Alessandro Marzo Magno

Alessandro Marzo Magno
Piave
Cronache di un fiume sacro
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Piave
A Marco e Peter
πάντα ῥεῖ ὡς ποταμός
Ci sarebbe più progresso al mondo se gli uomini
si sentissero responsabili di tutte quelle cose per
cui non possono far niente.
Karl Kraus
Sappada
Pieve di Cadore
Codissago
Longarone
Belluno
Mel
Feltre
Vas
Quero
Valdobbiadene
Vidor
San Polo di Piave
Montebelluna
Zenson
di Piave
Fossalta
di Piave
San Donà di Piave
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Treviso
Zenson
di Piave
0
20 km
VENEZIA
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Sommario
1. C’era una volta un fiume
13
2. Le sorgenti
23
3. L’Alto e il Medio Cadore
35
4. L’elettricità
51
5. Il Basso Cadore
61
6. Codissago e le zattere
67
7. Il Vajont
77
8. Belluno e l’alta Val Belluna
85
9. Mel e la bassa Val Belluna
93
10. Il formaggio
103
11. Feltre, la carta e la stampa
109
12. Sinistra Piave: da Vas a Valdobbiadene
121
13. Il vino
137
14. Destra Piave: da Quero al Montello
145
15. Le guerre
161
16. Memento
175
17. Da Vidor a Zenson
187
18. Fossalta e San Donà
203
19. La pesca
217
20. La foce
223
Ringraziamenti
229
Abbreviazioni
230
Note
231
Bibliografia
237
Fonti delle illustrazioni 240
Siti internet e numeri di telefono dei luoghi citati
241
Indice dei nomi
247
Indice dei luoghi 254
1. C’era una volta un fiume
Parliamo di un fiume scomparso. Di un fiume che vive nella memoria
collettiva di un paese, ma che nel suo letto ormai è morto. Non c’è più.
O quasi. Bevuto da centoventuno centrali idroelettriche, assorbito dai
campi al ritmo di novantotto metri cubi al secondo (solo nei mesi secchi, per carità, in quelli invernali invece alimenta con la sua acqua gli
impianti di innevamento artificiale attraverso trentasette «punti di attingimento»), in realtà è un fiume che fa di tutto, fuorché fare il fiume.
Ovvero non scorre, non fluisce, non si gonfia, non esonda. Non mormora più. In compenso ci rifornisce di energia elettrica, di mais e grano
coltivati con le sue acque, di ghiaia cavata dal suo alveo. È stato imbrigliato e addomesticato.
Era un fiume impetuoso – «il fiume rapidissimo della Piave» lo definisce Marco Magno, provveditor sopra la Piave, in un dispaccio che
nel 1611 manda da Cimadolmo al Senato della Serenissima –1 e non solo veloce, ma anche cattivo – «rapacissimo» lo chiamavano –2, con le
sue piene apocalittiche riusciva addirittura a invadere il letto di un altro corso d’acqua: quando il Piave rompeva a Nervesa andava giù dritto fino a Treviso e si buttava nel Sile. Ma poi è stato ingabbiato, reso
rassicurante, acquiescente. «Fiume simbolo del coraggio, dell’eroismo,
del patriottismo degli italiani. Fiume simbolo, oggi, della loro cecità»
lo definisce Gian Antonio Stella.3
Se una nuova armata austroungarica dilagasse per la pianura friulana e veneta, non ci sarebbe più un Piave a fermarla e a far sì che «i resti
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Piave
di quello che fu uno degli eserciti più potenti del mondo risalgano in disordine e senza speranza quelle valli che avevano disceso con orgogliosa
sicurezza», come si legge sui bollettini della Vittoria riprodotti su mille
muri d’Italia.
È un fiume paradossale, il Piave: se lungo il suo corso è ridotto al 10
per cento di quello che era, in compenso può fregiarsi di ben due fonti
e due foci. La sorgente ufficiale è una, ma ce n’è un’altra che la gente
del luogo assicura essere quella «vera». Più o meno come il Danubio, i
cui natali sono stati ufficialmente assegnati a Donaueschingen, spiega
Claudio Magris, ma sono rivendicati anche da Furtwangen che preferirebbe chiamare Donau il Breg, il corso d’acqua che lì nasce per morire quarantacinque chilometri più a valle, diventando Danubio dopo
essersi unito al Brigach.
La foce da cui oggi il Piave fluisce in mare ha da poco compiuto trecento anni (è stata tagliata dalla Serenissima nel xvii secolo), mentre la
sua bocca storica, quella che si era guadagnato da solo serpeggiando
per la pianura ai margini della laguna, è oggi diventata la foce del Sile
(sono stati sempre i veneziani a scambiare un fiume con l’altro per evitare che la laguna venisse interrata).
Il Piave ha ispirato molta letteratura, e ancor oggi un poeta di prima grandezza e uno scrittore-alpinista vivono non lontano dalle sue
sponde. Nella parte nuova di Erto, il paese in parte cancellato dalle acque del Vajont, in un negozio-atelier lavora Mauro Corona. I curiosi lo
scocciano, a meno che non siano giovani visitatrici, meglio se avvenenti. Se ne resta dentro, inchiavardato. Quando esce dal suo pertugio, offre solo parole scontate e parecchio esagitate per definire il Piave: «È
acqua. L’acqua è acqua. Il Piave è l’acqua del Vajont. Se mi chiedi cosa
mi suscita la memoria, ti rispondo: i fanti del Piave. Ma non è un fiume
particolare, non c’è particolare, siamo tutti uguali».4 E così sia.
Meno di maniera la testimonianza di Andrea Zanzotto. «Il Piave è il
mio fiume» afferma l’ottantanovenne poeta di Pieve di Soligo «mio padre
ha combattuto nell’ultima battaglia.»5 La sua famiglia era stata sfollata a
Tarzo durante «l’anno della fame», nel 1917, quando nel Veneto occupato dagli austroungarici non c’era più nulla da mangiare e in molti, moltissimi, morirono letteralmente di fame (negli Imperi centrali ci furono oltre
settecentomila morti per denutrizione a causa del blocco navale imposto
1. C’era una volta un fiume
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dagli Alleati, più di quanti ne avrebbero causati i bombardamenti della
guerra successiva, per i quali le stime variano dai cinquecento ai seicentomila). Di tutto questo Zanzotto ha solo sentito parlare, il suo ricordo personale è quello del fascismo «che pompava la retorica sul Piave», o degli
ex combattenti esibiti nelle scuole, come la Medaglia d’oro Sante Dorigo,
«una specie di supereroe, con tante mutilazioni».
E se la guerra non veniva a scuola, la scuola andava alla guerra: i
bambini, e Andrea Zanzotto con loro, venivano portati sui luoghi delle battaglie. «C’era sempre una presenza del fiume che veniva ricordato in tante situazioni» osserva il poeta. Ne parla anche in alcuni suoi
componimenti; in Fiume all’alba: «Acqua inconsistente acqua incompiuta / che odori di larva e trapassi / che odori di menta e già t’ignoro
/ acqua lucciola inquieta ai miei piedi».
Quando esisteva, il Piave era un fiume riottoso che divideva le due
sponde. Univa sì la montagna alla pianura, ma non le proprie rive.
Era più facile trovare un cadorino a Venezia che un abitante della destra sulla sinistra Piave. Ancor oggi è difficile, molto difficile, che
uno di Segusino vada al bar nella dirimpettaia Quero. Le popolazioni non si amavano: chi viveva sulla sinistra Piave riteneva imbroglioni
e inaffidabili i più evoluti abitanti della destra; mentre i residenti della destra consideravano quelli della sinistra ingenui e rozzi, più friulani
che veneti. Anche la lingua delle due sponde ha risentito dell’isolamento secolare: la destra, che è la parte vicina ai centri maggiori, Belluno,
Feltre, Asolo, Castelfranco, ha un dialetto più morbido che riflette
maggiormente la cantilena veneziana. La lingua della sinistra è più dura, più tronca, simile al cadorino. Un tempo queste divisioni non erano
affatto inusuali: a Venezia chi stava al di qua del Canal Grande parlava diversamente da quelli che stavano al di là (gli uni – per aglio e olio
– dicevano ajo e ojo, gli altri agio e ogio) e Andrea Zanzotto testimonia
che si riusciva anche a distinguere chi stava di qua e di là del Soligo, un
fiume decisamente più addomesticabile del Piave.
Un tempo il Piave, come già altri fiumi veneti – Brenta, Livenza –
e ancora qualche fiume italiano – Dora – era femminile. «La Piave»
è sopravvissuta per secoli, ma non ce l’ha fatta a uscire indenne dalla
Prima guerra mondiale. È diventata «il» Piave, e così sia. «Fiume maschio per meriti di guerra» lo saluta nel 1923 Oreste Battistella, autore
16
Piave
del libro La battaglia del Montello. In realtà esisteva un illustre precedente: quello di Giosuè Carducci che nell’ode Cadore («Deh, fin che
Piave pe’ verdi baratri / ne la perenne fuga de’ secoli / divalli a percuotere l’Adria co’ ruderi de le nere selve») «assegnò al fiume il genere maschile».6 D’altra parte il femminile non poteva proprio pensare
di sopravvivere al Vate. «E il fiume maschio trascinava grappoli di cadaveri austriaci, da Nervesa al mare» poetava Gabriele D’Annunzio, e
giù ad andargli dietro, nonostante persino tra i militari ci fosse qualche autorevole fan del femminile. Per esempio il duca d’Aosta, comandante della Terza Armata, scrive sempre «la» Piave e il generale Carlo
Porro (sottocapo di stato maggiore) sottolinea: «Io scrivo la Piave e
non il Piave, perché nella parlata locale, sia in montagna sia in pianura, il nome è femminile».7
Ma ciò che è risultato davvero determinante a mutare da femminile in maschile il genere del fiume è stata la celeberrima Leggenda del
Piave. Quel «il Piave mormorò...» cantato dai soldati in trincea sarebbe
stato il definitivo suggello della mascolinizzazione (che avrebbe contagiato anche gli altri fiumi veneti, facendoli divenire maschili per analogia). L’autore di queste parole e musica destinate a tanta popolarità è
un impiegato napoletano delle Poste, tal Giovanni Ermete Gaeta che,
con lo pseudonimo E.A. Mario, aveva firmato altre hit di successo:
Vipera, A Mergellina, Profumi e bambole, o la più famosa, Santa Lucia
luntana (nel 1945 scriverà le note, in collaborazione con un medico che
ne redige il testo, di un’altra canzone destinata a diventare famosissima, Tammurriata nera).
Non è l’unico postelegrafonico a dedicarsi alla musica. Anche
Vittorio Locchi, tra un timbro e un francobollo, trova il tempo per
comporre la Sagra di Santa Gorizia. Comunque E.A. Mario, trasferito durante il conflitto in un ufficio postale di Bergamo, si cimenta con
«parecchie canzoni di guerra, tra cui Serenata all’imperatore, in risposta
a un giornale austriaco che aveva scritto: “Vennero a combattere contro l’Austria i mafiosi di Sicilia, i briganti di Calabria e i mandolinisti di
Napoli”».8 Le Regie Poste lo licenziano per scarso rendimento – si allontana spesso dal lavoro senza giustificati motivi – ma quando si rendono conto che l’assenteista Giovanni Gaeta è in realtà il famoso E.A.
Mario, lo reintegrano con onore.
1. C’era una volta un fiume
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Versi e note del più celebre canto di guerra italiano gli sono ispirati
dalla fine, vittoriosa per l’Italia, della battaglia del Solstizio, in un furore compositivo che sembra si sia sfogato in una sola notte, quella del 24
giugno 1918 (il che potrebbe spiegare quell’incongruente «Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio»: il 24
maggio 1915 i fanti italiani erano sull’Isonzo, non sul Piave). Comunque
la canzone si irraggia per i vicoli di Napoli e presto raggiunge le trincee
dove contribuisce ad alzare il morale delle truppe. È lo stesso comandante in capo a riconoscerlo. «La vostra Leggenda del Piave al fronte è
più di un generale!» telegrafa Armando Diaz a Giovanni Gaeta (che da
parte sua, magnanimo, rinuncia ai diritti).
Lo spartito originale, pubblicato solo a guerra finita, ha in copertina un’incisione di Amos Scorzon – un gladio insanguinato con la scritta
spqr che trafigge un’aquila bicipite – accompagnata dai versi di Gabriele
D’Annunzio: «Non c’era più se non un fiume in Italia, il Piave; la vena maestra della nostra vita. Non c’era più in Italia se non quell’acqua,
soltanto quell’acqua, per dissetar le nostre donne, i nostri figli, i nostri
vecchi e il nostro dolore». Il patriottico Gaeta pensa a tutto lui: «Versi
e musica E.A. Mario, casa editrice musicale E.A. Mario, via Vittorio
Emanuele Orlando 9, Napoli»9 recita il frontespizio, dove è pure aggiunto che il Piave della canzone è dedicato «ai soldati che lo santificarono, agli alleati che lo ammirarono, ai nemici che lo ricorderanno».
Nella seconda pagina il testo di quattro strofe. La prima è quella che
conoscono tutti: «Il Piave mormorava...». La seconda comincia con un
oscuro: «Ma in una notte trista, si parlò di un fosco evento». La terza
è minacciosa: «E ritornò il nemico: per l’orgoglio e per la fame». Poi
finalmente la quarta strofa, liberatoria: «Indietreggiò il nemico fino a
Trieste fino a Trento / e la Vittoria sciolse le ali al vento!». Nella terza
pagina lo spartito, in quarta la pubblicità: altri lavori composti e pubblicati al tempo dall’illustre musicista come Canta che ti passa e Ladro
di bambole, dove E.A. Mario è autore dei versi, nonché Stornellata del
vagheggino, Java dei piccioni e Madonna di Siviglia per le quali, invece,
si è cimentato con la musica su versi di altri.
La leggenda del Piave diventa essa stessa una leggenda: inno provvisorio d’Italia tra il 1943 e il 1946, sarebbe potuta assurgere a definitivo
al posto del Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli. Alcide De Gasperi,
18
Piave
nel 1946, avrebbe convocato E.A. Mario a Roma chiedendogli di comporre l’inno della Democrazia cristiana, ma Gaeta si sarebbe rifiutato,
ritenendosi non capace di scrivere musica su commissione, ma soltanto se ispirato dal cuore. Offeso, il leader democristiano non avrebbe
avanzato la candidatura della Leggenda del Piave come inno italiano
per punire il musicista poco sensibile al volere dei potenti. In ogni caso, quelle note se non altro a Santa Croce del Montello hanno una funzione ufficiale: ancor oggi rintoccano ogni mezzogiorno dal carillon
del campanile.
Gaeta non era nuovo a contraddire i grandi: quando, nel 1922, in
occasione dell’inaugurazione del Vittoriano a Roma, era stato convocato al Quirinale da Vittorio Emanuele iii, aveva spiattellato in faccia
al re di essere repubblicano e mazziniano. Il sovrano, evidentemente
di buon umore, gli replicò che i repubblicani avevano reso grandi servigi alla monarchia e lo nominò egualmente commendatore. Giovanni
Ermete Gaeta morì a Napoli nel giugno 1961, settantasettenne, dopo
aver composto oltre duemila canzoni.
La tradizione iniziata con La leggenda perdura, e il Piave è destinato
a rimanere a lungo soggetto di spettacoli. Come nel monologo Il reduce
del 1977, in cui Renato Pozzetto (inconsapevole profeta) recita: «Viene il
Silvio e mi fa: “Io vado a salvare la patria” e io mi faccio prendere dalla
foga e gli faccio: “Puttana Eva, vengo anch’io”, quindi corro in stazione a
prendere la tradotta per il fronte, ci caricano come bestie e ci portano sul
Carso, pim pum, saltano le mine, son tutto sporco di sangue. “E il Piave?”
“Mormora.” “Ma cosa mormora cosa, che mi sto cagando addosso!”».
Il nome Piave, a metà degli anni settanta, è anche riuscito a far affermare una grappa fino al punto di farla diventare leader del mercato. Molti
ricorderanno quel celeberrimo carosello, prima con Luigi Vannucchi, poi
con Enzo Tortora: «Via la testa, via la coda, resta solo il cuore». Geniale
vendere un bene illustrandone il processo produttivo.
A ricostruire la storia della grappa Piave è il manager di allora,
Vincenzo Fagiuoli, che oggi vive a Padova e si sta di nuovo occupando del
medesimo prodotto.10 Ma raccontiamo con ordine questa success story del
Nordest prima del Nordest (ovvero prima che a qualcuno balenasse nella
mente mente di chiamare Nordest quelle che al tempo erano conosciute
come Tre Venezie).
1. C’era una volta un fiume
19
Siamo a Conegliano, dove dall’inizio del Novecento esistono varie
distillerie appartenenti a famiglie di nome Maschio, non tutte parenti fra
loro. Due fratelli Maschio, Ermenegildo e Bonaventura, a metà degli anni
cinquanta, comprano la Landy Fréres, un’azienda che di francese ha solo
il nome, per di più taroccato. Apparteneva infatti ai bolognesissimi fratelli
Landi che negli anni trenta si erano messi a produrre cognac (meglio:
brandy, prima che i francesi affilino la ghigliottina), ma per venderlo
avevano bisogno di dare quel non so che d’Oltralpe alla loro società;
avevano quindi deciso di francesizzarne il nome. I fratelli Maschio,
che già producevano grappa (e la producono ancora: la Prime Uve),
decidono di fare le cose in grande. Si mettono in contatto con una delle
più importanti agenzie pubblicitarie del tempo, la Odg – Orsini, Damioli,
Gandin – ovviamente di Milano (che oggi non esiste più), e danno il via
all’operazione.
È la stessa famiglia a tirar fuori dal cilindro il marchio Piave: vivono
vicino al fiume, hanno un figlio alpino, il nome è evocativo quanto basta.
I «creativi» (si direbbe oggi, ma forse a fine degli anni cinquanta la parola non era ancora stata inventata) milanesi visitano la distilleria, gironzolano nei dintorni, passano i ponti sul Piave, e sconsigliano vivamente quel
marchio: è un nome geografico e non è difendibile attraverso il copyright.
Insomma, chiunque altro avrebbe potuto chiamare un qualsiasi prodotto Piave e sfruttare il successo della grappa. Ma i Maschio vanno avanti per la loro strada: avranno ragione loro, perché nessun altro userà mai
quel marchio. Meglio: ci saranno dei tentativi, come l’Amaro Piave, ma
non scalfiranno il primato.
L’agenzia che ha l’idea del messaggio propone altresì di utilizzare il
volto di Luigi Vannucchi; si parte e gli affari vanno alla grande. Anche la
bottiglia è particolare. Fagiuoli ricorda che la Carpenè Malvolti commercializzava una grappa con un tappo a forma di torsolo di pannocchia. Per
la bottiglia della Piave, con il collo allungato, i Maschio avevano pensato a un tappo a forma di fungo, solo che la scelta era caduta sull’amanita muscaria (quella rossa con i puntini bianchi), velenosissima, e Damioli
e i suoi ci misero ben due anni a convincerli che non fosse il caso di mettere in commercio un prodotto alimentare contraddistinto da un fungo
velenoso.
Grazie a Luigi Vannucchi che ne è testimonial per tre-quattro anni
20
Piave
(si suicida nel 1978) e a Enzo Tortora che ne interpreta i caroselli per
oltre sette (smette prima dell’arresto, il 17 giugno 1983, Fagiuoli lo
ricorda come eccellente professionista: giravano assieme per i primi
ipermercati italiani, Tortora firmava le etichette della grappa, che andava immediatamente a ruba), la Piave va talmente bene che si trascina dietro anche la Julia della Stock, la Fior di Vite della Ramazzotti e la
Bocchino che utilizza come testimonial Mike Bongiorno, trasportato in
elicottero in cima al Cervino e che grida: «Sempre più in alto!».
La Piave viene portata dagli stessi produttori ai raduni nazionali
degli alpini non in bottiglie, ma in botticelle. Bocie e veci ringraziano,
apprezzano e quando tornano a casa continuano a comprarla e a berla. Sono gli anni in cui furoreggia la bottiglietta mignon da dieci centilitri, oggi ambìto oggetto da collezionisti in vendita su eBay. I fratelli
Maschio ingrandiscono l’azienda e aprono una distilleria nuova di zecca, a Visnà di Vazzola, vicino a Conegliano.
A metà degli anni settanta la Piave vende quattro milioni di bottiglie in
un mercato che ne vale quaranta milioni (oggi se ne vendono la metà: venti milioni), esporta in Europa, soprattutto in Germania, mentre in Italia
dà un contributo determinante alla diffusione della grappa nel Centro e
nel Sud (fino ad allora il 90 per cento di questo distillato era venduto in
Triveneto, Piemonte, Lombardia ed Emilia. Oggi la quota nordista si è ridotta al 75 per cento e quella sudista è salita al 25).
Tra il 1975 e il 1976 entra in società, con una quota di minoranza,
l’elvetica Wine Food, partecipata dal Credito svizzero, la cui quota viene acquistata qualche tempo dopo dal gruppo Coltiva, della Lega delle Cooperative.
Trascorrono ancora anni di successi e i fratelli Maschio decidono di
andare all’incasso: tra il 1984 e il 1985 cedono il marchio all’americana Seagram, propietaria del whisky di «Michele l’intenditore» (Glen
Grant), del Chivas e del Porto Sandeman. Per loro la Piave non è che
una provincia dell’impero, e per questo distillato comincia un cammino
in discesa che lo porterà a vendere solo mezzo milione di bottiglie.
Quando la Seagram si ritira, un suo tecnico di produzione, un distillatore della provincia di Torino, fa proprio il marchio della Piave.
Dopo varie vicissitudini, alla fine degli anni novanta, se lo assicurano i
fratelli Gozio – ovvero gli attuali proprietari – che a Gussago di Brescia
1. C’era una volta un fiume
21
già possiedono le Distillerie Franciacorta. Questi, tra le vecchie carte,
ritrovano gli artefici del clamoroso successo di trent’anni prima e li richiamano in servizio.
L’operazione comincia ad avere successo: le vendite della Piave crescono nuovamente, portandosi vicino al milione di bottiglie. Non è ancora un fiume di grappa, ma un torrente che si sta rinvigorendo.
Piave, e sai cosa bevi.
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di Cadore
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Cretta
Sappada
Cima
Sappada
S. Stefano
di Cadore
Frison
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0
0
10 km
5 km
2. Le sorgenti
«Qui nasce il Piave» annuncia orgogliosa l’iscrizione scolpita sul cippo
che domina quella che viene indicata come la sorgente del fiume sacro
alla patria. E vien voglia di chiedersi: «Be’, tutto qui?». Francamente ci
si aspetterebbe qualcosa di più. Non che alla funzione storica del fiume
debba per forza corrispondere una sorgente altrettanto pomposa, ma
che il Piave sgorghi da un pozzangherone simile a una piscinetta gonfiabile per fare il bagno ai bambini, alle pendici del Monte Peralba, a
1830 metri d’altitudine, lascia l’amaro in bocca.
In ogni caso c’è stato un tempo in cui non c’era nemmeno il pozzangherone. Il Piave nasce da un prato acquitrinoso, in una vasta zona paludosa dalla quale zampillano centinaia, forse migliaia, di polle
d’acqua che convergono in un rigagnolo e lo trasformano in un torrente che acquista man mano coraggio: eccolo il Piave. O, meglio, ecco
quello che è stato stabilito essere il Piave, perché c’è anche chi contesta questa sorgente e afferma che il fiume nasca sì dal Peralba, ma
qualche centinaio di metri più in là, quel tanto che basta a superare
la linea di spartiacque e farlo scendere sul versante opposto, lungo la
Val Visdende.
Entrambe le sorgenti sono alimentate da un’unica polla che sgorga più in alto, vicino al rifugio Pier Fortunato Calvi. Solo che quest’acqua si perde poco dopo, sprofonda tra le rocce per riemergere a valle e
procedere un po’ a destra e un po’ a sinistra dello spartiacque. La battaglia tra Comelico e Sappada per i natali del Piave è durata a lungo e
24
Piave
si è risolta a favore della sorgente sappadina. Ma nel Comelico non ci
crede nessuno.
È stato negli anni trenta che si è deciso di darci un taglio con le dispute di campanile su dove passasse il «vero» Piave. Il fiume sacro alla patria
non ha una sorgente certa?
Non sia mai!
E allora via con la commissione: nominata dal Cnr (Comitato nazionale per le ricerche), «in seguito a domanda del ministero per l’Educazione
nazionale»1 (addirittura!) con il fine di «dirimere alcune controversie fra
i comuni finitimi di Sappada e San Pietro di Cadore nel Comelico».2 A
presiederla viene chiamato un docente dell’Università di Padova, Arrigo
Lorenzi.
L’illustre cattedratico si mette subito al lavoro: compulsa antichi volumi, esamina vecchie carte geografiche scovate negli archivi di Venezia
e del Cadore, si reca sul posto a intervistare i valligiani per cercare di
capire chi abbia ragione e chi torto. Scopre che già nel 1347 il patriarca Bertrando identifica la Piave con il rio di Sappada, constata che più
o meno tutte le mappe dei secoli precedenti segnano il Piave lì dove
sta ora. Una, che dev’essere particolarmente insultante per il Comelico,
si dimentica perfino di segnare il corso d’acqua che scende dalla Val
Visdende.
Insomma la storia vota per Sappada. Ma in tempi recenti si aprono alcune possibilità agli avversari: l’augusto professore scopre che il
Bollettino del Cai del 1869 scrive che le acque dei due torrenti si uniscono all’Argentiera e «quivi acquistano il nome di Piave»3 e che alcune carte ottocentesche chiamano Piave il ramo di Visdende e altre
ancora definiscono «acque gemelle»4 i due corsi d’acqua prima della
confluenza. «Non vo’ vedere quale de’ due rami gemelli che scaturiscono dal Peralba, debba ritenersi per la tua origine prima» scrive tal
Antonio Ronzon.5
Nella disputa entra anche un certo Pietro Carnielutti che, nel 1842,
sembra condividere questa tesi: «I due fiumicelli di Visdende e di
Sappada accompagnandosi, lasciate le proprie denominazioni, acquistano il nome di Piave».6
Ancora nel 1936, poco prima della soluzione della disputa, il generale Carlo Porro afferma in una lettera che alcuni attribuiscono il
2. Le sorgenti
25
corso principale del fiume alle acque provenienti dal Peralba, altri da
quelle che scendono in Val Visdende.7 Gli abitanti del Comelico si
ringalluzziscono.
E le misurazioni? Quando si parla si bacino imbrifero non ci sono dubbi, la palma va al Comelico: settantuno chilometri quadrati e
mezzo, contro i soli sessantatré del sappadino. Ma è la distanza dalla
sorgente che assesta al Comelico un micidiale colpo di maglio: quindici chilometri e quattrocento metri dalla confluenza dell’Argentiera al
Peralba via Sappada contro gli undici chilometri e duecento metri se
si passa per la Val Visdende. E questa, purtroppo per gli abitanti del
Comelico, è la misura fondamentale per stabilire quali siano le «vere»
sorgenti del fiume.
L’Igm (Istituto geografico militare) già nel 1932 sembra propendere per il ramo sappadino che chiama Piave di Sesis o Piave Propria, assegnando all’altro la denominazione di Piave di Visdende. La sconfitta
definitiva, però, è inflitta dal famoso professor Arrigo Lorenzi. Nella
sua relazione pubblicata nel 1936 afferma che la valle di Sappada è più
antica di quella del Comelico, quindi quella e solo quella8
deve essere considerata come il corso iniziale della Piave. Abbandonarla,
per portare le origini del fiume nel bacino di Visdende, morfologicamente diverso, trasversale e tardivo, sarebbe andare contro l’indicazione più
chiara della natura.
Avete capito, abitanti del Comelico? Le vostre rivendicazioni sono «diverse, trasversali e tardive»; guai a voi se continuate a dire che il vero Piave è
il vostro: andreste contro natura. Ovviamente a loro non interessano queste argomentazioni e la diatriba, pur ufficialmente risolta, continua a esser
tenuta ben accesa sulle pendici del Peralba nonché nelle valli limitrofe. E,
come sempre in questi casi, fioriscono leggende.
Una la racconta Marcello Iorio, guardia forestale. Un giorno imprecisato dei primi anni ottanta un gruppo di universitari olandesi si installa nel campeggio lungo il Piave, nella frazione in cui vive Iorio, a
Campolongo di Santo Stefano di Cadore. Il giovane italiano fraternizza con i viaggiatori, forse tra loro c’era anche una graziosa olandesina; uno degli studenti parla italiano e spiega che sono lì per effettuare
26
Piave
rilevamenti sulla velocità delle acque. Iorio coglie la palla al balzo e
chiede al gentile olandese quale sia la sorgente autentica. Lui risponde che sì, volentieri, all’indomani gli avrebbe dato la risposta. Il giorno dopo arriva il verdetto: «La sorgente è quella del ramo che scende
dalla Val Visdende, ma ci hanno detto di dire che è l’altra». Il mistero s’infittisce.
Sappada è l’ultimo lembo della provincia di Belluno, chiusa tra la Carnia
a est e l’Austria a nord. Vi si parla un dialetto altotedesco portato da popolazioni giunte dal vicino Tirolo attorno al Mille. La tradizione vuole che quattordici famiglie tirolesi abbiano dato vita alle quattordici
contrade sappadine. Comunque Sappada nella parlata locale si chiama
Plodn e il Piave diventa Poch, il cartello bilingue vicino alla sorgente
spiega che si tratta della «Zètz-Pòchquelle».
Niente a che vedere con il confinante friulano che pure si può sentir parlare anche su questo versante dei monti: se avete la fortuna di
essere sintonizzati su Rai Radio 1 all’ora giusta, potrete apprezzare la
quotidiana trasmissione Vuê o favelin di… nella quale compunti assessori del comune di Udine vengono intervistati rigorosamente in
marilenghe.
La sorgente, si diceva, è un mezzo tarocco. La pozza è stata costruita una
quarantina d’anni fa incanalando alcune polle in un unico punto: mica si
poteva andare alle sorgenti del Piave e non veder nulla! È sovrastata da
un cippo di pietra alto un paio di metri, con l’iscrizione di cui si è detto
(«qui» era accentato, poi l’errore è stato lasciato pietosamente scolorire,
mentre le altre lettere sono state ripassate con il nero; tuttavia l’incisione
malandrina nella pietra si vede ancora con chiarezza). Sotto c’è un’altra
lapide posta dal comune di Sappada in occasione del primo centenario
dell’Unità d’Italia. Sopra il cippo è collocata la riproduzione ingigantita di un elmetto italiano (che in realtà era francese) della Prima guerra
mondiale.
Il pozzangherone è tondo, avrà poco più di due metri di diametro e il fondo sassoso; da lì si diparte un rigagnolo che passa sotto
un ponticello di legno prima di cominciare a serpeggiare tra i campi.
A un metro dalla sorgente il Piave è largo una ventina di centimetri.
2. Le sorgenti
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Un po’ più in là, per chi vuol provare l’ebbrezza di bere quell’acqua,
c’è una fontanella in puro stile alpino: l’acqua sgorga da un ramo cavo (ma dentro c’è un tubo di gomma), cade in una vasca formata da
un tronco d’albero svuotato e tagliato a metà, fa un mezzo giro, e si
unisce al rigagnolo che esce dalla pozza. Un cartello sbiadito avvisa i
viandanti: «Non insudiciatemi. Queste acque sono sacre». «Sacre» è
scritto maiuscolo e sottolineato, come i nomi degli eroi nel libro mastro dei ragazzi della via Pál. Il Peralba fa la guardia arcigno dall’alto
dei suoi 2694 metri.
Essere il fiume sacro alla patria comporta alcuni privilegi, tra cui quello di essere continuamente visitato, in una sorta di pellegrinaggio patriottico-alpestre che fa la gioia dei gestori del rifugio Sorgenti del Piave
(c’è anche un albergo con il medesimo nome, ma si trova a valle, a Cima
Sappada).
Ci sono signore in età che si levano gli scarponi e improvvisano un
percorso Kneipp nei primi metri del fiume, ragazzini che immergono
i piedi nudi nel pozzangherone e urlano sorpresi: «Ma è fredda!». C’è
anche un visitatore in preda a un orgasmo fotografico che prima fa spostare tutti per immortalare il cippo senza fastidiose presenze umane, e
poi obbliga la famigliola a posare accanto all’iscrizione: si presenta, si
chiama Pasquale Masino, è originario di Paludi (eh sì, sempre acqua…)
in provincia di Cosenza, ma residente da tempo a Roma, e ha una vera
passione per quel fiume, nata sui banchi di scuola, «quando mi facevano cantare Il Piave mormorò».
Più in alto sorge una cappelletta, alla destra della pala d’altare è appesa
la foto di papa Wojtyla con copricapo da alpino. Da generale degli alpini,
per la precisione. Giovanni Paolo ii qua era di casa. Nel 1982 raggiunse la cima del Peralba: con la Campagnola della Forestale arrivò al rifugio Calvi, e poi a piedi in vetta. Licia Piller Hoffer, trentatreenne gestrice
del rifugio Sorgenti del Piave, spiega che il pontefice è transitato per di là
senza fermarsi, «c’erano troppi ospiti e la sicurezza non ha ritenuto opportuna la sosta». Invece – era mattino molto presto – è entrato, inatteso,
al Calvi. Ora pensate alla faccia dei gestori che, ancora insonnoliti, verso
le sei del mattino vedono oltrepassare la porta un anziano signore dall’accento strano, in tonaca e zucchetto bianchi, con gli scarponi ai piedi.
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Piave
Alla sinistra dell’altare della cappelletta è appesa la foto di padre
Massimo Kratter (mezza Sappada ha questo cognome), missionario in
Laos e Senegal, morto trentaquattrenne sul Peralba cadendo in una
fenditura tra neve e roccia. Uscendo dalla cappella, subito a destra c’è
l’attacco del sentiero «Peralba via ovest»: dopo aver percorso qualche
centinaio di metri, quando la traccia battuta piega decisa a destra, si distingue chiaramente un rumore d’acqua.
In basso si scorge un ruscello tra le rocce e se si scende – ma la discesa è disagevole – si arriva alla fenditura nella roccia dalla quale sgorga quell’acqua. Questa è la sorgente di quello che le carte indicano come
Cordevole, ma che gli abitanti della Val Visdende e del Comelico si ostinano a chiamare Piai, cioè Piave (anche se con Piai, in questa zona, si designa ogni corso d’acqua).
Il papà della sorgente del Piave – quella autenticata – si chiamava
Stefano Piller Hoffer, è morto una ventina d’anni fa. Era un appassionato cacciatore e veniva da queste parti per inseguire cervi, caprioli e quei
galli forcelli che ancora popolano i pendii. La zona gli piaceva soprattutto dopo gli acquazzoni, quando quell’acqua conferiva all’insieme qualcosa di magico: mille ruscelli sgorgavano dalla montagna e rilucevano al sole
limpido. Piller Hoffer era anche assessore e non deve esser stato eccessivamente difficile ottenere lassù, ai piedi del Peralba, un’area in concessione. Sembra incredibile che nessuno prima, nemmeno quei tromboni
dei fascisti che si riempivano la bocca di Piave, abbia pensato di sfruttare turisticamente la zona, e che sia rimasta tanto a lungo selvaggia e abbandonata a se stessa.
Tra il 1964 e il 1965 Piller Hoffer erige il rifugio, allora più piccolo di quello attuale, dove oggi troneggia la sua foto con il berretto della
Vasaloppet, la gara di fondo più celebre del mondo. Dall’alto di una parete continua a controllare gli ospiti. Nel 1968 costruisce la vasca che raccoglie la primissima acqua del Piave e negli anni settanta fa asfaltare la
strada che conduce alla fonte: oggi arrivare alle sorgenti del Piave non richiede alcuno sforzo.
Nelle giornate di punta è possibile incontrare anche tre-quattrocento
persone, affascinate dal paesaggio maestoso e pronte a mettersi in
marcia per uno dei tanti sentieri che partono da qua, o a rilassarsi tra
le panchine e i tavoli da picnic. Il rifugio si erge su un’area rocciosa,
2. Le sorgenti
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l’unica asciutta in una zona altrimenti paludosa. È gestito dalla vedova
di Stefano, Lucia, assieme alle figlie Elda e Licia.
«Abbiamo un legame affettivo con il Piave» osserva Licia «siamo nate qua, io sono scesa a valle il giorno prima che nascesse mia figlia e sono tornata quando aveva quattro giorni.» Licia ricorda quando il Col di
Caneva, il monte dirimpettaio al Peralba, era ricoperto di fiori, mirtilli e
funghi. Ora scarseggiano: troppa gente li raccoglie e piove sempre meno.
Comunque l’acqua non manca mai, la sorgente del Piave non si è disseccata nemmeno nell’arida e afosa estate del 2003. Quando le si chiede di
ricordare gli ospiti illustri, Licia fa il nome di Francesco Cossiga che, da
presidente della Repubblica, venne ad assistere alle manovre degli alpini.
Ora non ci sono più manovre e neanche molti alpini, da quando è stato
abolito il servizio di leva.
Il Piave, si diceva, comincia a serpeggiare con fatica tra l’erba e il terreno intriso d’acqua. Si allontana dalla sorgente in un avvallamento a
fianco della strada, tanto insignificante che è persino difficile vederlo. Scorre nel prato e a poco più di un metro dal punto d’osservazione
non se ne distingue l’acqua, ma si percepisce soltanto un diverso andamento del terreno.
Bisogna allontanarsi di almeno un chilometro dal rifugio Piller Hoffer,
e arrivare all’altezza del piazzale da cui parte il sentiero per il rifugio
Calvi, per vedere il corso d’acqua trasformato in un torrentello che scende vigoroso nel bosco, tra le rocce. Là l’alveo è diventato impermeabile e
raccoglie l’acqua che fuoriesce dal suolo.
Più giù c’è il bivio per la Malga Casera Vecchia, la strada è sterrata e
i cartelli di divieto minacciano chiunque vi si avventuri con mezzi motorizzati. In realtà un nuovo regolamento comunitario – evidentemente non
ancora registrato – permetterebbe di accedere anche in auto alle malghe
durante il periodo di apertura (da metà giugno a metà settembre), ma
questa strada è parecchio sconnessa ed è meglio percorrerla con i mezzi
adatti. In ogni caso si passa sopra a quello che risulta essere il primo passaggio in muratura sul Piave: un ponticello che porta alla malga di Aulo
Gressani, sessantatreenne di Ovaro, un comune della Carnia, produttore
di ottimi formaggi vaccini e caprini.
Tornati sulla strada principale, si continua a scendere e si costeggia
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Piave
il Piave che si è fatto un torrente allegro, largo circa un metro e mezzo.
Il secondo ponte che lo scavalca è quello nelle vicinanze della Ochsen
Hütte, a 1641 metri di altitudine, un’ex stalla trasformata in casa vacanze per ragazzi dal parroco di Sappada. Il fiume scorre gorgogliando,
poi sprofonda sulla sinistra, incassato tra le pareti rocciose. All’altezza
di Malga Rododendro è ormai un bel torrente largo e vistoso che si fa
strada nel bosco.
Più in basso (ma scendendo si fatica a scorgerla, la si vede solo oltre
una curva successiva) si erge una vecchia segheria, con la grande ruota di legno che gira ancora spinta dall’acqua. Qui il Piave è gagliardo:
salta e forma pozze.
Dietro, nascosto, c’era il mulino di Antonio Kratter, tenuto in funzione dal fratello Agostino fino agli anni settanta (era il primo mulino
lungo il corso del fiume e sorgeva dove si potevano sfruttare il dislivello e gli alti balzi dell’acqua).
Poche centinaia di metri dopo il Piave incontra il primo centro abitato: Borgata Cretta, una frazione di Sappada. Per salire alla sorgente,
tuttavia, non si passa di qua, ma si transita attraverso Cima Sappada,
altra frazione, separata dal centro principale e rimasta decisamente più
intatta: sono numerose le tipiche case in legno sopravvissute (una, la
Voltan Haus, è stata trasformata in agriturismo: la stube e le stanze al
pianterreno sono originali dell’Ottocento, e Margherita Piller riceve gli
ospiti indossando il costume del luogo).
Sulla facciata della chiesa di Sant’Osvaldo è infissa una targa in memoria del padre francescano Cherubino Fasil che andò «tra i popoli
idolatri del Celeste impero» ai tempi della rivolta dei Boxer.
A presidiare il Museo etnografico c’è Luigi Kratter, settantatreenne
nipote del mugnaio – «C’erano tre macine, ma d’inverno ne andava solo una perché l’acqua era poca» – rientrato in zona dopo trent’anni in
Baviera. Il Piave per lui è come una persona di casa, ricorda quando ci
sguazzava dentro assieme ai suoi coetanei e, se aveva sete, ne sorseggiava l’acqua, «bastava accucciarsi». «Il Piave si beveva fino agli anni sessanta» osserva. Si ricorda bene anche quando, dopo un forte temporale,
il fiume si portava via tutti i ponticelli «e dovevano rifarli, perché bisognava andare nei boschi a lavorare».
A quei tempi l’acqua arrivava fino a cinquanta, sessanta centimetri
2. Le sorgenti
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d’altezza, oggi non raggiunge i trenta: l’alveo è stato allargato dai prelievi di sabbia, ghiaia e massi. Tutta Sappada per lungo tempo è stata
costruita con i sassi del Piave, i prelievi sono continuati fino ai primi anni ottanta: chi aveva bisogno di sabbia o di pietre se le prendeva.
L’estrazione di materiale da costruzione, che oggi fa inorridire gli ambientalisti, sembra che a Sappada abbia avuto un effetto positivo: ha
rabbonito il fiume.
Luigi Kratter ricorda anche quando il Piave, nel novembre 1966, si
è portato via un pezzo di strada e una trattoria (ora in quel luogo, al
confine con il Comelico, è stata scavata una galleria). Lui percorse quel
tratto qualche tempo dopo l’alluvione. L’acqua era ancora tanto alta da
arrivare alla maniglia della portiera dell’auto, ma Luigi doveva andare in
Germania e non aveva voglia di fare il giro per la Carnia: gli andò bene.
L’auto si trasformò di fatto in un mezzo anfibio, ma non si fermò. Era
una Ford 1500 coupé, una buona macchina, non c’è dubbio.
Torniamo alla strada che attraversa Borgata Cretta. Costeggia la
Caserma Fanzil, ora abbandonata, un tempo utilizzata dall’Ottavo alpini come base per i corsi di roccia e di sci (pare che il fiume sia molto
più pulito da quando le fogne della caserma non scaricano più liquami), quindi entra nel centro di Sappada, una cittadina turistica, con
qualche bella vecchia casa e molti negozietti di souvenir. Sappada può
vantare un ristorante stellato, il Laite: una stella Michelin e tre forchette Gambero Rosso.
Il locale è dovuto alla passione di Fabrizia Meroi e Roberto Brovedani,
coppia nella vita e nel lavoro, che hanno cominciato nel 1990 gestendo un altro ristorante sappadino, il Keisn. Poi, folgorati da una casa del
Settecento, l’hanno amorosamente restaurata e nel 2001 ci hanno aperto il Laite, ora ospitato in due sale d’epoca interamente rivestite in legno. Fabrizia sta ai fornelli, Roberto si occupa dei vini e riceve gli ospiti
in sala. La cucina è attenta al territorio, e propone anche pesce d’acqua
dolce, un tempo regalato in abbondanza dal fiume.
Il Piave è lontano, scorre fuori dal centro abitato, sulla sinistra, e dà
anche spettacolo con l’orrido dell’Acquatona, dove l’acqua compie un
salto di cinquanta metri scorrendo in una forra e finendo dentro una
grande pozza. Dall’alto della strada si può ammirare la cascata, i più
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Piave
arditi possono scendere tra le rocce per una ventina di minuti e godersi il salto dal basso (poi bisogna risalire, però). Tanto per farsi un’idea
del sappadino, nell’idioma locale l’orrido dell’Acquatona si chiama
Huoache Prucke Bossarvool.
Ancora pochi chilometri e un affluente di destra del Piave segna il
confine tra Sappada e il Comelico. Passata la galleria, un cartello sulla
destra indica la direzione da prendere per la Val Visdende. La strada si
inerpica e dopo un po’ di tornanti si entra in una specie di Eden (l’accesso è a pagamento). È una valle in quota, ma ampia e piatta, con un
paesaggio da Cronache di Narnia dove non sorprenderebbe la vista di
un branco di unicorni al galoppo verso l’infinito.
Una targa su Malga Pramarino ricorda che il principe Scipione
Borghese venne proprio qui, nel 1906, ad allenarsi per il raid automobilistico Pechino-Parigi, che avrebbe percorso l’anno successivo a
bordo di un’Itala in compagnia di Luigi Barzini ed Ettore Guizzardi
(sarebbe interessante capire chi mai abbia suggerito al principe
Borghese di andare a prepararsi proprio in Val Visdende).
Poco ci è mancato che questo angolo di paradiso sparisse e diventasse il fondo dell’ennesimo lago artificiale creato per ricavarne energia elettrica.
La Sade (Società adriatica di elettricità, ha gestito l’energia in Veneto,
in Friuli-Venezia Giulia, in Romagna, in Puglia, dalla fondazione del
1905 alla nazionalizzazione del 1962) ci aveva messo gli occhi, ma non
aveva fatto i conti con il terreno carsico. «La zona alle spalle della casermetta della Guardia di finanza» spiega Iorio «è recintata perché vi si
aprono alcune voragini. Mia mamma mi raccomandava sempre di non
andarci perché le pecore e le mucche che si inoltravano là dietro non
tornavano più. So che hanno fatto alcuni sondaggi gettando coloranti
che riemergevano molto lontano, già in pianura.» Constatato che l’acqua sprofondava nel sottosuolo, la Sade ha rivolto le sue brame altrove e ha lasciato in pace la Val Visdende.
Meno male.
In ogni caso il corso d’acqua che ci scorre in mezzo è segnato sulle
carte con il nome di Cordevole (in qualcuna per la verità anche Piave di
Visdende, come aveva indicato l’Igm), ma Rosanna Casanova, che gestisce Malga Pramarino, proprio non ci sta: «Per tutta la Val Visdende
2. Le sorgenti
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questo è il Piave, non c’è niente da fare. Ce l’hanno contestato, hanno stabilito che il Piave più lungo è quello di Sappada, ma questo qua
ha una bella sorgente, mentre quello nasce da una pozzanghera. Se ce
l’hanno fregato, dobbiamo a malincuore lasciarglielo. Ma noi continuiamo a chiamarlo Piave, Piai in dialetto».
Un fiume, due sorgenti.
Pa
do
la
Ansiei
Auronzo
Presenaio
San Pietro di Cadore
Mare
S. Stefano
di Cadore
Campolongo
Frison
Cima Gogna
Lozzo
Lorenzago
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Pieve di Cadore
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