01 Obbiettivo COP 1 febbraio 2014__

n. 1/2014
Obbiettivo
professione infermieristica
Anno XXIV - n. 1/2014 - Sped. Abbonamento Postale 70% 2 DCB FI
Terapie non convenzionali
valore etico deontologico
La libertà di scelta della
cura deve essere tutelata.
Saremo veramente liberi
di scegliere solo quando
avremo tutte le informazioni necessarie.
Le istituzioni hanno il dovere di proteggere e informare i cittadini sulle
terapie non verificate e potenzialmente pericolose
per la salute.
Periodico di
informazione
attualità
e cultura
IPASVI
FIRENZE
www.ipasvifi.it
Sommario
1
2
6
8
Prima di suonareaccordiamo gli strumenti D. Massai - Presidente Collegio IPASVI Firenze
Dal brodo di serpente a Stamina, un secolo di terapie non convenzionali F. Castiu
L'ingestione del corpo estraneo M.P. Santoro
Psicologia dell'Emergenza: aspetti teorico-pratici sulle competenze infermieristiche
relazionali L. Brunelli, G. Ballerini
11 L'applicazione della metodologia dell'Indice di Complessità Assistenziale (I.C.A.) nelle
cure infermieristiche domiciliari della ASL 10 di Firenze. Uno studio pilota S. Comerci
14 Infermieri,una forza per il cambiamento, una risorsa vitale per la salute G. Brunetti
16 Il Lavoro di cura delle donne e l'impatto sul welfare: la donna come caregiver
A. Lombardi, E. Nerozzi, L. Giovannini
22 L'assetto sociale nelletà moderna F. Matarazzo
23 Scienza e convinzioni popolari M. Fadanelli
24 Vivere il morire N. Chiari
“Obbiettivo” ricerca
collaboratori
editorialisti e fotografi
La redazione ricerca tra gli iscritti al
Collegio IPASVIFI collaboratori editorialisti e fotografi per la produzione autonoma
o su commissione di materiale da pubblicare sulle proprie riviste ufficiali.
Le proposte dovranno pervenire alla
casella redazione@ipasvifi.it
Riferimenti fotografici
L’editore è a disposizione con gli aventi diritto non potuti reperire.
Obbiettivo
professione infermieristica
La proposta formativa IPAVIFi 2014
Prende il via la nuova stagione formativa proposta dal Collegio IPASVI
di Firenze per i suoi iscritti. Una vasta gamma di corsi ed eventi ECM
a 360° sull'infermieristica. Per una panoramica completa, informazioni
e iscrizioni da gestire autonomamente, consultare il sito www.ipasvifi.it > formazione >, seguire le istruzioni per accedere al servizio TOM
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in breve
Dove siamo
Il Collegio IPASVI della provincia di Firenze si trova in Via Pier Luigi da Palestrina, 11 a
Firenze a 200 metri dalla Stazione Leopolda dove è possibile trovare parcheggio auto e
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Venerdì 9.30 - 12.30
Come inviare gli articoli a «Obbiettivo professione Infermieristica»
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Bibliografia
La redazione demanda ogni responsabilità relativa a contenuti e bibliografia degli articoli
ed elaborati agli Autori. La bibliografia è da richiedere direttamente all’autore.
Organo Ufficiale del Collegio Infermieri
Professionali Assistenti Sanitari
Vigilatrici d’Infanzia di Firenze
Anno XXIV n. 1/2014
Spedizione in a. p. 70% 2DCB
Direttore responsabile
Luca BARTALESI
Comitato di redazione
Francesca CASTIU
Anna CIUCCIARELLI
Lorenzo GIOVANNONI
Lucia MAGNANI
Lucia SALVADORI
Lucia SETTESOLDI
Niccolò SCALABRIN
Stefano CASPRINI
collaboratore esterno
Contatti: redazione@ipasifi.it
Segreteria di redazione
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Direzione e Redazione
Collegio IPASVI
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Autorizzazione del Tribunale
di Firenze n. 4103 del 10/05/91
È consentita la riproduzione totale o parziale degli articoli
e del materiale contenuto nella rivista purché vengano citatati l’autore e la fonte («Obbiettivo professione infermieristica» rivista del Collegio IPASVI di Firenze). È gradita
comunicazione per conoscenza alla redazione
Chiuso in tipografia il 15 marzo 2014
Impaginazione e stampa
Tip. Coppini Via Senese 56r
50124 Firenze - Tel. 055.2207133
Obbiettivo
1/2014
Editoriale
IPASVI - Firenze
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“Cabina di regia”: protocollo d’intesa
Ministero della Salute, Regioni, OO.SS.
Prima di suonare
accordiamo gli strumenti...
Creazione di una “ cabina di regia “ permanente, nazionale “che
veda la presenza delle rappresentanze istituzionali, sindacali e professionali di tutti gli operatori del
sistema, che funga da coordinamento per la promozione e diffusione di buone pratiche e nel contempo realizzi un costante monitoraggio e adeguata verifica dei
risultati attesi”(www.quotidianosanita.it 17 gen. 2014)
Questi sono i propositi della proposta con emendamenti avanzata
dal Sottosegretario Fadda ed approvata il 16 Gennaio 2014, motivata dalla necessità di condividere con gli addetti ai lavori di
ogni categoria professionale, nuovi canoni organizzativi e gestionali che rimodellano il SSN. La
crisi come opportunità titola quotidianosanità.it, uno dei paragrafi del documento; di necessità virtù diremo noi, la sostanza non cambia. In questa fase della vita sociale l’unica ricchezza sono le idee
e l’impegno per la ricerca di nuove risorse, o la razionalizzazione di quelle restanti. Parliamo dei
nuovi costi standard su tutto il territorio nazionale: non è pensabile che una siringa abbia un costo
diverso da regione a regione. Parliamo di prevenzione che metta al
centro del sistema la politica ambientale e l’educazione a più salubri stili di vita; poi apprendia-
mo che la cura del territorio in diverse regioni è stata per decenni
nelle mani delle organizzazioni
criminali, con il tacito assenso delle istituzioni e oggi, le prevedibili nefaste ricadute sulla popolazione. Parliamo delle sinergie professionali che indiscutibilmente
dovrebbero essere affinate e condivise fra oltre 30 profili professionali laureati con specifici ambiti di autonomia. Prospettiva teorica che si scontra con la pragmatica applicazione: citiamo ad
esempio le barricate dell’intersindacale medica sul campo delle competenze infermieristiche (e
non vediamo rapide soluzioni).
Parliamo di formazione e di accrescimento professionale in funzione del continuo rinnovamento
delle esigenze del cittadino, delle best practic, di ricerca e sperimentazione. Tutti settori di fatto
falcidiati dai tagli trasversali imposti dai vari governi. Parliamo
anche della necessità di adeguare le competenze ai nuovi standard assistenziali per medici, infermieri e altre professioni del
SSN, per l’evoluzione specialistica, ma anche una demarcazione netta della responsabilità personale per chi assume decisioni e
mette in pratica procedure.
Una “cabina di regia” che nei presupposti avrà una mission diversa
da quella istituzionale delle figu-
Danilo Massai
re che ne faranno parte, che rimarrà
fuori da quanto previsto dai CCNL.
Uno strumento permanente per il
confronto in funzione dello sviluppo professionale, organizzativo e formativo, da impegnare anche nei contenuti del Patto per la
Salute per monitorare e verificare
le innovazioni e revisioni introdotte ed i risultati ottenuti.
Dobbiamo però domandarci: - Una
“cabina di regia” per avere il parere di tutti gli attori, o per regolare le dinamiche mettendo tutti d’accordo in una sorta di avvallo supremo.
Un pensiero malizioso che viene
spontaneo se pensiamo ai possibili orientamenti che questa nuova
squadra potrebbe assumere in base alle forze di governo.
Una prospettiva, egr. legislatore,
che ci origina tanti dubbi parte dei
quali nascono dalle dinamiche tra
categorie professionali con atavici e recenti problemi in attesa di
soluzioni politiche. Pensi a settori come l’emergenza territoriale,
la sanità in carcere, la medicina primaria o altre questioni con importanti risvolti sociali.
Se vogliamo che la “cabina di regia” sia una squadra criticamente
costruttiva per i servizi al cittadino, bisogna innanzitutto mirare a
fare spogliatoio.
Danilo Massai
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Attualità/Primo piano
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IPASVI - Firenze
Obbiettivo
Dal brodo di serpente a stamina,
un secolo di terapie non convenzionali
Francesca Castiu
Infermiera libero professionista.
argentodiluna@gmail.com
Un tempo, quando la società era
ancora in gran parte rurale e le campagne erano abitate da famiglie di
contadini con bassa istruzione scolastica, abituati al duro lavoro agricolo, la medicina tradizionale
era ancora appannaggio di pochi
fortunati e la figura medica godeva di una considerazione tale che
a tratti le conferiva dei contorni di
sacralità (in alcune regioni molto
povere, in particolare dell’entroterra, il medico spesso veniva accomunato quasi ad un “santone”,
un taumaturgo); inoltre la povertà diffusa non permetteva di rivolgersi al medico se non in rari
casi quando tutti gli altri rimedi si
erano rivelati inefficaci o quando
ormai l’ammalato versava già in
condizioni critiche. Pertanto in uno
scenario nel quale povertà e disagio sociale rappresentavano la
normalità quotidiana di milioni di
famiglie alla medicina tradizionale si affiancava un’altra medicina, quella cosiddetta popolare,
che affondava le radici nelle tradizioni orali e nelle consuetudini
e che si giovava delle conoscenze
fitoterapeutiche che gli uomini
avevano sviluppato grazie a secoli di contatto diretto con la natura.
I rimedi popolari miravano a combattere un ampio ventaglio di patologie e disturbi anche in relazione al luogo specifico. Nelle zone paludose dove la malaria mie-
Quando si percorre, carponi, un cunicolo sotterraneo, si
arriva ad un punto in cui, essendo andati troppo oltre, si
sa che tentare di tornare indietro equivale a morte certa.
Andare avanti non dà certezza di sopravvivenza, ma questa incertezza equivale a una speranza.
O speranze, speranze; ameni inganni della mia prima età!
Giacomo Leopardi
teva ogni anno centinaia di vittime, i rimedi antimalarici erano davvero tanti, purtroppo molti di questi si rivelavano totalmente inutili e talvolta addirittura dannosi per
il corpo; altri invece riuscivano ad
incontrare un riscontro scientifico
specialmente laddove si faceva ricorso all’utilizzo di erbe medicinali. La febbre malarica era ben
conosciuta e sebbene poco si sapesse sulla sua reale patogenesi,
essa rappresentava un capitolo importante dell’enciclopedia medica popolare. Alcuni affermavano
che la causa delle febbri fosse da
ricercarsi nell’ingestione di frutti
di bosco, more in particolare. Altri invece ritenevano che essa fosse frutto della presenza di spiriti
maligni; in questo caso ci si rivolgeva alle “maghe” o fattucchiere
affinchè mediante qualche pozione magica liberassero l’ammalato
dal male. Pur di guarire l’ammalato era disposto a sottoporsi a qual-
siasi tipo di rito, anche a quelli più
nauseanti nei quali si mescolavano sacro e profano. Uno di questi
riti prevedeva che la persona fosse ricoperta di lucertole, rospi e noci o che si cibasse di insetti fritti.
Altri ancora richiedevano che il
malato bevesse intrugli vari, alcuni contenenti addirittura liquidi
biologici umani, compresi sangue
mestruale e sperma. Per la cura dell’otite un altro rimedio curioso,
prevedeva l’instillazione di gocce
di latte materno nel meato uditivo.
Per medicare ustioni e ferite invece si ricorreva ad impacchi con fettine di lardo o toccature con colostro di mucca. Insomma la medicina popolare si serviva proprio
di tutto pur di raggiungere lo scopo curativo; fortunatamente a partire dai primi anni del secolo scorso, con l’avanzare delle conoscenze
scientifiche anche la medicina ha
subito un forte avanzamento e complice l’innalzamento del tasso di
Obbiettivo
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Attualità/Primo piano
IPASVI - Firenze
scolarizzazione e il miglioramento delle condizioni di vita, l’accesso alle cure mediche primarie
è divenuto una realtà sempre più
consolidata, ragion per cui la medicina popolare ha subito un brusco arresto nelle sue applicazioni
pratiche. Tuttavia non hanno cessato di susseguirsi nel tempo nuove figure che ripropongono in chiave odierna l’equivalente del miracoloso “brodo di serpente” che
fu sapientemente preparato a mano dall’abile fattucchiera-maga di
paese. Mi riferisco a quei promotori che periodicamente, a distanza di dieci o quindici di anni
l’uno dall’altra, annunciano la scoperta di una chiave di svolta per la
cura e guarigione di alcune gravi
patologie ad oggi non ancora curabili. Era il 1998 quando il Prof.
Di Bella, fisiologo modenese, presentava un nuovo tipo di terapia
per la cura del cancro; si trattava
di un “multi farmaco”, una cura
realizzata mediante l’associazione di più sostanze nella quale la
somatostatina era presente in quantità maggiori. Il Prof. Di Bella sosteneva l’efficacia di questa multiterapia nel prevenire la diffusione di metastasi e nel trattamento
dei tumori solidi. In realtà, sebbene gli studi del Professore sulle patologie neoplastiche ebbero inizio
già dagli anni Sessanta del secolo
scorso, fu solo trent’anni dopo che
queste destarono l’attenzione massiccia dei media. La “cura Di Bella” fu salutata con entusiasmo da
migliaia di pazienti colpiti dal
tumore che intravedevano nel metodo una nuova speranza di guarigione e che ne richiedevano a gran
voce il riconoscimento da parte del
Ministero della Salute, ragion per
cui Rosy Bindi, l’allora Ministro
competente, autorizzò un trial sperimentale che includeva seicento
pazienti. Purtroppo i risultati della sperimentazione furono talmente
deludenti da far cadere ogni velleità di trovare un riscontro oggettivo che ne validasse l’utilizzo.
In seguito a ciò anche la Commissione Oncologica Nazionale bocciò seccamente il metodo definendolo privo di legittimazione
scientifica. Eppure nonostante le
evidenze che bollavano il metodo
come inefficacie, migliaia di pazienti continuavano a manifestare
con veemenza il loro appoggio incondizionato al professore e alla
sua cura. In seguito col passare del
tempo l’attenzione dei media andò scemando e negli anni successivi non se ne parlò più. Oggi a distanza di circa quindici anni dal caso Di Bella sembra si stia verificando un circostanza simile; mi riferisco al metodo “Stamina”, una
terapia promossa da Davide Vannoni, professore universitario di
Psicologia della Comunicazione
(e già in merito alla sua compe-
3
tenza in ambito scientifico ci sarebbero valide obiezioni da avanzare) e presidente della fondazione Stamina, una Onlus nata nel
2009 il cui obiettivo è quello di sostenere la ricerca sul trapianto di
cellule staminali mesenchimali e
sul loro utilizzo nella cura di patologie neurodegenerative. La tecnica proposta da Vannoni (sebbene il Presidente non abbia mai accettato di rivelarne i dettagli) consiste nell’estrazione di cellule staminali mesenchimali dal midollo
osseo del paziente, dal trattamento delle stesse in vitro e dalla successiva infusione delle cellule trattate allo stesso paziente. Secondo le dichiarazioni rese ai media e
al pubblico dai promotori del metodo (fra i quali spicca la figura del
dott. Marino Andolina, pediatra e
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Attualità/Primo piano
immunologo, fino al 2011 direttore del Dipartimento Trapianti dell’ospedale Burlo Garofalo, di Trieste e braccio destro di Vannoni), le
cellule così trattate sarebbero capaci di mutarsi in cellule nervose
sane. Tuttavia anche questo metodo sembra seguire, nei metodi e
nei contenuti il lascito della cura
Di Bella e così oggi come all’epoca del professore modenese, il
Ministero della Salute dietro pressione di gruppi di pazienti e di tutti coloro che a vario titolo sostengono la validità della cura, aveva
avviato una sperimentazione interrotta in seguito dal ministro Lorenzin in relazione a quanto espresso dall’ Avvocatura di Stato, secondo cui il metodo Stamina appare come caratterizzato da “potenziali rischi”, “inadeguata descrizione dei metodi” e “insufficiente definizione del prodotto”.
Una stroncatura netta determinata anche dal parere del Comitato
Scientifico. Il mondo della scienza dunque si schiera contro Vannoni e la sua terapia definita da più
esponenti un inganno; un’umiliazione alla scienza secondo quanto affermato dal prof. Silvio Garattini, direttore dell’istituto Mario Negri di Milano, intervenuto
alla cerimonia di apertura dell’anno
accademico all’Università statale
di Milano. Secondo Garattini il caso Stamina è stato possibile « perché siamo un Paese in cui le regole non vengono rispettate”; e in relazione allo scandalo della somministrazione di terapie non autorizzate (travestite da “cure compassionevoli”) del quale è stato
protagonista l’ospedale di Brescia,
Garattini aggiunge “ È quasi incredibile che in un ospedale pubblico siano stati somministrati dei
farmaci, indipendentemente da tutti i passaggi e i divieti previsti
per le sperimentazioni. Questo perché la scienza è umiliata da tutti in
Italia, e in prima parte dai politici
che adottano provvedimenti senza senso”. Parole dure, parole di
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fuoco che generano delle riflessioni sulla considerazione e il trattamento che l’azienda Italia riserva a ricercatori e studiosi ma anche sul significato di “cura compassionevole”. Può davvero essere considerata tale la somministrazione di terapie non validate
dalla legge, in pazienti scarsamenti
monitorati, che potrebbero potenzialmente arrecare degli ulteriori
danni al malato? E’ vero che si tratta di persone la cui storia clinica
può difficilmente essere modificata, molte dal destino già segnato ma attenzione, il passo fra cura compassionevole e sperimentazione camuffata può essere molto
breve. Un’altra riflessione andrebbe
dedicata alla volontà di molti malati e familiari di sottoporsi alla
suddetta terapia, sebbene l’inefficacia se non la pericolosità della
stessa, sia stata dichiarata da illustri esponenti del mondo scientifico; si potrebbe pensare ad una
forma più o meno evidente di sfiducia nei confronti delle istituzioni, che probabilmente per molto
tempo hanno chiuso l’orecchio alle grida di aiuto di queste persone,
tant’è vero che il parere di un laureato in Scienze della Comunicazione sembra più credibile di mille pareri e valutazioni espresse, con
dati alla mano, da esperti del settore della ricerca sulle malattie neurodegenerative; a nulla vale nemmeno la preoccupazione espressa dal Ministro della Salute. Per
alcuni versi sembra quasi di essere tornati indietro di cento, duecento anni, quando contro ogni evidenza empirica si continuava a bere pozioni nauseabonde e intrugli
di ogni tipo. Ma duecento anni fa
non c’era scuola per la gente comune, non c’era la tv…ma forse,
di fronte al dolore quotidiano, di
fronte ad una malattia che ti spegne giorno dopo giorno, alla rabbia, alla sensazione di sentirsi dimenticati, non resta altro che la
speranza e l’affidamento, talvolta
irrazionale, ai nuovi stregoni.
IPASVI - Firenze
Obbiettivo
Filippo Festini
Professore Associato e abilitato ordinario, Dipartimento di
Scienze della Salute (DSS) dell’Università di Firenze MED/45
- Scienze infermieristiche generali, cliniche e pediatriche
Dopo oltre
un decennio
dalla nascita del corso
di Laurea in
scienze infermieristice rimane
difficile comprendere come ancora siano pochissimi i Professori provenienti dal settore infermieristico docenti nelle materie specifiche di questa specialità. Nella maggior parte dei
casi i cattedratici provengono
dalla classe medica e da altre
estrazioni che poco hanno a che
fare con l’infermieristica.
Una realtà che ci fa gioire particolarmente quando ad un infermiere viene riconosciuta l’abilitazione a Professore ordinario da parte della comunità universitaria, step preliminare alla
nomina in ruolo. Filippo Festini, nato a Firenze nel 1964, si
legge nel suo curriculum web
dell’Università di Firenze: maurità classica, Laurea in scienze
politiche e relazioni internazionali, Laurea in infermieristica
all’università di Siena, Professore Associato all’Università
degli Studi di Firenze dal 2005,
una miriade di pubblicazioni.
Il Collegio IPASVI Firenze si
complimenta per il risultato raggiunto e annuncia che a breve
sarà pubblicata su deNurse podcast l’intervista audio rilasciata
dal Prof. Festini.
Obbiettivo
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Collegio
IPASVI - Firenze
5
Da compilare in stampatello ed inviare per fax al n. 055/355648
oppure per e-mail a redazione@ipasvifi.it ; certificata@pec.ipasvifi.org
DATI ANAGRAFICI
Nome
Cognome
Luogo nascita
Data nascita
cittadinanza
cod.fisc.
residenza
citt
via
Cap.
telefono
domicilio
citt
via
Cap.
telefono
E-mail
1
Formazione di base: Laurea
2
Diploma
Data conseguimento
 infermiera/e  assistente sanitara /o  inf. pediatrica/o  vig.infanzia 
Universit
_____________________ Scuola Regionale __________________________
altri titoli di studio
Altri diplomi/lauree
data
Universit /Scuola
Perfezionamento/ specializzazione / master
data
Universit /Scuola
Perfezionamento/ specializzazione / master
data
Universit /Scuola
Perfezionamento/ specializzazione / master:
data
Universit /Scuola
Attivit professionale:
dipendente p.a.
sanit. priv. 
Azienda/Ente/Casa di Cura/altro
libero professionista 
altro 
Ruolo/ incarico/ area:
Dipendente a ruolo
Dipendente a tempo determinato
SI
SI
NO
NO
Periodo data:
N.B.: si prega di inviare aggiornamento all Albo Professionale ad ogni apertura di contratto
Libera Professione
data inizio
Denominazione
Studioassociato
Cooperative di servizi
Societ tra professionisti
Libero professionista individuale
Libero professionista operante terzo settore
altro
Informativa resa ai sensi dell art. 13 decreto legislativo 196/2006 art. 48 DPR 445/2000 informiamo che :
I dati dichiarati saranno utilizzati dagli uffici esclusivamente per le finalit strettamente connesse all attivit del Collegio IPASVI.di cui all art 9 del DLCPS 233/46 e
susseguente art. 4 del DPR 221/50. Il trattamento dei dati sar effettuato con strumenti cartacei, con elaboratori elettronici a disposizione del Collegio IPASVI. I dati
verranno comunicati ai soggetti di cui all art. 2 del DPR 221/50 ed eventualmente ad altri soggetti ai soli fini di perseguire gli scopi prescritti dallart. 3 del DLCPS 223/46.
Il titolare del trattamento il Collegio IPASVI di Firenze nella persona del Presidente pro-tempore che il rappresentante legale dell ente Danilo Massai. In ogni
momento possibile la rettifica, aggiornamento e cancellazione dei dati, come previsto dall art 13 L.675/96 rivolgendosi presso la segreteria del Collegio situata in Via
Pierluigi da Palestrina 11 Firenze cap 50144 tel. 055359866 fax 055355648.
Autorizzo
Data
NON autorizzo
firma
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Nursing pediatrico
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IPASVI - Firenze
Obbiettivo
L’ingestione di corpo
estraneo in età pediatrica
Tipologia e dimensione
del corpo estraneo
Maria Pia Santoro
Infermiera referente del trauma center
dell’ospedale pediatrico Meyer
m.santoro@meyer.it
L’ingestione di corpo estraneo (CE)
è un evento molto frequente in età
pediatrica, soprattutto nella fascia
di età tra i 6 mesi e i 6 anni quando il bambino inizia ad esplorare
l’ambiente.
Nel 93% dei casi l’ingestione è un
evento accidentale, in minore percentuale si ha una ingestione di corpi estranei dovuta alla presenza di
patologia neurologica o psichiatrica.
Triage
Nel caso in cui un bambino si presenti in pronto soccorso per l’ingestione di corpo estraneo il primo passo del percorso assistenziale, è quello di rassicurare sia il
bambino che la famiglia sugli interventi che verranno eseguiti.
E’ necessario che l’infermiere di
triage effettui una anamnesi minuziosa, mirata a capire l’evento
e le circostanze che hanno portato ad ingerire il CE; le patologie
di cui il bambino è affetto che potrebbero dare eventuali complicanze (esempio stenosi esofagea
o malattie infiammatorie croniche
intestinali), e se il bambino ha subito interventi addominali o esofago-gastrici.
Qualora fosse possibile si deve
chiedere all’accompagnatore l’eventuale oggetto gemello, ossia un
oggetto identico a quello ingerito,
questo serve a pianificare al meglio la gestione del piccolo paziente.
Il percorso assistenziale si differenzia a seconda del tipo di corpo
estraneo ingerito e della sede di arresto di esso: solitamente il CE precorre il tratto digerente e viene
espulso spontaneamente (80%),
solo in una piccolissima percentuale si deve ricorrere alla rimozione endoscopica (20%) o, in casi estremi (rischio elevato di perforazione), alla rimozione chirurgica (1%).
Nell’anamnesi deve essere richiesto
l’ora dell’ultimo pasto e le eventuali allergie.
Naturalmente se il bambino si presenta in stato critico (ad esempio
ematemesi) vengono subito effettuati i primi interventi utili alla stabilizzazione.
Dopo aver raccolto l’anamnesi soggettiva ed oggettiva attribuisce il
codice colore di priorità che varia
a seconda della tipologia del CE,
della sintomatologia presentata dal
bambino.
I diversi tipi di CE possono essere classificati secondo due criteri:
sede e morfologia.
In base a questi si ha la potenziale pericolosità e indicazione sulla
necessità di rimozione cruenta e il
livello di urgenza.
I corpi estranei sono quindi suddivisi in base alla tipologia in tre
categorie principali:
– alimenti: boli di carne, grossi
semi, ossi, cartilagini, lische
di pesce.
– oggetti: si distinguono in innocui: esempio monete o simili;
vulneranti: sono oggetti appuntiti o contundenti come spille, fermagli, oggetti voluminosi o lunghi.
– contenitori tossici: batterie, oggetti con piombo, contenitori di
farmaci e sostanze stupefacenti
E’ importante identificare la dimensione del corpo estraneo rapportandolo all’età del paziente, in
linea di massima:
– oggetti <2cm solitamente vengono eliminati spontaneamente dopo aver percorso il tratto
digerente
– oggetti >3cm potrebbero non
superare spontaneamente lo stomaco
Alcune malformazioni possono
facilitare la ritenzione del corpo
estraneo ad esempio stenosi esofagee congenite o secondarie, stenosi del piloro o intestinali ecc.
Obbiettivo
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Nursing pediatrico
IPASVI - Firenze
Sintomatologia
Il bambino presenta una sintomatologia diversa a seconda della
sede di ritenzione del corpo estraneo e alla tipologia dell’oggetto.
Se il CE si arresta in esofago il bambino può presentare i seguenti sintomi: scialorrea, rifiuto di alimentarsi, disfagia, odinofagia, rigurgiti, emorragie digestive. Dolore
addominale da occlusione o perforazione del tratto intestinale se
si tratta di oggetti di grosse dimensioni, con superficie non liscia, appuntiti o taglienti.
Quando è possibile è importante
capire se l’oggetto ingerito contiene piombo in quanto il bambino può presentare una sintomatologia di intossicazione acuta da
piombo che si sviluppano a livello digestivo, renale, ematologico
e neurologico.
Esame fisico
L’infermiere di triage deve eseguire un esame fisico mirato alla
ricerca di segni che possono indicare danno del cavo orale o esofageo, come per esempio l’enfisema sottocutaneo del collo da perforazione esofago tracheale.
Indagini post visita medica
– RX toraco -addominale senza
mdc: (può essere usato solo quando il CE è di tipo radio opaco)
solitamente è una
indagine sufficiente per vedere la posizione dell’oggetto ingerito e valutare la ripienezza
gastrica del bambino.
– TC ed Ecografia
addominale: sono
indagini riservate
solo a CE particolari come contenitori di sostanze stupefacenti e per evidenziare eventuali
complicanze come
fistole tra organi attigui.
– Endoscopia diagnostica e rimozione: l’effettuazione di una endoscopia con
lo scopo di rimozione del corpo
estraneo dipende da diversi fattori:-sede di arresto del corpo
estraneo;-tipologia del CE: caratteristiche e volume del corpo
estraneo.
Casi particolari
Per alcuni oggetti deve essere posta una particolare attenzione:
– Monete: la moneta è l’oggetto
più frequentemente ingerito.
- Se la moneta è ritenuta in esofago cervicale, indipendentemente dalla sintomatologia si
deve procedere a una endoscopia in regime di urgenza.
- Se la moneta è ritenuta in cavità gastrica si ha per la maggioranza pazienti asintomatici che possono essere inviati
al domicilio e controllati.
– Batterie: lo splitting della batteria (rottura e quindi rilascio
delle sostanze) viene favorito
dal pH acido presente a livello
gastrico, per questo i tempi tra
l’ingestione e la rimozione del
CE devono essere ridotti al minimo.
– Magneti: (solo se multipli) la loro azione lesiva determinante la
perforazione è data dalla forza
di attrazione che si sviluppa
7
attraverso le pareti intestinali.
Per questo è necessaria la rimozione immediata per via endoscopica.
– CE contenenti piombo: il pericolo è dato dalla quantità di piombo contenuta dall’oggetto. E’
importante eseguire rimozione endoscopica d’urgenza anche se il paziente è asintomatico.
– Boli alimentari: il bolo alimentare rappresenta una urgenza endoscopica nel caso di bambino
affetto da stenosi esofagea; la
rimozione quindi deve essere
effettuata in regime di urgenza.
Conclusioni
La conoscenza da parte dell’infermiere di triage sulla tipologia
dei corpi estranei, sulla sintomatologia e sulle indagini che possono essere eseguite al piccolo
paziente è fondamentale per poterlo indirizzare nel percorso più
appropriato in modo da poter garantire il trattamento nel minor
tempo possibile evitando conseguenze.
L'edizione 2014 della manifestazione podistica non
competitiva si svolgerà sullo stesso percorso delle due
edizioni precedenti salvo
impedimenti autorizzativi
dell'ultimo momento.
Prossimamente tutte le informazioni saranno pubblicate sul sito www.ipasvifi.it
8
CIVES
1/2014
IPASVI - Firenze
Obbiettivo
Psicologia dell’Emergenza:
aspetti teorico-pratici
e cenni sulle competenze
infermieristiche relazionali
L. Brunelli1 - G. Ballerini2
1
Infermiere libero professionista
laurabrunelli81@email.com
2
Infermiere AOU Careggi
ziobrasi@libero.it
Dall’inizio degli anni ’80 in Italia
si incominciò a parlare del fenomeno del burnout, iniziando così
a evidenziare il rischio emotivo al
quale tutte le professioni d’aiuto
possono andare incontro. Nonostante siano svariati i percorsi formativi che i sanitari devono affrontare, poco o nulla vien fatto
per delineare il disagio psicologico che può nascere in seguito a un
evento traumatico; in merito a ciò
si può parlare di una vera e propria
“censura emotiva”, in quanto nei
servizi emergenziali e non solo il
modello di professionalità assunto è di tipo neutro e impersonale.
In seguito a ciò i propri stati d’animo vengono circoscritti, arginati
e recepiti come un ostacolo al buon
funzionamento del sistema. Così, da soccorritori, si rischia di
diventare vittime di un evento traumatico, in quanto si è esposti a tali livelli di sofferenza umana che
possono notevolmente compromettere non solo l’opera di soccorso ma soprattutto il proprio benessere psicofisico. Ecco allora
che diventa importante identificare le tecniche tramite le quali il soccorritore, sia sanitario che laico,
possa preservarsi assolvendo al
proprio compito. Un valido aiuto
viene offerto dalla Psicologia dell’Emergenza la cui finalità è rappresentata dallo studio, dal trattamento e dalla prevenzione dei processi psichici negativi, dalle emozioni e dai comportamenti che si
determinano prima, durante e dopo l’evento avverso; sono quindi
oggetto di studio sia il singolo che
la comunità colpita con il fine di
aiutare a prevenire e superare quei
fenomeni psichici negativi che si
possono generare. Gli obiettivi dell’intervento psicosociale riguardano la salvaguardia della salute
psichica e la promozione del benessere psicologico, l’individuazione di modelli decisionali, formativi, educativi e comunicativi e
il sostegno psicologico ai soccorritori. Lo sviluppo della disciplina
è avvenuto in parallelo a tre diversi
ambiti:1
1. sul piano teorico si è assistito a
un moltiplicarsi di studi e pubblicazioni sui differenti aspetti
psicologici connessi al contesto
emergenziale;
2. sul piano operativo, gli psicologici sono “scesi in campo” collaborando attivamente con il team
multidisciplinare dell’emergenza (medici, infermieri, volontari, etc..);
3. sul piano politico e decisionale,
si è dimostrato un interesse attivo alla psicologia dell’emergenza tramite l’emanazione di due
importanti documenti:
• European Polyci Paper: emanato nel 2001 dal Ministero della
Salute Pubblica del Belgio, con
il sostegno della Commissione
Obbiettivo
1/2014
CIVES
IPASVI - Firenze
Europea, esteso a
tutti i paesi dell’Unione Europea, il
documento si focalizza sulla preparazione, gestione operativa e valutazione degli interventi nelle tre diversi fasi che sono
concomitanti e seguono l’evento calamitoso: fase acuta, di transizione
e a lungo termine;
• Criteri di massima per l’intervento psicosociale nelle catastrofi: con la legge n. 200 del 29
agosto 2006, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, in Italia si è verificato l’ingresso definitivo dell’intervento di supporto psicosociale a seguito di un disastro.
La normativa prevede che il Presidente del Consiglio dei Ministri predisponga piani di previsione e prevenzione dei rischi, i
programmi nazionali di soccorso e i piani per l’attuazione di misure di emergenza. La direttiva
sottolinea anche l’importanza di
rilevare problemi d i ordine psichiatrico e psicologico sia nella
popolazione colpita che nei soccorritori e, fornire piani di intervento anche a lungo termine
quando le caratteristiche dell’evento possono notevolmente compromettere la capacità di adattamento degli individui.2
Prima di affrontare quelle che possono essere le varie risposte psicologiche a un intervento emergenziale, occorre definire la differenza che sussiste tra il concetto
di “trauma” e di “stress”. I due concetti, secondo il linguaggio comune, rappresentano entrambi lo stesso significato di “esperienza negativa”; nonostante possano essere collocati come punti sullo stesso
continum il trauma si riferisce non
solo a situazioni che possono mettere in pericolo la vita delle persone o ne implicano minaccia alla loro integrità psicofisica, ma anche a
quegli eventi che l’individuo per-
cepisce come minacciosi per la loro valenza negativa, per la loro imprevidibilità e non controllabilità.
Quindi, il trauma è l’evento negativo; lo stress invece è la risposta
aspecifica all’evento. Questa risposta può essere efficace, nel momento in cui il soggetto pone in essere tutte quelle misure positive per
fronteggiare lo stress (coping efficace) o, di tipo inefficace, quando
la persona non riesce a rispondere
in maniera idonea all’evento traumatico. La mancanza di instaurazione di tecniche di coping efficaci può portare, se non tempestivamente riconosciuti e trattati, a diversi disturbi psichici quali ad esempio il Disturbo Post-Traumatico da
Stress (DPTS), Traumatizzazione
Vicaria e Critical Incident o Sindrome da Eventi Critici.3 . Tutti questi disturbi sono in grado di compromettere notevolmente la sfera
cognitiva e comportamentale del
soggetto coinvolto andando a ledere sia i rapporti familiari e amicali, sia quelli lavorativi. Il DPTS è
un disturbo la cui durata deve essere di almeno un mese e che porta a
un significativo disagio o a una menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti. Per far diagnosi, occorre
che la persona ha vissuto, o ha assistito o si è confrontata con uno o
più eventi che hanno implicato la
morte o la minaccia di morte o gravi lesioni all’integrità fisica o di altri. Inoltre, l’evento traumatico deve essere rivissuto sotto forma di ricordi spiacevoli ricorrenti, incubi,
allucinazioni e flashback; l’esita-
9
mento persistente degli
stimoli associati al trauma deve essere dimostrato
dalla presenza di tre o più
dei seguenti elementi:
1. sforzi per evitare pen
sieri, sensazioni o conversazioni associate al
trauma;
2. sforzi per evitare attività, luoghi o persone
associate al trauma;
3. incapacità a ricordare
qualche aspetto associato all’evento traumatico;
3. marcata riduzione dell’interesse
o della partecipazione ad attività
significative;
4. sentimento di distacco o di estraneità nei confronti degli altri;
5. riduzione della gamma di affetti;
6. senso di mancanza di prospettive future (non poter avere mai una
carriera, dei figli o una vita normale).
Infine devono essere presenti almeno due sintomi di forte attivazione e non presenti prima del trauma, quali ad esempio difficoltà ad
addormentarsi o a mantenere il sonno, scoppi di collera, ipervigilanza e reazioni di trasalimento esagerate.
Nella Traumatizzazione Vicaria il
soccorritore vive indirettamente il
trauma di un’altra persona e i sintomi vanno dalla stanchezza alla depressione, all’irritabilità, all’ansia,
all’insonnia, all’affaticamento, ai
problemi familiari, al cinismo, all’apatia e al senso di inutilità. Nei
soccorritori questa sindrome può
manifestarsi nella difficoltà di concentrazione, nell’irritabilità, in difficoltà respiratorie ed in forme di
isolamento. I fattori di rischio che
possono generare la sindrome sono
suddivisi in tre classi e, più precisamente:
1. i fattori di rischio oggettivi correlati ad eventi che portano alla
morte dei bambini, al coinvolgimento di tante persone, alla morte di un collega, alla mutilazione
o deformazione dei corpi o alla
difficoltà di intraprendere deci-
10
Studi e progetti
sioni importanti in brevissimo
tempo;
2. i fattori di rischio soggettivi correlati alla tendenza del soccorritore ad identificarsi con la vittime o a tenersi a debita distanza
da essa, presenza di significative
problematiche psicologiche ancor prima dell’evento traumatico o mancanza di idonee strategie per fronteggiare lo stress.
I fattori di rischio correlati all’organizzazione nella quale si presta
servizio riguardano i ritmi di lavoro eccessivi, carenza dei processi di
comunicazione, conflitti interni all’organizzazione stessa e carenze
nei processi di selezione e formazione del personale di soccorso.
Il Critical Incident o Sindrome da
Eventi Critici, viene definito come
“qualunque situazione capace di
esercitare nell’individuo un impatto fortemente stressante, tale da annientare i meccanismi di coping solitamente utilizzati” (Mitchell e
Everly, 1999). In altri termini l’evento stressante sconvolge il soggetto facendogli perdere il controllo su di sé e sulla realtà che lo circonda. La sindrome determina nell’individuo una reazione emotiva
che lo porta ad utilizzare male i propri schemi cognitivi e può arrecare
danno non solo a chi ne è colpito
ma anche ai colleghi o alle persone
da soccorrere. Un aspetto interessante del Critical Incident è riconducibile al fatto che può essere causato dalla ripetizione di eventi stressanti in breve tempo.
Le strategie di primo soccorso psicologico hanno l’obiettivo di identificare e prevenire tutte quelle manifestazioni psico-patologiche e, si
identificano in un programma globale, multicomponente e sistemico
chiamato Critical Incident Stress
Managment (CISM). Il modello, introdotto nel 1999, ha quindi l’obiettivo di ridurre la tensione emotiva, facilitare il naturale processo
di recupero e identificare i soggetti che necessitano di sostegni aggiuntivi o dell’invio in particolari
strutture. Il CISM è suddiviso in:
1/2014
1. Demobilization: comprende interventi di gruppo erogati nel primissimo periodo e nelle immediate vicinanze dell’evento, con
l’obiettivo di effettuare una decompressione psicologica;
2. Defusing: si effettua entro 12 ore
dall’evento e le persone colpite
vengono raggruppate in piccoli
gruppi di 6 o 8 partecipanti. La
durata è di circa 20-45 minuti e
si cerca di attenuare le reazioni
intense, ricostruire la rete sociale per evitare l’isolamento e si effettuano operazioni di screening
per eventuali ulteriori interventi.
3. Debriefing: viene svolto da uno
a dieci giorni dopo l’evento e
da tre a quattro settimane dopo
un disastro. L’incontro dura dai
60 agli 80 minuti ed è rivolto ad
un gruppo di 8 o 10 persone, sia
soccorritori che vittime dirette.
Qui si cerca di aiutare le persone
a gestire le proprie emozioni, identificare le strategie di coping efficaci e ricevere sostegno attraverso il confronto sociale.
In merito alla professione infermieristica e, più in generale alle professioni d’aiuto, si fa riferimento alla normativa n. 196 del 25 agosto
del 2003, la quale definisce gli obiettivi organizzativi e relazionali di tutti coloro che operano nel sistema di
emergenza – urgenza. Due sono gli
obiettivi esplicitati dal documento
che devono essere raggiunti: di tipo organizzativo e di tipo relazionale. A livello organizzativo occorre che l’operatore conosca a fondo
il sistema nel quale opera, sistema
caratterizzato da linee guida e protocolli operativi, nuove tecnologie e sistemi di comunicazione. A
livello relazionale, è importante conoscere come si lavora in squadra
e la metodologia per gestire lo stress
e i conflitti; inoltre, l’operatore
del soccorso deve sapersi relazionare nella comunicazione tra le
diverse componenti della rete dell’emergenza. Il possesso di tutti questi requisiti fa si che l’operatore abbia tutte quelle facoltà intellettuali
IPASVI - Firenze
Obbiettivo
che gli permettono di riconoscere
situazioni di disagio psichico non
solo nel paziente, ma anche nel collega. Nei confronti del disagio delle persone soccorse, si instaurerà
una relazione d’aiuto basata sull’accoglienza delle emozioni e degli stati d’animo negativi, indirizzandolo verso il professionista della salute mentale, al quale già precedentemente gli è stato fatto un
“rendiconto” delle principali problematiche della persona turbata.
Chi comprende i bisogni di chi gli
stà di fronte, che li accoglie, che
comprende e che ascolta le persone che chiedono aiuto, possiede delle abilità e delle capacità che lo distinguono in una strada professionale difficile ed impegnativa. L’attività di mediazione da l’opportunità di entrare realmente in relazione con chi soffre ed accompagnarlo nel suo percorso e rappresenta
un’occasione per conoscere meglio
se stessi più in profondità e sviluppare al meglio il proprio potenziale.
Importante è precisare che la relazione d’aiuto deve essere onesta;
solo questa caratteristica permette
l’espressione del disagio e del dolore in chi li sta vivendo.
1
Tettamanzi M., Psicologia dell’emergenza e dell’assistenza umanitaria, quadrimestrale della federazione Psicologi
per i Popoli, 2010, p. 4.
2
Brunelli L., Monti M., Le sequele psicologiche degli operatori d’emergenza dopo una catastrofe: il terremoto dell’Aquila, elaborato finale in Psicologia dell’Emergenza, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, Facoltà di Medicina
e Chirurgia, corso di laurea in Infermieristica, A. C. 2010 – 2011, pp. 15-17.
3
Brunelli L., Monti M., Le sequele psicologiche degli operatori d’emergenza
dopo una catastrofe: il terremoto dell’Aquila, elaborato finale in Psicologia
dell’Emergenza, Alma Mater Studiorum,
Università di Bologna, Facoltà di Medicina e Chirurgia, corso di laurea in Infermieristica, A. C. 2010 – 2011, pp. 3738; pp. 79-83.
Obbiettivo
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Studi e progetti
IPASVI - Firenze
11
L’applicazione della metodologia dell’Indice
di Complessità Assistenziale (I.C.A.),
nelle cure infermieristiche domiciliari
della ASL10 di Firenze. Uno studio pilota.
Stefania Comerci
Assistenza infermieristica
territoriale ASL 10 – Firenze
Stefania.comerci@asf.toscana.it
Il peso crescente della condizione
di fragilità della popolazione e di
cronicità di patologie, parallelamente alla riorganizzazione degli
ospedali per acuti, ha imposto un’
attenzione particolare allo sviluppo di progetti di consolidamento
delle cure domiciliari richiedendo
nuovi strumenti gestionali di valutazione del case-mix infermieristico, che assicurino l’appropriatezza e l’efficacia degli interventi e l’attendibilità dei risultati.
In questo studio osservazionale
prospettico ho documentato l’applicazione della metodologia dell’indice di complessità assistenziale (ICA); (B. Cavaliere,2007),
come possibile metodo di misurazione della complessità dei bisogni espressi/potenziali degli assistiti afferenti alle cure infermieristiche domiciliari, e come valido supporto alla pianificazione dell’assistenza, all’individuazione
delle priorità, all’equità delle cure oltre che alla equa distribuzione delle risorse. Un sistema di misurazione del lavoro infermieristico, non più basato quindi sulle
singole prestazioni erogate o sul
numero di accessi/settimana, ma
sensibile alle diverse variabili che
contribuiscono alla personalizzazione dell’assistenza
La sperimentazione è stata effettuata dagli stessi infermieri erogatori di assistenza presso un pre-
sidio della ASL 10 di Firenze in
due periodi assistenziali distinti; il
primo nel trimestre Maggio/Luglio 2009, su 237 pazienti in carico, l’altro nel mese di Dicembre
2009, su 167 pazienti in carico in
quel periodo: quest’ultimo per avere informazioni sull’andamento
assistenziale annuale.
Si è prodotto uno strumento informatizzato per la raccolta e l’elaborazione dei dati.
Inoltre l’adozione di una cartella
assistenziale strutturata su basi
scientifiche di riferimento quali I Modelli Funzionali di Salute di
M.Gordon – che tengono conto
della molteplicità dei bisogni biopsico-sociali, e la pianificazione
infermieristica secondo la Tassonomia Diagnostica, della North
American Nursing Diagnosis Association (N.A.N.D.A.), quella per
obiettivi (N.O.C) e interventi (N.I.C),
secondo la classificazione dell’Univerity of Jowa, ha avuto una rilevanza sia dal punto di vista professionale, offrendo agli infermieri
la tracciabilità del processo di Nursing, che da quello assistenziale,
attraverso la stesura di un Piano
Assistenziale Personalizzato (P.A.P.),
che ha reso evidente come ciascuna persona manifesti le reazioni al
proprio stato di salute, che al contrario della malattia, non sono assimilabili per tutti gli individui, e
reso possibile l’adozione di interventi mirati e la loro misurazione dell’efficacia attraverso determinati indicatori di esito, e di
Scale di Valutazione scientificamente validate.
Nella ricerca in letteratura, di una
metodologia di misurazione della
complessità assistenziale, ho tenuto conto di alcuni criteri irrinunciabili quali: la semplicità nel-
12
Studi e progetti
l’applicazione, pena il consenso
degli operatori; la capacità di monitoraggio continua nel tempo, poiché trattasi di persone con patologie croniche; la possibilità di adattamento alle nostre basi scientifiche prescelte, critreri riscontrati
nella metodologia dellI.C.A. proprio per le sue caratteristiche di
flessibilità dimostrate nel periodo
di validazione.
Il Nomenclatore, pietra miliare del
sistema I.C.A. è stato da me riela-
1/2014
borato sugli 11 Modelli Funzionali
di Salute di M. Gordon, e sugli Interventi infermieristici (N.I.C.)
possibili da attuare ad ogni apertura di Diagnosi infermieristica
reale o di rischio. Ogni intervento
è stato poi stratificato sui 5 livelli
di complessità in funzione di tre
variabili: mentre si è naturalmente mantenuta l’impalcatura del sistema – 5 livelli, anche se denominati diversamente di significato – le variabili sono state intro-
ASSISTENZA INFERMIERISTICA DOMICILIARE ASL Firenze
TABELLA DEGLI INTERVENTI INFERMIERISTICI PER LA DETERMINAZIONE DELL' INDICE DI COMPLESSITA' ASSISTENZIALE (I.C.A.)
Legenda livelli/Finalità
0:non necessita
1:self-care
2: sorveglianza
3:sostegno
4: monitoraggio
5: /Sostituzione)
interventi
MODELLO
Livelli
RESPIRAZIONE/ CIRCOLAZIONE
NIC
1
1. Identificazione dei Analisi
rischi e identificazione dei fattori dei rischio poten
dei rischi sanitari. E fissazione di strategie per la riduzione del rischio
2
NIC
1. Insegnamento Gestione farmaci sottocute
2 Posizionamento3RVL]LRQDPHQWRLQWHQ]LRQDOHGHOO¶LQWHURFRUSRRGLXQDVXDSDUWH per promuover
il benessere fisiologico.
3. Insegnamento utilizzo aerosol, nebulizzatori,
2 terapia O
3
NIC
1. Monitoraggio attività/esercizi Preparazione
prescritti
della persona a raggiungere o
un livello di attività o esercizi terapeutici passivi raccomandato
2. . Assistenza circolatoria:insufficienza
Promozione
venosa
3 Assistenza circolatoria:insufficienza Promozione
arteriosa
4
Obbiettivo
dotte ad hoc per dare “il peso”
alle cure domiciliari. Stessi N.I.C
sono inseriti in più livelli di complessità proprio per la diversa estrinsercazione delle variabili.
I livelli sono stati così esplicitati:
Liv. 1, capacità di self-care; Liv.
2, sorveglianza; Liv. 3, sostegno;
Liv. 4, monitoraggio, Live. 5, sostituzione.
Le variabili, come accennato, condizionano il livello di complessità di ogni intervento assistenziale
per la maggior/minor competetenza
professionale, il maggior/minor bisogno di monitoraggio clinica-sociale dell’assistito, la maggior/minor capacità di self-care:
– La stabilità funzionale: i possibili stati osservabili rispetto ai
modelli funzionali di salute;
– Il contesto domiciliare del paziente, supporto del caregiver,
le relazioni familiari e delle
reti informali;
– Il coordinamento con le altre
figure professionali per la presa in carico muldisciplinare.
Il valore I.C.A. sarà la risultante
della somma dei massimi livelli di
complessità per ogni intervento
assistenziale adottato ad ogni modello funzionale.
Un altro aspetto fondamentale è il
riconoscimento agli assistiti della
‘classe di gravità’, (Tab. 2), che
non è soltanto un’assegnazione numerica, ma una presa in carico quaTab. 2 – Classi di gravità assistenziale
su nomenclatore a 11 modelli e 5 livelli di complessità.
Classi
Descrizioni
Valore
I.C.A.
1
Gravità molto
lieve
0-10
NIC
2
Gravità lieve
11-21
1. Vie aeree:aspirazione
Rimozione delle secrezioni dalle vie aeree tramite inseri
catetere
3
Gravità
moderata
22-32
4
Gravità elevata
33-43
5
Gravità molto
elevata
44-55
NIC
1. Posizionamento3RVL]LRQDPHQWRLQWHQ]LRQDOHGHOO¶LQWHURFRUSRRGLXQDVXDSDUWH per promuover
il benessere fisiologico.
2 Precauzioni antiemboliche
Riduzione del rischio di formazione/sviluppo di un em
persona portatrice o a rischio di sviluppare un trombo
5
IPASVI - Firenze
2. Cura della tracheostomia
Mantenimento della pervietà della stomia e cura del te
3. Somministrazione di farmaci per via intramuscolare / endovenosa
Obbiettivo
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IPASVI - Firenze
litativamente appropriata, utile per
generare classificazioni sintetiche
sulla tipologia di assistito, facilitando l’organizzazione del lavoro.
Conclusioni
La possibilità di indagare su un sistema di gestione dell’assistenza,
non più orientata alla quantificazione delle prestazioni, ma sulla
complessità degli interventi forniti e mai documentati,ha rappresentato un momento di crescita professionale oltre che organizzativa: i continui momenti di
riflessione e confronto tra gli infermieri su quello che si fa, come
si fa, e chi fa, ha favorito condivisioni di pensiero e valutazioni di
competenza, attibuendo ad operatori di supporto livelli assistenziali
appropriati basati su una valutazione multidimensionale.
I limiti dello studio sono dovuti all’essere stata la prima applicazione in ambito domiciliare, senza
confronti di risultati con altre zone-distretto, ma è il primo passo
per una validazione su applicazione multicentrica.
Il principio di ‘equità’ delle cure,
che stà segnando il passaggio rilevante dal modello della dipendenza a quello della complessità,
presuppone un’attenta rilevazione dei bisogni assistenziali di pazienti domiciliari in condizioni cliniche e socio-familiari eterogenee
che necessitano di inteventi diversi
per intensità, complessità e durata della presa in carico: interventi pesati da un sistema oggettivo
verificabile e condiviso,quale quello dell’Indice di Complessità Assistenziale, i cui risultati dimostrano che val la pena di continuare
a lavorare alla validazione per creare uno strumento di utilità gestionale più vicino all’idea di assistenza secondo le scienze infermieristiche di quanto non lo siano
gli studi incentrati soltanto sul tempo assistenziale.
Studi e progetti
Cancellazioni
dall’Albo iscritti
al Collegio IPASVI
di Firenze
Si ritiene opportuno ricordare a tutti gli iscritti che,
fermo restando l’obbligo dell’iscrizione all’Albo ai
fini dell’esercizio della professione infermieristica
e di assistante sanitaria\o, sia essa in regime di
pubblico impiego che di libera professione, la
cancellazione dall’Albo comporta l’ impossibilità
di svolgere a qualunque titolo e in qualunque
modalità le suddette professioni.
L’Albo rappresenta infatti lo strumento di controllo e vigilanza dello Stato sull’esercizio professionale e, attraverso l’Albo, il Collegio certifica e
garantisce, a tutela del cittadino e delle strutture
sanitarie, il possesso dei requisiti generali e specifici richiesti per erogare servizi e prestazioni afferenti all’area di competenza professionale.
La domanda di cancellazione dall’Albo professionale va redatta in bollo (E 16,00) sull’apposito
modulo (da scaricare da www.ipasvifi.it ) e presentata al Collegio di persona o a mezzo raccomandata o PEC entro e non oltre il 30 Novembre
di ogni anno, la cancellazione decorrerà dal 1
Gennaio dell’anno successivo.
Le domande pervenute oltre la data suddetta, se
pur accettate, comporteranno il mantenimento
dell’iscrizione e il pagamento della tassa annuale
per l’anno successivo.
Le domande che perverranno tra il 1 Gennaio e il
30 Giugno di ogni anno comporteranno il pagamento della tassa annuale in dodicesimi, mentre
per quelle che perverranno tra il 1 Luglio e il 30
Novembre l’importo della tassa annuale dovrà
essere pagato per intero.
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Nursing nel mondo
1/2014
IPASVI - Firenze
Obbiettivo
Infermieri:
una forza per il cambiamento,
una risorsa vitale per la salute
Giancarlo Brunetti
Infermiere coordinatore ASF
gcbrunetti@gmail.com
Fino dal 1965 il giorno del 12 maggio, data di nascita di Florence Nightingale, viene festeggiato da ICN
come giornata internazionale degli infermieri. Dal 1988 ICN associa alla giornata dell’infermiere un
tema da mettere in evidenza e trattare per tutto l’anno nelle iniziative in tutto il mondo.
Sul sito (www.icn.ch) è disponibile in inglese un “kit” costituito
da un poster e da un dossier di approfondimento che può essere utilizzato liberamente da associazioni e singoli professionisti. La traduzione in italiano è curata dalla
CNAI (affiliata a ICN e rapresentante degli infermieri italiani) e sarà disponibile a breve sul sito
(www.cnai.info).
Quest’anno il tema è “Infermieri:
una forza per il cambiamento,
una risorsa vitale per la salute”. L’argomento è molto attuale,
infatti se da una parte vi è un generale riconoscimento che la disponibilità di operatori sanitari adeguatamente formati e motivati è
importante per la salute della popolazione, dall’altra c’è grande
preoccupazione per la diffusa carenza di infermieri in tutto il mon-
Un poster e materiali informativi fanno parte del kit
che anche quest’anno l’International Council of Nurses (ICN) mette a disposizione per la giornata internazionale dell’infermiere. L’ICN è il più rappresentativo tra gli organismi professionali a livello globale,
è una federazione di 130 associazioni nazionali che
conta più di 16 milioni di infermieri in tutto il mondo.
do accentuata da una maldistribuzione geografica.
Un equo accesso a servizi sanitari
di qualità non può essere raggiunto senza un numero adeguato di infermieri, il kit messo a disposizione da ICN è uno strumento essenziale per comprendere il quadro
più ampio del mercato della forza
lavoro in campo sanitario, influenzato
da diversi fattori quali il divario tra
offerta e domanda, l’effetto della
crisi finanziaria, la migrazione e
l’allungamento della vita lavorativa degli infermieri.
Viene sottolineata l’importanza di
pianificare con attenzione la risorsa professionale senza dimenticare la sicurezza dei pazienti. Le trasformazioni sociali ed ambientali
a cui assistiamo impongono metodi per misurare la complessità assistenziale e il carico di lavoro assistenziale, tenendo conto che l’innovazione tecnologica ha modificato profondamente il modo di
lavorare degli infermieri.
È chiaro che aumentare il numero
di infermieri non è l’unica soluzione, un altro aspetto fondamenta-
Obbiettivo
1/2014
IPASVI - Firenze
le è migliorare l’ambiente di
lavoro. Una assistenza di qualità non può prescindere dalla somma di diversi elementi quali un sufficiente numero di infermieri, una adeguata formazione e un buon ambiente di lavoro.
Per la giornata dell’infermiere ICN promuove con
forza un altro obiettivo, quello di incoraggiare gli infermieri a curare di più la propria immagine per dimostrare
ai governi, ai datori di lavoro, e alla società che gli infermieri sono una risorsa vitale per la salute.
Se vogliamo davvero essere una forza di cambiamento allora dobbiamo dimostrare concretamente di essere capaci di rispondere alle nuove sfide. Se siamo scontenti di come gli infermieri
sono visti e trattati sul posto
di lavoro, allora abbiamo
Nursing nel mondo
15
l’obbligo di fare qualcosa.
Dobbiamo riconoscere la nostra responsabilità personale
riguardo all’immagine che i
cittadini hanno di noi. Siamo
sempre presenti con impegno
e professionalità nei percorsi di cura in ogni ambito, ma
troppo spesso i media raccontano una storia diversa
che ci ritrae solo nelle storie
negative.
La giornata Internazionale degli infermieri è occasione per
farci conoscere e coinvolgere i colleghi e la popolazione
nelle iniziative per dare forza ad una immagine diversa
della professione. Gli infermieri possono e devono fare
la differenza nel loro lavoro, nell’equipe, dentro le associazione e le organizzazioni professionali e come forza
che stimoli i governi nelle politiche riguardo la salute e i
servizi sanitari.
Colpa grave e pubblico impiego, FAQ
Cos’è la colpa grave?
La “colpa grave” è un comportamento altamente
negligente, imprudente, imperito che ha arrecato un
danno erariale alle finanze della Pubblica
Amministrazione. Viene accertata dalla Corte dei
Conti. art.18-22 TU pubblico impiego DL 3/1957
Perchè mi devo assicurare?
Perchè se la Corte dei Conti accertasse un indennocomportamento gravemente colposo imporrebbe al
professionista di rifondere l’Azienda dell’importo
che questa ha pagato al paziente danneggiato a titolo di risarcimento. Non solo, in caso di colpa grave
accertata giudizialmente anche l’Assicuratore
dell’Azienda può rivalersi sull’infermiere.
Perchè non mi devo assicurare per la colpa lieve?
Perchè in caso di colpa lieve del danno risponde il
datore di lavoro, così come previsto dal Testo Unico
del Pubblico Impiego
Cosa succede se cambio azienda?
Essendo l’adesione rivolta alle persone fisiche, la
copertura opera per tutta l’attività svolta
dall’Assicurato nelle Aziende appartenenti al SSN,
entro la pregressa contrattuale. Di conseguenza,
l’Assicurato è coperto per le attività svolte nelle precedenti Aziende in cui ha lavorato e, in caso di cambio di Azienda, la copertura opera anche per la
nuova attività.
A cosa serve la polizza patrimoniale?
La polizza patrimoniale serve a tutelare il dirigente
e coordinatore nei casi in cui la colpa grave sia
emersa in un caso in cui il paziente lamenta un
danno puramente finanziario (vedasi violazione privacy) oppure in cui il soggetto danneggiato è direttamente l’Azienda.
È pertanto una polizza consigliata per i primari, che
gestiscono un budget, per i dirigenti, coordinatori,
tecnici ed amministrativi.
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Nursing di genere
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Obbiettivo
Il lavoro di cura delle donne e l’impatto
sul welfare: la donna come caregiver
A. Lombardi - L. Giovannini
E. Nerozzi
Elena Nerozzi : infermiera ASF
elena.nerozzi@asf.toscana.it
Luana Giovannini: infermiera ASF
luana.giovannini@asf.toscana.it
Angela Lombardi:infermiera ASF
angela.lombardi@asf.toscana.it
Che cos’è la care? Il termine inglese rimanda ad una molteplicità
di significati, dalla care come preoccupazione e sollecitudine verso
l’altro alla care come prendersi cura dell’altro. Ognuna di queste possibili traduzioni ne descrive aspetti diversi e rinvia ad una relazione
di minore o maggiore prossimità
fisica con l’altro: dalla disposizione
mentale all’attenzione verso l’altro fino alle concrete attività del
prestare cura. In quest’ultimo senso, la care evoca un mondo di esperienze quotidiane e ordinarie che
ciascuno di noi ha vissuto come
destinatario della cura (care receiver) nella propria infanzia e che
tradizionalmente sono fatte rientrare in uno spazio, quello privato,
che solo grazie alla riflessione inaugurata dagli studi di genere a cominciare dagli anni Ottanta siamo
oggi in grado di riconoscere in tutta la sua portata sociale e politica. L’obiettivo che qui ci si propone è ricostruire a grandi linee i
cambiamenti psico-sociali della
famiglia nel suo ciclo di vita relativamente all’impatto che il lavoro di accudimento e di “cura” dei
componenti non autosufficienti ha
nell’organizzazione familiare moderna e, in modo particolare sul
ruolo della donna (come caregiver).
Il termine curare, qui, è inteso nell’accezione di mettere in atto quel
complesso di pratiche di accudimento, accompagnamento e assistenza di cui il corrispondente termine anglosassone è to care, (prendersi cura di qualcuno) con i suoi
correlati caregiving e caregiver.
Si indica quindi con questo termine non solo un assistenza sanitaria ma anche e soprattutto la componente affettiva dell’impegno per
il benessere di un’altra persona. Il
caregiving (accudimento), altro
non è che l’espressione comportamentale di questo impegno, e
caregiver è colui che offre questa
assistenza e questa protezione1.
Per la nostra analisi, rivestono interesse gli studi psicologici sulla
famiglia intesa come organizzazione dinamica e sistema complesso
aperto all’ambiente esterno.
Già Malinowski nel 1913 faceva
discendere le caratteristiche essenziali e l’universalità della famiglia, dall’universalità del bisogno di cura dei piccoli2. La famiglia, come istituzione per la cura
e l’allevamento dei piccoli, è definita da precisi confini spaziali e
relazionali, i suoi membri sono legati da particolari vincoli affettivi. Su questa scia, molti sociologi hanno parlato di “funzioni della famiglia” come di dimensioni
naturali quali: la riproduzione,
la cura, l’accudimento, l’educazione, la condivisione economica
e la regolamentazione della sessualità.
Bisogna pensare alla famiglia come ad un sistema dove ogni membro è in relazione con gli altri, dagli altri è influenzato ed è, a sua
volta, in grado di influenzare comportamenti, decisioni e azioni. Sia
i componenti della famiglia che
i rapporti che li legano e ne definiscono la posizione, mutano con
l’andare del tempo, con il passaggio da una fase all’altra del ciclo di vita. Come in passato ancora oggi, nascite, matrimoni, morti, invecchiamento, disabilità, producono un continuo mutamento
nel tipo di vincoli che legano le
persone in una famiglia e ne modificano sia le competenze che
l’attribuzione dell’autorità e del
potere, nonché gli scambi tra famiglia e società (Saraceno, 2007).
Cura e accudimento sono, in effetti, intrinseci a ogni relazione
stretta, quali quelle tra genitori e
figli e tra coniugi. In alcune circostanze, però, il caregiving si trasforma in un carico assistenziale
straordinario e non egualmente
distribuito all’interno della famiglia: ovunque sono principalmente
le donne, nella loro posizione di
madri, mogli, figlie e nuore a prestazione cura e assistenza.
Il sistema di welfare italiano, a differenza dei principali modelli europei, mantiene sulle famiglie e,
al loro interno, principalmente sulle donne, un carico particolarmente
importante nella cura e nelle tutele, quasi a rendere l’intervento
pubblico “marginale” o “sussidiario” rispetto a quello domestico. Peraltro, tale “centralità” non
prevede politiche familiari adeguate, in grado cioè di sostenere,
attraverso trasferimenti e servizi,
gli interventi di cura. Piuttosto si
lascia alle attività informali, al lavoro delle donne, agli aiuti pa-
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rentali e ai servizi privati di tipo
domestico (badanti) il compito di
far fronte al crescente carico di
assistenza dei membri della famiglia.
Le rapide trasformazioni demografiche, soprattutto l’aumento
della quota degli ultraottantenni, insieme alle più avanzate cure sanitarie a disposizione, ha accresciuto la probabilità di vivere
di più ma anche, in parte, di vivere una fase più lunga della propria vita in una situazione di non
autonomia, di dipendenza quotidiana. Il risultato è un incremento dei bisogni delle persone che
nell’ultima fase della loro esistenza divengono non autosufficienti e sono costrette a rivolgersi ad altri, familiari e non, per poter esplicare le funzioni esistenziali quotidiane. Se si somma a
questo contesto una composizione familiare e un’organizzazione
sociale prive della capacità di soddisfare la necessità di assistenza
e accudimento e un sistema di welfare non attrezzato alla cura della cronicità, possiamo affermare
che una sempre maggiore moltitudine di persone anziane e spesso le loro famiglie, saranno sempre più sole nell’affrontare la condizione di fragilità.
Nel passato la famiglia rispondeva in maniera spontanea alle necessità di cura. Le mogli ma anche le figlie assistevano i componenti più fragili della famiglia
come se ciò fosse la normale attività della donna di casa e l’inevitabile evoluzione del lavoro di
cura che lei svolgeva per tutta la
sua vita: l’accudimento dei fratelli più piccoli, dei figli, dei nipoti, ed infine degli anziani di famiglia; erano queste le tappe che
scandivano il trascorrere del tempo in una famiglia e la vita di una
donna. Successivamente, il ruolo
della donna all’interno della società è radicalmente cambiato ma
il lavoro di cura è rimasto quasi
totalmente a suo carico, questo è
incompatibile, il più delle volte,
con gli impegni che la donna ha
fuori e dentro casa.
Inoltre, causa la riduzione della
fecondità, in atto ormai da diversi decenni, è diminuito il numero delle donne potenziali prestatrici di cura perché si è compresso il rapporto tra le donne di
età compresa tra 46 e 69 anni e il
numero delle persone con più di
70 anni (anziani da assistere). Il
numero delle donne potenziali prestatrici di cura si riduce anche perché sempre più donne sono entrate
nel mercato del lavoro e vi rimarranno per un periodo di tempo sempre più lungo, per l’innalzamento dell’età pensionistica, riducendo così il tempo da dedicare al lavoro di cura non retribuito.
Il prolungamento della durata della vita implica rapporti familiari
diversificati nel tempo anche relativamente al significato delle posizioni generazionali, le persone
anziane hanno figli che sono già
nella mezza età e, a loro volta, hanno figli adulti o quasi adulti. La
situazione è tanto nuova che manca ancora una vera e propria cultura e un linguaggio per esprimerla
a livello sociale generale. Lo stesso anche per quel che riguarda i
rapporti familiari e generazionali: invecchiare come figli è una
esperienza storicamente nuova.
Le coorti nelle età centrali sono le
prime a sperimentare come nor-
17
malità l’essere insieme “figli adulti” e “genitori di figli adulti”.
E’ questa generazione di mezzo
(sandwich generation) a essere al
centro del flusso di scambi tra le
diverse generazioni: ad aiutare sia
i più giovani che i più vecchi anche se con modalità diverse per
cultura familiare, per risorse e per
età. Questo fenomeno è stato analizzato da diversi osservatori (Taccani, 2001; Gucher, 1999) che hanno parlato dell’età di mezzo come
una fase di “compressione” e hanno evidenziato che la sandwich
generation si trova a fronteggiare i bisogni di dipendenza economica, affettiva, di cura della generazione più giovane e di quella
più vecchia. Ciò sembra valere soprattutto per le donne poiché ad
esse è delegato prevalentemente
il lavoro di cura e di relazione, infatti, l’elemento comune che emerge da tutti gli studi della ricerca
sociologica, in Italia e in Europa,
è che sono le donne adulte ad assumere un ruolo chiave in tutti i
settori dello scambio e della logistica familiare e che sono le prime ad essere implicate nella “chiamata di aiuto” per il fronteggiamento dei bisogni di cura. Così
che, paradossalmente, potrebbe
succedere che il tempo “liberato”
dalla procreazione venga richiesto per “fare da madre ai propri
genitori” quando questi diventa-
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no troppo fragili o non autosufficienti.
In Italia, attualmente, proprio questa sembra essere la situazione delle donne sessantenni ed oltre, mediamente in buona salute e attive,
che sono al centro di un sistema
di redistribuzione di aiuto sia nei
confronti dei figli e dei nipoti che
nei confronti dei genitori e/o dei
suoceri ormai grandi anziani. E’
in dubbio, però, se potranno contare a loro volta su tali sostegni,
quando diventeranno grandi anziane esse stesse, perché hanno
avuto meno figli delle loro madri
e, contemporaneamente, le figlie
e le nuore probabilmente alla loro età saranno ancora sul mercato del lavoro (Costa, 2007).
Negli anni Ottanta - Novanta, gli
studi sociali hanno focalizzato l’attenzione sul concetto di care, per
riflettere sull’esperienza di cura e
per smontare la tradizionale equazione: lavoro di cura = lavoro delle donne = lavoro naturale.
Tale equazione costituiva essenzialmente un costrutto sociale con
implicazioni non indifferenti sul
piano delle disuguaglianze tra uomini e donne. Successivamente si
è profilata una sistematizzazione
teorica che individuava all’interno della dimensione di cura, due
aspetti distinti ma inscindibili: da
un lato la dimensione materiale
del lavoro di cura relativa ai bisogni fisici delle persone dipendenti, dall’altro l’aspetto più prettamente psicologico della cura come pratica “affettivamente marcata” che coinvolge sentimenti di
amore e di affetto, e la capacità di
sostenere l’altro anche nei suoi bisogni psicologici (Costa, 2007).
La cura richiede dunque, a “chiha-cura” di impegnare tanto le proprie energie fisiche quanto quelle
cognitive, emotive e relazionali.
Bubeck (2002) confronta il lavoro di cura con gli altri lavori necessari alla costruzione di un mondo umano e individua una differenza fondamentale: mentre gli al-
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tri lavori sono soggetti alla logica
del progresso fondato sull’evoluzione tecnologica, il lavoro di cura è rimasto lo stesso nel corso del
tempo. Emerge chiaramente che
nessun dispositivo tecnologico può
sopperire all’assenza del caregiver, si può affermare che ci sono
due elementi imprescindibili nella cura: il tempo e la relazione. La
cura infatti richiede una quantità
inimmaginabile di lavoro paziente e ripetitivo, ma è anche “…gioco di invenzione che fissa motivi e
colori, sulla base di poveri tessuti, e crea effetti anche di grande
bellezza”; consiste nel “mettere
insieme” le diverse risorse disponibili, il “dare ordine e senso” alla riorganizzazione quotidiana,
il combinare risorse in concreto
caso, per caso, valutando i bisogni di ciascuno, …queste sono le
attività in cui le donne sono impegnate..”(Costa, 2007, pag. 21).
L’attività di cura, parte di più complessi obblighi morali, è oggetto
poi di negoziazioni familiari all’interno delle opportunità e vincoli in cui sono inseriti i soggetti,
nel loro più vasto “copione” familiare, esito di negoziazioni tra
esigenze e “fedeltà” diverse.
La “pesantezza del carico di cura” e la “vulnerabilità sociale”
del caregiver
La ricerca psicosociale ha studiato il concetto della “pesantezza
del carico di cura” e le sue conseguenze in termini psicofisici attraverso modelli causali complessi,
nell’ambito degli studi sullo stress
e sulle strategie di coping3. In questi modelli, rispetto all’impatto
dell’attività di cura, le variabili
considerate sono rappresentate
principalmente dallo stato fisico
della persona da accudire e dallo
stato fisico e mentale del caregiver, altre variabili sono le situazioni individuali e di contesto quali l’età, il genere, lo status socioeconomico, il tipo e la qualità del
rapporto tra caregiver e paziente.
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Infine, le caratteristiche della personalità del caregiver intese come
grado di autostima e capacità di
fronteggiamento e le caratteristiche del supporto sociale su cui può
contare.
Nel modello stress-coping intervengono, infine, fattori legati alla disabilità o alla malattia come, ad esempio, la visibilità della problematica (correlata a vergogna, stigma, isolamento), la natura dell’esordio (improvviso o
insidioso), la prognosi (se recuperativa, stabile, degenerativa o
terminale), i cambiamenti fisici,
identitari e comportamentali del
paziente. Il caregiver è stato frequentemente definito un paziente nascosto, una seconda vittima
della malattia, questa definizione
mette in risalto il suo coinvolgimento nell’assistenza del malato
ed evidenzia il grado di stress a
cui è sottoposto4.
La vulnerabilità allo stress è diversa per ogni persona e per ogni
famiglia e ne influenza la reazione e la riorganizzazione successiva. La capacità di reagire
ed elaborare lo stress, varia da soggetto a soggetto e da famiglia a famiglia. In altri termini, l’evento
stressante non è una variabile assoluta, ma dipende da quante risorse l’individuo pensa di possedere per fronteggiarlo.
Nella storia di tutte le famiglie
ci sono degli eventi che determinano una situazione di “crisi” nel
loro equilibrio psicosociale. Nello specifico, per crisi si intende
l’interazione tra l’evento traumatico stressante con le difficoltà oggettive e psicologiche, e le capacità (resilienza) della famiglia di
trovare risorse. C’è da considerare quale valore la famiglia dà all’evento, quanto lo considera grave, cioè quale è esattamente il
significato che le attribuisce. Ogni
evento, infatti, ha una valenza oggettiva, ma ha anche un significato soggettivo sia per i singoli individui che per la famiglia, e per
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la famiglia allargata, con un effetto “alone” che, se negativo, interferisce con la valutazione che
la famiglia attribuisce all’evento
traumatico stesso.
In sostanza, per capire i comportamenti osservabili è necessario
considerare, oltre alla tipologia
dell’evento, le risorse e il significato che la famiglia le attribuisce.
Questa riflessione si rende estremamente necessaria per chi svolge una professione di aiuto, per
l’infermiere è necessario capire il
significato che “quella” perdita
ha per “quella” famiglia.
Infatti, nelle gravi malattie degenerative, ad esempio l’Alzheimer,
si parla di “lutto anticipatorio”:
all’esordio della malattia si verifica la crisi, poi con il passare degli anni, quando la persona continua a peggiorare, la famiglia, non
subisce ulteriori traumi, ma si instaura una sorta di “adattamento”
alla perdita, come una preparazione inconsapevole all’evento
perdita, prima ancora che avvenga. Se, come operatori, consideriamo solo l’aspetto oggettivo e
concreto degli eventi, non riusciamo
a cogliere e a comprendere i comportamenti adattivi delle persone
e delle famiglie e neppure i fenomeni clinici che ci si presentano.
In generale, nella letteratura sociologica, è scarsa la dimensione esperienziale dei familiari e dei
caregiver del soggetto che vive
una situazione di disabilità, non
sono molto studiati i loro vissuti,
la soggettività e le donazioni di
senso, le loro alterazioni materiali e simboliche innescate dall’evento/processo, le azioni di fronteggiamento e le strategie di gestione della vita quotidiana messe in atto. Mancano le voci di chi
testimonia e accompagna il processo di decadimento di una persona cara, di chi cerca di fronteggiarlo5. I cambiamenti biografici
connessi alla malattia e alla disabilità, continuano in generale ad
essere “sofferti in silenzio, a porte chiuse”: il carevinig si presenta come un “terreno uncharte”,
un terreno non mappato, sconosciuto dal punto di vista teorico.
(Costa, 2007, pag. 23)
Alcune studiose hanno messo in
evidenza come attorno al caregiving vi siano dei “dilemmi etici”:
scegliere di non curare e accudire un familiare stretto, è così difficile da non essere paragonabile
a nessun’altro tipo di scelta. Seguire e assistere un familiare non
autosufficiente è un compito da
cui è difficile sottrarsi per le implicazioni morali e sociali che una
scelta del genere comporta, soprattutto per le donne. Chi è fragile e dipendente non può essere
lasciato senza risposte ai propri
bisogni poiché dal punto di vista
etico, subiscono un’ingiustizia anche coloro che si trovano “naturalmente” nella posizione di fornire cure, coinvolti nella spirale
dell’impegno totalizzante a causa del mancato sostegno sociale e
politico.
E’ stato analizzato come questa situazione comporti una condizione di “vulnerabilità sociale” del
caregiver: i problemi di cura e la
necessità di darvi risposta costituiscono indubbiamente una fonte di grande disagio.
Il concetto di “vulnerabilità” da
cura indica quell’insieme di “compressioni” e alterazioni della vita
quotidiana connesse al caregiving,
molto pervasive e, spesso, svolte
in solitaria dove, alla difficoltà
soggettiva di sottrarsi ad un impegno gravoso, si aggiungono gli
inciampi nel chiedere e ottenere
aiuti tempestivi ed efficaci. Infatti, spesso, alle carenze di uno stato sociale, poco preparato a sostenere individui e famiglie in caso di bisogni di cura continuativa,
si uniscono aspetti culturali e antropologici che tendono a “comprimere” chi cura in obbligazioni
difficilmente sostenibili se non a
costo di grandi sacrifici.
19
Altro fattore di vulnerabilità è quello del tempo: il vissuto soggettivo di chi presta cura è di sentirsi
schiacciati sul presente più immediato, con difficoltà ad esplicitare, pensieri sul futuro. Si fa fatica a parlarne, sentire la propria
vita ancorata a quella di un’altra
persona obbliga a confrontarsi con
il pensiero del proprio declino. La
cura di un anziano impone talvolta
il pensiero della propria futura anzianità: non ci si vorrebbe vedere
nei panni di chi oggi si ha di fronte. Due sono le paure più frequenti
del futuro che riguardano chi si
prende cura: pesare sui figli il proprio carico di cura e non riuscire
più a ricoprire il ruolo di caregiver a causa della propria salute.
In altre parole, chi deve fronteggiare problemi e bisogni di cura
di un familiare non più autosufficiente, percepisce minacciato anche il proprio benessere e la propria capacità e possibilità di scelta perché si sente in una condizione di fluttuazione, di sospensione nello spazio sociale di riferimento. E’ qualcuno che può
perdere in modo silenzioso quei
margini di libertà psichici e materiali necessari per muoversi meglio di fronte alle ulteriori evenienze dell’esistenza. C’è un ancoraggio agli spazi fisici della casa che riveste una dimensione fondamentale e particolare per questo tipo di careving. La fatica è
molto spesso tradotta come “perdita della libertà”, nelle situazioni più gravi il caregiver non si assenta da casa se non riesce a contare sulla sostituzione da parte di
qualcuno.
Dall’esperienza empirica6 e dalle
ricerche italiane (Costa, 2007) si
evidenzia come gli impatti della
cura siano vari e diversificati anche sulla base dei diversi modelli di accudimento attuati, e non seguano logiche univoche. Va però
sottolineato come nella maggior
parte dei casi, nonostante intorno
alla donna caregiver gravitano
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grandi e piccole collaborazioni,
spesso il vissuto diviene insopportabile subentra una estrema
stanchezza e la sensazione di essere sole nella responsabilità. Non
più padroni del proprio tempo e
dei propri movimenti, i caregivers
sperimentano quel fenomeno definito della “pervasività” della cura (Costa, 2009).
L’accudimento a domicilio di persone fortemente dipendenti porta
con sé una dose di fatica notevole, anche in ragione del fatto che
richiede una presenza continuativa o una disponibilità costante.
Infatti, uno degli elementi di maggiore esposizione a processi di vulnerabilizzazione dei caregiver è
proprio il logoramento che le assistenze prolungate e in “solitaria” portano con sé. “L’orizzonte temporale della cura è incerto
e, strada facendo, se si cura e si
accudisce da soli, si possono perdere le tracce del cammino percorso, con effetti di disorientamento notevoli” (Costa, 2007).
Il confinamento nelle abitazioni,
imposto dalle restrizioni alla mobilità per la diade caregiver-cared, si trasforma spesso in un vero e proprio isolamento sociale
che è una condizione ad altissimo
rischio di “burnout” per il familiare. Da questo punto di vista, coloro che riescono a mantenere contatti e relazioni significative, siano esse di aiuto strumentale, emotivo, o cognitivo, presentano una
maggiore capacità di tenuta complessiva di fronte al caregiving e
il mantenimento di un livello seppur minimo di resilienza 7. Chi
riesce a mantenere, anche rispetto ad una forte socievolezza dal
punto di vista caratteriale, una buona capacità di tenuta sul piano relazionale, conserva i livelli minimi di benessere personale.
Tre aspetti fondamentali e trasversali fanno parte della sofferenza del caregiver: in primo luogo, il confinamento in casa; in secondo luogo, la non possibilità di
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progettualità futura; ed infine, la
percezione della lontananza e
intermittenza dei servizi.8.
Quindi, la vulnerabilità da cura,
non è l’esito della rottura, dell’assenza o dell’indebolimento dei
legami familiari, quanto il risultato di una loro tenuta ad oltranza, sia per fattori endogeni alle famiglie, sia per le caratteristiche
del contesto socio-politico dentro
il quale esse si trovano a fronteggiare gravi problemi di cura.
Il modo di comportarsi nei confronti dei parenti è fortemente influenzato dalle istanze di controllo sociale, dalla considerazione di
come saranno valutate le proprie
azioni agli occhi di almeno due
pubblici di riferimento, uno interno alla parentela e l’altro costituito dalla comunità di appartenenza. Le persone elaborano le
proprie obbligazioni morali (work
out, lavoro interiore), alla luce delle opportunità e dei vincoli della
situazione in cui si trovano, al loro “copione” familiare.
Le norme che regolano le obbligazioni morali nella dinamica
familiare sono essenziali per comprendere i freni alla esternalizzazione del lavoro di cura rispetto
all’uso di servizi pubblici e privati. Lo scarso ricorso ai servizi pubblici da parte delle famiglie potrebbe essere l’esito di una
interazione complessa e perversa tra la difficoltà di accesso, la
scarsità di interventi attivabili e
la tendenza al “fai da te” da parte delle famiglie nell’ambito della cura.
L’aiuto più utilizzato al quale Gori (2002) si riferisce col termine
“welfare nascosto”, è di tipo privato. Esso consiste nell’aiuto di
persone che rappresentano una risorsa per le famiglie con persone non autosufficienti, perché prestano la loro opera sia a favore degli anziani, sia del caregiver, rispondendo ad una necessità connaturata al lavoro di cura che è
quella della “flessibilità”. In altre
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parole, il personale privato svolge attività di cura, sia complementari, sia sostitutive a quelle del
caregiver.
Tuttavia l’esternalizzazione dell’attività di cura e di accudimento può essere anche molto problematica perché crea per i componenti della famiglia, una fatica
relazionale e organizzativa non indifferente sia nel reclutamento e
nella selezione, sia nell’inserimento della persona nel menage
familiare. Non ultimo, l’aspetto
economico, influisce sensibilmente
sul riscorso a questo tipo di assistenza.
Infatti, le ricerche italiane mettono in evidenza che l’esternalizzazione dei compiti di accudimento
e di cura viene deciso e organizzato, soltanto di fronte ad una pressione talmente elevata da comportare il rischio di destabilizzazione dell’organizzazione domestica o di compromettere definitivamente l’equilibrio psico-fisico delle persone coinvolte. La tradizione culturale “familista”, secondo la quale la famiglia (e al suo
interno la donna) viene considerata la depositaria centrale della
funzione di cura, fa ricorrere all’esternalizzazione della cura soltanto quando emergono “soglie di
bisogno” più elevate di quanto si
verificherebbero in una cultura in
cui sia più legittimata la delega di
alcune funzioni di cura (Costa,
2007).
Dall’analisi di diversi studi9 arriva la conferma che ancora oggi
il lavoro di cura informale10 costituisce in tutti i paesi, anche in
quelli con un sistema di cura formale11 la parte più rilevante delle
prestazioni di assistenza e di aiuto fornite agli anziani, e alle persone non autosufficienti. Si tratta
di un lavoro scarsamente riconosciuto a livello sociale come quasi tutto il lavoro di cura, ancora
meno legittimato rispetto, ad esempio, ai servizi per l’infanzia. Si avverte resistenza e riluttanza da par-
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te delle istituzioni pubbliche ad
assumersi una responsabilità ed
un compito che era ed è visto come una funzione spettante alle famiglie, svolto dalle donne in modo gratuito. Tra le altre considerazioni, la breve ricostruzione dei
meccanismi della vulnerabilità sociale collegata ai temi della cura
e dell’accudimento, fanno emergere vere e proprie sfide per la
ricerca, per le politiche e per le
pratiche sociali. Perché chi cura e
accudisce continuativamente una
persona fortemente dipendente, si
trova ad operare all’interno di ambiti materiali, relazionali e simbolici i cui margini di libertà sono molto esigui e finiscono per ridursi ulteriormente con il passare
del tempo. Ciò nonostante questa
tematica fatica a trovare cittadinanza nel discorso pubblico e nell’agenda politica.
Inoltre, la ricerca sociale mette in
evidenza che se ai bisogni di cura
emergenti, si è tradizionalmente
risposto con la dedizione totale
delle donne, conseguente al loro
abbandono del mercato del lavoro, oggi il rischio di incorrere in
situazioni di deprivazione economica impone alle famiglie di assicurarsi un doppio reddito, e quindi, sempre più spesso, le donne,
sulle quali comunque gravano i
compiti di cura, si troveranno con
frequenti problemi di conciliazione
della cura con il proprio lavoro.
Ai cambiamenti di contesto socio
economico, si associano anche
quelli etici e culturali, evidenziati anche dalle figlie di anziani
che dichiarano di non voler essere causa di sacrifici nel futuro per
i propri figli. I nodi legati alla cura e al curare chiamano dunque all’ampliamento del concetto di benessere sia in termini teorici sia
nella definizione di obiettivi di politica sociale che siano auspicabili e perseguibili. Si tratta di definire quali siano le “componenti
costitutive del vivere” (Sen, 1994),
da porre alla base delle nostre società.
Questo passaggio culturale porta
con sé tutta la complessità legata
alla necessità di affrontare un riorientamento delle politiche in vista del riconoscimento di un insieme di diritti da parte di chi esprime bisogni di cura e di chi li sostiene, oggi sottovalutati.
In primo luogo, l’intervento politico dovrebbe tradursi verso la garanzia di un livello universale minimo di accesso a interventi in natura piuttosto dell’erogazione del
semplice sussidio economico con
delega completa e totale alla famiglia12.
Si tratterebbe di implementare politiche in grado di sostenere e coadiuvare coloro che decidono di
curare e accudire in prima persona, giacché sempre di più saranno
obbligati a svolgere ruoli multipli
in un periodo della vita in cui le
risorse psicofisiche a disposizione possono incominciare a scarseggiare.
Infine, si pone la necessità, per
le politiche sociali di uscire dalle
logiche di un intervento esclusivamente assistenziale e in ultima
istanza, spostando risorse umane
ed economiche da interventi di riduzione del danno a interventi di
carattere preventivo, intercettando i bisogni di tutti i soggetti implicati nella cura.
Nonostante negli ultimi anni, la
cura a domicilio è divenuta la priorità delle “nuove” politiche per gli
anziani e per i disabili, attraverso lo sviluppo e il potenziamento di servizi alla persona personalizzati e decentralizzati a livello
territoriale, quali l’assistenza infermieristica domiciliare, i centri diurni per anziani e prestazioni monetarie a sostegno della cura informale o del ricorso al mercato privato, le risorse destinate
non sono sufficientemente adeguate al reale bisogno di tutti i soggetti implicati nella cura.
E’ sicuramente dalla capacità degli operatori sanitari, sociali ed educativi che possono venire i contributi più significativi e più utili per
21
fare emergere ciò che oggi non sembra adeguatamente affrontato sul
piano delle politiche nazionali.
Per quanto riguarda l’assistenza
infermieristica, nel 1999, la Regione Europea dell’OMS nel documento di politica sanitaria “SALUTE 21”13, puntualizza: “La famiglia è l’unità base della società dove, chi si occupa dell’assistenza è in grado anche di tenere
nel dovuto conto gli aspetti psicologici e sociali delle loro condizioni[…] Infermiere e famiglia,
utilizzando una attività interattiva, divengono partner..”.
L’analisi di questa tematica, rappresenta, per l’infermiere una apertura conoscitiva che le permette
di decifrare anche i funzionamenti
sociali di chi cura e accudisce situazioni gravi e meno gravi ma sicuramente frequenti e diffuse, nonché durature. L’empatia e l’ascolto unite al supporto tecnico-professionale, possono creare un’alleanza importante tra infermiere
e caregiver nell’ambito della domiciliarietà delle cure.
1
In questo lavoro, il termine “caregiver” e “colui che offre assistenza” verranno utilizzati come sinonimi poiché il
termine inglese, ormai, è entrato a far parte del linguaggio comune.
2
Malinowski Antropologo Polacco, già
nel 1913, durante i suoi studi, pubblica un
testo sulla famiglia, “La famiglia tra gli
aborigeni Australiani”.
3
Hans Silye, teorico dello stress, Stress
without Distress (1974).
4
Il grado di stress del caregiver è valutato attraverso una scala predisposta ad hoc:
CAREGIVER BURDEN INVENTORY
(CBI) (Novak M. e Guest C., Gerontologist, 29, 798-803, 1989) La CBI è uno
strumento di valutazione del carico assistenziale, in grado di analizzarne l’aspetto multidimensionale, elaborato per i caregiver di pazienti affetti da malattia di
Alzheimer e demenze correlate.
5
Una ricerca effettuata dalla Prof.ssa Giuliana Costa (Costa, 2009) all’interno della cornice teorica della vulnerabilità sociale, ha messo in relazione, dal punto
di vista dei caregiver, le connessioni tra
i bisogni di cura, il loro impatto sulla vita quotidiana e le strategie messe in atto
dalla famiglia.
6
Incontri e colloqui con i familiari di
anziani non autosufficienti per concor-
22
Spazio etico
dare il progetto assistenziale, da parte della Unità di Valutazione Multidisciplinare nella zona Fiorentina Sud-Est.
7
Intesa come attributo della personalità
o del processo di fronteggia mento per
cui gli individui sono in grado di mantenere la forza necessaria per svolgere
una pluralità di ruoli e far fronte alle avversità gravi o di lungo periodo.
8
Questo concetto deve rappresentare uno
stimolo per organizzare meglio la fruizione dei servizi da parte delle famiglie,
per l’approfondimento, si rimanda al terzo capitolo
9
Studi condotti nello specifico da Anttonen, Baldock e Sipila 2003; Daly e Rake 2006, in (Costa, 2007)
10
Per lavoro informale, si intende lavoro non retribuito e svolto nell’ambito privato, soprattutto dalle donne.
11
Lavoro retribuito e risorse pubbliche
12
Da una intervista raccolta da G. Costa
nel volume “Quando qualcuno dipende
da te”:
“…vedo soltanto una cosa, con l’assegno di accompagnamento che danno,
tutti se ne lavano le mani…”
13
Health21: La salute per tutti nel 21°secolo, Ufficio Regionale per l’Europa,
Copenaghen, 1999.
Il podcast realizzato e condotto da Enrico Dolabelli è
arrivato ormai alla puntata
14.
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1/2014
IPASVI - Firenze
Obbiettivo
L’assetto sociale
dell’età moderna
Francesca Matarazzo
Assistente sanitaria
francesca.matarazzo@asf.tscana.it
Durante il periodo preindustriale, la
famiglia, si caratterizzava come famiglia patriarcale, composta da padre,
madre, figli e nonni che abitavano tutti sotto lo stesso tetto, dove ogni membro provvedeva ai bisogni dell’altro.
La rivoluzione industriale (in Europa 1850-1914) concentrò la manodopera nelle città e questo rivoluzionò l’organizzazione della vita e della
famiglia. La famiglia moderna è una
famiglia ristretta, o famiglia nucleare,
composta dalla sola coppia e dai figli
che vivono in un’abitazione propria,
indipendenti dalle famiglie di origine,
questo grazie ai salari che da una parte danno autonomia econimica ma da
l’altra non consentono di sostentare
nuclei numerosi d’individui.
Il miglioramento delle condizioni di
vita e l’inarrestabile progresso tecnologico e scientifico hanno determinato sia l’aumento dell’età media della
popolazione, sia la disponibilità altruistica tipica di altri tempi. Questo
ha portato nella nuova società nuove
problematiche legate a nuove esigenze, ad esempio la questione sugli anziani.
Al 1° gennaio 2012 (dati ISTAT) ci sono 147,2 anziani ogni 100 giovani. In
Europa, solo la Germania presenta un
indice di vecchiaia (rapporto tra le persone anziane [>65 aa] e le persone giovani [<15 aa]) più accentuato. La vita
media delle donne è di 84 anni e mezzo, quella degli uomini è di circa 79
anni, fra le più lunghe dell’UE. A livello regionale è la Liguria (233,7%)
a detenere l’indice di vecchiaia più elevato, come si registra ormai da anni,
seguita da Friuli-Venezia Giulia
(189,7%) e Toscana (184,6%). La
Campania si conferma essere la regione con l’indice di vecchiaia più
basso mostrando però, per la prima
volta, un indice superiore al 100%
(102,4%) portando così l’Italia a non
avere più nessuna regione con un numero di giovani superiore a quello degli anziani. Inoltre l’Italia si colloca
tra i paesi a bassa fecondità, con 1,39
figli per donna [stime del 2011].
Nonostante ciò la popolazione residente in Italia (ISTAT 01/01/2012) nel
decennio 2001-2011 è aumentata del
4,3%; una crescita sostenuta esclusivamente dall’incremento della componente straniera.
In uno studio Demos (http://www.demos.it/a00811.php ) Emerge che la
maggior difesa dei lavoratori è data
da la famiglia 29% seguita dai sindacati 25,9 , lo Stato trova soltanto il
3,7% dei consensi, mentre il 16,6%
ritiene che nessuno tuteli i lavoratori. Si associa un progressivo timore
per il futuro che dal 2012 al gennaio
2013 passa ( valori %) dal: 554 a 61,9
per il futuro dei figli; 51,5 a 56,5 per
il lavoro; 48,4 a 53,9 per la pensione;
38,4 a 44,1 per i risparmi. Con una
soddisfazione personale passa dal (%)
22,9 al 14,9. Su questo si innesca il
desiderio di fuggire all’estero che nei
giovani passa nello stesso periodo dal
56,2 al 63,6.
Obbiettivo
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Spazio etico
IPASVI - Firenze
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Scienza e convinzioni popolari
Mara Fadanelli
Infermiera Ass. Spazio Etico USL\11
m.fadanelli@usl11.toscana.it
L’attaccamento alla vita, per l’essere umano, è talmente grande che quando la medicina tradizionale non riesce a dare risposte di guarigione, l’uomo si rivolge
per sé, o per le persone a lui care, a chiunque gli possa aprire uno spiraglio di speranza.
Abito a Lamporecchio, e ho vissuto da
vicino il caso di “mamma Ebe” che abitava a S. Baronto. File di persone le si
rivolgevano perché trovavano in lei “le
risposte alle loro aspettative”.
Così possiamo parlare anche del “caso Di
Bella” e del “caso Stamina”.
Potremo dire che questi “guru” hanno un
denominatore comune: l’abilità della comunicazione persuasiva. Fra l’altro Davide Vannoni, fondatore della Stamina
Foundation e ideatore del “metodo” Stamina, laureato in lettere e docente di ergonomia cognitiva all’università di Udine, ha scritto un libro proprio sull’argomento: “Manuale di Psicologia della comunicazione persuasiva”(1).
Conosciamo tutti le fasi del metodo scientifico necessarie per formulare una tesi.
Ebbene non c’è nessun trial clinico che
prova la validità di queste terapie.
Inoltre dall’analisi delle cartelle cliniche,
sia dei pazienti che hanno seguito la cura di Bella, che di coloro che hanno fatto e che continuano la cura Vannoni, i tassi di guarigione è stato pari a zero.
Il “metodo” Stamina consiste nella somministrazione di cellule staminali mesenchimali, per semplificare possiamo
dire che sono cellule meno versatili rispetto a quelle embrionali, ma, essendo
facilmente ricavabili da diversi tessuti
dell’organismo adulto, hanno il vantaggio di porre meno problemi etici rispetto
alle staminali embrionali. Il problema in
tutto questo non sono tanto le cellule staminali ma che Vannoni non ha pubblicato nessun lavoro scientifico che dimostri
la validità del suo “metodo” (è per questo che il termine metodo viene virgolettato). Il premio Nobel Shinya Yamanaka,
presidente della Società Internazionale
Saper toccare gli aspetti più intimi e profondi dell’animo umano ha una forza persuasiva maggiore
della mancanza di prove di efficacia delle cure
per la Ricerca sulle Cellule Staminali
(ISSCR), ha detto di essere molto preoccupato per il “fatto che trattamenti basati sulle cellule staminali non sperimentati in modo adeguato siano immessi sul
mercato”.
Una legge del 2003 regolamenta le cosiddette “terapie compassionevoli”. In
pratica, la legge stabilisce che per particolari patologie, che non hanno cura, è
possibile utilizzare terapie ancora non
certificate, a patto che rispettino alcuni
principi fondamentali: devono essere in
fase avanzata di sperimentazione e devono portare un tangibile beneficio al paziente.
Al momento, il “metodo” Stamina non
sembra rispettare nemmeno le basi poste
dalla legge per potere fare ricorso alle “terapie compassionevoli”. Non è stata ancora sperimentata a sufficienza, non ha
alle spalle ricerche scientifiche solide e
comprovate da altri ricercatori. Non è
quindi ancora del tutto chiaro come mai
questo “metodo” sia stato adottato dalla
struttura sanitaria “Spedali Civili” di Brescia.
Qui ci sono alcune riflessioni da fare, in
modo particolare inerenti al “metodo”
Stamina che è il caso più recente.
La popolazione come fa ad orientarsi se,
da una parte, abbiamo la comunità scientifica che sostiene che non è un metodo
valido, il ministero che sospende le attività della Stamina Foundation, su indicazione degli organi tecnici preposti (Aifa: Agenzia Italiana del farmaco) e poi,
dall’altra, lo stesso ministero con un decreto urgente (2) in materia sanitaria concede la prosecuzione dei trattamenti per
i pazienti per i quali sono stati già avviati alla data di entrata in vigore del decreto. Inoltre abbiamo i giudici del lavoro che in pochi mesi hanno emesso sentenze, anche molto diverse tra loro, per
autorizzare o meno la prosecuzione dei
trattamenti. Infine ci sono programmi televisivi che presentano l’appello di madri a proseguire le terapie.
In questi casi, le autorità sanitarie si trovano spesso a doversi confrontare con
parte dell’opinione pubblica, che in buona fede, e con una certa dose di emotività, ripone grandi speranze in terapie che
si vendono come miracolose, anche in assenza di prove certe sulla loro efficacia.
Entro certi limiti, la libertà di scelta della cura deve essere tutelata, ma siamo veramente liberi di scegliere solo se abbiamo tutte le informazioni necessarie e
le istituzioni hanno anche il dovere di proteggere e informare i propri cittadini su
terapie non verificate e potenzialmente
pericolose per la salute.
Inoltre perché i giudici non si confrontano con gli scienziati? È banale dire che
dovrebbe essere fatta una commissione
integrata per fornire un parere condiviso? Questo nella tutela di tutti, in primis
di quelle famiglie che oltre a dovere affrontare la sofferenza nel vedere i propri figli con malattie invalidanti, che spesso conducono alla morte, si trovano ad
impiegare risorse economiche elevate,
per terapie non validate.
1
Davide Vannoni, “Manuale di Psicologia della comunicazione persuasiva”, Utet
Libreria, Torino, 2001.
2
Decreto Ministeriale 8 maggio 2003
“Uso terapeutico di medicinale sottoposto a spementazione clinica.”(G.U. n. 173,
28 luglio 2003, Serie Generale) Consiglio dei Ministri n. 73 del 21/03/2013.
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Spazio etico
1/2014
Vivere il morire
Nadia Chiari
Infermiera sanità privata
nadiak90@yahoo.it
La morte è un argomento general-
mente rimosso e difficile da affrontare; non si può definire con
esattezza poiché lo si conosce solo dall’esterno, suscita nella nostra
moderna e caotica società incomprensibilità e disperazione.
Per questo quando mi è capitato fra
le mani il numero 2/2004 di questa rivista, che aveva come tema
“Vivere il Morire”, ho pensato che
fosse veramente interessante sensibilizzare ancora e ancora i professionisti, e tutte le persone, all’inadeguatezza con cui si tratta l’argomento ai giorni nostri.
La morte è un’esperienza fondamentale dell’uomo in quanto individuo, è personale, ma allo stesso
tempo riguarda tutti, universalmente, e per questo ha una profonda
valenza sociale e collettiva.
Si legge nell’editoriale di Giancarlo Brunetti di 10 anni fa: “La
nostra società enfatizza la garanzia di benessere e gioventù eterne;
l’idea della morte e della malattia
viene allontanata dai nostri pensieri, esiliata fino a diventare un tabù”. Un modo perfetto per dire che,
di fronte a questo atteggiamento
della società, inevitabilmente si
scatenano meccanismi di rimozione
e negazione.
Con questo non si vogliono affatto negare la sofferenza e il dolore
puro di chi affronta la malattia o il
lutto, si vuole piuttosto sottolineare l’inadeguatezza del modello di
uomo che ci viene presentato quo-
tidianamente, che pare essere immutabilmente bello e giovane. La
stessa idea di uomo che ha allontanato il concetto di morte e portato all’accanimento terapeutico,
alla volontà di vita eterna.
Anno XIV - n. 2/2004 - Spedizione in a. p. art. 2 comma 20/c legge 662/96- Firenze
Obbiettivo
n. 2/2004
professione infermieristica
Nascita, vita, morte
sono, per tutti, atti unici
ed irripetibili.
Perchè non restituire
alla morte lo «spazio»
dentro la vita
e il sentire comune?
Quali implicazioni
emotive suscita
in noi infermieri
l’accompagnare
alla morte?
Vivere
il morire
Le problematiche
etiche sollevate
da «certe» morti
che ci coinvolgono
come operatori
e come cittadini.
Trimestrale
di informazione
attualità e cultura
IPASVI - Firenze
www.ipasvifi.it
Date le premesse, risulta evidente il problema dell’affronto del tema nell’ambito della relazione di
aiuto. Come si sente psicologicamente l’assistito, e noi? Di che cosa ha bisogno? E’ possibile rasserenarlo? Per rispondere a queste
fondamentali domande gli operatori vengono formati ed educati,
per quanto non esistano comportamenti standardizzabili e procedure che possano andare bene per
tutti e per tutte le circostanze. Sono l’esperienza personale, il credo religioso, il valore attribuito alla Vita, la capacità personale di ri-
IPASVI - Firenze
Obbiettivo
elaborare le proprie esperienze e i
propri sentimenti, che devono aiutarci ad aiutare. Questo ha senza
dubbi un costo emotivo molto alto, ed è per questo che occorre affrontare l’argomento con cura ed
interesse. La morte si presenta spesso davanti all’ operatore e se esso non è in prima persona fortemente consapevole di tutto ciò che
rappresenta, possono manifestarsi fenomeni di stress psicologico
intenso e burn out.
Dall’altra parte, l’assistito in questo caso più che mai necessità di
veder tutelata la sua rete di relazioni con i familiari e le persone
care, per garantire il più possibile
un ambiente benevolo e sereno.
Questo anche attraverso la tutela
del diritto di morire nella propria
casa, e non in un ambiente estraneo ed esiliante per la persona come l’ospedale. Da questo punto di
vista la sensibilizzazione della popolazione e del personale sanitario è forte, così le strutture di accoglienza per il fine vita e il domicilio sono scelte diffuse. Ciò tutela fortemente la dignità dell’assistito, poiché quello di cui maggiormente necessita sono i suoi ricordi, i suoi oggetti cari e il conforto affettivo dei suoi amati. Cosi che possa celebrare la nostra effimera figura, simile a quella di
ogni altro essere che appartiene al
ciclo ineluttabile della natura, dove ogni cosa che nasce è destinata a crescere, a sfiorire, e poi a spegnersi. Le piccole creature come
noi, quanto le stelle, i pianeti, e l’universo stesso.
BIBLIOGRAFIA
Everyman – Philip Roth - Einaudi
n. 2/2004 della rivista Obbiettivo del Collegio Ipasvi di Firenze
SITOGRAFIA
http://it.wikipedia.org/wiki/Morte
http://it.wikipedia.org/wiki/Lutto
http://www.homolaicus.com/teoria/morte.htm
FILMOGRAFIA
La prima cosa bella – Paolo Virzì
L’ attimo fuggente – Peter Weir
The hours – Stephen Daldry
Collegio IPASVI Firenze
prossimi eventi e corsi
venerdì 21 marzo 2014 ore 9.00-19.00
Il sistema donazioni trapianti in una società multiculturale
mercoledì 9 aprile 2014 ore 9.00-18.00
Incontro di orientamento all'esercizio libero professionale
giovedì 10 aprile 2014 ore 8.30-18.00
Infermiere nelle situazioni di maxi-emergenza (CIVES)
giovedì 17 aprile 2014 ore 9.00-16.00
L’infermieristica tramite il teatro
mercoledì 30 aprile 2014 ore 8.30-13.30
Il processo comunicativo in sanità
martedì/mercoledì 06-07 maggio 2014 ore 9.00-18.00
Confrontarsi con il conflitto imparare a negoziare con efficacia
venerdì 09 maggio 2014
ore 8.30-13.30
La gestione infermieristica delle vie aeree
martedì 20 maggio 2014 ore 14.00-19.00
Le responsabilità del coordinatore infermieristico (vecchi limiti e nuove prospettive)
Tutte le informazioni relative a posti disponibili e iscrizioni sono reperibili sul sito www.ipasvifi.it
nella sezione formazione-training-online-management (TOM) previo registrazione e accesso riservato