di
politica economica e fiscale.
Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese”
213
scheda / normativa
214
Il caos delle imposte
immobiliari comunali
L
a Legge di stabilità per il 2014 ha istituito l’Imposta unica
comunale (IUC), che ingloba tre tributi: l’IMU, dovuta dal
possessore dell’immobile (ne è esente l’abitazione principale),
la TARI (Tassa sui rifiuti), destinata a coprire i costi di raccolta e
smaltimento dei rifiuti, a carico dell’utilizzatore dell’immobile; la
TASI (Tassa sui servizi indivisibili), a carico sia del possessore sia
dell’utilizzatore dell’immobile, destinata a finanziare i servizi comunali rivolti all’intera comunità (ad esempio illuminazione pubblica, manutenzione stradale, gestione delle aree verdi, ecc.).
In relazione all’IMU, la modifica principale riguarda l’esclusione dell’abitazione principale (ad eccezione di immobili di lusso, ville e palazzi storici) e di alcune categorie di immobili (ad
esempio quelli destinati ad alloggi sociali). Inoltre è stata data
facoltà ai Comuni di considerare come principale l’abitazione
concessa in comodato a genitori o figli che vi risiedano e quella non locata di proprietà di cittadini italiani residenti all’estero
o di anziani o disabili residenti in istituti di ricovero o sanitari.
Sono state anche introdotte maggiori agevolazioni per terreni e
fabbricati agricoli.
Per quanto riguarda la TARI, il suo ammontare è determinato
essenzialmente secondo i criteri vigenti per i precedenti tributi
relativi al medesimo servizio (coefficienti di produzione potenziali per tipologie di utenti), anche se è data facoltà ai Comuni
di prevedere criteri collegati alle quantità di rifiuti effettivamente
prodotte. I Comuni possono inoltre prevedere riduzioni per alcune categorie di immobili (abitazioni con unico occupante o
ad uso limitato, abitazioni rurali, ad uso stagionale), sino alla
esenzione totale, o nel caso che si effettui la raccolta differenziata. Il gettito della TARI deve comunque assicurare la copertura integrale dei costi del servizio, a eccezione di quelli relativi
allo smaltimento dei rifiuti speciali.
Infine, la TASI ha come presupposto impositivo il possesso o
la detenzione di fabbricati (compresa l’abitazione principale)
o di aree scoperte ed edificabili, a qualsiasi uso adibiti. Essa si
applica al valore del fabbricato o del terreno, determinato con
lo stesso criterio dell’IMU; l’aliquota base è pari all’1 per mille,
ma i Comuni la possono ridurre fino all’azzeramento o aumentare (entro il tetto del 2,5 per mille nel 2014), con il vincolo
che la somma delle aliquote TASI e IMU per ciascuna tipologia
di immobile non sia superiore all’aliquota massima dell’IMU in
vigore nel 2013 (10,6 per mille). I Comuni possono prevedere riduzioni ed esenzioni per alcune categorie di immobili (ad
esempio: abitazioni con unico occupante o adibite a uso stagionale). Per il 2014, infine, vengono assegnati al Fondo di solidarietà comunale 500 milioni di euro, finalizzati a finanziare la
concessione di detrazioni dalla TASI per l’abitazione principale.
La legge elettorale
nel giudizio della Corte
Costituzionale
Filippo Pizzolato
Professore di Diritto pubblico nell’Università Milano-Bicocca,
<filippo.pizzolato@unimib.it>
oltre la notizia
Anatomia patologica del Porcellum
Con una recente sentenza la Corte Costituzionale ha dichiarato
l’incostituzionalità di alcune parti della legge elettorale italiana
nota come “Porcellum”. Quali sono gli aspetti che sono stati
toccati e perché? Quale legge elettorale è applicabile dopo la
sentenza della Corte? Quali riflessioni possono essere fatte a
partire da questa sentenza sulla democrazia, la rappresentanza
e le funzioni dei partiti politici?
L’
inverno scorso – stagione in cui in campagna si ammazzavano i maiali –, con la sentenza n. 1 del 2014 la Corte
Costituzionale ha inferto un colpo decisivo alla legge elettorale delle camere parlamentari conosciuta col nome di “Porcellum”
(Legge 21 dicembre 2005, n. 270), dichiarando incostituzionali le
norme sull’attribuzione del premio di maggioranza alla Camera e
al Senato, nonché quelle sulle modalità di espressione del voto per
l’elezione dei parlamentari.
È toccato ancora una volta a una magistratura affrontare un altro dei nodi irrisolti della turbolenta stagione politica che stiamo
attraversando. Tale compito sarebbe spettato al Parlamento, ma gli
appelli del Presidente della Repubblica e i moniti della Corte Costituzionale affinché si riformasse una legge elettorale in chiaro e
ammesso contrasto con la Costituzione sono rimasti lettera morta.
Già nel 2008, in occasione del giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo della L. n. 270/2005, la Corte aveva segnalato
Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (215-224)
215
il rischio che la legge elettorale contenesse un premio potenzialmente foriero
di una eccessiva sovra-rappresentazione
della lista di maggioranza relativa, invitando il Parlamento a valutare l’esigenza
di considerare con attenzione gli aspetti
problematici di una legislazione che non
subordina l’attribuzione del premio di
maggioranza al raggiungimento di una
soglia minima di voti e/o di seggi (C.
Cost. 15/2008). Tale monito era stato
ripetuto nel 2012, con la sentenza n.
13/2012. A sua volta, il presidente della
Repubblica Napolitano aveva scelto un’occasione particolarmente solenne – il messaggio al Parlamento nel giorno del suo giuramento per
il secondo mandato di Presidente della Repubblica – per qualificare
come «imperdonabile» la mancata riforma della legge elettorale e per
denunciare le «contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da
compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi» che
hanno finito per bloccare i tentativi di riforma istituzionale (Napolitano 2013; cfr anche Costa 2013).
In effetti le varie iniziative di riforma intraprese sono naufragate dinanzi alla indisponibilità delle forze partitiche a superare un orizzonte di convenienza particolare di brevissimo
periodo. Il Partito democratico è sembrato irrigidirsi sulla scelta di
un sistema elettorale maggioritario a doppio turno, mentre il centrodestra a guida berlusconiana non è mai stato chiaro sulla questione,
fino a far fondatamente sospettare che il “Porcellum”, in fondo e
inconfessabilmente, gli facesse comodo. Non a caso, la reazione più
violenta alla sentenza in commento della Corte è venuta dallo stesso
Berlusconi. Un primo dato da rimarcare è dunque quello della difficoltà dei partiti a procedere, oltre i reiterati annunci, a una seria e
ormai improrogabile riforma delle istituzioni.
La L. n. 270/2005, formulata dall’allora ministro per le Riforme Roberto Calderoli, ha
modificato la legge elettorale italiana passando dal precedente sistema maggioritario
corretto da una quota di seggi parlamentari
assegnati in via proporzionale – il cosiddetto
“Mattarellum” (Leggi nn. 276 e 277/1993)
– a un sistema proporzionale corredato da
premi di maggioranza e soglie di sbarramento per l’elezione dei parlamentari.
La L. n. 270/2005 è stata chiamata per la
prima volta “Porcellum” dal politologo Giovanni Sartori in un editoriale pubblicato dal
Corriere della Sera il 1 novembre 2006.
L’origine giuridica e il “clima” della sentenza
La sentenza della Corte è stata originata da un ricorso in via incidentale, sollevato dalla Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi
sul ricorso contro una sentenza della Corte d’Appello di Milano presentato da un cittadino che riteneva il suo diritto al voto leso dalla
legge elettorale e proponeva, al riguardo, un’azione di accertamento. Nel caso in esame erano sorti molti dubbi tra i costituzionalisti
sull’ammissibilità di questo tipo di richiesta. Il processo principale
dovrebbe infatti avere un oggetto autonomo e distinto rispetto alla
216
Filippo Pizzolato
oltre la notizia
questione di legittimità Il ricorso in via incidentale si verifica quando un giudice,
costituzionale sollevata. nel corso di un processo, debba applicare una legge su
In questo caso – un’a- cui gravi un sospetto di incostituzionalità. Non potendo
sciogliere autonomamente questo dubbio, il giudice deve
zione di accertamento sospendere il processo e trasmettere un’ordinanza motivata
avente a oggetto il diritto alla Corte Costituzionale, affinché questa valuti se la legge
di voto – tale condizione in esame sia in tutto o in parte incostituzionale.
risultava assai dubbia,
anche sulla base della pregressa giurisprudenza. La Corte ha però
giudicato in favore dell’ammissibilità, facendo proprie le motivazioni
espresse dall’ordinanza della Corte di Cassazione e ritenendo che
«l’accertamento richiesto al giudice comune» non risulterebbe «totalmente assorbito dalla sentenza di questa Corte» (C. Cost. 1/2014).
Non è né forzato né irrispettoso cogliere nella decisione della Corte
una certa attenzione alla situazione del Paese, che l’ha spinta a privilegiare le strade utili a raccogliere l’esasperazione diffusa a livello popolare di fronte alla «perdurante inerzia» (C. Cost. 1/2014) manifestata
dalle forze politiche, malgrado i precedenti moniti degli organi di
garanzia puntigliosamente ricordati nella sentenza che si commenta.
Si può anche ipotizzare che tale sordità dinanzi agli appelli istituzionali sia stata intesa come una violazione del patto di leale collaborazione cui gli organi costituzionali sono reciprocamente tenuti e che
questa convinzione abbia giustificato un uso coraggioso, ma non abusivo, da parte della Corte degli strumenti a essa affidati. Vi è infatti
il fondato sospetto che l’inerzia della politica non sia unicamente il
frutto di una conflittualità ingovernabile tra le inconciliabili posizioni
delle parti, ma un immobilismo interessato e perfino complice tra
parti decise a coprirsi irresponsabilmente le spalle l’una con l’altra.
La Corte ha inoltre insistito, significativamente, sulla necessità di assicurare un controllo di legittimità costituzionale anche
sulla legge elettorale, per evitare che si crei una «zona franca»,
al riparo dal sindacato di costituzionalità, «proprio in un ambito
strettamente connesso con l’assetto democratico» (C. Cost. 1/2014).
Se ciò avvenisse «si determinerebbe» – secondo la Corte – «un
vulnus intollerabile per l’ordinamento costituzionale complessivamente considerato» (ivi). Queste parole risuonano in modo forte e,
forse, aprono una prospettiva futura al sindacato della Corte Costituzionale in tema di regolamenti parlamentari, fino ad ora rifiutato
dalla Consulta stessa.
La prima censura della Corte: il premio di maggioranza
Il primo aspetto della L. n. 270/2005 censurato dalla Corte Costituzionale è stato il meccanismo di assegnazione del premio di maggioranza alla Camera e al Senato. In entrambi i casi, la coalizione di
La legge elettorale al giudizio della Corte Costituzionale
217
liste o la singola lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa dei
voti aveva diritto al premio indipendentemente dal raggiungimento
di una percentuale minima prefissata di voti. Nel caso della Camera
il premio, pari a una quota aggiuntiva di seggi fino a un totale di 340,
era calcolato su base nazionale (esclusa la Circoscrizione Estero e la
Valle d’Aosta, i cui seggi erano attribuiti secondo regole diverse). Per
il Senato il premio era calcolato a livello regionale attribuendo i seggi
necessari per assicurare alla lista o alla coalizione di liste vincenti il
55% dei seggi totali in quella Regione. Anche in questo caso vi erano
delle eccezioni che riguardavano la Circoscrizione Estero e le Regioni
Valle d’Aosta, Molise e Trentino Alto-Adige.
Per motivare questa decisione, la Corte si è basata su un argomento di largo uso in materia di leggi elettorali. È opinione diffusa, infatti, che la legge elettorale debba realizzare una sorta
di bilanciamento tra principi potenzialmente in conflitto: la
rappresentatività e la governabilità (cfr Pasquino 2006 e Luciani
1991). Questo bilanciamento è frutto di una decisione squisitamente
politica, che può legittimamente assumere direzioni diverse e la cui
titolarità la sentenza riconosce senza indugio in capo al legislatore.
La Corte sottolinea esplicitamente che «non c’è […] un modello
di sistema elettorale imposto dalla Carta Costituzionale» (C. Cost.
1/2014). Tuttavia, le scelte del legislatore, pur espressione di ampia
discrezionalità, non sono esenti dal controllo della Corte costituzionale sul versante dell’eventuale irragionevolezza. Alla luce di questo
criterio, il “Porcellum” ha – a giudizio della Corte – realizzato il
bilanciamento tra la rappresentatività e la governabilità in modo irragionevole. Il consistente premio di maggioranza, assegnato
senza riferimento a una soglia minima di voti conseguiti, pur perseguendo il fine in sé legittimo della governabilità, sacrifica in una
misura sproporzionata la rappresentatività delle due Camere. Inoltre, nel caso della legge elettorale per il Senato, il meccanismo dei
premi di maggioranza assegnati su base regionale appare inutile e
illogico rispetto allo scopo stesso di favorire la governabilità, giacché
questa scelta non offre alcuna garanzia in tal senso 1 (D’Aloia 2013).
Come è stato giustamente sottolineato, il modo in cui è stato congegnato il premio di maggioranza potrebbe funzionare alla stregua di
un mero correttivo se la dinamica delle forze partitiche fosse di tipo
1 La legge elettorale per il Senato «stabilendo che l’attribuzione del premio di
maggioranza è su scala regionale, produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che
può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base
nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei
due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto dell’insieme
sostanzialmente omogenea» (C. Cost. 1/2014).
218
Filippo Pizzolato
oltre la notizia
bipolare, nel qual caso è «normale che entrambe (e certamente quella
che prevale) raggiungano un livello di consenso elettorale elevato, almeno vicino alla maggioranza politica (e parlamentare)» (ivi, 2). Viceversa, nel caso italiano, con la distribuzione dei consensi in almeno tre
partiti medio-grandi, si determina una forzatura, perché un partito o
una coalizione può avere in premio la maggioranza assoluta dei seggi
con consensi elettorali anche molto modesti e questo altera irragionevolmente la proporzione voti-seggi, inficiando l’eguaglianza tra i voti.
La Corte non si spinge dunque fino a escludere la legittimità
costituzionale dei premi di maggioranza, ma giudica irragionevole le modalità specifiche con cui questi erano assegnati dalla
L. n. 270/2005. In questo caso, infatti, non si tratta più di un mero
e accettabile correttivo, finalizzato al «legittimo obiettivo di favorire
la formazione di stabili maggioranze parlamentari e quindi di stabili
governi», ma di una distorsione sproporzionata che produceva un
rovesciamento del principio guida della formula elettorale prescelta,
individuato, come è proprio dei sistemi proporzionali, nella volontà
di «assicurare la rappresentatività dell’assemblea parlamentare» (C.
Cost. 1/2014). L’effetto finale inaccettabile è quello di una divaricazione tra composizione del Parlamento e volontà dei cittadini
espressa mediante il voto. Questa compressione della rappresentatività è stata ritenuta in contrasto con i principi costituzionali, per cui
le assemblee parlamentari sono «sedi esclusive della “rappresentanza
politica nazionale” (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del
voto e quindi della sovranità popolare» (ivi).
Questa distorsione incide negativamente – ed è un ulteriore
grave effetto – sullo svolgimento delle funzioni di garanzia cui il
Parlamento è chiamato, proprio in virtù della sua rappresentatività.
Tra queste, la Corte richiama esplicitamente la funzione di revisione costituzionale ex art. 138 Cost. Ciò sembra lasciar intendere, in
modo implicito ma logico, un limite – quanto meno di forte inopportunità – alla possibilità di modificare la Costituzione da parte
di un Parlamento la cui rappresentatività è stata compromessa dalla
legge elettorale. È vero che la Corte ha avuto la preoccupazione di
non lasciare adito a dubbio alcuno circa la perdurante legittimità
dell’istituzione parlamentare, anche dopo l’annullamento parziale
della legge elettorale, ma per una riforma della Costituzione a opera
di Camere a rappresentatività irragionevolmente distorta si può e
forse si deve prospettare una grave inopportunità.
Premio di maggioranza e rappresentatività del Parlamento
La distorsione della rappresentatività del Parlamento è un effetto
che appare inaccettabile in quanto tale. E tuttavia, essa assume una
La legge elettorale al giudizio della Corte Costituzionale
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particolare gravità laddove il legislatore abbia prescelto, nell’esercizio della sua discrezionalità, una formula elettorale a base proporzionale, come nel caso in esame. Le osservazioni della Corte
al riguardo costituiscono una premessa per una riflessione ulteriore.
Se la «alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente», frutto di una eccessiva «compressione
della funzione rappresentativa dell’assemblea» (C. Cost. 1/2014), è in
sé un esito costituzionalmente inammissibile, la produzione di un tale
effetto va comunque analizzata nella logica complessiva del concreto sistema elettorale vigente e ad essa commisurata. Laddove infatti,
come nel caso del “Porcellum”, la legge elettorale abbia un impianto
di base di tipo proporzionalistico, ci si muove – se ne sia consapevoli
o meno – entro una prospettiva di democrazia che potremmo definire kelseniana 2, intesa essenzialmente come compromesso tra parti
plurali. In questo caso, non si può affatto pretendere, come invece
faceva il “Porcellum”, che già dalle elezioni per il Parlamento si
prefiguri una maggioranza di Governo, fino a forzarne l’avvento.
Nella logica del sistema proporzionale, infatti, l’indirizzo politico si
forma entro le procedure che caratterizzano l’attività parlamentare,
complessivamente preordinata al confronto e alla mediazione tra i
vari interessi rappresentati. L’elezione deve limitarsi ad assicurare una
tendenzialmente esatta rappresentazione delle proporzioni tra i voti
espressi dagli elettori e la composizione dell’organo elettivo, perché
il voto popolare non serve a precostituire la decisione, ma a dare
avvio ai meccanismi mediativi della democrazia parlamentare.
Un ideale di democrazia competitiva, che privilegi ragionevolmente e coerentemente la governabilità, è invece lo specifico di un
sistema elettorale di tipo maggioritario a turno unico (all’inglese)
o doppio turno (alla francese). Esso si coniuga con un’idea, di ispirazione schumpeteriana 3, della democrazia come competizione tra
élite per il governo del Paese. In questo secondo modello, il sistema
elettorale non è chiamato a rispecchiare in modo fedele le diverse
espressioni politiche presenti nel Paese dentro le istituzioni, bensì
a incoronare l’élite risultata vincente, anche se di poco, in ciascun
collegio elettorale. L’elezione è infatti intesa come selezione e la regola maggioritaria mira proprio a “fabbricare” quella élite (in sé una
minoranza) che governerà la democrazia, secondo un ideale di meri2 Dal nome di Hans Kelsen (1881-1973), illustre giurista e teorico della democrazia
parlamentare.
3 Dal nome dell’economista Joseph A. Schumpeter (1883-1950), autore di una
importante teoria economica della democrazia. La distinzione tra idea kelseniana e
schumpeteriana di democrazia è stata approfondita da Mastropaolo 2006, 164 e 175.
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Filippo Pizzolato
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tocrazia elettiva. La legge elettorale è pertanto congegnata per prefigurare, già nel momento delle votazioni, una maggioranza governante senza dover attendere e ricercare estenuanti mediazioni. Questo
esito è conseguito segmentando la competizione nei singoli collegi.
Naturalmente, anche il sistema maggioritario dovrebbe farsi carico
dell’esigenza, sottolineata dalla Corte, della funzione rappresentativa
dell’assemblea parlamentare e della composizione della rappresentanza democratica. Il conseguimento di tale obiettivo, non scontato
in questo diverso sistema, pare esigere che si escluda l’assegnazione
di premi ulteriori di maggioranza o di altri meccanismi congegnati
affinché nei diversi collegi vinca lo stesso partito o coalizione. Può
anche consigliare, come avveniva con la legge elettorale “Mattarellum” (Ll. nn. 276 e 277/1993), l’assegnazione correttiva di una certa
quota di seggi per via proporzionale. Infine, si deve tenere conto che
l’ideale schumpeteriano di democrazia competitiva richiede anche
che le procedure sulla revisione costituzionale siano tali da impedire
alla minoranza vincente di poter cambiare da sola le regole del gioco.
Un secondo profilo incostituzionale: il voto di preferenza
Anche la parte di sentenza relativa al secondo vizio del “Porcellum” censurato dalla Corte Costituzionale, e cioè l’assenza del voto
di preferenza, non dà risposte univoche. Il giudizio non afferma in via
assoluta l’incostituzionalità di questa scelta, bensì della soluzione particolare adottata dal legislatore, resa ancor più critica per la previsione
di circoscrizioni elettorali di grande dimensione e per la legittimità
di candidature multiple. In questi casi, l’elettore non ha, secondo la
Corte, la ragionevole possibilità di conoscere i candidati per cui
vota e ciò determina una alterazione della funzione dei partiti,
che non sono più strumenti di promozione della libertà politica dei
cittadini. Per la Corte, le funzioni dei partiti sono «preordinate ad
agevolare la partecipazione alla vita politica dei cittadini» (C. Cost.
1/2014); ma questo non si verifica a causa del lungo elenco di candidati, che «difficilmente (il cittadino) conosce» (ivi), scelti dai partiti
che ne determinano pure l’ordine di presentazione in lista. A rendere
ancor più critica la previsione, si aggiunge la possibilità di candidature
multiple (per cui è l’eletto in più circoscrizioni a decidere quale collegio elettorale rappresenterà in Parlamento) e l’applicazione di questi
criteri selettivi per la totalità dei parlamentari.
La Corte individua nel cumulo di questi elementi una ferita
alla logica della rappresentanza congegnata dalla Costituzione e,
quindi, il vizio di incostituzionalità. Per superare questa empasse, le
strade legittimamente disponibili al legislatore sono diverse, tanto che
la stessa Corte distingue la soluzione censurata da altri sistemi «caratLa legge elettorale al giudizio della Corte Costituzionale
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terizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi», «da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte» o anche da «collegi
uninominali» (C. Cost. 1/2014) 4. Si può affermare che, per questo
profilo, la Corte Costituzionale sia stata finanche troppo prudente nel
collegare la censura alla circostanza che la totalità dei parlamentari sia
eletta senza preferenze. Forze partitiche già tendenzialmente insofferenti rispetto ai limiti costituzionali, dinanzi a formulazioni espresse
in termini così ampi e indeterminati, possono facilmente “convincersi” di godere di spazi di libertà decisionale superiori a quelli costituzionalmente ammissibili, come peraltro ha dimostrato, su tutt’altra
questione, la vicenda dell’annullamento prima del lodo “Schifani” (C.
Cost. 24/2004) e poi del lodo “Alfano” (C. Cost. 262/2009), in tema
di improcedibilità penale delle più alte cariche dello Stato.
Applicabilità della legge elettorale uscita dalla sentenza
Gli ultimi passaggi della sentenza sono tesi ad argomentare la necessaria autoapplicatività della legge elettorale così come modificata
dopo il pronunciamento della Corte stessa sui due profili incostituzionali. Poiché non si può correre il rischio di paralizzare il rinnovo di un
organo fondamentale come il Parlamento, occorre che quanto della
legge elettorale rimane valido dopo un intervento della Corte (così come dopo un referendum abrogativo) possa essere, se necessario,
immediatamente applicato. In effetti, dopo la sentenza della Corte,
ciò che resta in vigore è una legge elettorale di tipo proporzionale
puro, con l’unica correzione di un sistema articolato di soglie di
sbarramento. La legge elettorale accentua dunque il suo impianto
proporzionalistico, privato degli illegittimi premi di maggioranza, con
le precedenti clausole di sbarramento (non oggetto del ricorso) e con
l’introduzione del voto di preferenza. Eventuali inconvenienti applicativi possono essere risolti, secondo la Corte, in via interpretativa o con
interventi normativi di livello secondario. Ci troviamo perciò di fronte
a una nuova legge elettorale, frutto dell’annullamento parziale deciso
dalla sentenza della Corte e non del processo politico e, per questo,
non realmente voluta da nessuno degli attori coinvolti.
Infine, la Corte contesta la tesi che il Parlamento sia delegittimato dalla sentenza. Giunge a questa conclusione come fosse scontata
(«è appena il caso di ribadirlo», scrive nella sentenza, C. Cost. 1/2014),
quasi a voler screditare le argomentazioni in senso contrario che opera4 A riguardo dei collegi uninominali va contestata l’idea, pur diffusa, che l’elettore
non abbia modo di esprimere la propria preferenza; dato che «la competizione in un
collegio uninominale è diretta, l’elettore sceglie di votare per uno dei candidati, e sa
che se prevalgono i voti uguali al suo, quel candidato viene eletto» (D’Aloia 2013, 4).
La tesi opposta è sostenuta da Armanno 2013, 17.
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Filippo Pizzolato
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vano un pericoloso scivolamento dei destinatari di critiche e attacchi:
dalle forze politiche alle istituzioni. La Corte fa valere il «principio fondamentale della continuità dello Stato» (ivi), ribadendo il limite della
retroattività delle sentenze di annullamento, che non possono toccare
i rapporti esauriti e tali sono le elezioni dopo la proclamazione degli
eletti. Non vi sono dubbi dunque che il Parlamento in carica possa
modificare la legge elettorale conseguente all’intervento della Corte.
La democrazia rappresentativa e i limiti di una democrazia
“disintermediata”
La sentenza, in conclusione, riafferma la centralità costituzionale della democrazia rappresentativa e ne trae il principio
fondamentale, incomprimibile oltre una certa soglia, di rappresentatività del Parlamento. La rappresentanza è collegata all’eguaglianza tra i voti e alla sovranità popolare. In questo contesto, la
stessa funzione dei partiti è di tipo strumentale rispetto all’attivazione di un circuito virtuoso tra cittadini e istituzioni rappresentative.
In tempi di dibattito, più o meno raffinato e consapevole, sull’art.
67 Cost. («Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed
esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato») e sulla possibile
alternativa della democrazia telematica, la Corte rinsalda il legame
tra la democrazia e la rappresentanza 5.
La funzione rappresentativa radica nel nostro ordinamento costituzionale una dimensione di democrazia di investitura, declinabile poi secondo modelli alternativi (Kelsen e Schumpeter), cui
corrispondono formule elettorali differenti. A questo proposito, la
sentenza della Corte può essere intesa come un monito di fronte
alla riapertura di una stagione politica democratica caratterizzata da
un diffuso approccio riduttivistico, in cui, di fronte alla disaffezione dei cittadini rispetto alla politica, vengano avanzate proposte di
eliminazione delle forme di intermediazione dello spazio pubblico
per passare all’investitura diretta del Governo o del suo leader. Qui
si annida il pericolo di una semplificazione che faccia parlare, ma in
questo modo anche riduca, il popolo a una sola voce, identificandolo con un soggetto, con una maggioranza e, infine, con un leader.
Sul piano politico, questa insofferenza per la complessità è all’origine
delle forzature e dei “trucchetti” elettorali con cui si tende a produrre
un assetto partitico bipolare o una maggioranza artificiosi. La stessa
idea di rappresentanza, luogo della mediazione entro le istituzioni,
subisce, come si è visto, l’offensiva della distorsione semplificatrice.
5 Peraltro il rapporto tra rappresentanza e democrazia non è originario e la sua
storia è piuttosto accidentata, come bene mostra Duso 2003.
La legge elettorale al giudizio della Corte Costituzionale
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risorse
Nella nostra Costituzione, tuttavia, la democrazia non si esaurisce
nei meccanismi dell’investitura del potere, ma ha uno spessore che
raggiunge e coinvolge la società stessa. Lo riconosce la stessa Corte
tra le righe, quando afferma che «l’elezione dei propri rappresentanti
in Parlamento […] costituisce una delle principali espressioni della
sovranità popolare» (C. Cost. 1/2014), non certo l’unica. Nella nostra
Costituzione non può trovare accoglienza un’idea di democrazia
“disintermediata”, verticalizzata e solo di investitura. Il fondamento della Repubblica sul lavoro vale a riconoscere e a promuovere il
contributo che i cittadini, singoli e associati, offrono al benessere materiale e spirituale della società e dunque all’autogoverno (cfr. Pizzolato
2010). La democrazia, così interpretata, non riguarda solo le regole che
sovrintendono all’investitura e al funzionamento dello spazio autoritativo-istituzionale, bensì investe le forme e i canali plurali della partecipazione dei cittadini (e delle loro formazioni sociali) all’ordinamento
dei rapporti sociali. Questa prospettiva di una democrazia innervata
in profondità nella partecipazione (e nel gioco delle libertà e delle corresponsabilità) rafforza, nella società e nell’architettura istituzionale,
i contro-poteri – tra cui gli organi di garanzia costituzionale – che
valgono a preservare le espressioni plurali del popolo sovrano rispetto
alle possibili tentazioni totalizzanti delle contingenti maggioranze.
Normativa
C orte C ostituzionale, Sentenza 4 dicembre
2013 – 13 gennaio 2014, n. 1.
Corte Costituzionale, Sentenza 12 – 24 gennaio 2012, n. 13.
Corte Costituzionale, Sentenza 7 – 19 ottobre
2009, n. 262.
Corte Costituzionale, Sentenza 16 – 30 gennaio 2008, n. 15.
Corte Costituzionale, Sentenza 13 – 20 gennaio 2004, n. 24.
Legge 21 dicembre 2005, n. 270, «Modifiche alle
norme per l’elezione della Camera dei deputati
e del Senato della Repubblica».
Legge 4 agosto 1993, n. 276, «Norme per l’elezione del Senato della Repubblica».
Legge 4 agosto 1993, n. 277, «Nuove norme per
l’elezione della Camera dei Deputati».
Risorse bibliografiche
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Riflessioni tra retorica democratica, divieto d
mandato imperativo e ruolo dei partiti politici»,
27 novembre 2013, in <www.federalismi.it>.
D’Aloia A. (2013), «Finale di partita. Incosti224
Filippo Pizzolato
tuzionale la legge elettorale», 16 dicembre
2013, in <www.forumcostituzionale.it>.
Costa G. (2013), «Quale responsabilità di fronte
alle larghe intese?», in Aggiornamenti Sociali,
6-7, 445-452.
Duso G. (2003), La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concetto, FrancoAngeli, Milano.
Kelsen H. (1995), La democrazia, il Mulino, Bologna.
Luciani M. (1991), Il voto e la democrazia, Editori
Riuniti, Roma.
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Rappresentanza politica, gruppi di pressione,
élites al potere, Giappichelli, Torino.
Napolitano G. (2013), Messaggio del Presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano al Parlamento nel giorno del giuramento, 22 aprile
2013, in <www.quirinale.it>
Pasquino G. (2006), I sistemi elettorali, il Mulino,
Bologna.
Pizzolato F. (2010), «Costituzione: sottrarre la
democrazia all’arbitrio del potere», in Aggiornamenti Sociali, 9-10.
Schumpeter J. A. (2001), Capitalismo, socialismo e democrazia, Etas, Milano.
La protezione interrotta
Chiara Peri
Responsabile dei rapporti internazionali del Centro Astalli,
<peri@fondazioneastalli.it>
ricerche e analisi
Il Regolamento “Dublino III”
e il diritto d’asilo in Europa
Il 26 giugno 2013 è entrato in vigore il regolamento europeo
noto come “Dublino III”, che modifica i meccanismi con cui
l’UE stabilisce a quale Stato membro competa l’esame di una
richiesta d’asilo. Ma queste procedure sono veramente efficaci?
Riescono i migranti e i richiedenti asilo a ottenere una protezione dignitosa, che garantisca loro di esercitare i propri diritti?
Una ricerca europea del JRS (Servizio dei gesuiti per i rifugiati)
mostra che le criticità in questo campo sono ancora troppe.
P
er regolamentare e coordinare l’accoglienza e l’esame delle
domande d’asilo da parte dei richiedenti che approdano nei
vari Stati membri, l’Unione Europea si è dotata di un sistema
di regole condivise. Il 15 giugno 1990 in Irlanda venne firmata una
prima Convenzione, per questo detta “di Dublino”, in seguito revisionata più volte, fino all’attuale Regolamento europeo n. 604/2013,
approvato il 26 giugno 2013, noto come “Dublino III” 1.
Tale Regolamento, entrato in vigore il 1° gennaio 2014, è l’elemento portante di un più ampio Sistema di Dublino, che consiste
nell’insieme di regole e meccanismi con cui l’UE stabilisce quale
Stato membro sia competente per l’esame di ciascuna domanda
di protezione internazionale. L’altro pilastro di questo sistema è
1 Il Regolamento “Dublino III” è stato adottato da tutti gli Stati membri dell’UE a
eccezione della Danimarca. Al precedente Regolamento “Dublino II” del 2003 aveva
aderito anche la Svizzera.
Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (225-236)
225
l’EURODAC (European Dactyloscopie), una banca dati centrale in
cui vengono registrate le generalità di chiunque attraversi irregolarmente le frontiere di uno Stato membro, in particolare le impronte
digitali. Questi due strumenti consentono di stabilire dove è avvenuto il primo ingresso in Europa di una persona richiedente asilo e di
attribuire a quel Paese l’onere dell’esame di un’eventuale domanda.
L’obiettivo iniziale di tale Sistema era quello di garantire che almeno uno degli Stati membri prendesse in carico il
richiedente. Tuttavia, è ormai evidente come in realtà l’applicazione di tale insieme di regole sia diventata un insensato percorso a ostacoli per chi cerca protezione: famiglie separate, persone lasciate senza mezzi di sostentamento o addirittura detenute,
lungaggini burocratiche e rimpalli tra Stati e uffici che rendono
il diritto d’asilo inesigibile. Purtroppo, anche la terza revisione del
Regolamento di Dublino, pur introducendo qualche cambiamento
potenzialmente positivo 2, non modifica sostanzialmente l’impianto
del Sistema di Dublino, ma continua a impedire – o quanto meno
a limitare pesantemente – la mobilità dei richiedenti asilo nell’UE,
con un impatto fortemente negativo sulla vita dei rifugiati. Il Sistema di Dublino è il simbolo della distanza che separa l’Europa da
un’umanità in viaggio, un muro di regole anonime su cui si infrangono le speranze di chi cerca protezione.
1. Il Regolamento visto dai rifugiati
Una donna eritrea, S.H., è costretta a fuggire dal suo Paese. Decide di raggiungere la sorella, già rifugiatasi in Svezia, e per arrivare
nel Nord Europa attraversa l’Italia, dove viene intercettata dalla polizia e schedata mediante il rilievo delle impronte digitali.
S.H. dichiara di volersi recare in Svezia e di non aver intenzione
di presentare richiesta di asilo in Italia. Le autorità tuttavia non le
chiedono per quale motivo stia cercando protezione e non le forniscono alcuna informazione sulle procedure europee in materia. La
signora, quindi, presenta la domanda d’asilo solo una volta arrivata
in Svezia e lì scopre che, in base a quelle procedure, l’esame del suo
caso è di competenza delle autorità italiane.
Attualmente S.H è in attesa di essere trasferita in Italia, ma afferma di «preferire morire piuttosto che tornare in questo Paese». L’accoglienza non è paragonabile a quella ottenuta in Svezia, dove può
2 Tra i cambiamenti principali, oltre all’allargamento della definizione di “familiare” da cui il richiedente asilo può domandare di non essere separato, si registra
l’introduzione della valenza sospensiva del ricorso: se un richiedente asilo presenta
ricorso contro l’ordine di trasferimento, ha diritto di aspettarne l’esito prima di essere
trasferito.
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Chiara Peri
ricerche e analisi
vivere con i suoi bambini e parenti, ricevendo assistenza. La signora,
infatti, soffre di diabete e occasionalmente è soggetta a svenimenti,
perciò non vorrebbe essere costretta a portare i suoi figli con sé nel
nostro Paese, ma preferirebbe affidarli alla sorella: «Se mi succede
qualcosa» – si chiede – «chi si prenderà cura dei miei figli in Italia?»
(Di Rado 2010, 42).
Un’altra testimonianza dell’impatto del Sistema di Dublino sulla
vita dei rifugiati viene dalla visita di papa Francesco a Lampedusa, nel
luglio 2013. Un giovane eritreo sbarcato da poco ha avuto l’opportunità di esprimere direttamente al Pontefice la sua preoccupazione più
grande: l’identificazione attraverso il prelievo delle impronte digitali.
«Per arrivare in questo luogo tranquillo abbiamo sfidato vari ostacoli, siamo stati rapiti dai trafficanti. Abbiamo sofferto tantissimo per
arrivare in Libia», ha detto il giovane. «Siamo costretti a rimanere in
Italia. Ma vorremmo che altri Paesi europei ci accogliessero» 3.
Il punto di vista dei rifugiati espresso così chiaramente in una
delle rare occasioni in cui i media di tutto il mondo hanno dato
loro la parola non può lasciarci indifferenti: tante, troppe persone cercano in Europa protezione e trovano invece barriere di
ogni genere, subiscono umiliazioni e vere e proprie violazioni
dei diritti umani e della loro dignità. Il JRS (Servizio dei gesuiti
per i rifugiati), di cui il Centro Astalli di Roma è la sede italiana, ha
svolto una ricerca per documentare gli effetti del Regolamento di
Dublino, nella convinzione che nelle commissioni in cui si discutono le leggi e i regolamenti continui ad arrivare troppo poco la voce
dei rifugiati, di chi ha visto crollare di fronte a sé l’ultima speranza
di una vita migliore e sicura.
2. La ricerca DIASP
Il progetto «DIASP. Una valutazione dell’impatto del Regolamento di Dublino sull’accesso alla protezione dei richiedenti asilo
e un’analisi di buone pratiche implementate nell’Unione Europea»,
finanziato dal Fondo europeo per i rifugiati, aveva l’obiettivo di
portare l’esperienza dei richiedenti asilo direttamente nel dibattito
sul Sistema di Dublino dell’UE. Coordinato dal JRS Europa, ha
coinvolto nove partner nazionali: il Centro Astalli in Italia, il JRS
Belgio, il JRS Germania, il Forum Réfugiés in Francia, l’Hungarian Helsinki Committee in Ungheria, il JRS Malta, il Centrum
Pomocy Prawnej Im. H. Nieć in Polonia, il JRS Romania e il JRS
Svezia. Ciascuno dei partner ha realizzato circa 30 interviste a ri3
Cfr «Papa Francesco a Lampedusa», <www.huffingtonpost.it>, 8 luglio 2013.
La protezione interrotta
227
chiedenti e titolari di protezione internazionale soggetti alle procedure del Sistema di Dublino.
Le interviste riguardavano nello specifico le implicazioni del
Regolamento in materia di accesso alle cure mediche, risposta a
bisogni e vulnerabilità particolari, assistenza legale, impatto della
detenzione, conseguenze della procedura sui legami familiari. Nel
corso del progetto sono state intervistate 257 persone in nove Paesi.
Di queste, il 59,5% erano in attesa di trasferimento e il 40,5% erano
già state trasferite da uno Stato a un altro (i cosiddetti “dublinati” 4).
Il Centro Astalli ha realizzato 30 interviste a Roma, soprattutto
presso il Centro di ascolto e orientamento legale. Di questi intervistati, 16 erano “dublinati”, soprattutto di nazionalità somala, di cui
13 titolari di protezione
(10 titolari di protezioLo status di rifugiato e la protezione sussidiaria sono le due
forme di protezione internazionale a cui una persona che arne sussidiaria e 3 titolari
riva in Italia in fuga da guerre e persecuzioni può accedere,
dello status di rifugiato).
attraverso un’unica procedura amministrativa (la richiesta
Gli altri 14 erano persodi protezione internazionale). A chi è riconosciuto rifugiane in attesa di essere trato viene rilasciato un permesso di soggiorno quinquennale
sferite in un altro Stato
rinnovabile, senza ulteriore verifica delle condizioni; il titolare di protezione sussidiaria ottiene invece un permesso
membro, in diverse fasi
di soggiorno di durata triennale rinnovabile, previa verifica
della procedura Dublidella permanenza delle condizioni che hanno consentito il
no. Tra gli intervistati,
riconoscimento della protezione. Le due forme di protezione
11 avevano fratelli, cugiinternazionale differiscono inoltre rispetto all’esercizio di
ni o zii in altri Paesi, coalcuni diritti, ad esempio quello al ricongiungimento famime Austria, Inghilterra,
liare, che il rifugiato (a differenza del titolare di protezione
sussidiaria) può esercitare senza dimostrare i requisiti ecoFrancia, Olanda e Svezia
nomici richiesti agli altri cittadini di Paesi terzi.
(DIASP 2013) 5.
3. Le principali criticità nell’applicazione del Regolamento
di Dublino in Italia
«L’Italia è l’unico Paese in cui ho dovuto dormire per strada perché
non ho trovato un posto in un centro di accoglienza. Negli altri
Paesi europei ho sempre trovato un posto dove dormire». (Un rifugiato somalo intervistato a Roma; DIASP 2013, 10).
4 Si tratta di richiedenti asilo rinviati nello Stato membro che per primo ha registrato il loro ingresso in Europa o nel quale hanno già presentato domanda d’asilo,
ed eventualmente già ricevuto una forma di protezione internazionale. I “dublinati”
sono rifugiati costretti a soggiornare in un determinato Paese anche se non vogliono.
Molti preferirebbero ricongiungersi ai loro parenti residenti in altri Stati o rimanere là
dove sono riusciti a ricostruirsi una vita, trovando casa, lavoro ecc., ma il Sistema di
Dublino glielo impedisce.
5 La sezione del Rapporto di ricerca relativa all’Italia, intitolata La protezione interrotta. L’impatto del Regolamento di Dublino sulla vita dei richiedenti asilo, è disponibile nella pagina «Pubblicazioni» del sito del Centro Astalli (<www.centroastalli.it>).
228
Chiara Peri
ricerche e analisi
Il Regolamento di Dublino interessa due categorie di migranti:
quelli che sono stati rimandati in Italia, in quanto individuata come
Stato responsabile per esaminare la loro domanda d’asilo (“dublinati”), e quelli che devono essere trasferiti dall’Italia a un altro Stato
europeo, dove precedentemente sono stati identificati attraverso le
impronte digitali (in attesa di trasferimento).
Per farsi carico di queste situazioni particolari, la Convenzione di
Dublino prevedeva l’istituzione, in ogni Paese aderente, di un’Autorità amministrativa, che tenesse anche i rapporti con le autorità
analoghe degli altri Stati membri. Il Dipartimento per le libertà
civili e l’immigrazione del nostro Ministero dell’Interno ha costituito un’apposita Unità Dublino, ma si tratta di un unico ufficio, a
Roma, che deve esaminare tutti i casi a livello nazionale. Ciò può
causare forti ritardi nella notifica degli ordini ufficiali di trasferimento ai richiedenti asilo, anche perché chi desidera avere informazioni non può contattare direttamente l’Unità Dublino, in quanto
sfornita di front office. La maggior parte dei richiedenti asilo cerca
dunque un intermediario e si rivolge ad associazioni e ONG locali.
Secondo i dati contenuti negli ultimi rapporti pubblicati in merito, i “casi Dublino” in Italia riguardano per lo più persone che sono
state trasferite nel nostro Paese da un altro Stato membro (cfr ASGI
2009 e Di Rado 2010). Alcune di queste avevano già completato la
procedura d’asilo in Italia e, dopo aver ottenuto una forma di protezione internazionale, si erano trasferite in un altro Paese in cerca
di migliori opportunità di inclusione sociale. Non essendo cittadini italiani, però, non hanno la possibilità di soggiornare e lavorare
legalmente in un altro Stato membro 6.
Il Regolamento di Dublino, in base alle finalità per cui è nato, dovrebbe interessare esclusivamente i richiedenti asilo, cioè
persone che hanno presentato domanda di protezione internazionale
e sono ancora in attesa di conoscerne l’esito. Applicarlo a quanti
hanno già ultimato con successo la procedura, conseguendo
una qualche forma di protezione internazionale, è un paradosso e di fatto non ha altro effetto che ostacolare l’integrazione
dei rifugiati in Europa attraverso le loro reti familiari o amicali.
In alcuni casi, esso ostacola persino l’unità familiare (tra fratelli, o
tra marito e moglie).
6 L’ottenimento della cittadinanza in Italia è una procedura lunga e dall’esito incerto. I rifugiati riconosciuti possono presentare domanda dopo cinque anni dall’iscrizione anagrafica, ma devono dimostrare alcuni requisiti minimi di reddito e di
integrazione. Inoltre la procedura può durare anni, senza alcuna garanzia di esito
positivo. I titolari di protezione sussidiaria possono presentare domanda dopo dieci
anni dall’iscrizione anagrafica.
La protezione interrotta
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Il fatto che il Regolamento costringa le persone a rimanere per
sempre in uno specifico Stato membro, anche dopo avere ottenuto la
protezione, sembrerebbe scoraggiare gli spostamenti dei richiedenti
asilo. Invece, per la maggior parte delle persone intervistate nell’ambito del progetto DIASP, ciò si traduce nel raccomandare agli altri migranti di «scegliere, fin dall’inizio, il Paese europeo in cui intendono
chiedere asilo perché, dopo essere arrivati lì, non si può più cambiare».
La loro prospettiva, infatti, è quella di una integrazione a lungo termine, e viaggia in direzione opposta a quella del Regolamento.
Un’altra criticità particolarmente vistosa riguarda l’accoglienza. La maggior parte degli intervistati ha detto di non avere un luogo dove vivere in Italia. I dati mostrano che la scarsità di
posti di accoglienza è un problema grave, specialmente per i “dublinati”. Diversi dei 13 somali intervistati hanno riferito di dormire in
un “palazzo occupato” nella periferia sud di Roma (cfr Peri 2012). Si
tratta per lo più di titolari di protezione sussidiaria o rifugiati riconosciuti, che non hanno accesso alle stesse misure di accoglienza dei
richiedenti asilo perché, prima della loro partenza per un altro Paese
europeo, avevano già usufruito del periodo di accoglienza previsto
dallo Stato o dal Comune di Roma 7.
Un ulteriore elemento critico è la mancanza di informazioni
esaustive, che ha un forte impatto sulla equità della procedura
di asilo. I dati mostrano
Il Regolamento Dublino prevede due clausole che autorizche alcune persone in atzano una deroga ai criteri generali di determinazione dello
tesa di trasferimento hanStato competente per l’esame della domanda d’asilo: la
no avuto, essendone state
clausola di sovranità, per cui uno Stato membro può sempre decidere di assumere la responsabilità di esaminare
debitamente informate,
una richiesta di asilo presentata in frontiera o sul territorio,
la possibilità di fare apanche se in base ai criteri ordinari la competenza dovrebbe
pello alle cosiddette clauessere attribuita ad altro Stato membro, e la clausola umasole di discrezionalità. Al
nitaria, per cui qualsiasi Stato membro, pur non essendo
contrario, la mancanza
competente dell’esame della domanda secondo i criteri ordinari, può diventarlo in considerazione di esigenze familiari
di informazioni produce
o umanitarie del richiedente asilo (gravidanza, maternità
frustrazione, depressione
recente, grave malattia, serio handicap, età avanzata, mie un profondo senso di
gliore interesse del minore non accompagnato).
precarietà: le persone si
7 Il problema è legato alle gravi carenze del sistema di accoglienza italiano: posti
insufficienti, frammentarietà causata dall’esistenza di diversi tipi di strutture, incoerenza e disomogeneità degli standard. Manca un sistema di accoglienza unico,
integrato, capace di rispondere a bisogni variabili e di offrire la stessa qualità di
protezione in tutta Italia, che possa far riferimento a chiare linee guida nazionali e
sia dotato di monitoraggio indipendente. La capacità della rete SPRAR (il Sistema di
protezione per richiedenti asilo e rifugiati), anche se da gennaio 2014 è passata da
3mila a 16mila posti, rimane non proporzionata agli attuali bisogni. Inoltre, l’assenza
di misure di integrazione efficaci per i titolari di protezione internazionale ha creato
un serio rischio di violazione dei diritti umani in Italia (cfr OSAR 2013).
230
Chiara Peri
ricerche e analisi
sentono intrappolate in un limbo giuridico. Tutti gli intervistati che
erano ancora richiedenti asilo hanno affermato di non sapere nulla
rispetto all’andamento della loro domanda e di essere molto confusi
su come regolarsi. La procedura Dublino infatti può durare molto e
il migrante non ha la possibilità di essere aggiornato su come procede
il suo caso né attraverso un apposito ufficio informazioni né accedendo a un sistema on line o agli sportelli di altri uffici delle autorità
competenti, come quelli territoriali dell’immigrazione.
4. Qualche considerazione a livello europeo
a) L’informazione è un fattore chiave per l’esercizio dei diritti
fondamentali
Uno degli aspetti più preoccupanti emersi dalla ricerca DIASP
a livello europeo è che la maggior parte delle persone non sono
ben informate in merito alla procedura Dublino. Il 55% degli
intervistati ne sapeva poco o nulla. Si tratta di un sistema complesso, di cui generalmente gli interessati colgono solo un aspetto: che
devono essere trasferiti allo Stato europeo “competente”. Il Sistema
di Dublino risulta ai più difficile da interpretare: solo il 20% degli
intervistati ha dimostrato una conoscenza completa della procedura.
Una delle principali implicazioni della scarsa informazione
è che la capacità del migrante di accedere ai suoi diritti fondamentali viene fortemente limitata. Nel campione italiano, il 47%
delle persone non sapeva come fare per presentare ricorso contro un
ordine di trasferimento e il 64% non era a conoscenza delle clausole
discrezionali. Pertanto, un numero considerevole di persone di fatto
non ha presentato ricorso e, quindi, non ha esercitato un suo diritto
fondamentale, sancito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 13 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo, solo perché non informato della possibilità di farlo.
A questo proposito, il Regolamento Dublino III introduce alcune novità che, auspicabilmente, miglioreranno il panorama finora
riscontrato. Al diritto di informazione è dedicato un articolo apposito (art. 4) e ne viene definito meglio il contenuto rispetto al Regolamento Dublino II. Tutte le informazioni relative alle procedure,
inclusa la possibilità di impugnare una decisione di trasferimento e
di chiederne la sospensione, dovranno essere fornite «non appena
sia presentata una domanda di protezione internazionale». Si precisa
tra l’altro che le informazioni devono essere comunicate (per iscritto, ma, se necessario per la corretta comprensione del richiedente,
anche oralmente) «in una lingua che il richiedente comprende o che
ragionevolmente si suppone a lui comprensibile». Viene introdotto
(art. 5) l’obbligo per gli Stati di condurre un colloquio personale
La protezione interrotta
231
al fine di agevolare la procedura Dublino, da svolgere prima che
sia adottata la decisione di trasferimento; deve essere condotto da
una persona qualificata, in condizioni che garantiscano riservatezza,
avvalendosi ove necessario di un interprete che possa garantire una
comunicazione adeguata. Di tale colloquio lo Stato è obbligato a
redigere una sintesi scritta che contenga le principali informazioni
fornite dal richiedente.
b) Condizioni di accoglienza dignitose
Dormire per strada, doversi accontentare di alloggi inadeguati,
non avere accesso a servizi essenziali sono indubbiamente elementi che ledono la dignità delle persone. I rifugiati vedono dignità e
protezione come due elementi indissolubilmente legati. Le persone
infatti si sentono protette non solo se possono formalmente accedere
alla procedura d’asilo, ma soprattutto quando vedono riconosciuto il
diritto a un alloggio dignitoso, al necessario sostegno per i bisogni
essenziali e vengono loro offerte occasioni di miglioramento, come
ad esempio la formazione. Chi si trova in Paesi che non soddisfano
queste esigenze, continuerà la sua ricerca di sicurezza altrove. Per
questo le condizioni di accoglienza sono un elemento non trascurabile del Sistema di Dublino: in un certo senso, esse rappresentano
l’elemento chiave dell’intero sistema.
La percezione che gli individui hanno rispetto alla qualità
dei servizi essenziali e delle modalità di accoglienza in un Paese
dell’Unione condiziona fortemente il modo in cui essi interagiscono con il Sistema di Dublino. Il 68% di coloro che hanno
ammesso di essersi nascosti alle autorità ha anche affermato di essere
molto insoddisfatto rispetto ai servizi essenziali nel Paese in cui è
stato intervistato. Il 50% delle persone che hanno affermato che
il Sistema di Dublino è «iniquo e ingiusto» ha detto anche di non
avere ricevuto i servizi essenziali nel Paese in cui l’intervista è stata
raccolta.
c) L’inutilità della detenzione
«È stata un’esperienza orribile perché ho sempre pensato che la
prigione fosse una punizione per qualcuno colpevole di qualcosa,
ma io ero del tutto innocente. Stavo solo fuggendo da una persecuzione nel mio Paese e non meritavo di essere messo in carcere» (Un
richiedente asilo che è stato detenuto a Malta; DIASP 2013, 11)
La detenzione è un’esperienza frequente per i richiedenti asilo e
i migranti coinvolti nel Sistema di Dublino. La maggior parte dei
Paesi europei infatti la applica alle persone in attesa di trasferimento
232
Chiara Peri
ricerche e analisi
in un altro Stato membro. Nel Regolamento di Dublino non ci sono
regole comuni rispetto al ricorso alla detenzione: i migranti sono
lasciati in una sorta di zona grigia della legislazione europea, che
consente pratiche divergenti da uno Stato all’altro. Il Regolamento “Dublino III” contiene alcuni articoli in materia, obbligando in
particolare gli Stati membri a far riferimento alle regole contenute
nella cosiddetta «Direttiva rifusa» sulle condizioni di accoglienza
(Direttiva 2013/33/UE); si raccomanda anche ai Governi di adottare misure meno coercitive, prima di ricorrere alla detenzione. Sebbene sulla carta si siano raggiunti alcuni miglioramenti, in realtà per
i migranti la minaccia della detenzione continua a essere un rischio
concreto nell’ambito del Sistema di Dublino.
Dalle interviste realizzate nell’ambito del progetto DIASP è
chiaro che la detenzione è una delle misure meno necessarie
del Sistema di Dublino, il cui unico effetto è di aumentare la
frustrazione nei richiedenti asilo e nei migranti. Infatti, essa non
accresce l’efficacia della procedura Dublino ed è usata in modo
piuttosto arbitrario, con conseguenze estremamente gravi. Ad
esempio, nessuno degli intervistati in Francia era in detenzione,
perché normalmente in quel Paese – come in Italia o in Svezia – i
richiedenti asilo non sono detenuti. Viceversa in Belgio, sebbene i
richiedenti asilo non vadano automaticamente detenuti, in pratica
di solito lo sono.
Inoltre, risulta che le persone detenute hanno in media un minore accesso alle informazioni sulla procedura Dublino rispetto agli
altri intervistati e più difficoltà ad avvalersi del supporto degli avvocati, il che riduce di molto la loro possibilità di presentare ricorso.
La detenzione mette le persone in condizione di forte svantaggio
quando si tratta di effettiva esigibilità dei loro diritti. La detenzione
nel Sistema di Dublino lede quindi la dignità delle persone e preclude loro l’accesso ai diritti fondamentali, senza alcun apparente
beneficio per gli interessati, né per gli Stati che li accolgono.
5. Uno sconvolgimento non necessario
«Le mie sorelle e mio fratello vivono nel Regno Unito. Io volevo
raggiungerli, ma ora non è più possibile. È molto complicato, perché io ho ottenuto il mio permesso di soggiorno qui e non posso
andare lì a lavorare».
«Mia moglie è stata riconosciuta rifugiata in Norvegia e abbiamo
due bambini, ma io non posso andare lì e vivere con loro, perché
sono stato riconosciuto rifugiato in Italia e ho bisogno di una autorizzazione speciale». (Due rifugiati intervistati a Roma; DIASP
2013, 11)
La protezione interrotta
233
Tra le persone intervistate nell’ambito della ricerca DIASP, 4 su
10 hanno affermato che altri membri della loro famiglia vivono attualmente in un Paese dell’UE diverso da quello in cui loro stessi si
trovano. I richiedenti asilo spesso arrivano in Europa con un progetto che, in genere, s’infrange perché vengono trasferiti in un Paese
diverso da quello in cui intendevano andare. Se ogni Stato europeo
avesse lo stesso sistema di asilo e di accoglienza, la cosa potrebbe
non costituire un problema, ma chiaramente non è così. Sapendo
che le condizioni di asilo e di accoglienza sono molto diverse nei
vari Stati dell’Unione e dopo aver analizzato le 257 interviste realizzate, il JRS ritiene che il Regolamento di Dublino non solo
non faciliti l’accesso al diritto fondamentale degli individui a
chiedere protezione, ma spesso sconvolga senza ragione la vita
delle persone.
Non vanno inoltre trascurati gli oneri e le difficoltà che il Regolamento presenta per gli Stati. I trasferimenti necessitano di risorse
economiche e umane e non sembrano portare particolari benefici,
se non agli Stati interni dell’UE che possono avere interesse a contenere il numero delle richieste d’asilo. Nonostante il Regolamento
intendesse armonizzare il modo in cui gli Stati membri condividono
la responsabilità della gestione delle domande d’asilo, le “pratiche
Dublino” sono fortemente diversificate da uno Stato all’altro. Alcuni Governi infatti applicano il Regolamento con rigidità assoluta,
senza prendere in considerazione i bisogni e la dignità delle persone
interessate e senza una valutazione ragionevole dell’efficacia del sistema, mentre altri considerano le specificità del caso (vulnerabilità del richiedente, potenzialità di integrazione, durata complessiva
della procedura) con maggiore attenzione. Alcuni tribunali inoltre
impediscono il trasferimento di casi Dublino in alcune circostanze
specifiche, ad esempio verso Paesi con condizioni di accoglienza inadeguate, come la Grecia 8 e, talvolta, l’Italia: in questi casi il sistema
costringe gli Stati a impiegare risorse per le procedure, anche se i
trasferimenti non sono possibili. Inoltre i Governi spendono risorse
per la detenzione, per rispondere ai ricorsi inoltrati dagli avvocati e,
paradossalmente, persino per valutare i bisogni, i rischi e le vulnerabilità dei richiedenti asilo interessati.
8 L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite (UNHCR) ha esplicitamente raccomandato ai Governi di non espellere i richiedenti asilo in Grecia, in considerazione delle
gravi insufficienze del sistema d’asilo in quel Paese (cfr UNHCR 2008). Il 2 gennaio
2014 l’UNHCR ha espresso una analoga valutazione riguardo alla Bulgaria, chiedendo agli Stati di sospendere i trasferimenti visto il «reale rischio di trattamenti inumani
e degradanti a causa di sistematiche carenze nelle condizioni di accoglienza e nelle
procedure d’asilo» (cfr UNHCR 2014).
234
Chiara Peri
ricerche e analisi
La principale finalità del Regolamento era prevenire i movimenti secondari di richiedenti asilo all’interno dell’UE, ma le persone
continuano a spostarsi in percentuali allarmanti. In media, gli intervistati nell’ambito del progetto DIASP avevano alle spalle già
tre o quattro viaggi. La rigidità del Sistema di Dublino infatti
spinge i richiedenti asilo a muoversi continuamente in Europa
in cerca di protezione, piuttosto che fermarsi in un posto solo,
nel tentativo di aggirare un Sistema percepito come poco sicuro.
Le condizioni di accoglienza scadenti in alcuni Paesi europei
costituiscono il motivo principale per cui le persone continuano a
viaggiare, oltre al desiderio di vivere con la propria famiglia, o di
presentare domanda d’asilo in un Paese di cui si conosce la lingua,
o dove si ritiene di avere maggiori possibilità di riuscire a rifarsi una
vita. Eludere il Sistema di Dublino comporta per i rifugiati il rischio
di essere arrestati, detenuti e trasferiti in un altro Stato, essere separati dalla propria famiglia. Il fatto che così tante persone ritengano
necessario assumersi questo rischio per trovare protezione è forse
la prova più evidente che, nonostante i miglioramenti introdotti, il
Regolamento di Dublino resta piuttosto un ostacolo all’esercizio del
diritto d’asilo.
6. Prospettive future
Il Regolamento “Dublino III” fa parte del pacchetto di strumenti giuridici la cui approvazione da parte del Parlamento Europeo
ha completato il lungo e faticoso percorso verso il Sistema europeo
comune d’asilo (CEAS). Gli Stati membri dell’UE sono obbligati,
entro il 20 luglio 2015, a emendare le leggi nazionali per fare in
modo che siano conformi alle modifiche introdotte.
Diversi enti di tutela hanno sottolineato che i risultati di questo processo sono piuttosto deludenti rispetto alle aspettative. L’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), a
commento della votazione del Parlamento Europeo, ha osservato che
la necessità di trovare dei compromessi su alcuni aspetti critici ha fatto venire meno «la possibilità di colmare alcune lacune e di chiarire
alcune normative complesse e problematiche» e che «alcuni articoli
introdotti pongono seri problemi di interpretazione, come le procedure di ingresso che si riferiscono ai minori non accompagnati» 9.
Pochi mesi dopo l’approvazione del CEAS, 77 Organizzazioni non
governative europee hanno presentato un rapporto dal significativo
titolo Ancora non ci siamo. Il punto di vista delle ONG sulle sfide per
un sistema comune di asilo equo ed efficace (AIDA 2013), in cui si evi9
UNHCR, Comunicato stampa del 14 giugno 2013.
La protezione interrotta
235
risorse
denziano le grandi differenze riscontrate in 14 diversi Stati rispetto
alle norme procedurali, alla tutela dei diritti, ai servizi d’integrazione
e all’uso della detenzione amministrativa dei richiedenti asilo. Inoltre, a fronte di norme sempre più complesse, è sempre meno garantita
l’assistenza legale gratuita durante la procedura.
In questo momento non ci si possono aspettare significative modifiche normative a livello europeo. L’auspicio del JRS è che in questa fase di implementazione e trasposizione delle norme comunitarie
nei sistemi giuridici nazionali gli Stati non perdano di vista i valori
fondanti dell’UE, enunciati nell’art. 2 della sua Costituzione: il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani. I Governi non
si limitino dunque a garantire gli standard minimi previsti, ma
si pongano l’obiettivo di costruire un sistema d’asilo con standard alti, in consultazione con le ONG e gli altri enti di tutela,
nell’ottica di garantire i diritti e la protezione effettiva di persone
già gravemente provate da guerre e persecuzioni.
Normativa europea
Direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo
e del Consiglio del 26 giugno 2013 recante
norme relative all’accoglienza dei richiedenti
protezione internazionale.
Regolamento (UE) 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 che
stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per
l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o da un
apolide (rifusione).
Riferimenti bibliografici
AIDA (2013), Not there Yet: An NGO Perspective
on Challenges to a Fair and Effective Common
European Asylum System, AIDA. Asylum Information Database. Annual Report 2012-2013,
<www.asylumineurope.org/files/shadow-reports/not_there_yet_02102013.pdf>.
ASGI (2009), Il diritto alla protezione. La protezione internazionale in Italia quale futuro.
Studio sullo stato del sistema di asilo in Italia e proposte per una sua evoluzione, Fondo
Europeo per i Rifugiati (FER) nazionale, Programma Annuale 2009, <www.asgi.it/public/
parser_download/save/il.diritto.alla.protezione.zip>.
236
Chiara Peri
Di Rado D. (ed.) (2010), Rapporto Finale del Progetto “DUBLINERS – Ricerca e scambio di esperienza e prassi sull’applicazione del Regolamento
Dublino II”, aprile, <www.cir-onlus.org/phocadownload/Pubblicazioni_CIR/Progetto%20Dubliners%20Rapporto%20Finale.pdf>.
DIASP (2013), Jesuit Refugee Service Europe,
Protection Interrupted. The Dublin’s Regulation Impact on Asylum Seekers’ protection (the
DIASP Project). National report: Italy, giugno,
<www.jrseurope.org/DIASP%20Publications/
IT_DIASP.pdf >.
OSAR (2013), Italie: conditions d’accueil. Situation actuelle des requérantes d’asile et des
bénéficiaires d’une protection, en particulier
celles et ceux de retour en Italie dans le cadre de Dublin, a cura dell’Organisation Suisse
d’Aide aux Réfugiés (OSAR), ottobre, <www.
osar.ch>.
Peri C. (2012), «Difficili mediazioni. Una ricercaazione sugli insediamenti spontanei di rifugiati», in Aggiornamenti Sociali, 11, 784-791.
UNHCR (2008), Posizione dell’UNHCR sul respingimento di richiedenti asilo verso la Grecia
in attuazione del “Regolamento Dublino”, 15
aprile 2008, <www.unhcr.it/cms/attach/editor/ITA-Dublino-Grecia.pdf>.
UNHCR (2014), Observations on the Current Situation of Asylum in Bulgaria, 2 January 2014,
<www.refworld.org/docid/52c598354.html>.
scheda / libro
Nadan Petrovic´
Rifugiati, profughi, sfollati
Breve storia del diritto d’asilo in Italia
D
innanzi al fenomeno migratorio di persone costrette a lasciare le loro terre d’origine a causa di guerre, epidemie,
persecuzioni, i Paesi occidentali sono chiamati a fornire una
risposta civile e solidale a un problema di dimensioni ormai
planetarie.
Il volume, nella sua versione aggiornata, offre un’approfondita panoramica storica del diritto d’asilo in Italia, che negli
ultimi decenni ha conosciuto profonde trasformazioni anche
in applicazione di specifici obblighi previsti dall’Unione Europea, con inevitabili ricadute sulle politiche di accoglienza
e integrazione. A partire dalla nostra Costituzione, passando
dalla Convenzione di Ginevra del 1951, si giunge alla Legge
Martelli (1990) e poi alla Bossi-Fini (2002) e a tutte le conseguenze che la normativa europea ha avuto sulla realtà italiana.
La ricostruzione dell’evoluzione giuridica in materia è sempre
accompagnata dalla contestualizzazione storica in cui la disciplina si è formata, con riferimenti a precise sfide provenienti
dai richiedenti asilo, durante l’emergenza albanese, somala e
della ex Iugoslavia per i primi anni ’90, quella kosovara (19982000), fino ai giorni nostri, con i movimenti di persone legati
alle vicende che hanno sconvolto il Nord Africa. Durante tutti questi anni le domande di asilo in Italia sono aumentate,
mettendo a nudo un sistema di ricezione non del tutto efficace e rispondente, perché poco coordinato, in particolare per
quanto concerne le iniziative di integrazione a favore di quanti
ottengono una qualche forma di protezione da parte dello Stato. Basta considerare come alcune norme nel diritto d’asilo si
trovino non in una legge apposita, ma nel cosiddetto “Pacchetto sicurezza” (Legge n. 94 del 15 luglio 2009), fatto che
dimostra la percezione errata del fenomeno a livello politico.
Infatti, «molti titolari di protezione internazionale che escono
dai centri, in assenza di un sistema strutturato di accesso alle
politiche e ai servizi per il lavoro seppur muniti di un permesso
di soggiorno di validità pluriannuale, finiscono attualmente in
situazione di emarginazione sociale che si manifestano significativamente nelle principali aree urbane» (p. 133).
Il fatto che l’A. abbia non solo studiato, ma anche vissuto in
prima persona ciò di cui scrive, dà un valore aggiunto al libro;
a tale proposito si legge nella postfazione: «con le sue esperienze e riflessioni su quello che ha visto e vissuto, questo studioso proveniente dai Balcani, nativo di Dubrovnik, cresciuto
nell’ambiente multiculturale e multireligioso di Sarajevo anteguerra, diventato cittadino italiano e europeo, ci regala un’opera rara, utile agli studiosi della materia nonché a tutti coloro
che amministrano le politiche e le prassi dell’asilo» (p. 138).
Ida Offreducci
FrancoAngeli
Milano 2013 (2011)
pp. 146, € 18
237
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James W. Douglass
Teologo e scrittore americano, autore di JFK and the Unspeakable.
Why He Died and Why It Matters, Orbis Books, New York 2008
cristiani e cittadini
Kennedy, Krusciov
e Giovanni XXIII: storia
di una pace inaspettata
Nel 1962, con la crisi di Cuba, il mondo precipita verso la
guerra nucleare. La catastrofe viene evitata solo grazie alla
decisione dei due leader, John F. Kennedy e Nikita Krusciov, di
fidarsi l’uno dell’altro contro il parere dei rispettivi consiglieri.
Da dove trassero ispirazione per un atto così coraggioso? Quale
influenza ebbero Giovanni XXIII e il suo messaggio di pace e di
rinnovamento? E quali legami possiamo rintracciare tra quella
decisione di pace e il successivo assassinio di Kennedy? In
momenti cruciali una singola persona può fare la differenza, a
condizione che se ne sia costruita la possibilità, ma non senza
accettare di farsi carico delle conseguenze delle proprie scelte.
I
l giorno in cui il presidente John Fitzgerald Kennedy fu assassinato, un seminarista del Verbo Divino salì il colle dove si trovava l’appartamento della nostra famiglia a Roma per portare a
mia moglie Sally e a me la terribile notizia. In cerca di una parola
di sapienza e conforto, scrissi a Dorothy Day, che era stata da noi
la primavera precedente in occasione di un pellegrinaggio a Roma
per ringraziare papa Giovanni XXIII per la Pacem in terris (1963),
un’enciclica epocale sulla pace globale e sui diritti civili.
Dorothy mi rispose suggerendomi di puntare la mia attenzione
sulla vita di Kennedy, raccomandandomi di leggere una sua biografia. Disse che, in un contesto di violenza inarrestabile, avrebbe
rivolto le sue preghiere a John F. Kennedy (sottolineando quella “a”)
Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (239-246)
239
e mi incoraggiò a riflettere sulle parole
di san Paolo: «noi sappiamo che tutto
concorre al bene di coloro che amano
Dio» (Romani 8,28).
Nel novembre del 1963 ero a Roma,
impegnato a cercare di convincere i
Padri conciliari a condannare la guerra totale e a sostenere l’obiezione di
coscienza. Traendo ispirazione dall’appello di papa Giovanni per la fiducia
reciproca tra i rivali della guerra fredda, avevo scritto sul quotidiano The Catholic Worker che Kennedy avrebbe dovuto risolvere la crisi dei missili cubani grazie a uno
scambio (impensabile dal punto di vista politico) di basi missilistiche con il premier sovietico Nikita Krusciov.
All’epoca non avevo alcun sospetto che Kennedy in segreto
avesse davvero compiuto questo grande passo verso Krusciov, nello
stesso momento in cui si impegnava pubblicamente a non invadere
Cuba, fatto che fece infuriare il suo Stato maggiore. A causa della
svolta per la pace con i nemici comunisti, annunciata il 10 giugno 1963 nel discorso all’American University, Kennedy mise a
repentaglio la propria vita, come poco tempo prima aveva inconsapevolmente profetizzato il monaco trappista e scrittore americano
Thomas Merton (1915-1968). Nel gennaio del 1962 Merton scriveva
a un amico di nutrire «scarsa fiducia» nelle capacità di Kennedy di
sfuggire alla crisi nucleare, poiché non possedeva le necessarie doti
di profondità, umanità, altruismo e pietà. «Forse Kennedy ce la farà
in futuro, per miracolo – scriveva Merton –, ma questo genere di
persone diventa presto il bersaglio di un omicidio politico».
Dorothy Day (New York, 1897-1980) fu
un’attivista anarchica americana e una
giornalista. Si spese per la difesa dei più
poveri e, dopo essersi convertita al cattolicesimo nel 1927, fondò nel 1933 il Catholic Worker Movement, che sosteneva il
valore della nonviolenza e l’ospitalità per i
più miseri. Fondò una casa di accoglienza
a New York, e da qui il suo movimento si
diffuse in tutti gli USA, in Canada e in Gran
Bretagna. Nel 2000 è stata dichiarata Serva di Dio da Giovanni Paolo II.
L’opposizione interna
Trent’anni più tardi mi sono deciso finalmente a prendere sul
serio le parole di Dorothy Day e mi sono dedicato a studiare nei
dettagli la vita e la morte di Kennedy. Per dodici anni ho esaminato i documenti della sicurezza nazionale riguardanti i momenti di crisi da
Il President John F. Kennedy Assassinalui attraversati nel corso della guerra
tion Records Collection Act, entrato in vigore il 26 ottobre del 1992, segna la crefredda, specialmente quelli resi pubbliazione dell’Assassination Record Review
ci dal Congresso attraverso il President
Board, un organismo che si è occupato
John F. Kennedy Assassination Records
di inventariare e rendere pubblico il maCollection Act del 1992. Rintracciai e
teriale a disposizione delle varie agenzie
intervistai alcuni testimoni del suo asamericane riguardo l’assassinio del presisassinio e cominciai a intuire la luce di
dente Kennedy.
240
James W. Douglass
cristiani e cittadini
redenzione degli eventi di Dallas che Dorothy aveva percepito nel
novembre del 1963 grazie al suo amore per Dio.
Cercare nelle profondità di un male sistemico la luce che Merton
definiva «the Unspeakable» 1 (l’indicibile, l’inesplicabile), descritta
nella sua opera Raids on the Unspeakable (1966), ci porta a una sorta
di racconto evangelico. Kennedy stava imparando a vedere attraverso gli occhi dei suoi avversari comunisti. Con grande rischio
personale, si stava muovendo dalla guerra verso la costruzione
della pace. Rimasi profondamente sorpreso dalla storia pervasa di
grazia di un Presidente degli Stati Uniti che sceglie la pace a rischio
della sua stessa vita.
Il mistero che avvolge l’assassinio di Kennedy si estende fino
a una riunione del 19 ottobre 1962, durante la crisi dei missili di
Cuba, in cui il Presidente si oppose alle pressioni dei suoi capi di
Stato maggiore che chiedevano di bombardare e invadere Cuba.
Quando abbandonò la stanza, un registratore nascosto continuò a
funzionare, catturando il disprezzo dei generali verso il Presidente e
la loro determinazione di portare il conflitto fino alla guerra nucleare totale. Volevano vincere la guerra fredda.
Il generale Curtis E. LeMay, capo di Stato maggiore dell’aviazione, mise in atto tale intenzione. In piena crisi cubana, ordinò ai
suoi bombardieri, armati di testate nucleari, di superare il punto di
inversione di rotta verso l’Unione Sovietica e di lanciare un missile
balistico di prova, per provocare la reazione avversaria che, a sua volta, avrebbe scatenato un attacco nucleare totale da parte delle superiori forze statunitensi. Fortunatamente i sovietici non abboccarono.
Il mistero che circonda i fatti di Dallas risale ancora più indietro, alla fallita invasione della Baia dei Porci nell’aprile del 1961
da parte di esuli cubani addestrati dalla CIA (Central Intelligence
Agency, i servizi segreti statunitensi). In seguito Kennedy si rese
conto che la CIA lo aveva ingannato riguardo l’imminente sollevazione popolare cubana contro Fidel Castro e sulla guerriglia che
la brigata degli esuli cubani avrebbe scatenato. Avevano tentato di
costringere il Presidente ad autorizzare l’invasione da parte di forze
d’assalto per salvare la situazione. Kennedy, invece, ebbe il coraggio
di accettare la disfatta. Come egli stesso ebbe modo di raccontare
più tardi agli amici, «Non riuscivano a credere che un Presidente
nuovo come me potesse non farsi prendere dal panico e non cercasse
almeno di salvare la faccia. Bene, non avevano capito nulla di me».
Kennedy era furioso con la CIA per l’incidente. In seguito il New
York Times riportò che Kennedy disse a uno dei più alti funzionari
1
Cfr Merton T. (1966), Raids on the Unspeakable, New Directions Books, New York.
Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII: storia di una pace inaspettata
241
della sua amministrazione di voler «ridurre la CIA in mille pezzi e
gettarli al vento».
Effettivamente, Kennedy aveva licenziato il direttore della CIA
Allen Dulles e i suoi vice, Richard M. Bissell Jr. e il generale Charles
P. Cabell. Probabilmente Allen Dulles era il personaggio più potente
coinvolto nella guerra fredda. Ritornò al potere come membro della Commissione Warren, incaricata di investigare sull’attentato di
Dallas, e nel 1964 la spinse ad adottare la conclusione dell’assassino
isolato.
Costruire una relazione
Durante la crisi dei missili, Kennedy si convertì alla pace. Quando si giunse al punto di rottura del terribile conflitto che le sue
stesse politiche contro Fidel Castro avevano contribuito a fare precipitare, egli cercò una via d’uscita, che i suoi generali giudicarono
assolutamente imperdonabile. Non soltanto respinse le loro pressioni
per attaccare Cuba e l’Unione Sovietica: peggio ancora, si rivolse al
nemico in cerca di aiuto. Lo si poteva considerare un atto di tradimento. Krusciov invece lo vide come un segno di speranza.
Robert F. Kennedy, allora Procuratore generale e responsabile del
Ministero della Giustizia, aveva segretamente incontrato, il 27 ottobre 1962 a Washington, l’ambasciatore sovietico Anatoly Dobrynin,
avvertendolo che il Presidente stava per perdere il controllo dei suoi
generali e aveva bisogno dell’aiuto dei sovietici. Quando Krusciov ricevette l’appello di Kennedy a Mosca, si rivolse al suo ministro degli
esteri, Andrei Gromyko, dicendo: «Dobbiamo far sapere a Kennedy
che vogliamo aiutarlo». Krusciov esitò all’idea di aiutare il nemico,
ma ripeté: «Sì, aiutiamolo. Ora abbiamo una causa comune, salvare
il mondo da coloro che ci stanno spingendo verso la guerra».
Come possiamo riuscire a comprendere quel momento? I due
leader più pesantemente armati di tutta la storia, sull’orlo della
guerra nucleare totale, improvvisamente si diedero la mano per
opporsi a coloro che, da entrambe le parti, li spingevano ad
attaccare. Krusciov ordinò l’immediato ritiro dei suoi missili, in
cambio dell’impegno pubblico di Kennedy a non invadere Cuba e
della promessa segreta di ritirare i missili americani dalla Turchia,
come avrebbe poi effettivamente fatto. I due protagonisti della guerra fredda erano cambiati; ciascuno aveva a questo punto molto più
in comune con l’avversario che con i suoi generali.
Né Kennedy, né Krusciov erano dei santi. Entrambi erano profondamente coinvolti nelle scelte politiche che condussero l’umanità sull’orlo della guerra nucleare. Ma quando incontrarono ciò che
Thomas Merton definiva «il vuoto di Ciò che non è esprimibile»,
242
James W. Douglass
cristiani e cittadini
ciascuno cercò aiuto nell’altro. Così, portarono l’umanità verso la
speranza di un pianeta pacifico.
La genesi della trasformazione di Kennedy e di Krusciov in occasione della crisi dei missili si trova nella loro corrispondenza segreta,
iniziata circa un anno prima. Dopo il loro fallito incontro di Vienna nel giugno del 1961, il 29 settembre dello stesso anno Krusciov
scrisse una lettera epocale al Presidente americano. Per far capire
il nucleo del suo messaggio, il leader comunista fece ricorso a una
analogia tratta dalla Bibbia, paragonando la sua situazione e quella
di Kennedy all’arca di Noè. Così scriveva: «Nell’arca di Noè trovarono riparo e scampo sia i “puri” che gli “impuri”. Ma, a prescindere
da chi si considerava “puro” e da chi invece faceva parte della lista
degli “impuri”, tutti avevano ugualmente a cuore una sola cosa, che
l’arca potesse continuare con successo il suo viaggio. Anche noi non
abbiamo altra alternativa: o viviamo in pace, collaborando affinché
l’arca possa continuare a galleggiare, oppure essa andrà a fondo».
Kennedy rispose il 16 ottobre: «Mi piace molto la similitudine
con l’arca di Noè, dove “puri” e “impuri” sono ugualmente determinati a mantenerla a galla».
Così, attraverso la loro corrispondenza segreta, i due uomini lottarono per raggiungere una migliore conoscenza reciproca e una
maggiore comprensione delle loro diversità. La crisi dei missili cubani un anno più tardi provò che non avevano affatto risolto i loro
conflitti, eppure fu proprio grazie alle lettere segrete che ciascuno
dei due comprese che l’altro era un essere umano degno di rispetto. Sapevano anche di essersi trovati d’accordo già una volta su
una cosa: che il mondo era un’arca. Dovevano tenere l’arca a galla.
E ci riuscirono, proprio nel momento di maggior pericolo.
La mutua ricerca della pace
Dopo che Kennedy e Krusciov si allearono nella crisi dei missili, cominciarono a “cospirare” per mantenere la pace. L’acme fu il
discorso di Kennedy all’American University nel giugno del 1963.
Presentò la sua visione della pace come risposta alle sofferenze patite
dal popolo russo nel corso della Seconda guerra mondiale, riuscendo
così a superare il solco che divideva i due avversari. Krusciov in seguito avrebbe detto al diplomatico americano W. Averell Harriman
che «si era trattato del più grande discorso tenuto da un Presidente
americano dai tempi di Roosevelt».
L’annuncio, dato da Kennedy in quella occasione, della cessazione unilaterale degli esperimenti nucleari nell’atmosfera e la
speranza espressa in vista dei negoziati per un trattato a Mosca
aprirono la porta. Nel giro di sei settimane, Kennedy e Krusciov
Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII: storia di una pace inaspettata
243
firmarono il Partial Nuclear Test Ban
Treaty (Trattato sulla messa al bando
parziale dei test nucleari). Era un segno
che confermava la loro volontà comune
di porre fine alla guerra fredda.
Un altro segno fu il consiglio di
Krusciov a Fidel Castro di cominciare a
collaborare con Kennedy. Castro si era
infuriato perché Krusciov aveva ritirato
i missili all’ultimo momento senza consultare l’alleato cubano, in
cambio solo della promessa di un capitalista. Il 31 gennaio 1963
Krusciov scrisse a Castro per cercare la riconciliazione e la pace con
l’alleato cubano, una lettera che corrispondeva a quella dell’arca di
Noè inviata a Kennedy. Castro accettò l’invito a recarsi in Unione
Sovietica.
La visita di Castro a Krusciov si svolse nei mesi di maggio e
giugno 1963. I due leader viaggiarono insieme visitando l’Unione
Sovietica. Castro riferì in seguito che Krusciov gli impartì un vero
e proprio corso di formazione sulla necessità di dare fiducia a Kennedy. Giorno dopo giorno, Krusciov leggeva a voce alta a Castro
la corrispondenza con Kennedy, ponendo l’accento sulla speranza
di pace che ora potevano nutrire grazie alla collaborazione con il
Presidente degli Stati Uniti.
Krusciov stava mettendo in pratica quanto papa Giovanni – che
il leader comunista aveva imparato ad amare – aveva raccomandato
nella Pacem in terris, quando scriveva «al criterio della pace che si
regge sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che
la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia»
(n. 61). Il Pontefice aveva inviato a Krusciov una medaglia papale e
una copia in russo dell’enciclica sulla pace, precedente la pubblicazione ufficiale. Krusciov ne fu commosso.
Nel settembre del 1963 Kennedy fece un altro enorme passo
verso la fiducia reciproca, intesa come nuova base per la pace.
Iniziò un segreto dialogo con Fidel Castro, attraverso il diplomatico americano William Attwood, in servizio presso le Nazioni
Unite, allo scopo di normalizzare le relazioni tra Stati Uniti e Cuba.
Castro reagì con entusiasmo e iniziò a stringere accordi segreti per
incontrare Attwood. Kennedy diede una forte spinta a tutto il processo ricorrendo a un canale ufficioso e riservato per comunicare
con Castro. Il suo rappresentante non ufficiale, il corrispondente
francese Jean Daniel, era impegnato nel secondo incontro con Castro il pomeriggio del 22 novembre 1963, quando li raggiunse la
notizia della morte del Presidente. Castro si alzò in piedi, guardò
Il Partial Nuclear Test Ban Treaty, firmato
a Mosca il 5 agosto 1963, era un trattato
internazionale sulla messa al bando parziale degli esperimenti nucleari, nato dalla
necessità di porre un argine al prolificare
dei test nucleari che dal 1945 al 1960 si
susseguirono indiscriminatamente in numerose zone del mondo, e che si concretizzò
all’indomani della crisi dei missili di Cuba.
244
James W. Douglass
cristiani e cittadini
Daniel e disse: «Tutto è cambiato. Tutto cambierà». Anche il dialogo
tra Stati Uniti e Cuba morì a Dallas.
Poco prima della morte, Kennedy si era mosso anche per
porre fine all’impegno militare degli Stati Uniti in Viet Nam.
Il National Security Action Memorandum No. 263, pubblicato l’11
ottobre 1963, afferma che in un incontro tenuto sei giorni prima
Kennedy aveva approvato un programma di addestramento dei vietnamiti, in modo da consentire «il ritiro di mille soldati statunitensi
entro la fine del 1963» e «di tutto il contingente del personale militare statunitense entro la fine del 1965». Il successore di Kennedy, il
presidente Lyndon B. Johnson, ignorò completamente tali progetti.
A Dallas la guerra in Viet Nam tornò a infiammarsi.
Appuntamento con la morte
La coraggiosa svolta di Kennedy dalla guerra globale alla strategia di pace spiega le ragioni della sua uccisione. Alla luce dei
dogmi della guerra fredda che imprigionavano la sua amministrazione e della sua svolta in favore della pace, l’assassinio di
Kennedy diventava una conseguenza logica, naturale. Fu chiaramente un atto politico, che tuttavia ci consegna la speranza della
trasformazione.
Speranza? Come possiamo trovare ragioni di speranza nell’assassinio di un Presidente che stava volgendo la sua azione dalla guerra
alla pace?
Se nella nostra storia affrontiamo l’“Inesprimibile”, possiamo
intravedere in mezzo alle tenebre una luce di redenzione. Spinto
insistentemente a dichiarare guerra, Kennedy ordinò al suo Governo, dopo la crisi dei missili, di perseguire una politica di «disarmo
completo e generale» (cfr il National Security Action Memorandum
No. 263 del 6 maggio 1963). La coraggiosa trasformazione del
Presidente e la sua disponibilità al sacrificio della propria vita per
amore della pace vanificarono la determinazione della CIA e dello
Stato maggiore a vincere la guerra fredda nel solo modo che conoscevano. Quella conversione e quel sacrificio hanno salvato tutti
noi dalla distruzione e dal deserto nucleare. Abbiamo ancora una
possibilità. Ma siamo disposti a perseguire la pace, accettandone
il costo?
A causa del quasi costante stato di malattia in cui era vissuto,
Kennedy aveva sentito dentro di sé per anni la voce della morte.
La sua poesia preferita era I Have a Rendezvous With Death (Ho un
appuntamento con la morte) di Alan Seeger. Jacqueline Kennedy insegnò la poesia alla figlia Caroline, che allora aveva cinque anni. In
una splendida giornata di ottobre del 1963, nel corso di un incontro
Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII: storia di una pace inaspettata
245
con i consiglieri per la sicurezza nazionale nel Rose Garden, Caroline attirò l’attenzione del padre e, guardandolo negli occhi, gli recitò
la poesia, che termina così:
«Ma io ho un appuntamento con la Morte
A mezzanotte in qualche città in fiamme
Quando la primavera anche quest’anno si dirigerà a nord.
Ma io sono fedele alla parola data
E non mancherò a quell’appuntamento».
Sul volo notturno di ritorno da Vienna dopo l’incontro con Krusciov, due anni prima, Kennedy aveva scritto su un foglietto di carta
la sua preferita tra le citazioni di Abramo Lincoln:
«So che c’è Dio – e vedo approssimarsi la tempesta;
Se Egli ha un posto per me, credo di essere pronto».
La tempesta che temeva era la guerra nucleare. Se Dio aveva un
posto per lui – l’appuntamento con la morte – che poteva allontanare la tempesta dall’umanità, ebbene, era sicuro di essere pronto.
A quell’appuntamento non sarebbe mancato.
Titolo originale «A President for Peace. The deadly consequences of J.F.K.’s attempts at reconciliation»,
pubblicato in America, 18 novembre 2013, 13-16. Traduzione di Elvira Fugazza.
246
James W. Douglass
© sonia frangi
immagini
Sonia Frangi
Finestre 2014: Parabole
Un palazzo di Berlino. Le antenne paraboliche fioriscono sulla facciata,
sbocciando da ogni balcone. Rompe la simmetria definita solo il dettaglio di qualche antenna personalizzata: qui un bambino, là delle mani
aperte, altrove un santone indiano. Finestre che parlano con il mondo,
mettendo in comunicazione chi le abita con chi sta fuori.
Si raffigura in questo scatto il problema oggi sempre più diffuso del
cercare di contrastare l’esperienza dello sradicamento dai propri luoghi,
dagli “spazi” del passato, luoghi di identità come il paese e la casa. Le
conquiste della tecnica hanno rivoluzionato la convivenza umana e reso
possibile un modo di comunicare, di rimanere in contatto, garantendo il
diritto di essere informati superando le barriere dello spazio e del tempo.
L’informazione diviene perciò ricchezza, potere e anche forma alternativa di socializzazione del modo di vivere degli uomini.
248
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bibbia aperta
Elementi di riflessione sociale
a partire da testi biblici
bibbia aperta
Assumersi
la responsabilità
di Stefano Bittasi SJ
Redazione di Aggiornamenti Sociali
A
ssumersi le proprie responsabilità è
una delle condizioni necessarie per
una ricomposizione delle relazioni tra gli
individui (ad esempio all’interno della
coppia) e nella società (tra gruppi sociali
protagonisti di un conflitto, o tra Paesi)
che conduca a un nuovo equilibrio giusto
e, quindi, a una pace vera e duratura. La
Bibbia illumina con una luce particolarmente stimolante le dinamiche del cammino di ricomposizione della relazione tra
colpevole e vittima e tra reo e comunità;
anzi, il racconto di una relazione ferita da
una colpa (da parte dell’umanità) e continuamente restaurata (da parte di Dio),
come appare bene nelle sue prime pagine
(cfr Genesi 3), è uno dei suoi assi portanti.
La relazione tra Dio e l’umanità da lui creata si sviluppa in tutta la vicenda biblica,
fino alla sua conclusione in Gesù Cristo
che ricostituisce la possibilità di “giuste
relazioni” e, quindi, di una vera giustizia,
una dinamica che ha ripercussioni enormi
sulle relazioni tra gli stessi uomini.
Tale lunga storia impedisce di “risolvere” la dialettica della colpevolezza e del
ristabilimento di una giustizia relazionale in modo semplicistico, facendo imme250
Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (250-253)
diatamente riferimento alla categoria del
perdono. In tal modo, infatti, si finisce
per caricare sulla vittima tutto il peso
della ricomposizione della relazione. Non
c’è dubbio che la tematica del perdono
e delle sue condizioni sia molto ricca e
complessa, ma lo è altrettanto una lettura
dei testi biblici riguardanti il cammino
proposto al colpevole, di cui forniremo
qui alcune indicazioni e suggestioni, necessariamente limitate vista l’ampiezza
del tema. Può essere di aiuto partire precisando da subito alcuni termini.
È stato giustamente sottolineato come
«nella nostra cultura il concetto di responsabilità venga associato a quello di colpa e
come i due siano usati quasi come sinonimi. La realtà non solo è diversa, ma addirittura opposta: una persona è tanto più
in grado di assumersi delle responsabilità
quanto meno ragiona in termini di colpa. Una persona in preda ai sensi di colpa
rimane paralizzata e non compie proprio
alcuna azione responsabile; parimenti chi
dà la colpa agli altri si vede come vittima
e quindi crede che le azioni responsabili dovrebbe farle l’altro per rimediare ai
suoi errori. Insomma colpa e responsa-
bibbia aperta
bilità occupano uno stesso spazio all’interno dell’individuo e l’una può crescere
solo nella misura in cui l’altra si riduce»
(Baiocchi P., «Responsabilità e sensi di
colpa», <www.istitutogestalt.net/articoli/
Responsabilità_e_sensi_di_colpa.aspx>).
Non è colpa mia
giudizio, di una punizione. E quindi si
corre a nascondersi.
Ma il testo prosegue impietoso. Se la
prima reazione è il senso di colpa, la seconda è il rifiuto dell’assunzione delle
proprie responsabilità. Alle domande di
Dio, infatti, Adamo risponde accusando
la donna ed Eva accusando il serpente:
continuano a cercare (inutilmente) di nascondersi, non più dietro a un cespuglio,
ma dietro la sagoma di qualcun altro su
cui gettare la colpa. Appare con evidenza la sterilità del senso di colpa: anziché
assumersi la responsabilità della propria
azione, Adamo ed Eva continuano a cercare di occultarla, a se stessi prima che a
chiunque altro. Manca del tutto una rilettura oggettiva dell’accaduto, tanto che è
Dio a doversene incaricare, esprimendola
in forma interrogativa (v. 11). Ma questo è
un passaggio indispensabile del cammino
di assunzione della responsabilità verso un
possibile pentimento.
La prima tappa è dunque un’azione di
parola: “confessare” significa ammettere il
proprio coinvolgimento nell’azione negativa. Il contenuto specifico della confessione
è l’affermazione di chi ne deve essere considerato responsabile. Non è quindi qualcuno che dall’esterno giudica la colpevolezza
e sancisce una pena. La confessione implica
il riconoscimento consapevole delle azioni
Le primissime pagine della Bibbia
contengono una dimostrazione per certi
versi esemplare di questa “concorrenza”
fra colpa e responsabilità, per cui la prima
“mangia” lo spazio alla seconda, facendoci vedere tra l’altro come questo rappresenti non solo una patologia della nostra
epoca, ma un dato antropologico di base.
Ci riferiamo al famosissimo racconto del
“peccato originale” in Genesi 3,7-13.
Adamo ed Eva avevano accolto l’invito del serpente a mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male
spinti dalla bramosia di rendersi simili a
Dio (cfr 3,5). In realtà sembra che l’unica
vera nuova acquisizione sia la consapevolezza della propria nudità, senza riuscire
a pensare niente di meglio che utilizzare
le foglie dell’albero più urticante a disposizione per farsene cinture! L’altra conseguenza immediata è la paura, chiaro segno di un forte senso di colpa per l’azione
commessa. Il testo ebraico propone un interessante gioco di parole. Letteralmente
si legge: e udirono la voce
Genesi 3,7-13
del Signore Dio che passeg7
Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di esgiava nel giardino (v. 8); e
in seguito (v. 10): ho udito sere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
la tua voce nel giardino e ho 8 Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla
dal
avuto paura. La “voce che brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero
9 Ma il SignoSignore
Dio,
in
mezzo
agli
alberi
del
giardino. passeggia” come fonte del
10
timore è chiaro segnale del re Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose:
«Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché
vissuto interiore dell’uo- sono nudo, e mi sono nascosto». 11 Riprese: «Chi ti ha fatto
mo (e della donna che si sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti
nasconde con lui). Basta avevo comandato di non mangiare?». 12 Rispose l’uomo: «La
sentire “la voce” perché donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e
scattino i meccanismi di io ne ho mangiato». 13 Il Signore Dio disse alla donna: «Che
vergogna, di senso di col- hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata
pa che diventa paura di un e io ho mangiato».
Assumersi la responsabilità
251
compiute e, dunque, in primis smettere di
darne la colpa a qualcun altro. Riconoscere
e dire ciò che si è fatto – il passaggio alla
parola è fondamentale, verso se stessi e verso gli altri – è operazione difficile, che può
richiedere tempo e aiuto, se non un vero e
proprio percorso. Vari brani biblici esprimono la necessità di questo primo passo:
Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho
coperto la mia colpa. Ho detto: «Confesserò al
Signore le mie iniquità» e tu hai tolto la mia
colpa e il mio peccato (Salmo 32,5); Sì, le mie
iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta
sempre dinanzi (Salmo 51,5). È interessante
notare come questi testi facciano ricorso al
vocabolario della “conoscenza”: occorre la
capacità interiore di “ri-conoscere” le proprie azioni.
L’altro è nel giusto
Il secondo aspetto del riconoscimento
della propria responsabilità è ben definito da Pietro Bovati: «Il contenuto della
confessione fa riferimento anche all’altro
contendente, dichiarandolo (almeno implicitamente) portatore di diritto nella sua
parola e nella sua azione giuridica» (Ristabilire la giustizia, PIB Press, Roma 1986,
80. Cfr anche, utilmente, il suo «Giudicare», in Aggiornamenti Sociali, 2 [2011] 153156). L’assunzione della propria responsabilità ha dunque un profondo carattere
relazionale e attribuisce il carattere di innocenza alla vittima – portatrice di tutto
il diritto – affidandosi a lei (direttamente
o indirettamente attraverso la società o la
comunità) per poter ristabilire la giustizia.
Risulta interessante a riguardo la storia
di Giuda e Tamar in Genesi 38. Non c’è
qui lo spazio per un’analisi approfondita
della vicenda che ruota attorno al diritto della nuora di Giuda, Tamar, a essere
data in moglie al fratello del marito dopo
la morte di questo, per poter avere una
discendenza. Giuda, invece di adempiere a quest’obbligo nei suoi confronti, la
rimanda alla casa del proprio padre. Ta252
Stefano Bittasi SJ
mar si traveste allora da prostituta e si
unisce a Giuda stesso, che la vede lungo
la strada senza riconoscerla. Tamar resta
incinta e quando Giuda lo viene a sapere
(cfr testo nel riquadro) crede che la donna
abbia “tradito” il legame con la famiglia
e la condanna a morte. Quando Tamar
fornisce le prove di quanto è accaduto,
Giuda, invece di trovare scuse o accusarla
di raggiro – reazione che non sarebbe poi
stata così strana –, ne afferma la “giustizia”, riconoscendone il diritto dinanzi alla
propria colpa: lei è più giusta di me!
Lo stesso processo di confessione della
propria colpa e riconoscimento del diritto
della “vittima” è al cuore sia della risoluzione della relazione conflittuale tra Saul
e Davide (Tu sei più giusto di me, perché
mi hai reso il bene, mentre io ti ho reso
il male. Oggi mi hai dimostrato che agisci
bene con me e che il Signore mi aveva abbandonato nelle tue mani e tu non mi hai
ucciso: 1Samuele 24,20-21), sia del riconoscimento del proprio peccato da parte
di Davide contro Uria e Betsabea in 2Samuele 12 (per un commento del quale si
veda il nostro «Crisi» in Aggiornamenti
Sociali, 3 [2011] 231-234).
Responsabilità e relazioni
La Bibbia insiste molto sulla possibilità che il riconoscimento della propria
colpa conduca alla verità esistenziale su
Genesi 38,24-26
24
Circa tre mesi dopo, fu portata a Giuda
questa notizia: «Tamar, tua nuora, si è prostituita e anzi è incinta a causa delle sue
prostituzioni». Giuda disse: «Conducetela
fuori e sia bruciata!». 25 Mentre veniva
condotta fuori, ella mandò a dire al suocero: «Io sono incinta dell’uomo a cui appartengono questi oggetti». E aggiunse: «Per
favore, verifica di chi siano questo sigillo,
questi cordoni e questo bastone». 26 Giuda
li riconobbe e disse: «Lei è più giusta di
me: infatti, io non l’ho data a mio figlio
Sela». E non ebbe più rapporti con lei.
bibbia aperta
cui può fondarsi la ricomposizione delle
relazioni. Ecco perché l’espressione “fare
giustizia” non ha nel linguaggio biblico
un significato tendenzialmente giustizialista (quale risuona alle nostre orecchie
accompagnato da tutte le immagini, fantasie o disposizioni di legge che puntano
a eliminare il colpevole, sul patibolo o
rinchiudendolo in cella per poi gettare la
chiave). La giustizia, nella Scrittura, non
è mai un dato oggettivo, ma è sempre un
processo relazionale. Con un’affermazione
che richiederebbe ben più corposi approfondimenti per non suonare eccessiva, ci
sentiamo di dire con una certa decisione
che la Bibbia non è particolarmente interessata a un equilibrio puramente formale
tra i piatti della bilancia o a una uguaglianza altrettanto formale tra le parti, ma
alla verità capace di ricomporre relazioni
spezzate. Non si tratta allora di “fare giustizia”, si tratta di “fare verità”, intesa qui
come l’ambito in cui si possano sviluppare
o ricomporre le relazioni.
È da qui che si dischiude la possibilità della dinamica della riparazione e del
perdono. Ne ritroviamo un esempio di
straordinaria potenza nel dialogo tra Gesù e uno dei due malfattori crocifissi con
lui narrato dall’evangelista Luca.
Qui sono messe a confronto due logiche: da una parte c’è una giustizia di tipo
retributivo, per la quale ciascuno deve ricevere il giusto: questa è rispettata nel caso
dei due malfattori, ma non per Gesù, con-
Luca 23,39-43
39
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso
e anche noi!». 40 Ma l’altro lo rimproverava:
«Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato
alla stessa pena? 41 Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni,
egli invece non ha fatto nulla di male». 42
E aggiunse: «Gesù, ricordati di me quando
entrerai nel tuo regno». 43 Gli rispose: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».
dannato senza aver fatto niente di male.
Dall’altra c’è il “fare giustizia” nel senso di
“rendere giusto” all’interno di una relazione di comunione, ricostituita o, in questo
caso, costituita per la prima volta, dopo il
riconoscimento della propria colpa. È quello che accade al cosiddetto “buon ladrone”,
a cui è garantita quella che è, a tutti gli
effetti, la ricompensa del giusto. Da “non
giusto” viene “fatto giusto”. Quello che avviene sulla Croce è il crearsi di una relazione. Quel “sarai con me”, in quella comunione, in quella capacità di “essere-con”,
non scavalca la verità né è un semplice
colpo di spugna su vicende passate. C’è un
profondo senso di giustizia in gioco, che è
alla base sia dell’assunzione delle proprie
responsabilità, sia del riconoscimento della giustizia dell’altro, e proprio questo apre
la possibilità di un rinnovamento radicale
della relazione. In tutta questa dinamica,
non è centrale la presunzione di una ristrutturazione “morale” della vita, che in
modo molto evidente è del tutto preclusa al
malfattore crocifisso. Il punto fondamentale sta nella capacità di riconoscere la verità di ciò che è avvenuto: solo questo apre
alla promessa di un futuro diverso, in cui
si inserisce anche l’impegno di non tornare
a compiere lo stesso male.
Ma ciò che è salvifico, nel senso che
apre “miracolosamente” a un futuro che
non possiamo intravedere da soli, è proprio la capacità di far emergere la verità e
affidarla alla parola (cioè a un processo
relazionale). Questo è l’antidoto al veleno
che la colpa ha immesso nelle relazioni e
nel tessuto sociale (dolore, paura, sfiducia,
ecc.) e da cui rischiano di rimanere intossicati sia il colpevole (se occulta la propria
responsabilità), sia la vittima (se si chiude
nel risentimento): l’uno e l’altro rischiano di restare ancorati al male (compiuto
e subito), bloccando così la propria vita.
Soltanto un processo di assunzione di responsabilità in una dinamica relazionale
può rendere reale il risanamento.
Assumersi la responsabilità
253
tools
Paul Ricœur
e l’«uomo capace»
di Secondo Bongiovanni SJ
Studioso di Filosofia
I
n nome di un “cogito militante”, Paul
Ricœur (1913-2005) ha rifiutato fin
dalle sue prime opere un’idea di filosofia
sconnessa dai dibattiti scientifici e dai
problemi della città e del funzionamento
delle istituzioni civili. Tra i massimi pensatori della seconda metà del ’900, la sua
produzione filosofica conta più di trenta
libri e oltre mille tra articoli e interventi
che testimoniano una enorme vastità di
interessi. Ancora pochi anni prima della morte, in un dialogo con Jean-Pierre
Changeux (Ricœur e Changeux 1999) si
confrontava con le neuroscienze discutendone le implicazioni etiche.
Nella sua autobiografia intellettuale
(Ricœur 1998), Ricœur riconosce le proprie radici culturali in tre grandi correnti
della filosofia del ’900: la tradizione riflessiva francese, la fenomenologia e l’ermeneutica. Dalla prima, il cui maestro è Jean Nabert (1881-1960), assume il compito
della autoriflessione del soggetto umano,
recuperando la capacità di agire, di pensare e di sentire della mente che ritorna
su se stessa. La fenomenologia lo ha determinato nell’ambizione di «andare alle
cose stesse», oltre le costruzioni cultura-
254
Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (245-258)
li, seguendo le orme di Edmund Husserl
(1859-1938), che Ricœur ha fatto conoscere in Francia traducendo le sue Idee per
una fenomenologia pura e per una filosofia
fenomenologica. Infine, dall’ermeneutica
(Wilhelm Dilthey [1833-1911], Martin
Heidegger [1889-1976] e Hans-Georg Gadamer [1900-2002]) riprende il carattere
interpretativo dell’esperienza umana e il
rifiuto di una filosofia priva di presupposti. A questi riferimenti si deve aggiungere
l’interesse per l’esistenzialismo (Gabriel
Marcel [1889-1973], Emmanuel Mounier
[1905-1950], Karl Jaspers [1883-1969]).
Paul Ricœur, dopo un lungo periodo di prigionia durante la seconda guerra mondiale,
inizia a insegnare a Strasburgo nel 1948.
In seguito il percorso accademico lo vedrà
docente a Parigi, Nanterre e Lovanio. Negli anni ’70 viene invitato negli USA, dove
insegna tra l’altro a Chicago. Ha goduto
progressivamente di un prestigio internazionale molto vasto, attestato dai numerosi
riconoscimenti ricevuti, tra i quali il Premio
Hegel di Stoccarda nel 1985 e il Balzan
per la filosofia nel 1999. Nel 1995 The
Library of Living Philosophers ne ha consacrato la fama a livello internazionale.
tools
Nel suo percorso di ricerca, Ricœur dell’esperienza, l’agire e il patire, l’intersi è impegnato nell’ampliamento del- agire e il com-patire. In Sé come un altro
la filosofia della riflessione in direzio- del 1990 (tr. it. Ricœur 1993) Ricœur
ne di un’ermeneutica filosofica di volta approderà ad una sorta di agnosticismo
in volta in dialogo con la psicanalisi, lo affidato a un’altra parola rispetto a quelstrutturalismo, la fenomenologia della la del discorso filosofico sull’assoluto,
religione e l’esegesi, la linguistica, ecc. sulla trascendenza o sul divino. Già nel
Rimane, inoltre, uno dei rari autori di 1975 La métaphore vive (cfr la traduziotradizione continentale ad avere stabili- ne italiana, Ricœur 2010) aveva aperto
to un confronto rigoroso con la filosofia in questa direzione a partire dalle analisi
del linguaggio e analitica (John L. Au- sul discorso poetico.
stin [1911-1960], John R. Searle, Herbert
P. Grice [1913-1988], Charles S. Peirce La “via lunga”
[1839-1914], ecc.). Pur rinunciando alla della fenomenologia ermeneutica
costruzione di un sistema, Ricœur sviIl paradigma forse più caratterizzanluppa un percorso coerente sintetizzabile te della sua fenomenologia ermeneutica
in alcuni grandi momenti: la filosofia si individua nel noto passaggio dalla
della volontà (1950-1960); l’elaborazione “via breve” dell’ontologia ermeneutica
di un’ermeneutica filosofica concentrata heideggeriana alla “via lunga” di una
sul conflitto delle interpretazioni (1960- critica ricostruttiva del senso dell’espe1975); gli studi sulla metafora e l’intri- rienza, cercando di superare la prospetgo storico-narrativo (1975-1983); infine tiva distruttiva dei “maestri del sospet(1983-2005), la ricerca di un’ontologia to” (Marx, Freud, Nietzsche). Questo
del soggetto che si svolge anche attraverso percorso si snoda attraverso le scienze
le analisi sulla memoria, l’oblio, il ricono- umane e si accosta ai livelli semantici,
riflessivi ed esistenziali dei segni e dei
scimento, la giustizia.
La rinuncia alla costruzione di un si- conflitti delle interpretazioni rivali per
stema filosofico inerisce al senso stesso ancorarsi al mondo della vita (in tedesco
dell’impegno e della responsabilità del pensiero. Nel vocabolario tecnico della filosofia con fenomenologia
Nel progressivo ampliar- si intende generalmente la scienza dei fenomeni. Dopo la
si delle tematiche e degli fenomenologia dello spirito hegeliana, nel primo ’900 la feorizzonti, Ricœur si è pro- nomenologia trova un nuovo avvio nelle analisi di E. Husserl,
posto di affrontare «pro- che la comprende come metodo per tornare alle cose stesse
blemi particolari, quindi (fenomeni). L’esplicito intento è volto a liberare la filosofia
discontinui. Mai le grandi dai presupposti metafisici per costituirla come scienza rigodomande» (Ricœur 1997, rosa attraverso lo studio e la descrizione dei fenomeni, dei
122). Una tale ammis- loro modi di apparizione affrancati da ogni giudizio di valore.
sione non costituisce una In senso tecnico il termine di ermeneutica compare nel XVII
sconfitta del pensiero, ma secolo per indicare l’arte dell’interpretazione dei testi (biblici
e giuridici): più ampiamente intende l’arte della comprenassume la responsabilità sione della nostra esperienza del mondo. In questa linea
di una filosofia dei limi- viene riformulata dal punto di vista ontologico nel ’900 da
ti dell’uomo: si configura Heidegger come modo proprio di essere dell’uomo: in quancome ermeneutica della to esperienza globale dell’esistenza umana è ulteriormente
vita, senza assoluto, ca- approfondita da Gadamer. Ricoeur la riconduce al “mondo
pace di abitare la tensione del testo” intorno a cui si articola il discorso e la comprentra la pluralità e la fragilità sione di sé da parte dell’uomo.
Paul Ricœur e l’«uomo capace»
255
Lebenswelt) e allo studio del linguaggio,
impegnandosi inoltre in un’ermeneutica
dell’azione umana. Il «genio del dialogo»
ricoeuriano (Nora 2002, 24) svolge un
pensiero della mediazione, resistendo alle
seduzioni delle “vie brevi” del cogito (“io
penso”) cartesiano o dell’Io penso kantiano. Rispetto al cogito riflessivo (immediato, trasparente, apodittico), si apre la via
lunga del cogito ermeneutico, ferito e fallibile, implicato nell’opacità dei simboli
nei quali soltanto si ri-conosce. Tale cogito è “militante” in quanto non rinuncia a
se stesso ma, benché destituito del potere
costituente, rimane istanza di riferimento fondamentale del pensiero. In questo
modo, senza mai disertare l’inter hominem esse (insieme ad altri), la mediazione
ricoeuriana attraversa una serie di coppie
dialettiche: il volontario e l’involontario,
l’appartenenza e la distanza, la scrittura
e la parola, il concetto e la metafora o il
simbolo. Ricœur non rinuncerà alla verità (possibile) o alla valenza referenziale e concettuale del linguaggio: ma esse
non potranno più assumersi come dati in
partenza in quanto restano da ricostruire
attraverso l’ermeneutica dei simboli, dei
testi e dell’azione umana nella storia.
Lungo un «arco ermeneutico» che
va dall’uomo fallibile (homme fallibile)
all’uomo capace (homme capable) delle
ultime opere, i vari temi affrontati – la
volontà, il male e la colpa, la narrazione
e la storia, l’identità, la memoria, il riconoscimento e il perdono si raccolgono
intorno al comune luogo di insorgenza e
di convergenza della soggettività umana.
Nel binomio dell’uomo fallibile e capace
si addensa una molteplicità di tensioni
progressivamente indagate senza mai cedere alle facili dicotomie tra il volontario
e l’involontario (libertà e necessità), verità e metodo, comprensione e spiegazione,
ermeneutica e linguistica, critica e convinzione (filosofia e fede/religione), identità e alterità, ecc. Con la pubblicazione
256
Secondo Bongiovanni SJ
di Sé come un altro il progetto ricoeuriano
sembra culminare con l’individuazione
di alcune linee di un’ontologia dell’identità personale. Come sempre nella sua
vicenda intellettuale, questo testo non
costituirà che un nuovo avvio, teso verso una filosofia dell’azione interessata al
problema morale e politico e alla giustizia
intesa come virtù e come istituzione.
Dall’uomo fallibile all’uomo
capace: alla ricerca dell’identità
del soggetto
Il senso della transizione dall’uomo
fallibile all’uomo capace si lega a una
questione centrale nel percorso filosofico di Ricœur. A partire dal confronto
con W. Dilthey (uno dei fondatori della
scienza ermeneutica moderna), il compito dell’interpretazione si delinea nell’intreccio tra la spiegazione (propria delle
scienze della natura) e la comprensione
(scienze umane) o, detto altrimenti, tra
epistemologia ed ermeneutica, semiotica e semantica, verità e metodo. La loro
complementarità si fonda sull’appartenenza originaria dell’uomo all’essere –
cioè al mondo della vita che precede oggetto o soggetto epistemico –, e produce
un «arco ermeneutico» configurato come
una spirale senza fine in cui lo «spiegare
di più» aiuta a «comprendere meglio».
Prima di qualunque oggettivazione o
soggettivazione, l’uomo è «già-semprepreso» (Rudolf Bultmann [1884-1976])
in un contesto storico-temporale da cui
emerge la conoscenza epistemologica.
In altri termini, come già sostenuto dal
conte Paul Yorck von Warterburg (18351897) nel confronto con gli storici “oculari” come Leopold von Ranke (17951886), è impossibile poter stare davanti
alla storia come di fronte a un oggetto
da studiare: alla storia (come all’essere),
infatti, anzitutto noi apparteniamo e tale
implicazione è intrascendibile. In questa
situazione ermeneutica, l’uomo si caratte-
tools
rizza per un poter-essere non più bloccato nelle pretese di un io autoreferenziale,
ma costitutivamente aperto e attraversato
dall’alterità (il sé come altro). Si delinea
in tal modo una teleologia del soggetto,
in cui principio/origine (arché) e fine
(télos), l’esser-dato e il poter-essere, risultano indisgiungibili. In questo contesto si
colloca ancora il passaggio dall’ermeneutica del testo, per cui «comprendere significa comprendersi davanti a un testo»,
all’ermeneutica dell’azione in cui il sé si
assume e si riconosce nella storia insieme ad altri. L’interrogativo sull’uomo si
svolge, dunque, nel passaggio dall’affermazione astratta e formale dell’«io sono»,
alla formulazione drammatica della domanda: «chi sono io?», che si prospetta
nell’intrigo storico-narrativo della fallibilità e della capacità di agire.
Tra l’alter ego di Husserl talvolta
accusato di restare prigioniero della referenza al soggetto e l’autrui (altri) di
Emmanuel Lévinas (1906-1995) che
convoca a una responsabilità assoluta,
Ricœur s’impegna in una terza via, nella comprensione dell’identità personale.
Già in precedenza aveva abbandonato il
paradigma tradizionale dell’ego cogito,
nelle sue diverse rappresentazioni dell’io
empirico o del soggetto trascendentale:
optando per un’ermeneutica del sé che,
attraverso l’analisi linguistica e lo studio dell’identità narrativa, si situava a
uguale distanza sia dalla filosofia del
soggetto sia dalla sua distruzione. Il rifiuto del fondamento solitario del cogito
riconosce la pluralità che lo costituisce
e determina eticamente, prima di qualunque morale. Il sé (soi, già sempre
attraversato dall’alterità) non è più l’io
(je/ego): la coscienza non è più origine,
ma compito; realtà ultima, non prima.
Mentre l’ingiunzione dell’alterità al cuore dell’identità permette di conciliare la
stima di sé con l’esigenza di una reciprocità non asimmetrica.
Sé come un altro articola una duplice
comprensione dell’identità: l’idem e l’ipse.
La prima dice la medesimezza, la permanenza dell’identità soggettiva nel tempo;
mentre la seconda evidenzia il carattere
specifico e singolare dell’identità personale già sempre con-segnata all’alterità.
La continuità di sé nel tempo (il «mantien
du soi») si costituisce in rapporto a una
promessa fatta a un altro che conta su di
me e mi obbliga al rispetto e alla sollecitudine. Ricœur riprende il tema dell’amicizia aristotelica (Etica nicomachea) che
consente un’uguaglianza tra individui
unici: una relazione di reciprocità in cui
l’altro è mio simile, ma anch’io sono un
simile per/dell’altro. La dialettica sé/altri
è costitutiva dell’identità del soggetto. La
sollecitudine per l’altro evita la curvatura
del soggetto sul souci de soi (preoccupazione di sé) riconoscendo all’altro le stesse possibilità di azione e di vita felice e
buona che si aprono a me. D’altra parte,
la reciprocità suppone di essere amici di
se stessi per poter essere amici dell’altro; l’esistenza dell’uomo buono e felice
è desiderabile per se stessa e necessita di
amici per espandersi. Alla stima di sé, l’amicizia aggiunge l’idea di mutualità e l’uguaglianza che conduce all’impegno per
la giustizia. L’etica aristotelica della vita
buona e la morale kantiana della norma
risultano così complementari.
In questo «sforzo per esistere» si
compie la transizione dall’uomo colpevole all’uomo capace (Flasse 2008). Pur
rimanendo fallibile, il soggetto è però
capace di cambiare le cose. Dalla filosofia della volontà alla filosofia dell’azione, l’arco ermeneutico parte dalla colpa
per approdare alla felicità e alla capacità
umana. In questo passaggio si delinea il
luogo princeps dell’interpretazione nell’agire sociale, compreso «come se fosse un
testo». Ricœur si volge al rapporto tra
linguaggio, soggetto ed essere nel tentativo di illuminare l’esperienza e il senso
Paul Ricœur e l’«uomo capace»
257
della vita vissuta nella storia. Linguaggio
e azione diventano così i due poli di una
nuova possibile ontologia. Su uno sfondo
di passività, nell’«io posso» convergono
le molteplici tematiche dell’alterità, della
memoria, della storia e del tempo, dell’oblio e del perdono, ecc.: tutte coinvolte
nella capacità di iniziativa del soggetto,
un agente che può incidere nella storia e
cambiare il mondo. La riflessione si volge all’individuo umano ritrovato come
sforzo, cammino, lavoro condiviso con
gli altri che implica una trasformazione
progressiva di sé.
Conclusioni
risorse
Uno sguardo d’insieme sull’opera ricoeuriana può forse ricondurre a due riferimenti portanti della lunga via di un’ermeneutica dell’«uomo capace»: a) non
Ricœur P. (1993), Sé come un altro, Jaca Book,
Milano.
— (1997), La critica e la convinzione. Intervista
con François Azouvi e Marc de Launay, Jaca
Book, Milano.
— (1998), Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano.
— (2010), La metafora viva. Dalla retorica alla
poetica: per un linguaggio di rivelazione, Jaca
Book, Milano.
258
Secondo Bongiovanni SJ
c’è un soggetto ma soltanto un diveniresoggetto, un diventare umano che implica l’uscita dall’infanzia e il superamento
dell’archeologia verso una teleologia dello
spirito, tesa alla realizzazione delle possibilità più proprie dell’uomo; b) in questo
percorso il souci de soi è inseparabile dal
souci de l’autre (preoccupazione per l’altro), nel desiderio di vivere bene con e per
l’altro in istituzioni giuste.
Nell’acuta, rispettosa comprensione
degli autori con cui si è confrontato, il
pensiero di Ricœur ci affida alla grande
metafora della costruzione di ponti e legami tra le varie emergenze culturali del
tempo. La trama di pensiero che ne attraversa l’opera affiora nella paziente tessitura di una mediazione in cui traspare
una delle istanze più significative della
saggezza umana di ogni tempo.
Ricœur P. – Changeux J.-P. (1999), La natura e la
regola. Alle radici del pensiero, Raffaello Cortina
Editore, Milano.
Flasse G. (2008), Paul Ricœur. De l’homme faillible à l’homme capable, PUF, Paris.
Nora P. (2002), «Pour une histoire au second
degré», in Le débat, 122, 24-31.
Lorenzo Caselli
La vita buona nell’economia
e nella società
recensione
Edizioni Lavoro
Roma 2012
pp. 244, € 15
di Giorgio Nardone SJ
Professore di Etica speciale
I
l titolo del libro è ampio: economia sì,
ma anche società, oltre al tema, classico e nuovo, della «vita buona». Una prima lettura del testo rende chiaro che l’A.
prende in considerazione un’ampia molteplicità di realtà e problemi, senza mai
restare in superficie. Nei sette capitoli del
volume, infatti, si affrontano: tecnologia,
finanza, globalizzazione, banche e finanziamenti, mercato, amministrazione a vari
livelli (locale, regionale e centrale), giovani, questione femminile, famiglia, scuola,
questione meridionale, sindacati, Africa,
Cina, Europa, petrolio, etica, etica cristiana. Il terzo capitolo, più specifico degli altri, è dedicato al rapporto tra produttività
di impresa e relazioni tra persone al suo
interno, poiché la produzione richiama un
mondo complesso e anche intensamente
umano. Leggendo, si incontrano brevi affermazioni illuminanti, come ad esempio:
«il mercato non soddisfa il bisogno, bensì
la domanda pagante [...]. La dimensione
finanziaria non coincide con la dimensione reale dell’economia» (p. 27).
Dopo la prima rapida lettura sorge
una domanda spontanea: chi mai potrà
“governare” una tale eterogenea molte-
plicità? Sarà la politica e, in definitiva,
lo Stato a cui si è sempre chiesto di correggere il mercato? Da quale altro attore
sociale è possibile attendersi un intervento in grado di tenere in conto, in una
prospettiva di lungo termine, una differenziata molteplicità di fattori e di situazioni e, per di più, in modo eticamente
ispirato? Ciò non significa chiedere al
governo politico una capacità di azione
finora sconosciuta? D’altronde, il libro
mostra che esso stesso è un agente sociale
tra altri. Bisognerà allora fare ricorso alla società? Tradizionalmente, si oppone
all’“alto” della decisione sovrana il “basso” della società civile. Il partito politico
di un tempo non doveva appunto farsi
mediatore tra esigenze popolari e istanze
centralizzate di governo politico? Ma allora – osserva l’A. – si era in presenza di
bisogni urgenti che facevano capo a una
classe operaia ben caratterizzata. Oggi, in
epoca post-fordista, l’esperienza di lavoro
non è più necessariamente centrale e alcuni bisogni elementari sono altrimenti
soddisfatti. In ogni caso, si deve abbandonare il vecchio assistenzialismo statale,
le imprese non possono essere chiamate a
Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (259-261)
259
compensare inefficienze altrui e anche il
profitto va “deideologizzato”.
La socialità descritta nel libro è molteplice e disomogenea, vitale e frantumata
al tempo stesso, irriducibile al binomio
sfruttati/sfruttatori, anche se gli sfruttati
e gli sfruttatori esistono. «Sulla scena del
mondo non ci sono problemi settoriali,
ma interdipendenti. Diritti umani e sociali, ambiente, educazione, sviluppo, scambi
commerciali, salute, conflitti, instabilità
sono altrettante tessere di un unico mosaico» (p. 37). Come si potrà trasformare
una tale socialità, dura e sfuggente? Quale
tipo di iniziativa umana potrà correggere
i limiti e le ingiustizie di questo mondo?
La risposta dell’A. punta decisa sulle «reti
di cooperazione, di solidarietà, di partecipazione» aventi vita su «scala locale»
(p. 13). Ci imbattiamo quindi nella parola più illuminante di questo libro: la “rete”. Da un lato essa esprime il limite del
nostro moderno convivere, poiché siamo
subordinati a una rete di condizionamenti
e poteri, ma dall’altro intende anche dire
una possibile novità positiva.
Iniziamo presentando la comprensione del negativo. La globalizzazione, il
moltiplicarsi delle tecniche, non solo di
produzione ma anche di comunicazione,
le banche e la finanza, tutto conduce alla
«crescente mediazione tecnica dei rapporti
interpersonali; […] alla organizzazione sistemico-complessa del produrre, del consumare, del vivere» (p. 19). Si è formata
una rete che separa ed esclude, facendo
venir meno la comunicazione reale tra gli
uomini che vivono in «contesti complessi
e incerti» (p. 87). Ci sono pochi individui
che decidono per tutti, semi-invisibili e
appartenenti a diverse gerarchie, sfuggono all’esperienza quotidiana della gente e
non sono riconducibili alle «tradizionali
forme di sfruttamento proprie delle società industriali» (p. 16). Usando un’immagine non presente nel libro, si può dire
che sono scomparsi sia il principe antico
260
Giorgio Nardone SJ
sia il più moderno proprietario borghese,
che godeva di beni reali, visibili e immediatamente comprensibili. Le molte forme
di comunicazione, ma anche la paura «di
processi incommensurabili e incontrollabili in termini di rischio», unificano gli
uomini; è sorta una «interdipendenza a
scala globale» che diventa «una categoria
morale e politica di fondamentale importanza» (p. 37).
Un antico proverbio diceva che dove urge il pericolo, là appare anche una
possibile salvezza, e il testo di Caselli
sembra riaffermarlo. Proprio alcuni temi
che illustravano il negativo del presente si
convertono infatti in aperture positive e la
dimensione molteplice dell’interconnessione apre a considerazioni antropologiche ed
etiche. A ben vedere, proprio la tecnica e la
comunicazione a rete non sono così ferree:
creano spazi di manovra, anche se resta
aperta la domanda «come rendere effettiva la potenzialità?» (p. 22). La «complessità
dei processi in atto porta all’aumento dei
centri autonomi di decisione e di responsabilità; si allargano gli spazi di iniziativa
e di collaborazione» (p. 130).
Diversi ambiti sono declinati facendo ricorso al concetto di rete. Le nuove
tecnologie di comunicazione diventano
tecnologie produttive e rendono possibile un lavoro che sia flessibile nei luoghi
e nei tempi. In tal modo è valorizzato il
lavoro femminile, riuscendo a superare
l’antica rigida divisione tra ruoli di lavoro
maschili e femminili. Anche le famiglie
si collegano in reti. Rapporti umani significativi «possono essere vissuti anche
all’interno dell’attività economica e non
soltanto fuori di essa o dopo» (p. 89). Oggi si parla di un quarto e quinto capitalismo: «una miscela di tecnologia, ricerca
pubblica e privata, formazione superiore,
imprese innovative. Il tutto concentrato
in specifiche aree territoriali» (p. 134).
Anche per l’Africa bisogna abbandonare l’assistenzialismo e «promuovere reti
recensione
radicate nel territorio» (p. 58). In forma
molto esplicita: «la crescente interdipendenza, congiuntamente al moltiplicarsi
delle articolazioni e differenziazioni, richiede un’altra organizzazione del potere.
Gli elementi unificanti non stanno più
nel “principe” né in modelli gerarchici.
Il riferimento è alla rete, ai collegamenti
orizzontali, alla condivisione di valori e
di obiettivi, alla sussidiarietà e solidarietà nell’ambito della sostanziale poliarchia
dei moderni pluralismi» (p. 199).
In Italia tutto ciò è reso difficile dalla
«politica inconcludente» (p. 199) e dalla
burocrazia. L’Italia appare come l’ultimo
Paese europeo in statistiche assai differenziate per oggetto: si va dagli scarsi investimenti in formazione alla poca innovazione, dalle rendite parassitarie alla poca
«efficienza ed efficacia del settore pubblico» (p. 122). Ancora, i dati mostrano che
per creare un’impresa in Italia si devono
affrontare costi assai alti a motivo dell’ambiente sociale sfavorevole: «comunicazioni,
assicurazioni, credito, servizi professionali,
distribuzione commerciale, fiscalità, rapporti con la pubblica amministrazione
ecc.» (p. 132). Interessanti anche le osservazioni dell’A. sulla scuola: essa non è
cattiva, vi si nota «una voglia di fare non
indifferente»; purtroppo «tutto ciò è quasi
sempre un fatto casuale, contingente. Non
c’è rete, non c’è sistema, non ci sono investimenti adeguati sulle persone e sul futuro» (p. 218). In sintesi, «il Paese non compete […] soltanto con le sue imprese, ma
anche con le sue strutture formative, con i
suoi assetti urbani, la sua pubblica amministrazione, e così via» (p. 226). Se ne può
concludere che l’azione dello Stato sia uno
dei molti fattori che contribuiscono a creare la «vita buona» di un Paese, certamente
necessario ma non determinante, neppure
“in ultima istanza”.
Soprattutto nella parte propositiva,
Caselli fa luce su un’antropologia e un’etica ad essa immanente, che sembrano
proposte più come possibilità ancora da
esplorare che come realtà già pienamente operative. In altri termini, la via che
si prospetta non è percorribile in modo
immediato e deciso. Sembra che la ricca
interdipendenza di realtà economiche e
figure sociali lasci l’uomo nell’indeterminatezza. Nel tempo della rete, questo
tipo d’uomo di cui si sta parlando appare
come una possibilità desiderabile e degna
più che come una realtà. Quanto meno
nella nostra ambigua Italia.
Anche l’immaginario collettivo sul
sistema economico e produttivo – e di
conseguenza sociale – richiede di essere
aggiornato, allontanandosi dall’universo
di ruoli, funzioni e rapporti di potere a cui
la rivoluzione industriale ci aveva abituato.
La “forza lavoro” quasi fisica incorporata
nei beni di consumo, la macchina che elabora la materia, la classe operaia posta in
relazione a “proprietari” visibili sono sparite, insieme al principe sovrano e allo Stato
giusto e provvidente. Non solo: non esiste
più un “centro” socialmente designabile
che consenta di pensare la società, mentre
la dimensione verticale (alto/basso, sopra/
sotto) non è più dominante. È scomparso
il “capo” che permette di pensare la società come un grande “corpo”, secondo una
nota immagine del mondo classico giunta
fino a noi. Esiste invece la “rete”, e noi in
essa. La rete ci è davvero vicina, più dello
Stato tradizionale, del quale è talora più
ferrea. In altri casi, invece, ha dei vuoti che
sono inviti a una nuova sorta di coraggio.
Il coraggio volonteroso del farsi avanti dai
mille volti: coraggio nel produrre, nell’insegnare, nell’essere burocrati o madri di
famiglia, volontari internazionali o scienziati, o in uno dei tanti ruoli che costituiscono la rete. L’A. stesso esprime l’apertura al possibile, al tempo stesso sociale
ed etica, che guida le sue pagine: «occorre
ragionare per futuri possibili a partire dai
pezzi di progetto che sono elaborabili dai
vari protagonisti sociali» (p. 40).
La vita buona nell’economia e nella società
261
Luigi Bonanate – Roberto Papini (edd.)
La luce della ragione
A 50 anni dalla Pacem in terris
Bruno Mondadori, Milano 2013, pp. 138, € 12
I
n questo agile volume,
Luigi Bonanate e Roberto Papini, esperti di
relazioni internazionali e
scienze politiche, nonché
studiosi appassionati del
pensiero di Jacques Maritain, hanno raccolto
alcuni contributi per celebrare il 50o anniversario della pubblicazione della Pacem in terris (11 aprile
2013). Ricostruendo il contesto storico
in cui si radicò l’enciclica di Giovanni
XXIII (ricordiamo i tempi della guerra
fredda, che raggiunse l’apice nella crisi
dei missili di Cuba dell’ottobre 1962) e
mettendone in luce le fondamentali novità, tra cui il superamento della tradizionale dottrina cristiana sulla guerra giusta,
l’indirizzo non solo ai cattolici ma, per
la prima volta, a tutti gli uomini di buona volontà e la necessità di un’Autorità
mondiale che mirasse a evitare i conflitti, i curatori del libro legano l’enciclica
alle considerazioni che Jacques Maritain
andava conducendo sugli stessi temi. Il
filosofo francese infatti aveva riflettuto
profondamente sul Secondo conflitto
mondiale e sulla bomba atomica, interrogandosi sul suo perché e sull’incapacità dimostrata dalle democrazie europee
di resistere ai totalitarismi. Nel volume
queste riflessioni si intrecciano con quelle
sulla Pacem in terris, con lo scopo «di restituire il senso della sua attualità e adattabilità ai nostri tempi […] investigando
le conseguenze che ebbe, fino a prestarsi
alle innovative e vastissime dimensioni
della società globalizzata di oggi» (p. 6).
Francesca Ceccotti
Luca Diotallevi
I laici e la Chiesa
Caduti i bastioni
Morcelliana, Brescia 2013, pp. 216, € 16
C
ome pensare oggi il
rapporto tra la Chiesa e il mondo, la presenza
dei cristiani nella società
civile e nella politica, il
contributo dei laici alla
missione della Chiesa? A
questi temi, importanti e
connessi tra loro, si dedica ormai da
tempo il sociologo Luca Diotallevi.
In questo suo ultimo libro l’A. prende le mosse dall’immagine dei «bastioni
da abbattere» usata dal teologo svizzero
Hans Urs von Balthasar nel 1952 per sostenere la necessità di una cristianità che
262
non sia più arroccata ma capace di dialogare con il suo tempo. I bastioni evocati
da Balthasar sono ormai caduti e nella
stagione post-conciliare si pone il compito di «riconfigurare altrimenti, rispetto al passato, la posizione della Chiesa
nel mondo» (p. 24), lasciandosi ispirare
da una nuova idea guida che Diotallevi
individua «nella opzione per la libertà
religiosa formulata nel decreto conciliare
Dignitatis humanae» (p. 25).
A questo si dedica l’A. nel considerare
i cambiamenti intercorsi negli ultimi decenni: vi è stata «la fine di un mondo moderno a matrice cristiana», ma questo non
vetrina
significa la fine di «ogni modernità minimamente segnata dalla o, se non altro,
aperta all’ispirazione cristiana» (p. 119).
La Chiesa nella sua totalità è chiamata a
confrontarsi con questo mutamento che
comporta un ripensamento del ruolo e del
contributo che rispettivamente i pastori
(capitolo 1) e i laici (capitolo 3) sono chiamati a dare. Un esempio incoraggiante in
tal senso è identificato nella “parabola di
Reggio Calabria”, cioè nell’esperienza della
46a Settimana sociale dei cattolici italiani
che si è tenuta nell’ottobre del 2010 nella città calabrese. Secondo l’A., il lascito
maggiore di Reggio Calabria è un «invito
forte ad un cammino di santità che può
essere per le laiche ed i laici di oggi pienezza di vita, e […] per la ecclesia e la civica
motivo di rinnovamento» (p. 188).
Giuseppe Riggio SJ
Milano, dal 4 marzo
Docu-Film: guardare i nostri tempi attraverso il cinema
Auditorium San Fedele, Via Hoepli 3/b
D
a martedì 4 marzo 2014, per quattro sere consecutive, la Fondazione
San Fedele di Milano affronterà un percorso nel cinema documentario contemporaneo, dalle primavere arabe all’eccidio
politico in Indonesia, dallo scacchiere
geopolitico statunitense alla ricostruzione
inglese dopo la Seconda guerra mondiale.
Il documentario porta lo spettatore
fuori dalla zona di sicurezza della finzione, obbligandolo a riflettere sugli avvenimenti e sui personaggi della nostra
contemporaneità colti nella loro realtà.
Quattro film per ripensare le geografie
politiche dell’oggi, con la lentezza e la
riflessione del cinema, lontani dagli eccessi didascalici e dalla velocità tipica del
giornalismo.
4 marzo, The Unknown known (E.
Morris): l’ex Segretario alla Difesa degli
Stati Uniti Donald Rumsfeld ripercorre
la sua carriera a Washington dai giorni in
cui era membro del Congresso negli anni
Sessanta del Novecento fino alla pianificazione dell’invasione dell’Iraq nel 2003.
11 marzo, Spirit of 45 (Ken Loach):
utilizzando filmati tratti dagli archivi regionali e nazionali, registrazioni sonore
e interviste dell’epoca, Ken Loach tesse
un racconto ricco di contenuti politici e sociali, raccontando il 1945, l’anno
della fine della guerra
e della ricostruzione
di Londra. Un lungo
viaggio che permette
di comprendere meglio la crisi economica attuale e le spinte per
un’uscita e una riscoperta
della passione politica.
18 marzo, The Act of Killing, (J. Oppenheimer): nel 1965, in Indonesia, il
movimento Pancasila dà vita a un colpo
di Stato che sfocia in un genocidio. I killer di allora sono oggi anziani signori benestanti che in questo film impressionante ricreano e mettono in scena i loro atti
criminali e spesso, in una tragica inversione, impersonano le vittime. Il regista
segue il loro percorso dal compiacimento
di protagonisti di una violenta giustizia
politica alla riflessione sulle implicazioni,
non solo morali, dell’omicidio di Stato.
25 marzo, The Square (J. Noujaim):
attraverso le videotestimonianze di cinque protagonisti, il documentario mostra
la lotta del popolo egiziano contro il dittatore Mubarak, raccontata con una voce
lucida e ironica sul potere dei media. Una
riflessione sul ruolo attivo che la rappresentazione degli eventi gioca negli eventi
stessi.
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Appuntamenti
Bergamo, 7 marzo
Presso l’Oratorio del Villaggio degli
Sposi (via Cesare Cantù 1, 17.30-19.30)
Filippo Maria Pandolfi, già ministro e
commissario europeo, tiene la lezione
«Le famiglie politiche europee». Info:
www.scuolawecare.it
Mazara del Vallo (TR), 8 marzo
Nell’ambito del percorso socio-culturale
promosso dalla Diocesi di Mazara del
Vallo e dal Centro socioeducativo «I
giusti di Sicilia» Bartolomeo Sorge SJ
interverrà su «Papa Francesco e il rinnovamento della politica». Aula magna
del Seminario vescovile, ore 17.
Bologna, 12-16 marzo
Jean Paul Hernandez SJ terrà il corso di
esercizi spirituali attraverso l’arte «Immaginare Dio», presso Villa S. Giuseppe. Info: www.villasangiuseppe.org
San Donato Milanese, 13 marzo
«Parole e gesti di accoglienza di Francesco, vescovo di Roma» è il titolo della
serata a cui parteciperà Giuseppe Trotta
SJ, della nostra Redazione. Ore 20.45,
c.na Roma; l’incontro è promosso
dall’Associazione Lazzati della città.
Milano, 14 marzo
Il Centro Asteria organizza l’incontro
per studenti «Cercando la verità nell’orribile labirinto della mafia». Sarà presente, oltre a Bartolomeo Sorge SJ, Rita
Borsellino. Piazzale Francesco Carrara,
ore 10. Info: www.centroasteria.org
Padova, 17 marzo
Per il ciclo di seminari organizzati dalla
Fondazione Lanza il nostro collaboratore Giorgio Osti (Università di Trieste) e
Stefano Soriani (Università di Venezia)
si confrontano sul tema «I beni ambien264
tali come beni comuni strategici». Ore
17.00-19.30, via Dante 55. Info: www.
fondazionelanza.it
Cernusco sul Naviglio (MI), 19 marzo
Nell’ambito del corso di formazione
organizzato dalle ACLI «Quale welfare
per il nostro futuro?» Giacomo Costa
SJ parlerà su «Lo Stato sociale in Italia.
Quale cambiamento possibile?». Info:
sergio.colomberotto@acliservice.it
Lucca, 20 marzo
Presso il Centro di Cultura dell’Università Cattolica (via Santa Gemma 36,
ore 18.30) si svolgerà l’incontro «I laici
tra la gente: un percorso della Chiesa»;
relatore Bartolomeo Sorge SJ.
Milano, 21 marzo
Paolo Foglizzo, della nostra Redazione,
parlerà de «I conflitti nella famiglia e nella società civile oggi, alla luce della Pacem
in terris». Parrocchia SS. Nazaro e Celso
alla Barona, via Zumbini 19, ore 20.45.
Rovigo, 21-22 marzo
La Fondazione culturale Responsabilità
etica e il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Trieste
organizzano il IX Convegno sulle “aree
fragili”: «Smart waters. Cooperazione e
sicurezza idrica nelle aree fragili». Il 21
marzo presso il Consorzio Università Rovigo, viale Porta Adige, 45; il 22 marzo
presso il Consorzio di Bonifica Adige Po,
piazza Garibaldi 8. Info: www.fcre.it
Corbetta (MI), 1° aprile
Bartolomeo Sorge SJ parlerà del «Nuovo corso impresso alla Chiesa da papa
Francesco nell’esortazione apostolica
Evangelii gaudium». Ore 20.45, presso
la sede del Circolo ACLI, piazza Canonica 3/5.
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marzo 2014
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Conflitti sociali e strumenti di governance
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Bartolomeo Sorge SJ
Prospettive per una «buona politica».
Papa Francesco e le intuizioni di Sturzo
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Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese”
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Anatomia patologica del Porcellum
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La protezione interrotta. Il Regolamento “Dublino III”
e il diritto d’asilo in Europa
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Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII:
storia di una pace inaspettata
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recensione / La vita buona nell’economia e nella società
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262-264