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Traduzione dall’inglese
di Roberta Maresca
Titolo originale: Nijinsky
Pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 2013 da
Profile Books Ltd
© 2013 Lucy Moore
© 2014 per l’edizione italiana
EDT srl
17 via Pianezza, 10149 Torino
edt@edt.it
www.edt.it
ISBN 978-88-5920-431-2
Le persone che affollavano il Théâtre des
Champs-Elysées in quella sera stranamente
calda del 29 maggio 1913 (l’anniversario
della prima del Faune) erano una mescolanza di generi: per dirla con Cocteau «le mille
varietà dello snobismo, del super-snobismo
e dell’anti-snobismo». Alcune erano dame
ingioiellate che appartenevano ai ranghi più
alti della società, accompagnate da uomini
con il cravattino bianco, i grandi amanti della
musica che per primi avevano sovvenzionato
Djagilev a Parigi. Altri erano intellettuali più
giovani e ribelli, che si rifiutavano di indossare colletti rigidi e frac (che comunque non
potevano permettersi) in segno di rifiuto di
tutto ciò che era tradizionale o antiquato.
Anche se i biglietti erano stati venduti tutti,
e al doppio del prezzo normale, Djagilev, in
cerca di sostenitori per il suo radicale programma, aveva dato a questi artisti, critici e
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poeti dei lasciapassare gratuiti per assistere
allo spettacolo in piedi, così all’interno del
teatro sostavano sotto i palchi occupati dal
“gratin”, l’alta aristocrazia mondana.
Stravinsky aveva rilasciato un’intervista (in
seguito smentita) che fu pubblicata quella
mattina, in cui spiegava quali erano state le
fonti di ispirazione per il Sacre e cosa speravano di realizzare lui, Nijinsky e Roerich. Concludeva dicendo: «Sono lieto di aver trovato
in Monsieur Nijinsky il collaboratore ideale
e in Monsieur Roerich il creatore dell’ambientazione scenica perfetta per questa opera
di fede». Quel pubblico sfoggio di sicurezza
non combacia con le descrizioni delle ultime
prove dell’orchestra (durante le quali Nijinsky
per poco non lanciò una sedia addosso a un
operaio che li aveva interrotti) e della prova
generale del giorno precedente, che la Rambert definì un pandemonio e in cui i ballerini
sentirono per la prima volta l’orchestra suonare la partitura.
«Qualunque cosa accada» disse Djagilev a
Pierre Monteux e ai ballerini «il balletto deve
essere eseguito fino alla fine». Per calmare i
nervi a tutti, mise in programma come primo
brano Les Sylphides: elegante, armonioso e
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magnifico. Quindi, dopo un intervallo, Monteux fece segno all’orchestra di cominciare a
suonare Le Sacre du printemps. Stravinsky in
seguito disse che il direttore era stato «imperturbabile e freddo come un coccodrillo»,
ma Monteux ricordò di aver tenuto gli occhi
incollati allo spartito che aveva davanti, perché
non osava nemmeno guardare il palcoscenico.
«Ti sembrerà strano, cherie» disse alla moglie
«ma non ho mai visto il balletto».
Come Monteux, anche i ballerini che
aspettavano sul palco erano nervosi, sudavano copiosamente sotto i pesanti costumi.
Questa è la descrizione del costume di una
delle Fanciulle fatta da Sotheby’s in occasione di un’asta del 1968: «Tunica con maniche
insolitamente lunghe [di flanella color crema]
stampinata con disegni primitivi in bordeaux,
rosso scarlatto, giallo limone, turchese, blu
pavone, ocra e verde bottiglia, con un predominante effetto tanè; e soprabito vermiglio
abbinato, stampinato con righe bordeaux e
bianche e pennellate bianche e gialle». I colori sgargianti, scintillanti, usati da Roerich
richiamavano le icone russe tradizionali. Sia
gli uomini sia le donne indossavano larghe
calzamaglie bianche su cui intrecciavano i
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nastri delle morbide scarpe. Gli uomini avevano barbe finte e strani cappelli, appuntiti e
bordati di pelliccia, le donne delle fasce sulla
testa e lunghe trecce finte. Il fondale dietro
di loro riproduceva un rigoglioso paesaggio
verde punteggiato di simboli mistici o «segni
della memoria» molto importanti per Roerich:
teschi di animali, fiumi sacri, colline e alberi,
pietre magiche e sinistri cumuli di nubi grigie.
Le prime note del Sacre, un assolo di fagotto in un registro insolitamente alto, molto
impegnativo dal punto di vista tecnico, sono
spettrali e delicate, ma il corpo della partitura
è selvaggio, violento, potente e provocatorio:
innumerevoli sovrapposizioni di ritmi complessi si accaniscono in una smania inesorabile
e dissonante di primitivo abbandono. Per un
pubblico del 1913, persino per un pubblico
sofisticato come quello, udire quei suoni per la
prima volta fu una cosa del tutto sconcertante,
«irritante per il sistema nervoso quanto il martellio costante del tamburo di un selvaggio»
disse uno dei primi spettatori. Nel teatro ci
fu un’esplosione di sibili, fischi, “buu” e risate
incredule: era forse uno scherzo? Il compositore Camille Saint-Saëns balzò in piedi per
andarsene, sussurrando al suo vicino: «Se
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questo è un fagotto, io sono un babbuino!».
Debussy, che aveva tanto desiderato sentire il
Sacre suonato da un’orchestra, era seduto nel
palco di Misia Sert. Dopo qualche istante si
voltò verso di lei «con una faccia triste e allarmata» e mormorò: «È terribile... non capisco».
Sul palco, mentre la reazione del pubblico
diventava sempre più incontrollabile, i ballerini impauriti facevano fatica a sentire la musica
sopra il chiasso della folla, ma si sforzavano di
continuare. Grondante di sudore sotto le luci
di scena, il volto cereo, Nijinsky, che tremava
di rabbia, si mise in piedi su una sedia dietro
le quinte e prese a contare il tempo gridando
come un pazzo. Accanto a lui c’era Stravinsky,
che si era precipitato dietro le quinte quando
era cominciato lo scompiglio. Astruc si sporse
dal suo palco e gridò con il pugno chiuso:
«Prima ascoltate! Poi fischiate!». Djagilev
accese e spense le luci del teatro per cercare
disperatamente di ristabilire la calma.
La decisione di Nijinsky di «escludere il
pubblico», in parte negandogli la leggerezza e
la sensualità a cui i Ballets Russes lo avevano
abituato, in parte facendo apparentemente
concentrare i ballerini più sul rituale della
loro danza che sullo spettacolo, scatenò un
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putiferio. Quando le Fanciulle si premevano
le mani sulle guance con aria sofferente, i
disturbatori gridavano: «Un docteur! Un dentiste!». Una contessa pensò che le loro guance
così rosse volessero essere una stoccata al suo
modo eccessivo di truccarsi e si alzò, con il
volto in fiamme e la tiara storta, gridando:
«Ho sessant’anni, ma questa è la prima volta
che qualcuno osa prendersi gioco di me!».
I difensori del brano usarono altrettanta veemenza, convinti come Harry Kessler di avere
di fronte «un’idea completamente nuova, una
cosa mai vista prima... arte e anti-arte nello
stesso tempo». Si resero conto che quello che
stavano vedendo e sentendo era rivoluzionario
proprio come gli scritti di Nietzsche, Proust
e Freud, come le scoperte scientifiche di Einstein o l’arte di Cézanne, Picasso e Brancusi.
Tra le due fazioni scoppiò una rissa: un uomo
ne colpì un altro sulla testa con il bastone da
passeggio; Monteux vide un tizio tirare giù
il cappello sul viso di un altro. Alcuni videro
arrivare i gendarmes a soffocare la protesta. Il
critico musicale Florent Schmitt gridò: «Metteteli con le prostitute del seizième!». Ritrovatasi nel bel mezzo della baruffa, Eleonora, la
madre di Nijinsky, svenne.
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A volte, leggendo le descrizioni della folla
turbolenta e molesta è difficile non pensare
che quelle persone fossero andate lì perché
morivano dalla voglia di azzuffarsi. Il succès de
scandale era una parte consolidata della vita
culturale, soprattutto a Parigi agli inizi del XX
secolo: i primi impressionisti approfittarono
di essere stati esclusi dalle mostre ufficiali per
esporre i propri dipinti nei Salons des refusés,
mentre sia Salomé di Oscar Wilde del 1894
sia l’opera di Richard Strauss del 1906 tratta
dallo stesso dramma spinsero il pubblico
piacevolmente inorridito a tornare e ritornare a teatro. Le prime dei brani di Wagner e
Schönberg avevano provocato dei tumulti. Lo
stesso Djagilev non era totalmente estraneo
alla pratica di corteggiare il successo commerciale portando il pubblico al limite di quello
che considerava accettabile.
Pare che gli spettatori del Théâtre des
Champs-Elysées fossero irrequieti fin dall’inizio, che bisbigliassero e ridacchiassero ancora
prima che iniziasse il Sacre. Quella sera i veri
selvaggi non erano i ballerini che portavano
in scena «il raffinato primitivismo dei nostri
antenati, per i quali il ritmo, il simbolo sacro
e la finezza del movimento erano concetti
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grandi e sacri» affermò in seguito Roerich,
ma la massa di attaccabrighe che erano andati
a vederli. La Rambert sentì Nijinsky borbottare: «Che pubblico idiota. Dura publika, dura
publika».
Il teatro non si acquietò finché Maria Piltz
affrontò con calma il pubblico che fischiava e
schiamazzava per eseguire il suo assolo. «Sembrava che sognasse, con le ginocchia ruotate
verso l’interno e i talloni all’infuori... inerte.
All’improvviso uno spasmo attraversò il suo
corpo riscuotendolo da quella rigidità mortale. Spinta da un ritmo selvaggio cominciò
ad agitarsi con movimenti estatici e convulsi».
Alla fine l’Eletta si accasciava, dopo aver danzato fino alla morte, e sei uomini sollevavano
il suo corpo floscio al cielo, prima di portarlo
via «senza alcuna catartica espressione di
disperazione, tristezza o rabbia, ma solo con
fredda rassegnazione».
La spietatezza del Sacre, l’impossibilità di
una catarsi, fu forse la ragione principale per
cui nessuno dei presenti quella sera seppe
dare una ragione dell’opera. Come disse il
principe Volkonskij, amico di Djagilev e suo
ex collega nei Teatri Imperiali: «Non si poteva scegliere termine meno appropriato di
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“balletto”, con tutte le associazioni che esso
comporta, per preparare il pubblico a uno
spettacolo del genere». Non solo mancava di
grazia, virtuosismo o erotismo comprovabili,
non c’era neanche un intreccio, né alcuno degli espedienti che di solito davano al pubblico
un senso di unità e completezza. «Questa non
è la solita primavera cantata dai poeti, con le
brezze, gli uccellini che cinguettano, i cieli
limpidi e il suo verde delicato. Qui c’è solo la
dura lotta della vegetazione, il terrore della
linfa che sale, il timoroso raggrupparsi delle
cellule» scrisse Jacques Rivière, proclamando
il Sacre un capolavoro. «La primavera vista
dall’interno, con la sua violenza, i suoi spasmi
e le sue scissioni. Sembra di vedere un dramma attraverso un microscopio».
La musica e la coreografia insieme creavano
qualcosa di prodigiosamente nuovo. Se Le
Sacre du printemps per Roerich era un tentativo di ricostruire un antico rito cerimoniale,
per Stravinsky e Nijinsky il passato lontano
era una metafora della tragedia dell’esistenza
moderna. Il loro Sacre – la musica e il movimento – era «una cupa e intensa celebrazione della volontà collettiva» e del suo trionfo
sull’individuo. Se gli spettatori lo avevano
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trovato agghiacciante, spietato, disumano, a
tratti assurdo... beh, allora gli autori erano
riusciti nel loro intento.
Grigor’ev tenne il sipario abbassato più del
solito prima del brano successivo, Le Spectre
de la Rose, nel tentativo di ristabilire l’ordine.
Provate a immaginare Vaslav che dopo quel
tumulto, nel camerino affollato, con la costumista intenta a cucirgli addosso il body rosa, si
preparava a ballare un ruolo che a dir poco lo
irritava, un ruolo che considerava stucchevole,
sentimentale e antiquato e con cui detestava
essere identificato.
Quando il sipario calò definitivamente, disse Stravinsky, erano tutti «eccitati, arrabbiati,
disgustati e... felici». Lui, Djagilev, Nijinsky,
Bakst, Cocteau e Kessler andarono insieme
a cena. L’unico commento di Djagilev quella
sera fu: «Proprio quello che volevo». Dopo la
cena, durante la quale tutti si erano mostrati
d’accordo sul fatto che ci sarebbero voluti
anni prima che la gente capisse quello che le
avevano appena mostrato, attraversarono la
città buia e deserta in carrozza, con Cocteau
e Kessler aggrappati al tettuccio e Bakst che
sventolava un fazzoletto legato al suo bastone
da passeggio come una bandiera. Djagilev si
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riparava dall’aria della sera con la pelliccia di
opossum; Vaslav, seduto in silenzio con «il
soprabito e il cilindro, sorrideva fra sé soddisfatto».
Cocteau ricordò che quella passeggiata di
mezzanotte li aveva portati fino al Bois de
Boulogne, dove per coincidenza la Rambert
e il resto della compagnia stavano cenando a
tarda ora, troppo emozionati per pensare di
andare a letto. Il profumo dei fiori di acacia
aleggiava nell’aria. Quando il cocchiere accese
la lanterna, Cocteau vide le lacrime brillare
sul volto di Djagilev. Recitava Puškin a fior
di labbra, mentre Stravinsky e Nijinsky lo
ascoltavano attenti. A prescindere da quello
che accadde dopo, scrisse Cocteau, «non potete immaginare la dolcezza e la nostalgia di
quegli uomini».
A giugno Nijinsky tornò a Londra con Djagilev e Walter Nouvel, i suoi soliti compagni
di viaggio. Sul loro treno c’era anche Romola
de Pulszky, che alcuni mesi prima a Vienna era
riuscita a strappare a Djagilev il permesso di
seguire i Ballets Russes e di ballare con loro,
un giorno, se avesse continuato i suoi studi
con Cecchetti. Nijinsky era contrario – cos’al13
tro poteva essere se non una dilettante? – ma
Djagilev, che conosceva bene le persone, fu
lieto di compiacere la madre di Romola, la
grande Emilia Márkus. Romola aveva fatto
credere a Djagilev che fosse Bolm, e non Nijinsky, il ballerino di cui era innamorata; per
questo era stata accontentata.
Da allora Romola aveva cominciato a pedinare le petit (il nome in codice che lei e la
sua cameriera usavano per parlare di Vaslav)
con la determinazione e l’astuzia di una spia
internazionale. Il camerinista del Teatro
dell’Opera di Vienna, il signor Schweiner,
le aveva dato qualche notizia piccante; una
volta una ragazza era entrata nella camera di
Nijinsky all’Hotel Bristol mentre lui si vestiva «fingendo di essersi sbagliata»; a Monaco
Romola si sdraiava su una panchina sotto una
magnolia in fiore, mentre Nijinsky, Djagilev e
i loro amici cenavano sulla terrazza dell’Hotel
de Paris, «e li osservava per ore e ore». Dopo
aver sfinito Bolm e Cecchetti, era passata al
barone de Günzburg, uno dei più importanti
finanziatori di Djagilev, grazie al quale aveva
ottenuto accesso totale ai Ballets. Era con
Günzburg che aveva visto la prima del Sacre,
pigiata tra la moltitudine di ballerini e amici
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che assistevano allo spettacolo dietro le quinte, e aveva cercato il volto pallido e teso di
Nijinsky in mezzo alla folla.
Era felicissima di trovarsi sullo stesso treno
di Vaslav – ordinava sempre alla sua cameriera Anna di scoprire quando lui e Djagilev si
sarebbero messi in viaggio, ma quella era la
prima volta che Anna riusciva a darle informazioni precise – e gongolò quando lui, vedendola passeggiare per il corridoio fumando
(attività piuttosto audace per una donna di
quell’epoca, soprattutto se non era sposata)
vicino al suo scompartimento, le chiese nel
suo francese zoppicante se era emozionata
all’idea di andare a Londra. Fu la loro prima
conversazione. Durante la traversata verso
Dover parlarono ancora e Romola raccontò tutta trionfante ad Anna, la quale non si
aspettava niente di buono dalla sua cotta per
Nijinsky, che flirtare era un’ottima cura per
il mal di mare.
A Londra fece il possibile per trovarsi
sempre dove si trovavano Nijinsky e Djagilev,
assillando i suoi conoscenti inglesi perché la
portassero a cena al Savoy, l’albergo in cui loro
alloggiavano. Nijinsky, come scrisse Romola,
«ormai sembrava quasi dare per scontato che
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io fossi lì e in qualunque altro luogo pubblico
si facesse vedere. Forse si chiedeva come ci
riuscissi. Io ero davvero contenta di aver speso tanti soldi in vestiti quando ero a Parigi».
«Dato che ero sempre con qualche amico, a
Djagilev la mia presenza doveva sembrare
normale. Sapeva che f requentavo la stessa
élite che frequentava lui». Nijinsky non era
turbato da quei pedinamenti; anzi, a volte,
quando lui la guardava, Romola intravedeva
persino l’ombra di un sorriso sulle sue labbra.
(continua in libreria)
ria del balletto. Persino nei suoi momenti di
massima ribellione, in passato la danza aveva
sempre conservato il suo carattere aristocratico: era sempre rimasta fedele a una chiarezza anatomica e a nobili ideali. Le Sacre du
printemps no. Nijinsky modernizzò il balletto
rendendolo brutto e opaco: «Mi accusano», si
vantò, «di un crimine contro la grazia». Stravinsky lo ammirò per questo e scrisse a un
amico che la coreografia era come la voleva,
anche se aggiunse: «Bisognerà aspettare molto
tempo prima che il pubblico si abitui al nostro
linguaggio». Era proprio quello il punto: Le
Sacre era un balletto sia difficile sia assolutamente nuovo. Nijinsky aveva investito tutto
il suo talento per rompere con il passato, e il
modo febbrile con cui (come Stravinsky) aveva
lavorato rivelava la sua fortissima intenzione
di inventare un nuovo linguaggio coreutico.
Era questa la sua ambizione, grazie alla quale
Le Sacre du printemps divenne il primo balletto
davvero moderno.
(continua in libreria)
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della vergine prescelta. Alla fine, quando la
giovane crollava a terra priva di vita e sei
uomini sollevavano il suo corpo floscio, non
c’era alcuno sfogo catartico di disperazione,
tristezza o rabbia, bensì solo un’agghiacciante
rassegnazione.
Oggi è difficile trasmettere quanto Le Sacre
fosse radicale per l’epoca. La distanza che separava Nijinsky da Petipa e Fokin era immensa; persino L’Après-midi d’un faune era blando
al confronto. Perché se il Faune rappresentava
un deliberato ripiegamento nel narcisismo, il
Sacre segnalava la morte dell’individuo. Era
una celebrazione deprimente e intensa della
volontà collettiva. Tutto era messo a nudo:
la bellezza e la tecnica erano scomparse e la
coreografia di Nijinsky costringeva i danzatori a fermarsi a metà movimento, a tornare
indietro sui loro passi, a cambiare percorso,
rompendo il movimento e lo slancio come a
voler rilasciare energie represse. Controllo,
abilità, ordine, ragione e cerimonia, tuttavia,
sono elementi che non furono accantonati. Il
balletto non era mai selvaggio o digressivo:
era una rappresentazione fredda e razionale
di un mondo primitivo e irrazionale.
Fu anche un passaggio cruciale nella sto15
ze, per assistere Nijinsky e i suoi ballerini. La
Rambert e Nijinsky parlavano polacco fra di
loro e lei ammirava il suo approccio radicale
al movimento. Ma nulla pareva funzionare: i
ballerini trovavano la partitura sconcertante,
opaca e quasi impossibile da contare, e odiavano i passi intricati e i movimenti stilizzati
di Nijinsky. Alla fine, però, è probabile che
la loro resistenza sia stata un vantaggio: la
sottomissione forzata alla logica della musica
e del movimento era esattamente il punto di
quel balletto.
Le Sacre du printemps non era un balletto
nel senso tradizionale del termine. Non c’era
uno sviluppo narrativo chiaro, né spazio per
l’espressione individuale, e nessun punto di
riferimento convenzionale con cui misurare
l’azione. Funzionava invece tramite la ripetizione, l’accumulazione e un montaggio quasi
cinematografico: scene statiche e immagini
giustapposte e sospinte da una logica rituale
e musicale, piuttosto che strettamente narrativa. C’erano danze tribali con passi pestati,
una violenza carnale stilizzata, un rapimento
cerimoniale e una solenne cerimonia guidata
da un sacerdote con la barba bianca, che culminava con l’angosciosa danza della morte
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spigolosi, in cui le braccia seguivano un ritmo
e le gambe un altro, e una ballerina avrebbe
ricordato i salti che terminavano di piatto sui
piedi, scuotendo «ogni singolo organo» nel
loro corpo.
La partitura di Stravinsky era altrettanto
difficile e scoraggiante. Gli unici altri balletti
di Nijinsky, il Faune e il meno fortunato Jeux
(sugli sport e il tempo libero, che debuttò a
Parigi appena due settimane prima del Sacre),
erano stati entrambi creati su musiche di Debussy. Ma il Sacre non aveva la calma oceanica
o l’espansività del Faune e Nijinsky faticò per
dare un senso agli strani suoni di Stravinsky e
alla sua complicata struttura ritmica e tonale.
Persino il pianista delle prove non riuscì a
suonarla correttamente e una volta Stravinsky, spazientito, lo spinse da parte e la suonò
lui stesso, al doppio della velocità, urlando,
cantando, pestando i piedi e segnando il ritmo
battendo i pugni, per trasmettere l’energia
percussiva e l’intensità della sua musica (i ballerini avrebbero udito la versione orchestrata
solo durante le prove generali). Per aiutare la
produzione, Djagilev ingaggiò una giovane
ballerina polacca, Marie Rambert (nata Cyvia
Rambam), specializzata nel metodo Dalcro13
del vasto paesaggio spoglio, nella penombra
che precede l’alba, mentre un raggio di sole illumina un gruppetto solitario raccolto in cima
a un colle per salutare l’arrivo della primavera.
Roerich mi ha parlato molto dei suoi dipinti
di questa serie, che lui descrive come il risveglio dello spirito nell’uomo primordiale. Nel
Sacre voglio emulare questo spirito degli slavi
preistorici». E a Stravinsky, con il quale aveva
discusso a lungo della musica per il balletto,
scrisse che nelle sue speranze Le Sacre avrebbe
«aperto nuovi orizzonti» e sarebbe stato un
balletto «diverso, inatteso e bellissimo».
Lo fu davvero. Le Sacre andò in scena solo
otto volte – in tutto – dopodiché fu dimenticato, ma le foto e gli appunti sopravvissuti ci
mostrano quanto si distaccasse dai canoni del
balletto: figure ingobbite che strascicavano i
piedi, li percuotevano sul palco e li tenevano
voltati sgraziatamente verso l’interno, con le
braccia chiuse e la testa di traverso. I ballerini
si riunivano in gruppi, accucciati, raggomitolati e tremanti, oppure giravano furiosamente
per il palco interpretando tradizionali balli
in cerchio, finché non venivano scaraventati
fuori o lanciati in un selvaggio saltellio. Nijinsky ideò movimenti scomodi, scoordinati e
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ginario sacrificio pagano in cui una giovane
viene immolata al dio della fertilità e del sole:
un rito di primavera. Roerich modellò scene e
costumi sull’abbigliamento e sull’artigianato
di tradizione russa, e Stravinsky studiò canti e
melodie popolari («L’immagine della vecchia
con la pelliccia di scoiattolo non mi va via
dalla mente. Ce l’ho costantemente davanti
agli occhi mentre compongo», scrisse). Ma
questa volta non si trattava più di un lussureggiante orientalismo come per L’Oiseau de
feu (L’uccello di fuoco): le scenografie di Roerich rappresentavano un paesaggio roccioso,
arido e inquietante, a tratti cosparso di corna
di animali. La musica di Stravinsky, con i suoi
accordi rumorosi, granitici e dissonanti, le
sue sincopi trascinanti (la partitura richiedeva
un’orchestra allargata e una grande sezione di
percussioni) e le sue melodie penetranti, che
salivano fino ai registri più alti, era altrettanto
brutale e disorientante.
Nijinsky, che ammirava moltissimo Stravinsky e Roerich, scrisse alla sorella, la quale in
principio aveva provato il balletto con lui nel
ruolo della vittima sacrificale, parlandole di un
dipinto di Roerich intitolato L’invocazione del
sole: «Ti ricordi Bronia? […] il viola e il violetto
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sull’introversione, sulla concentrazione e
sull’istinto fisico. Non era sexy ma sessuale:
una rappresentazione fredda e distaccata del
desiderio. Era anche una palese sconfessione
della sensualità e dell’esoticità che avevano
contribuito a creare la reputazione di Nijinsky
come ballerino, una rivolta contro i balletti
lussuriosi come Shéhérazade e quelli sensuali
come Le Spectre de la Rose. Lasciandosi tutto
questo alle spalle, Nijinsky creò un antiballetto
ridotto: rigoroso e impegnativo, ma spogliato «dell’eccessiva dolcezza» (Nijinskaja) che
oramai destava.
Poi venne Le Sacre du printemps (La sagra
della primavera, 1913). Il balletto era stato
concepito da Djagilev, da Stravinsky e dall’artista russo Nikolaj Roerich. Roerich era un
pittore e archeologo da sempre interessato alla
spiritualità pagana e contadina, e alle radici
scite (barbare, ribelli, asiatiche) della cultura
russa. Era molto coinvolto nelle attività di
Talaškino, e infatti lui e Stravinsky crearono
il libretto del balletto proprio lì, fra l’enorme
collezione di arte e artigianato popolare della
principessa Teniševa. Basandosi sul lavoro di
folcloristi e musicologi, concepirono l’opera
come una ricostruzione rituale di un imma10
ordinata dell’Atene di Pericle, ma dai modelli
primitivi e disadorni del precedente periodo
arcaico. Era anche attratto dai dipinti piatti e
primitivisti di Gauguin: «Guarda che forza»,
affermò pieno di meraviglia.
Le prove furono segnate da numerose
difficoltà: le ballerine odiavano i movimenti,
che erano spigolosi, bidimensionali e congelati, con passaggi bruschi e concisi che
richiedevano una grande disciplina muscolare. Erano risentite per lo stile rigorosamente
antivirtuosistico di Nijinsky, che le costringeva
ad accantonare i loro numeri più attraenti a
favore di quelli che il coreografo stesso definì
balzi “caprini”, brevi passi interrotti e pivot.
A peggiorar le cose, per enfatizzare la tersa
rigidità dei passi le ballerine dovevano indossare sandali anziché scarpette da ballo. Trovarono offensivo, inoltre, il divieto di adottare
qualsiasi espressione facciale. «È tutto nella
coreografia», rimproverò Nijinsky ad una che
tentò di drammatizzare il proprio ruolo. Persino Djagilev era dubbioso e nervoso, e temeva
che quella danza ascetica avrebbe alienato il
pubblico parigino, abituato ai suoi spettacoli
russi più sfarzosi e coloriti.
L’Après-midi d’un faune era una danza
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desse. Altre fotografie lo mostrano accennare
una posizione classica senza mai entrarvi del
tutto. Ma se il suo stile aveva un carattere di
indeterminazione e instabilità, esso non era
mai istintivo o inconsapevole. Persino i suoi
movimenti più animaleschi e primitivi erano il
prodotto di un ripensamento analitico e fisico
dei principi del balletto. Nel 1912 Nijinsky
curò la coreografia del balletto L’Après-midi
d’un faune, su musiche di Debussy e basato
su un poemetto di Mallarmé. Il poema era
del 1865 e la musica del 1894: entrambe le
opere erano riflessioni impressionistiche e
oniriche. Il balletto narra di un fauno che
vede una ninfa spogliarsi presso un ruscello
e si eccita; la ninfa fugge ma perde lo scialle.
Il fauno lo raccoglie, lo stende su una roccia,
ci si butta sopra e mima un orgasmo. Era un
balletto breve: circa undici minuti. Sebbene
sia di solito ricordato per la masturbazione
del grande Nijinsky sul palco, era anche un
tentativo serio di inventare un nuovo linguaggio del movimento. Nijinsky cominciò
a elaborare il balletto con la sorella nel 1910,
provando e sperimentando i passi per ore.
All’epoca era ossessionato dall’arte dell’antica Grecia, non dalla perfezione armoniosa e
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re una leggerezza romantica ma enfatizzare
il proprio peso e la propria solidità. Ricercava
compressione e intensità, movimenti che fossero al contempo condensati e costretti, ma
che potessero anche esplodere all’improvviso. Nascondeva la sua forza in un tempismo
perfetto: per quanto fosse attenta (e di certo
era abituata), Bronislava non coglieva mai
quando il fratello si stava preparando per una
pirouette, persino quando stava raccogliendo
le forze necessarie per scatenare una decina
di giri alla volta.
Tutto ciò conferiva allo stile di Nijinsky una
forza e una grazia imprevedibili. Il mistero era
racchiuso nella rielaborazione della tecnica
classica per spostare l’enfasi dalle immagini
statiche (le pose aggraziate del passato) al
movimento stesso. Non era un dispiegarsi
di arti alla Fokin, ma una serie di vulcaniche
e imprevedibili implosioni, energia pura appositamente repressa e poi scatenata in una
reazione a catena di movimento. Persino le
istantanee di rado lo ritraggono fermo e lo
vediamo in costante tensione, anticipazione, mentre esce da una posa ed entra nella
successiva: pare quasi di cogliere la scia del
movimento prima che l’otturatore si chiu7
Le gambe erano corte e massicce, con due
cosce enormi, da cavalletta: i sarti dovevano
aggiustare i completi per accomodare le sue
strane proporzioni. Lavorava moltissimo per
migliorare la sua tecnica: dopo gli spettacoli,
quando gli altri tornavano a casa esausti, lui
spesso rientrava in studio per praticare da solo,
ripetendo e studiando attentamente passi e
movimenti. Preferiva praticare da solo e nel
tempo sviluppò un approccio personale alla
danza, estremo e iconoclastico.
Secondo Bronislava, in quegli studi solitari,
Nijinsky praticava le sequenze di una normale
lezione di danza, ma a ritmo accelerato e con
maggiore vigore, con quello che lei definì
«impeto muscolare». A Nijinsky non interessavano molto le posizioni statiche ed eleganti,
ma la velocità e l’elasticità, la tensione e la
forza. Quando Bronislava studiava con lui,
come spesso accadeva, lui la costringeva a
sciogliere la colla delle scarpe da punta con
l’acqua calda, in modo da sviluppare la forza
necessaria per reggere il proprio peso sulle
punte, e di conseguenza rendere il movimento
meno scomposto e più languido e flessibile.
Egli stesso danzava sulle mezze punte, spesso
quasi sulle punte, sebbene non volesse ottene6
omosessuale, amò e promosse molti dei suoi
ballerini migliori, da Nijinsky a Léonide Massine e Serge Lifar. All’epoca, l’omosessualità
non era solo una questione di preferenze
sessuali, ma anche una posizione culturale:
significava porsi contro la morale borghese,
con le sue norme ingessate e limitanti. Era
anche un’affermazione di libertà: la libertà di
un uomo di apparire effemminato o (nel caso
di Nijinsky) androgino, forse, ma soprattutto
di sperimentare e seguire il proprio istinto e
i propri desideri, piuttosto che adeguarsi alle
convenzioni della società. Non è un caso che
molti artisti moderni del Novecento, e in
particolar modo quelli attivi nel mondo della
danza, fossero gay, né che la sessualità fosse
una fonte di innovazione artistica.
Non esistono filmati delle esibizioni di
Nijinsky, ma esaminando fotografie, dipinti,
sculture e resoconti scritti, e confrontandoli
con le descrizioni fornite dalla sorella riguardo
alle sue esercitazioni, è possibile ricostruire
qualcosa del suo stile. Nijinsky aveva una
corporatura insolita: era basso, appena un
metro e sessantadue, aveva il collo spesso e le
spalle strette e arcuate, le braccia muscolose
(sollevava pesi) e il busto snello e allungato.
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Quando incontrò Djagilev, divenne il suo
amante. La passione dell’impresario per il
balletto era sempre stata segnata da sesso e
amori e, seguendo un’abitudine che avrebbe
esteso a tutti i suoi preferiti, ma che lo legò
in particolar modo a Nijinsky, l’impresario
seguì di persona la formazione del giovane,
facendogli visitare musei, chiese e altri edifici
storici e presentandolo a una serie di musicisti,
pittori e scrittori, in Russia e in Europa. Sotto
la tutela del colto mecenate, Nijinsky ampliò
tantissimo i suoi orizzonti artistici, ma la
sua quasi totale dipendenza dall’impresario,
psicologica, sessuale e finanziaria (non percepiva un salario, ma Djagilev saldava i suoi
debiti di persona), intensificò il suo senso di
isolamento e le sue eccentricità. Non parlava
francese o inglese e, già per natura ossessivo
e introspettivo, si ritirò sempre più nella sua
ricerca artistica.
Inoltre scoprì di essere eterosessuale, o almeno bisessuale. Nonostante la sua relazione
con Djagilev, provava una forte attrazione,
seppur confusa, per le donne. L’omosessualità, però, era un elemento chiave nella
formazione del suo stile e di quello dei Ballets Russes. Djagilev, che era apertamente
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Vaslav Nijinsky era nato a Kiev intorno al
1889. I genitori erano danzatori itineranti di
origine polacca (Vaslav debuttò in un circo a
sette anni), ma quando il padre abbandonò la
famiglia, la madre si stabilì a San Pietroburgo
e iscrisse Vaslav e la sorella Bronislava alla
Scuola imperiale di ballo. Il talento di Nijinsky
fu subito evidente e il giovane divenne rapidamente una celebrità; alla fine degli studi, nel
1907, veniva già scritturato per ruoli principali. Nonostante il successo fulmineo, però,
Nijinsky era un ragazzo incerto e irrequieto, e
un incorreggibile anticonformista. Isolato per
cultura e lingua (in casa parlava polacco), era
deriso dai compagni che lo soprannominarono “Giaponček” per i suoi occhi a mandorla.
Era ostinato, autonomo e refrattario all’autorità. Si unì alla Pavlova per prendere lezioni
private da Cecchetti, vedendosi già come uno
dei futuri innovatori della danza.
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Titolo originale: Apollo’s Angels. A History of Ballet
Pubblicato per la prima volta nel 2010 in Gran Bretagna da
Granta Books e negli Stati Uniti da Random House
© 2010 Jennifer Homans
© 2014 per l’edizione italiana
EDT srl
17 via Pianezza, 10149 Torino
edt@edt.it
www.edt.it
ISBN 978-88-6040-911-9
Gli
grandi storie
angeli
Apollo
di
Stor ia de l bal l e t to
Jennifer Homans
traduzione dall’inglese
di davide fassio