La Lettera neLLa bottigLia

Karen Liebreich
La lettera
nella bottiglia
Traduzione di
Maria Teresa Gabriele
Titolo originale:The Letter in the Bottle
© 2006, 2010 by Karen Liebreich
Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)
I Edizione 2011
© 2011 - Edizioni Piemme Spa
20145 Milano - Via Tiziano, 32
info@edizpiemme.it - www.edizpiemme.it
Una domenica, il 31 marzo del 2002,
una bottiglia con dentro una lettera
si arenò sulla riva di Warden Bay,
nell’isola di Sheppey, Kent.
Dopo sette anni di ricerca,
l’autrice della lettera finalmente si è fatta viva...
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La bottiglia si arenò nel fango proprio sulla linea segnata dall’alta marea. Un lacrimone blu intenso, brillante,
non toccato dai detriti e dalle alghe.
Lei aveva fatto una pausa per portare a spasso i cani.
All’improvviso sommersa dal cumulo di lavoro arretrato che aveva di fronte, si era allontanata dalla scrivania,
aveva radunato i cani e si era diretta verso la macchina.
Warden Bay non era la spiaggia più vicina. Era a venti minuti di strada ma la desolazione del luogo ben si
intonava con il suo umore. Attraversò la terraferma per
giungere all’isola di Sheppey, godendosi, dopo la claustrofobia del suo ufficio, il panorama piatto e spazioso.
In inverno, con la bassa marea, il fango grigio di Warden Bay arrivava lontano. La piattezza e l’assoluta omogeneità non attirava nessuno dei visitatori che bazzicavano Beachy Head, con i suoi fantastici lidi, gli agevoli
parcheggi, l’accesso facile dalle strade e le scogliere a
strapiombo sul mare. Nessuno frequenta Warden Bay
in inverno, sebbene qualche teppistello delle case popolari nelle vicinanze a volte gettasse qualche carrello
del supermercato sulla spiaggia sottostante.
Era rimasta lì per circa venti minuti, imbacuccata in
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una giacca di pelle nera chiusa fino al mento per difendersi dal freddo e dall’umidità e un cappello con il
pompon calato fin sulla fronte. I cani saltellavano felici
a poche centinaia di metri da lei senza perdere di vista
lei e la direzione del percorso. Il loro pelo, che la cinerea luce invernale rendeva più grigio e cupo, armonizzava con i sassolini della spiaggia e in quelle rare occasioni
in cui erano fermi per annusare qualcosa di particolarmente interessante riuscivano quasi a mimetizzarsi del
tutto. Solo il movimento li rendeva visibili.
Il blu della bottiglia era una scheggia improvvisa di
colore che lei, mentre camminava in direzione del vento, con le spalle ricurve, scorse in lontananza. Il suo
bagliore sapeva di un clima lontano, dove brillava il sole e il mare era di un azzurro speciale. Giaceva sulla linea della marea, dove il grigio del fango s’incontrava
con quello delle pietruzze.
Vi si avvicinò, si piegò e raccolse la bottiglia, attratta
dal suo colore irresistibile e dalla sua fragile levigatezza.
Sentì di non poter fare a meno di raccoglierla: non farlo
sarebbe stato come abbandonare un figlio sulla spiaggia. Forse, in una primavera lontana, avrebbe potuto
usarla come vaso per un solo fiore. Una voce le ricordò
che in cucina aveva una mensola piena di bottiglie impolverate raccolte qua e là, ma quella era diversa. La
forma non era come quella delle altre: una goccia blu di
Evian, anche in un luminoso supermercato dai colori
sgargianti, si sarebbe notata. Sulla spiaggia monocromatica l’effetto era sorprendente. Mentre si avvicinava
a guardarla, liscia e luccicante nel palmo di lana della
sua mano, notò che conteneva un rotolo di carta.
Qualcosa le scattò dentro. Un messaggio in bottiglia.
Un briciolo di eccitazione in un giorno tetro, in un mese
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tetro, dopo quello che si era rivelato un anno tetro. Provò a svitare il tappo ma le sue mani ricoperte dai guanti
scivolavano sul vetro reso viscido da una leggera condensa. Piuttosto che rischiare di rovinare il messaggio,
controllò la sua emozione, lanciò un fischio ai suoi compagni e si diresse verso casa. I cani, colti alla sprovvista
per il cambio di direzione, corsero per raggiungerla.
Una volta a casa asciugò loro le zampe e si preparò
una tazza di tè: non riusciva a pensare ad altro che alla
bottiglia con il rotolo di carta. Era una lettera d’amore?
Una preghiera d’aiuto? O solo uno scherzo da ragazzi?
Sapeva che doveva essere speciale perché la marea non
l’aveva rotta, il fango non l’aveva sommersa e i bambini
del posto non l’avevano trovata prima e ridotta in mille
pezzi. Sembrava indirizzata a lei.
Prese la tazza e la bottiglia dal soggiorno e si sistemò
sul divano. I cani si leccavano il sale e la sabbia tra le
zampe. Un odore di pelo bagnato invase la stanza. La
bottiglia sembrava ardere di promesse e lei non voleva
interrompere il magico brivido dell’anticipazione. Alla
fine posò la tazza, prese la bottiglia e cercò di svitare il
tappo. Era appuntito, dalla forma strana e lei lo strinse.
Lottò per un po’, poi, tutto a un tratto, cedette.
Era stata sigillata bene con una fettuccia bianca e la
lettera non si era bagnata. Rovesciò la bottiglia sul tavolino e il rotolo scivolò fuori, legato da un nastro celeste
insieme a trucioli di legno profumati. Slegò il nastro
delicatamente e srotolò i fogli. Dalle pagine cadde un
ricciolo di capelli. Tra le dita i fogli fittamente scritti
con l’inchiostro blu tendevano ad arrotolarsi di nuovo.
La grafia era contorta e la lingua straniera. Con il suo
francese scolastico a malapena riusciva a decifrare le
prime parole.
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Avvertì una punta di delusione. Avrebbe dovuto
aspettare per scoprire il contenuto del messaggio, sebbene le sembrasse giusto che la bottiglia continuasse a
custodire il suo segreto ancora un po’. Mentre teneva la
lettera sotto il naso e inalava il dolce profumo dei trucioli di legno di sandalo che avevano avvolto il rotolo di
pergamena pensava a chi avrebbe potuto rivolgersi per
far tradurre la lettera. La bottiglia era stata scelta con
cura, il ricciolo di capelli, il legno profumato, tutto preparato con attenzione e con una tale tenerezza che il
contenuto di sicuro non l’avrebbe delusa. Lasciò la
bottiglia e il suo contenuto sparpagliati sul tavolo e si
avvicinò al telefono.
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Sebbene avessi accettato subito di dare uno sguardo
alla lettera, quando arrivò, dopo un giorno o due, ne fui
seccata.
Stavo cercando disperatamente di rispettare il termine di una consegna importante e non avevo tempo da
perdere. Avevo ascoltato con un orecchio solo la descrizione di come era stata trovata la lettera e quelle
pagine scritte in un francese non facile arrivavano proprio in un brutto momento.
La mia amica non aveva rimesso la lettera nella bottiglia ma mi aveva semplicemente spedito le pagine,
stirate alla meglio, in una busta riciclata, senza alcun
commento di accompagnamento. Quando spiegai i fogli e vidi quella grafia arzigogolata e difficile da interpretare, mi scoraggiai. Lessi le prime righe con esitazione. Decifrarla avrebbe richiesto impegno così la
misi da parte per riprenderla quando avessi avuto un
po’ più di tempo.
Un paio di settimane dopo ripescai la lettera dalla
vaschetta della corrispondenza e iniziai a tradurre, scrivendo direttamente mentre leggevo, senza lasciare che
il significato precedesse la mia trascrizione.
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Alle navi in navigazione e ai porti di scalo, alla mia famiglia e a tutti gli amici ed estranei.
Questo è un messaggio e una preghiera. Il messaggio è che
la mia sofferenza mi ha insegnato una grande verità: io ho
già avuto (tanto tempo fa) quello che tutti quanti cercano
ma che soltanto pochi trovano, la sola persona al mondo
che ero destinata ad amare per sempre, il mio primo figlio,
Maurice. Un bambino ricco di semplici tesori, che nessun
vento, nessuna tempesta, nemmeno la morte potranno
mai distruggere. La preghiera è che tutte le mamme al
mondo possano conoscere questo genere d’amore ed essere da esso sanate. Se la mia preghiera sarà ascoltata saranno cancellati per sempre tutti i rimpianti e tutte le colpe e
avranno fine tutti i rancori.
Dio volendo.
La mia vita è cominciata quando lui è nato e pensavo
fosse finita quando, in una sera d’estate, mi ha lasciata e
non è più ritornato. Aveva tredici anni. Senza avvisare, è
scivolato via in un eccesso di desiderio, troppo pieno di
vita intensa, all’alba dell’estate. Ha viaggiato per molto
tempo tra due acque, tra due luci cercando incessantemente di esaurire la forza nelle sue braccia tese. Si è sottomesso al silenzio, al terrore e al freddo ma ha scoperto
le strade segrete dell’universo, l’infinito moto delle nostre origini e le meraviglie delle stelle.
Lui non sa che io, sua madre, lo nutro con i miei pensieri
per garantirgli vita eterna nella memoria, per mantenerlo intero nella mia carne.
Perdonami, figlio mio, amore mio... pensavo che rimanendo attaccata al tuo ricordo in questo modo, sarei riuscita a mantenerti in vita il più a lungo possibile. Perdonami, figlio mio, per non averti parlato per così tanto
tempo. Mi sentivo persa, disorientata. Continuavo a
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sbattere contro le cose, inciampando ovunque... Non mi
ero mai persa prima che tu mi lasciassi. Tu mi hai mostrato il nord, io ho sempre trovato la mia strada, perché tu
eri la mia strada.
Perdonami per essere così furiosa per la tua scomparsa.
Penso ancora che si sia trattato di un errore e continuo ad
aspettare che Dio lo ripari.
Ora va meglio, amore. La strada è stata lunga. Lunghissima, ma in tutto ciò tu mi hai sostenuto.
Qualche notte fa mi sei apparso in sogno e il tuo sorriso
mi ha cullato come una bambina. Ho capito che per me
era il momento di lasciarti andare.
Mi sei stato vicino per tutti questi anni... sono rimasta
aggrappata con tutta la mia disperazione a ciò che non
c’era più e non sarebbe mai stato di nuovo.
Mio infinito, pensavo che questa sofferenza mi legasse a
te. Mi ha consumato fino a non lasciare più spazio per
nessun’altra cosa, ma ho cominciato a permetterti di lasciare il mio cuore, la mia anima, il mio vero essere. Grazie a te, amore mio, sono riuscita a trasformare questa
sofferenza in amore, in vita. Tutto quello che ricordo di
questo sogno è una sensazione di pace, per te, per me.
Quando mi sono svegliata la sentivo ancora e ho provato
a mantenere viva la sensazione il più a lungo possibile.
Ti scrivo, Maurice, per dirti che mi sono imbarcata alla
ricerca di questa pace e per chiedere il tuo perdono per
tante cose. Perdonami per non averti saputo proteggere
dalla morte. Perdonami per non essere riuscita a trovare
le parole in quel momento tremendo in cui mi sei scivolato tra le dita, per esprimerti quello che sentivo, e soprattutto per non averti tenuto così stretto da non permettere a Dio di portarti via.
Non c’è un attimo nella mia vita, figlio mio, in cui tu non
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sia presente. Quante strade ho percorso prima di riuscire
ad ascoltare e a sentire il rumore del mio dolore, del nostro dolore.
I tuoi tredici anni di vita mi hanno regalato un’infinita
felicità. Oggi, so che tu sei andato via per mostrarmi la
strada, per rivelarmi come devo condurre la mia vita e,
lasciandomi, mi hai invitata a osare per cambiare qualcosa che fino ad allora non potevo immaginare. Tu avevi il
potere per dire, con la tua presenza, seppure breve, e la
tua brutale scomparsa: «Mamma, sfida (per vivere) la tua
vita, è solo tua». Oggi ascolto e sento il messaggio che
mio figlio mi ha mandato, mio figlio, la cui vita effimera
mi ha ferita per sempre perché sono stata sorda al suo
messaggio per tanto tempo.
Oggi il viaggio è terminato, mio figlio ha raggiunto di
nuovo il porto, in una spiaggia lontana, vicino al sole
nascente. Ancora una volta lui ha trovato la barca leggera
della sua infanzia che dolcemente lo guiderà verso la pace
che ha raggiunto.
Quindi mio caro, mio amore, ho lasciato che la mongolfiera salisse nel cielo, serenamente, con tutta la tenerezza
di una madre.
Possa questa bottiglia gettata lontano dalla riva essere
cullata per sempre dall’oceano, nel flusso e riflusso delle
onde in movimento.
Finché Dio mi darà vita ti prometto che la vivrò appieno,
e assaporerò ogni istante in ricchezza e serenità.
So che ne troveremo ancora un’altra, quando arriverà il
momento. Dio ce lo deve.
Addio figlio mio, addio amore mio.
Ti amo con tutto il mio cuore, con tutta la mia anima e
sono orgogliosa di essere stata tua madre.
Vola via in pace.
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Va’, amore mio, va’ verso la luce, mio dolce gabbiano.
Possa la fonte della tua anima ondeggiare e correre mormorando verso il mare e schiudere gli innumerevoli petali di un fiore di loto.
Può essere che molti di noi scrivano la storia della propria vita componendola man mano che la vivono; però ci
sono quelli le cui vite sembrano essere scritte in anticipo,
inevitabili, e che formano un circolo perfetto. Ci sono
altre vite il cui corso è imprevedibile, a volte incomprensibile. Ciò che ho avuto il dolore di perdere mi ha insegnato quello che vale di più, nello stesso modo in cui mi
ha insegnato questo amore, per il quale non posso che
esserne grata.
Questa lettera, figlio mio la voglio condividere con una
sola persona, l’unica amica che io ho avuto nella mia vita
e oltre. Si chiama Christine. Lei è la dolcezza in persona.
Quando cominciai a decifrare e tradurre la lettera
non avevo alcun pregiudizio. Era lunga, e immaginavo
mi avrebbe portato via un’ora, giusto per scriverne una
bozza. Ma quando iniziai a leggere quasi subito mi feci
trascinare dal viaggio emotivo di quella madre sconosciuta che aveva perso suo figlio. Come se ne poteva
fare una ragione? Come poteva continuare a vivere?
Come era morto il ragazzo? Mentre traducevo e scrivevo iniziai a temere che si trattasse della lettera di una
suicida. A metà mi fermai e passai al finale, con la paura che vi fosse l’addio di una madre che, per ricongiungersi con il figlio, si era buttata dalla scogliera. Ma le
ultime righe non avevano senso con il resto della lettera
così ritornai lì dove mi ero fermata. Scrissi più velocemente, facendo una traduzione molto letterale, correndo per vedere che cosa fosse accaduto. Mente traduce19
vo, piangevo e il mio compagno, che lavorava in silenzio
alle mie spalle si guardò intorno incuriosito. Non riuscii
a recuperare la calma finché non scoprii come finiva la
lettera. Ma quando la donna promette al figlio che
avrebbe continuato a vivere e ad assaporare «ogni istante in ricchezza e serenità» la mia ansia si attenuò. Una
volta finito, mi sentii emotivamente esausta dall’orrore
dell’esperienza dell’autrice e dal suo dolore messo a
nudo. Chi era lei? Che cosa era accaduto a Maurice?
Dov’era lei ora?
Tenni la lettera ma inviai la traduzione alla mia amica
poi ritornai al mio lavoro, sollevata.
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3
Non seppi nulla per diversi giorni. Alla fine domandai
alla mia amica se aveva ricevuto la traduzione e cosa ne
pensasse.
«È terribile» sussurrò con la voce rotta. La lettera
l’aveva sconvolta. Come madre single di un figlio di
tredici anni, aveva trovato il messaggio quasi insopportabile e non era stato facile arrivare alla fine della lettura. Quando quel giorno aveva raccolto la bottiglia sulla
spiaggia aveva pensato a un romanzo, a un mistero, al
fascino di un messaggio proveniente da un paese remoto. Ma la lettera era ben lontana da tutto ciò che
aveva immaginato. In seguito mi disse che dopo averne
scoperto il contenuto, per giorni si era sentita abbattuta
e commossa, piangendo la morte di Maurice, immedesimandosi in quella madre ignota. Era diventata pian
piano più protettiva nei confronti di suo figlio. Si era
offerta di portarlo alle partite di football, la mattina lo
accompagnava per un breve tratto quando andava a
scuola, lo andava a riprendere dagli amici, per non farlo salire sull’autobus da solo.
La morte di un bambino è inimmaginabile. La mente
la rifiuta; tuttavia, quando presi in mano quella lettera
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fui costretta ad affrontarla. Sebbene fosse stata la mia
amica ad aver trovato la bottiglia, sentii che il contenuto era stato scritto per me. Ed era a me che era indirizzato. A parte l’amica di cui nulla si sapeva, Christine, io
ero la prima persona ad avere avuto tra le mani quella
lettera, io ero stata la prima a leggerla e a comprenderne il messaggio di disperazione.
Era una lettera personale. Iniziava rivolgendosi a tutti gli sconosciuti ma poi circoscriveva l’attenzione a un
messaggio privato al figlio. I paragrafi finali, però, sembravano aprirsi in maniera più universale: «ciò che ho
avuto il dolore di perdere mi ha insegnato quello che conta di più» e, nelle prime righe: «tutte le mamme al mondo possano conoscere questo genere d’amore ed essere da
esso sanate». La lettera conteneva la contraddizione tra
il tenere segreto il proprio dolore e volerlo condividere
con il mondo, riflessa nel segreto di scrivere una missiva privata e poi gettarla in mare, indirizzata a tutti gli
sconosciuti di tutti gli scali del mondo.
Per qualche motivo, discutendo del terribile contenuto della lettera con la mia amica mi sembrava di renderlo più reale, e quella notte non riuscii a dormire
cercando di allontanare dalla mente il dolore di quella
madre sconosciuta. Cercai di non soffermarmi su
quante notti insonni lei doveva aver trascorso. Su come
doveva aver percepito l’essenza stessa della sua anima
divenire oscura. Era la lancinante, ineluttabile sofferenza della sua perdita a tenermi compagnia quella
notte.
Di solito evito di pensare a una perdita così annientante. Perché dovrei torturarmi immaginando mio figlio morto? Tutte le volte che un bambino scompare e
la fotografia del suo faccino appare luminosa dalla pri22
ma pagina di un giornale o dallo schermo televisivo, la
compassione per la famiglia è mista all’orrore che possano esistere crimini simili. Ma soprattutto c’è la paura
che possa capitare a tuo figlio. Nessuno riesce a restare
indifferente di fronte alla perdita di un bambino, ma
solo su un genitore la perdita di un bambino provoca
un impatto emotivo del genere. Con le storie di cronaca
si riesce tuttavia a prendere le distanze dalle vittime. Il
solo fatto che la morte sia riportata dai media la rende
distante e quindi più sopportabile. Ma questa lettera
era un grido diretto di angoscia.
Era arrivata nella mia cassetta della posta priva dell’aureola misteriosa della sua bellissima bottiglia e senza alcun preavviso di tragedia o di mistero, e il suo contenuto mi aveva colpito con l’intenso impeto del suo
crudo messaggio. Seduta comodamente alla mia tastiera, al termine della normale routine della vita familiare,
ero stata sbalzata nella tragedia di un essere umano,
una morte che aveva trasformato la vita di questa sconosciuta, le cui parole, gettate in mare, per qualche motivo erano approdate sulla mia scrivania.
Nei giorni che seguirono anch’io diventai più protettiva verso i miei figli. Li vedevo con nuovi occhi e li
stringevo più forte quando andavano a scuola. Ero invasa di malinconia per quella madre che non conoscevo. Mi rattristavo all’idea che per lei non ci fosse più
una creatura a cui poter ravviare una ciocca ribelle di
capelli, o a cui poter rivolgere un abbraccio spontaneo.
Ogni genitore conosce la paura di non saper proteggere il proprio figlio, di non saperlo condurre verso la
maturità. Chi ha amato conosce la paura della perdita.
In un certo senso, la lettera rappresentava un messaggio universale: simboleggiava l’ansia che ogni madre
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prova per i propri figli. E tuttavia era un racconto di
una tragedia molto intima.
Io soffrivo con l’autrice della lettera, ma ne ero anche incuriosita. Chi era quella donna? Come era morto
il ragazzo? Cosa era accaduto veramente? E volevo sapere disperatamente se lei ora stava meglio, se, stando
alle parole di rassicurazione che aveva scritto, aveva
trovato un modo per vivere con il suo dolore e perfino
di godersi di nuovo la vita.
Quella storia mi intrigava. Avevo sempre pensato
agli automobilisti che per strada rallentano per guardare gli incidenti come a dei ficcanasi invadenti ma forse
quell’elemento di curiosità racchiude una motivazione
più complessa: se io so come è avvenuto l’incidente
posso evitare che capiti pure a me. E, naturalmente,
ringrazio il cielo che non sia capitato a me. In qualche
modo quella lettera di una madre sconosciuta, la cui
vita era stata assorbita da quella del figlio e che lo aveva
perso in maniera scioccante, aveva a che fare con la
stessa mentalità dell’incidente automobilistico. La miscela inquietante di curiosità e di compassione sembrava agire nello stesso modo e creare un affascinante mistero. Pochi giorni dopo chiamai la mia amica che
aveva trovato la bottiglia per una chiacchierata e la
conversazione presto passò alla lettera. Sebbene fosse
molto desiderosa di saperne di più, io sentivo che per
lei sarebbe giusto rimasto un mistero e che stava cercando di allontanare dalla sua testa quel messaggio deprimente e di continuare con la sua vita. Per me era
diverso. La lettera continuò a ossessionare i miei pensieri per le settimane successive e a poco a poco crebbe
il desiderio di scoprire di più. Si poteva trovare la madre?
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Ero assillata da curiosità meschine: volevo sapere come fosse morto Maurice e come fosse sua madre; avrei
saputo rintracciare l’origine di una lettera anonima in
una bottiglia? Volevo che l’autrice sapesse che la bottiglia era stata rinvenuta intatta nella sua bellezza su una
spiaggia inglese e che io avevo letto la lettera. Volevo
rassicurarmi che lei stesse bene, che lo slancio positivo
espresso nel finale continuasse. Volevo sapere che c’era
la vita dopo la morte, che era possibile riprendersi da
un evento come quello, e tornare, se non illesi, almeno
ad avere un’esistenza con un qualche significato.
E se, grazie a un sorprendente lavoro di ricerca o a
un colpo di fortuna, l’avessi trovata, come avrei potuto
avvicinarla? Come madre? Non avrei forse corso il rischio di sottolineare il fatto che i miei figli erano felicemente vivi mentre lei piangeva suo figlio morto?
Mi sarei presentata davanti alla porta di casa sua con
la bottiglia in mano e un sorriso smagliante? Lei sarebbe stata curiosa di sapere chi aveva trovato la lettera o
si sarebbe seccata perché ne era stato interrotto il viaggio? Le avrebbe fatto piacere che fosse stata trovata da
gente a cui non era indifferente? Il desiderio che venisse «cullata per sempre dall’oceano» era vero o sperava
che gli «estranei» la trovassero e condividessero le sue
emozioni, come aveva scritto?
Queste domande non avevano risposte. Se avessi
scoperto la sua identità e dove abitava, avrei potuto
pensare a come, e addirittura se, avvicinarmi a lei. Se si
fosse fatta avanti per rispondere a qualche appello, a
qualche inserzione, allora sarebbe stato un segno che
voleva farsi scoprire. In entrambi i casi, non era difficile rimandare l’idea di un qualsiasi incontro reale con
lei. Sembrava una cosa così lontana e improbabile...
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Gli elementi reali della lettera erano scarsi:
• il figlio si chiamava Maurice;
• aveva tredici anni quando era morto;
• era il suo primo figlio;
• era morto una sera «all’alba dell’estate»;
•l’autrice della lettera, la madre, aveva una cara amica
di nome Christine;
erano alcune prove evidenti, come la stessa bottiglia, il foglio, il nastro, l’inchiostro, i trucioli di legno
profumati, il ricciolo di capelli.
•vi
Vi erano altri indizi. Erano segnali concreti, o semplici metafore?
• «è scivolato via in un eccesso di desiderio»;
•«Ha viaggiato per molto tempo tra due acque,
luci»;
tra due
•lei chiedeva perdono per non avergli parlato «per co-
sì tanto tempo». O lui era morto molto tempo prima
o prima della tragedia non si erano parlati per un po’;
•«in quel momento tremendo in cui mi sei scivolato tra
le dita»;
•«mio figlio ha raggiunto di nuovo il porto, in una spiaggia lontana, vicino al sole nascente».
All’inizio avevo interpretato questi indizi alla lettera.
Era chiaro che chi aveva scritto la lettera era una persona di una certa cultura. Aveva letto alcune opere buddiste e assimilato la terminologia New Age. Parlava di
Dio ma senza riferimenti biblici, né a Gesù. A volte si
riferiva a “Dieu” con la lettera maiuscola, a volte con
quella minuscola. Si trattava di una semplice disattenzione o aveva un suo significato? Era forse una protestante che si rivolgeva a Dio direttamente o una cattolica
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che rimaneva a una riverente distanza? In entrambi i casi ce l’aveva con lui, aveva commesso un grave errore a
portarle via il figlio, doveva riparare. Nessun riferimento
a un uomo, a un compagno o a un padre. Nessun riferimento ad altri bambini, sebbene il fatto che Maurice
fosse il suo primo figlio significava che aveva dei fratelli.
Non accennava all’infanzia di Maurice, a parte l’osservazione che la vita di lei fosse iniziata con la sua nascita. L’espressione comportava un livello di intensità
nel rapporto madre-figlio con cui né io né la mia amica
ci identificavamo completamente: per me anche prima
dei miei figli la vita era bella e degna di essere vissuta,
per questa donna no. O forse la morte di suo figlio aveva così alterato la percezione della sua vita precedente
che, con il senno di poi, solo l’esistenza di lui le aveva
dato un senso? La vita dopo la perdita di un figlio non
può più essere la stessa, ma tutto quello che c’è stato
prima viene cancellato?
La nascita di Maurice in qualche modo aveva trasformato sua madre da una “non persona” a un qualcosa di
reale. Sembrava che lei fosse completamente fusa con
lui. Mi ricordavo quella sensazione dai primi tempi della maternità, quando l’autonoma esistenza di mio figlio
era solo all’inizio e io dovevo ancora realizzare la sua
presenza. È allora che si cerca di costruire l’indipendenza dal proprio bambino e a incoraggiarlo pian piano
a reggersi e a camminare nella vita. Ricordo di essere
rimasta scioccata da un’amica che allattava ancora il suo
bambino di cinque anni: mi sembrava che la cosa riflettesse il bisogno che lei aveva di quel legame, non una
richiesta nutrizionale da parte sua. Sicuramente a tredici anni una simile vicinanza non è più un legame sano.
Nella lettera innumerevoli erano le immagini acquati27
che, i riferimenti alle onde e alle correnti, e poi quelli alla
luce e all’aria. Della terra non si parlava: nessun cenno di
ritorno alla polvere, nessun frutto dei propri lombi, nessuna delle allusioni tradizionali alla morte e alla decomposizione. Non vi erano aneddoti infantili, né rimandi
alle tappe della crescita se non della sua nascita. Verso la
fine della lettera Maurice era in alto mentre sua madre
restava nell’acqua. La lettera rappresentava una specie di
viaggio nelle sue emozioni più intime, dall’acqua al cielo,
con un crescendo di dolore fino a una sorta di serenità.
Ma nulla di tutto ciò forniva delle informazioni concrete.
Che esistessero indizi nel nome stesso? Dopotutto
costituiva metà dei fatti certi del ragazzo: che si chiamava Maurice e che aveva tredici anni. Vi era una regione della Francia in cui i Maurice erano in maggioranza? Mi sembrava improbabile.
Nel calendario dei santi “Maurice” Maurizio era un
soldato romano martirizzato intorno al 287 d.C. nella
moderna Svizzera, protettore dei fanti, dei tintori e dei
tessitori, si rivolge a lui soprattutto chi soffre di crampi.
Si festeggia il 22 settembre. Secondo vari dizionari dei
nomi, Maurizio non era legato a nessuna regione in
particolare.
È un nome antico. Un nome non comune. Un nome
della fine del secolo, anche dell’ultimo secolo. Faceva
venire in mente il francese Maurice Chevalier, che cantava Thank Heaven for little girls.
Forse non il nome per il figlio di una intellettuale
parigina. Più probabilmente il nome di un operaio della Renault. Un nome per un pescatore. Oppure, in questo caso, il nome per un bambino morto.
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Dopo aver tradotto la lettera la rimandai alla mia
amica. Lei l’aveva ripiegata esattamente com’era, inserita di nuovo a fatica nello stretto collo della bottiglia e
sistemata nella mensola della cucina, insieme ad altre
cianfrusaglie trovate in spiaggia; di tanto in tanto ci lanciava lo sguardo mentre lavava i piatti. Sebbene la nostra amicizia fosse profonda, non ci incontravamo spesso perché a lei capitava raramente di venire a Londra e
l’unica volta che ero andata a casa sua, nel Kent, era
stato per il suo matrimonio, molti anni prima. Parlavamo spesso al telefono ma ci incontravamo una volta
ogni due o tre anni e sempre a Londra. Tuttavia, io ero
ossessionata dalla lettera che aveva trovato e volevo saperne di più. Volevo sapere come fosse la bottiglia: a
modo suo, balbettando, aveva detto che era diversa e
che era bella. Come poteva una bottiglia essere bella?
O diversa, e perché? Ripensandoci adesso, mi rendo
conto che la mia disponibilità di sorbirmi tre ore di macchina per raggiungere uno sperduto angolo del Kent
avrebbe dovuto mettermi in guardia sulla reale portata
di quella vicenda. Ma, all’epoca, mi scusai con lei per
non essere andata a trovarla spesso e le proposi di incontrarci per pranzo. Le chiesi di poter vedere la bottiglia e
se poteva mostrarmi la spiaggia dove l’aveva trovata.
Raggiunsi il Kent e quando la mia amica mi mostrò
la bottiglia, capii il perché ne avesse parlato con tanto
entusiasmo. Era molto d’effetto e con una bellissima
forma di lacrima, di un blu vivacissimo, una bottiglia
speciale.
Prendemmo i nostri cani e passeggiammo insieme
sulla spiaggia; mi sorprendeva il fatto che avesse scelto
un luogo così poco attraente. Pensai che Warden Bay
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fosse una delle spiagge più brutte che avessi mai visto.
Il fango aveva una consistenza collosa, la bassa marea
rendeva il mare una presenza lontana e poco interessante, la posizione della spiaggia tra il paese e la zona
industriale non era invitante. La mia amica ammise di
venirci solo quando si sentiva veramente a terra e allora
provai un moto di solidarietà per lei.
Rientrate a casa, le chiesi se poteva prestarmi la bottiglia con la lettera. Lei accettò immediatamente ma nel
passarmela i suoi occhi luccicarono per un po’, come
quelli di Bilbo del Signore degli Anelli quando è costretto a passare l’anello. Il mistero e la bellezza della
bottiglia collegati al suo tragico messaggio mi spingevano a volerla, con un crescendo nelle settimane e nei mesi che seguirono. Una volta che ci ebbe rinunciato la
mia amica sembrò quasi sollevata. Dopo averla rassicurata che le avrei restituito la bottiglia una volta che
l’avessi esaminata per bene e che l’avrei protetta da
qualsiasi danno ripartii per Londra con il mio cane sudicio e infangato.
Quella sera tirai fuori la bottiglia dalla scatola di cartone in cui l’avevo riposta, tolsi la carta velina e la misi
sul tavolo della cucina. Il mio compagno prese il giornale e si ritirò nell’altra stanza. Fissai la bottiglia, ammirandone la forma e il colore, e chiedendomi ancora una
volta chi fosse la donna che l’aveva abbandonata. Cominciavo a rendermi conto che la sua ricerca non sarebbe stata facile. In passato avevo rintracciato documenti negli intricati archivi delle più vecchie biblioteche
d’Europa, avevo scovato vecchi nazisti reticenti sfuggiti alle autorità per anni e avevo fatto ricerche negli sgabuzzini degli archivi del Vaticano, ma forse questa ricerca mi avrebbe sconfitta. La luce calda della cucina
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che si rifletteva nel denso azzurro del vetro della bottiglia sembrava lanciare una sfida. “Forza” sembrava dire.
“Usa le abilità linguistiche e investigative di cui vai tanto fiera, scopri qualcosa su di me...”
Incartai la bottiglia con cura, annullando il suo beffardo bagliore con un vendicativo giro di carta velina e
la seppellii nella sua scatola. Avrei raccolto la sfida.
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