ag gio rn am en ti so ciali - Pastorale di Santa Croce e Stroppari

ANNO 65
GIUGNOLUGLIO
2014
06-07
Conciliare lavoro e famiglia:
persone integrate per una società solidale
La liturgia,
al cuore dell’impegno sociale
Unione Europea
Conciliazione famiglia-lavoro
Cattolici e politica
Etiopia
Immigrazione
Madre e figlio
Liturgia
Politiche sociali
aggiornamenti sociali
Etiopia: alla scoperta
dell’Africa emergente
DIRITTI & GIUSTIZIA
ECONOMIA
INTERNAZIONALI
POLITICA
ETICA & BIOETICA
SOCIETÀ
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Offre strumenti per orientarsi in un mondo in continuo
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È frutto del lavoro di una équipe redazionale composta
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anno 65 / 06-07
giugno-luglio 2014
Fondazione Culturale
San Fedele
Tutti i diritti sono riservati. È vietata
la riproduzione, anche parziale,
con qualsiasi mezzo, compresa
stampa, copia fotostatica, microfilm
e memorizzazione elettronica, se non
espressamente autorizzata per iscritto.
© Fondazione Culturale San Fedele
IT ISSN 0002-094X
Registrazione Tribunale di Milano
18-11-1960 n. 5442
La testata fruisce dei contributi
statali diretti di cui alla legge
7 agosto 1990, n. 250.
Chiuso in tipografia il: 21/5/2014.
Il fascicolo precede nte è stato
consegnato alle poste di Milano
(CMP Roserio) per la spedizione
il 30/4/2014.
Direttore responsabile: Giacomo Costa SJ
Direttore emerito: Bartolomeo Sorge SJ
Redazione: Stefano Bittasi SJ, Paolo Foglizzo, Chiara Tintori,
Giuseppe Riggio SJ, Giuseppe Trotta SJ
A Palermo: Emanuele Iula SJ, Gianfranco Matarazzo SJ,
Giuseppe Notarstefano, Giuseppina Tumminelli
Comitato di consulenza scientifica: Floriana Cerniglia,
Chiara Giaccardi, Berardino Guarino,
Antonio La Spina, Mauro Magatti, Giulio Parnofiello SJ,
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Filippo Pizzolato, Massimo Reichlin,
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Editing: Francesca Ceccotti
Segreteria e layout: Cinzia Giovari
Progetto grafico: Amelia Verga
Editore: Fondazione Culturale San Fedele
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editoriale
giugno-luglio 2014
Chiara Tintori
Condividere per conciliare
445-452
Vivere una vita integrata e conciliata nelle sue diverse dimensioni (personale, familiare, lavorativa, ecc.) richiede di governare il proprio tempo e di
condividere con la propria cerchia familiare carichi di lavoro e responsabilità.
Carico
di famiglia
| Donne | Famiglia | Lavoro | Organizzazione
del lavoro
| Politiche
mappe
di conciliazione
approfondimenti
Denis Clerc
Il sociale, gamba atrofizzata dell’Europa
454-460
Un’indagine attenta sulle politiche sociali dell’UE rivela come l’economia
abbia preso il sopravvento sul sociale, inteso sempre più come un costo
piuttosto che come un investimento sulle persone.
Commissione europea | Concorrenza | Jacques Delors | Diritto
economica | Politica sociale europea | Unione Europea
del lavoro
| Politica
Andrea Grillo
La riforma liturgica e l’impegno sociale.
Rilettura pastorale di un rapporto delicato
461-469
Uno studio sul significato della liturgia, a partire dalla Sacrosanctum Concilium, per comprendere quale ruolo essa riveste nel rapporto tra fede e vita.
Chiesa cattolica | Concilio Vaticano II | Liturgia | Rapporto Chiesa-società |
Sacrosanctum Concilium
470
scheda / film Lunchbox
punti di vista
Giorgio Campanini
Cattolici in politica: minoranza creativa nella società italiana
471-480
I cattolici impegnati in politica sono una minoranza divisa, ma non è necessario militare sotto un’unica insegna politica per essere lievito nella società.
Occorre piuttosto pensare politicamente insieme.
Chiesa cattolica | Impegno politico
Rapporto Chiesa-società | Storia
del cristiano
| Italia | Partecipazione
politica
|
scheda / documenti «Funzioni e ordinamento dello Stato moderno»
442
481
sommario
voci del mondo
Michele Boario – Emanuele Fantini
L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente
482-493
La crescita economica dell’Etiopia si basa su un modello di sviluppo centrato
sul ruolo dello Stato. La sua sostenibilità nel tempo richiede di dare maggiore
spazio al settore privato e di gestire i cambiamenti sociali.
Africa | Cooperazione internazionale | Crescita economica | Etiopia | Federalismo |
Obiettivi di sviluppo del millennio | Politica di sviluppo | Regime autoritario | Sviluppo
scheda / geo Etiopia
Tom Greene SJ
La risposta degli Stati Uniti all’immigrazione irregolare
494
495-500
La politica migratoria degli USA risponde a una triplice logica: sfruttamento
politico della paura del diverso, militarizzazione della risposta e creazione di
opportunità di profitto per le imprese del settore della detenzione.
Controllo delle migrazioni | Diritti umani | Messico | Migrante | Migrazione illegale |
Politica migratoria | USA
immagini
bussola
Sonia Frangi
Finestre 2014: Lipari
501-502
bibbia aperta / Madre e figlio
di Giuseppe Trotta SJ
504-508
cristiani e cittadini / Papa Francesco, riformatore del mercato
di Jeffrey D. Sachs
509-512
tools / La Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea
di Luca Lionello
513-517
recensione / Una nuova prosperità
di Giorgio Nardone SJ
518-520
vetrina / Libri, film, eventi
521-524
443
Le elezioni europee su AS
contatti e informazioni
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di commentare i risultati delle elezioni europee in questo numero, andato
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editoriale
Condividere per conciliare
Chiara Tintori
Redazione di Aggiornamenti Sociali
<chiara.tintori@aggiornamentisociali.it>
D
a circa vent’anni l’Unione Europea insiste sulla necessità di politiche di conciliazione tra vita professionale e
familiare (work-life balance) sia nel campo delle strategie
personali e familiari, sia in quello dell’organizzazione del lavoro, per
rendere la vita dei suoi cittadini più sostenibile, meno frammentata
e disarticolata. Di riflesso, il tema è apparso sporadicamente anche
nell’agenda sociale e politica del nostro Paese, per lo più parallelamente all’obiettivo di una maggiore occupazione femminile oppure
in funzione del raggiungimento della parità nei ruoli di responsabilità pubblica (quote rosa).
Si tratta di punti di accesso al problema certamente importanti,
specie per i rilevanti risvolti sociali, ma che non rendono pienamente
giustizia alla complessità e alla profondità della questione, anche in
termini antropologici: la gestione del proprio tempo rimanda infatti
alla scelta delle priorità nella vita di ciascuno, al percorso di integrazione personale, alla custodia delle relazioni fondamentali e anche
di quelle sociali, ovverossia ciò che con una formula classica si può
definire “vita buona”. È proprio su questo orizzonte che intendiamo
proiettare le nostre riflessioni sul tema della conciliazione dei tempi.
In questa chiave, è bene cominciare sgomberando il campo da
due equivoci riduttivi. Il primo è che la conciliazione riguardi
solo le donne e le mamme. Certo, a queste ultime è chiesto molto
spesso uno sforzo acrobatico per tenere insieme le esigenze di cura
dei membri della famiglia – siano essi i figli, chi si ammala, o i
genitori anziani – con le responsabilità lavorative. Tuttavia, la conciliazione tra tempi lavorativi e familiari riguarda donne e uomini,
Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (445-452)
445
giovani e meno giovani, a qualunque livello professionale. Quando
un colloquio di lavoro di un giovane laureato termina con la frase:
«Lei deve scegliere già da oggi tra il lavoro e la famiglia», qualcosa
non torna: proporre un’occupazione che assorba tutto il tempo –
personale, libero e familiare – vuol dire chiedere una scelta che non
si può e non si deve fare, se non si vuole ridurre la vita a una prestazione, secondo i criteri esclusivi dell’efficienza produttiva e della
visibilità sociale.
Il secondo equivoco da cui liberare il campo è che la ricerca
dell’equilibrio tra i tempi di lavoro e quelli familiari sia solo
ed esclusivamente un obiettivo parallelo e funzionale alla maggiore occupazione femminile. Da più parti si sostiene, non senza
fondamenti di verità, che una maggiore partecipazione femminile
al mercato del lavoro produrrebbe benefici all’economia nazionale.
Vorremmo però provare ad andare oltre tali prospettive – la conciliazione come problema solo delle donne e funzionale all’aumento
del PIL – per offrire una pista di riflessione che possa aprire a un
futuro personale e sociale di maggiore speranza. Crediamo che la
posta in gioco non sia quella di mettere artificiosamente insieme
una qualche forma di equilibrio tra lavoro, di qualunque tipologia
si tratti, e vita extralavorativa, ma di assicurare una vita realmente
equilibrata per tutti, che accresca il benessere personale e di conseguenza quello sociale. In una parola, una vita buona, come si diceva
in apertura, proprio perché (ri)conciliata e integrata nelle sue varie
dimensioni: personale, familiare, lavorativa, di impegno sociale o
politico, ecc.
Dopo aver denunciato alcuni limiti nell’utilizzo delle parole, offriamo di seguito qualche spunto di riflessione su tre livelli: personale, relazionale familiare e, infine, sociale.
Limiti lessicali
Quando l’Unione Europea tratta di conciliazione utilizza un’espressione inglese, work-life balance, cioè equilibrio tra la vita e il
lavoro, che solleva un interrogativo di fondo: può il lavoro essere
considerato un’attività separata dal resto della vita? Analogamente, nella lingua italiana l’espressione «conciliazione tra tempi
di vita e tempi di lavoro» evidenzia lo stesso limite di considerare le
nostre giornate come attraversate da tanti impegni “di vita” (personali, familiari, sociali, ecc.) intervallati, quasi fosse un’interferenza,
dal lavoro, così considerato estraneo al resto della vita.
D’altro canto, parlare di «conciliazione tra responsabilità lavorative ed extralavorative» pone in risalto un altro limite: fare del
lavoro il riferimento centrale delle proprie giornate, per cui tutto il
446
Chiara Tintori
editoriale
tempo per sé, per la famiglia e per gli altri è considerato in funzione
del lavoro.
«Conciliare i tempi di lavoro con quelli familiari» potrebbe essere
l’espressione meno problematica e più inclusiva, poiché anche coloro
che non hanno formato una nuova famiglia possono avere quella di
origine ed essere coinvolti nelle attività di cura legate, ad esempio, ai
genitori anziani o malati. Tuttavia, anche prendere come riferimento solo i tempi familiari rispetto a quelli lavorativi esclude il tempo
personale, quanto mai necessario e salutare – indipendentemente
dalla scelta di vita o professionale – affinché le nostre giornate siano
veramente integrate e in costante tensione verso l’armonia con sé e
con gli altri.
Perché, prima di addentrarci nelle nostre riflessioni, ci siamo spesi su questioni terminologiche? Sostanzialmente perché il linguaggio
è la principale spia del modo in cui una società e una cultura comprendono la realtà. Il fatto che vi siano espressioni vicine ma non
identiche e non sempre perfettamente sovrapponibili segnala l’esistenza di una varietà di punti di vista a partire dai quali guardare la
conciliazione: per capire veramente i problemi, è necessario tenere
conto di tutti. In secondo luogo, rilevare limiti, tensioni o parziali
contraddizioni nel lessico prevalente indica che non abbiamo ancora raggiunto una comprensione adeguata, soddisfacente e condivisa sia dei punti di riferimento sia della corretta gerarchia
dei valori in gioco. Per questo è importante continuare a riflettere
su questo tema, ed è quello che ci proponiamo di fare nelle pagine
che seguono. In questo percorso terremo conto dei limiti linguistici
appena evidenziati, utilizzando le diverse espressioni sulla base della
pertinenza di ciascuna al singolo punto trattato, ma intendendole
sostanzialmente come sinonimi.
Conciliarsi
Quanti di noi svolgono un’attività sanno molto bene cosa significhi tentare di conciliare i tempi di lavoro con quelli personali e
familiari, conoscono la fatica fisica e psicologica dell’essere in bilico
tra diverse responsabilità. Tra l’altro oggi i confini tra i tempi e gli
spazi lavorativi e il resto della giornata sono molto labili per un
numero crescente di tipologie occupazionali; se qualche anno
addietro l’invadenza del lavoro nella vita personale era relegata al
“portarsi a casa il lavoro”, oggi il lavoro “si porta ovunque”: bastano
uno smartphone e una buona connessione perché telefonate, email,
videoconferenze e documenti condivisi e facilmente accessibili facciano potenzialmente lavorare 24 ore al giorno, così come d’altro
canto possono farci rimanere in contatto con vicende familiari o
Condividere per conciliare
447
personali (ricevere in diretta i voti dei figli a scuola o i referti di
esami clinici). Se tutto questo è potenzialmente vantaggioso, la debolezza dei confini tra lavoro e “altro” chiama in causa una prima
dimensione, quella personale. La sfida della conciliazione è prima
di tutto la sfida dell’equilibrio tra parti di sé, prima ancora che
tra le attività che si svolgono.
Un primo esercizio di equilibrio verso una conciliazione tra i
tempi di lavoro e quelli dedicati alla famiglia è governare il proprio
tempo. Qualunque esperienza umana è per sua natura limitata; così
quella del lavoro – seppure essenziale per la sussistenza – non può
occupare l’intera giornata regolarmente e quotidianamente, invadendo ogni spazio fisico e mentale, consumando energie intellettive
e psicologiche con il rischio di compromettere il proprio equilibrio
interiore e fisico, oltre che le relazioni con chi ci sta accanto. Laddove questo avvenga, come nel caso di alcune professioni (ad esempio i
medici), ciò che conta è che la scelta lavorativa sia concordata all’interno della principale relazione familiare di riferimento e che conduca a una vita pacificata nella sua impossibilità – magari temporanea
– di impegnarsi in altre attività extralavorative. Analogamente, se
una mamma decidesse di dedicarsi interamente alla famiglia, rinunciando (davvero liberamente e non costretta dal modo in cui
funziona il mercato del lavoro) all’esperienza professionale, potrebbe
trattarsi di una scelta di conciliazione con se stessa, purché presa in
accordo con il proprio partner.
Il governo del proprio tempo, affinché ciascuna esperienza
di vita possa avere uno spazio appropriato, presuppone un investimento iniziale, quello del tempo per sé, non in un’ottica egocentrica, ma come prerequisito per mettere nel giusto ordine di priorità quanto si vive. Sia la tradizione della spiritualità, sia l’indagine
psicologica sottolineano l’importanza dell’integrazione del sé come
traguardo progressivo di maturazione personale e come base per
sperimentare una vita autenticamente umana, cioè una vita buona.
La cura di questa integrazione è da rinnovare costantemente giorno
dopo giorno, non può essere data per acquisita una volta per tutte
e richiede di essere variabilmente coltivata, a seconda delle diverse
fasi della vita. Se tutta la giornata è occupata da mansioni legate alle
funzioni e ai ruoli ricoperti (in casa e fuori), la dimensione dell’integrazione profonda della persona rischia l’asfissia. Al contrario, l’integrazione personale è il presupposto per costruire solide relazioni
interpersonali, così da partecipare attivamente alla promozione del
bene comune della società nel suo insieme.
Regolare i tempi e gli spazi personali, familiari, di lavoro o di
qualunque altra attività sociale si svolga ed evitare che ciascuno di
448
Chiara Tintori
editoriale
questi ambiti venga assolutizzato consente un’armoniosa crescita
verso l’integrale maturità umana. Come non è giusto far scegliere
ai giovani tra il lavoro (la carriera) e il desiderio di metter su famiglia, così con l’andare degli anni è bene ricordare che l’equilibrio
personale passa attraverso la possibilità e la scelta di spendersi su più
fronti, almeno quello lavorativo e familiare (senza escluderne altri).
Tra l’altro studi psicologici hanno mostrato come la molteplicità di
ruoli (lavoratore, genitore, ecc.) possa generare benefici sotto diversi
punti di vista e in modo trasversale; esiste infatti un vero e proprio
arricchimento lavoro-famiglia, per cui l’esperienza di madre o di
padre è in grado di migliorare la qualità di quella lavorativa, e viceversa (Ghislieri C. – Colombo L., Psicologia della conciliazione tra
famiglia e lavoro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014).
L’esperienza della conciliazione all’interno di se stessi e della gestione del proprio tempo necessita di un periodo di apprendimento
e di costante pratica che dura, potenzialmente, tutta la vita.
Relazioni solidali
L’unificazione delle nostre giornate, della nostra persona,
di quello che siamo e delle nostre esperienze diventa più armonica e completa quando viviamo con e per qualcun altro in
modo totalmente disinteressato. Perciò, un secondo esercizio verso
l’equilibrio nella gestione dei tempi è quello di affiancare al termine
conciliazione la parola “condivisione”.
Condivisione, ad esempio, con chi ha il maggiore carico di lavoro (fuori e dentro casa) – più spesso la donna quando è impegnata
professionalmente –, con chi è più stanco, frustrato e talvolta più
colpevolizzato perché concilia male i propri impegni. Senza per
questo assumere uno sguardo compassionevole o di cinica ammirazione, la scelta che già oggi possiamo compiere è incamminarci su
strade di condivisione reale. Non si tratta di una ricerca affannata
e sterile di parità tra i generi e/o i ruoli, ma di individuare percorsi
unici e irripetibili di condivisione e corresponsabilità tra uomo e
donna, tra membri della famiglia, tra generazioni, in un’ottica non
di uguaglianza, ma di maggiore unità e coesione.
Che cosa condividere? I ruoli e le responsabilità in famiglia,
soprattutto: senza la condivisione quotidiana e metodica delle
attività di cura dei più fragili (bambini, malati, anziani), la conciliazione rischia di essere pura retorica e di rimanere un generico
e sporadico esercizio di affiancamento alla donna in tali compiti.
In secondo luogo si tratta di condividere l’impegno perché questo
cambio di paradigma sia accettato, sostenuto e promosso anche a
livello sociale e politico. Perché non sostenere una campagna di moCondividere per conciliare
449
bilitazione culturale sulla condivisione dei lavori di cura in famiglia,
a partire dalle scuole e da altre agenzie educative, per contrastare
gli stereotipi di genere e per educare alle differenze, badando a non
ricercare e proporre un modello teorico e ideale di condivisione?
Infatti le uniche conciliazioni possibili e orientate a una vita
buona sono frutto di negoziazioni uniche e continue all’interno
di ogni relazione, a partire dai punti di forza e di debolezza di ciascun familiare, affinché senza alibi e in un clima di reciproca fiducia
si possa condividere un percorso di apprendimento delle responsabilità quotidiane. Per condividere è necessario essere disponibili
a mettersi personalmente in gioco e a vivere diversamente i ruoli
attribuiti dalla tradizione e dalla società. Laddove questo, per motivi che possono dipendere ad esempio dal tipo di lavoro scelto o da
condizioni familiari troppo vincolanti e complesse, rendesse impossibile trovare una conciliazione, diventa essenziale accettare anche
la possibilità di riuscire a vivere un’esistenza attraversata da conflitti
e limiti, educandoci a stare nelle tensioni come luoghi generativi e
fecondi di umanizzazione, e di nuova conoscenza e ri-conoscenza
di sé con altri. Si tratta certamente di proposte impegnative e talvolta faticose, che offrono però da un lato il vantaggio, tra gli altri,
di proporre ai propri figli e alle proprie figlie un nuovo modello di
genitori: presenti, attivi, responsabili e partecipi allo stesso modo
nella vita familiare; dall’altro offrono l’opportunità di educare le
nuove generazioni a fare esperienze di vita integrata e conciliata e a
non temere i conflitti.
Condividere non solo è indispensabile per conciliare i tempi
familiari con quelli lavorativi, ma consente di acquisire nuovi e
stimolanti punti di vista. Un legame familiare, forse in partenza
asimmetrico, si nutre di reciprocità e si trasfigura in una complementarità concreta e fattiva, meglio se all’interno di un progetto
a lunga scadenza. A questo proposito una particolare attenzione
va posta sui nuclei familiari monoparentali, composti da un solo genitore, che in Italia sono il 15% delle famiglie, in progressivo
aumento (dati 2012, tratti da Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali – INPS – ISTAT, Rapporto sulla coesione sociale.
Anno 2013, in <www.lavoro.gov.it>). In questi contesti, già provati
dalla mancanza di uno dei genitori, la condivisione non può che
allargarsi, coinvolgendo tutte quelle relazioni amicali e solidali che
affiancano la “nuova” famiglia.
Possiamo vivere bene nella differenza tra donne e uomini, tra
ruoli di cura familiari e compiti lavorativi, solo in esercizi reciproci
e quotidiani di condivisione e corresponsabilità. Addestrarsi reciprocamente alle differenze passa anche da qui.
450
Chiara Tintori
editoriale
Politiche di conciliazione e giustizia sociale
Vivere bene con e per l’altro implica una tensione a che la sollecitudine sperimentata nelle relazioni familiari si traduca in condivisione anche nelle realtà più ampie, quelle sociali e lavorative. Le
politiche di conciliazione possono allora diventare strumenti che
permettono a ciascuno di fare esperienza di una vita buona. Sono
molto articolate e si compongono di un set diversificato e integrato
di pratiche e strategie, purché inserite in un’ottica di sistema: dai
servizi all’infanzia e agli anziani, ai piani degli orari per gestire e
armonizzare i servizi pubblici in contesti urbani. Ma il versante sul
quale è desiderabile un cambio di rotta è quello dell’organizzazione dei tempi di lavoro, almeno dove ciò è possibile. Strumenti
quali i programmi e le politiche di flessibilità – nei tempi, negli
spazi e nei servizi di lavoro –, già esistono e non possono che diffondersi sempre più, sulla base dei bisogni differenziati dei lavoratori:
part time, telelavoro, job sharing, banca ore, elasticità ampia e reale
dell’orario di lavoro in ingresso e uscita, congedi, piani ferie personalizzati, maggiordomo aziendale a cui delegare piccole commissioni esterne, portale di servizi da cui gestire ad esempio l’asilo nido,
la baby sitter, l’assistenza agli anziani, l’acquisto di libri scolastici,
check up e assistenza medica.
Anche in un periodo in cui le risorse economiche scarseggiano,
è auspicabile una nuova fase di welfare territoriale, in cui le aziende,
in sinergia con tutti gli altri attori in gioco, soprattutto quelli presenti sul territorio dove operano, facilitino percorsi di condivisione.
Questo non solo perché le persone “facciano meglio”, ma anche
perché “stiano meglio”, ad esempio mettendo in comune i servizi
tra le aziende, facendo rete per offrire supporti alla persona e alla
famiglia, perché anche nell’ambiente di lavoro possa prendere forma
quella vita integrata e riconciliata di cui si fa esperienza prima in se
stessi, e poi nelle relazioni con i propri cari.
Un certo tipo di mondo del lavoro, con sue leggi scritte e non
scritte, con le sue prassi e le sue culture (del presidio e del controllo),
con la sua talvolta inutile e obsoleta rigidità, potrebbe essere giunto
al capolinea, per far spazio – perlomeno laddove le tipologie di lavoro lo consentano – a un nuovo modello basato sui risultati e non
sulle ore di presenza in azienda.
Le trasformazioni sociali e culturali avvenute nella sfera dei rapporti familiari e i mutamenti verificatisi nell’ambito dell’organizzazione del lavoro rendono necessaria la precisa volontà da parte di
tutti i soggetti coinvolti di far fronte con efficacia a queste nuove
situazioni. Innovazione è guardare al futuro con coraggio, affrontare
Condividere per conciliare
451
con serenità i rischi, la sfida di un cambio di paradigma culturale,
dove un approccio più bilanciato garantirebbe non solo più conciliazione tra i tempi lavorativi e familiari, ma soprattutto più benessere
personale e sociale: una risorsa strategica per tutti.
Da ultimo, ci sembra indispensabile segnalare come la questione della conciliazione richieda di essere proiettata su scala
addirittura globale, per provare ad aggredire le ingiustizie che registriamo anche su questo terreno, o almeno tentare di non crearne
di nuove. È indubbio, infatti, che la disponibilità di aiuti e collaboratori familiari rappresenti un potente strumento per favorire la
conciliazione. Ma questo introduce un pericoloso dualismo nella
società, trasformando la conciliazione in un lusso di chi può permettersela e scaricandone tutto il peso su chi è troppo povero e, per
questo, costretto a rinunciare a qualsiasi conciliazione. Storicamente
ha sempre funzionato così, nell’epoca della schiavitù o in quella delle domestiche che passavano l’intera vita a servizio di una famiglia,
rinunciando a farsene una propria. Oggi si ripropone lo stesso fenomeno, con le molte donne immigrate impiegate come colf, badanti
e tate che hanno lasciato i propri figli e la propria famiglia nel Paese
di origine. In chiave di giustizia sociale, la sfida è quella di costruire anche per queste persone opportunità per sperimentare quella
conciliazione che, come abbiamo visto, è condizione necessaria per
l’integrazione personale e per una vita autenticamente buona.
452
Chiara Tintori
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Il sociale,
gamba atrofizzata
dell’Europa
Denis Clerc
Economista e membro del comitato scientifico
della rivista Alternatives économiques
Secondo l’opinione prevalente, l’Unione Europea presta molta attenzione alle questioni economiche e finanziarie e troppo
poca ai problemi sociali. Ma è sempre stato così? Quale è
stato lo sviluppo delle politiche sociali comunitarie lungo le
diverse tappe della storia dell’UE? Ridare vigore alla “gamba” sociale dell’edificio europeo è probabilmente la sfida
cruciale per il ciclo politico che si apre con il rinnovamento
delle istituzioni dell’UE: il Parlamento appena eletto e la
nuova Commissione che entrerà in carica negli ultimi mesi
del 2014.
L
a disaffezione dei cittadini europei per la costruzione europea
è palese, in gran parte perché si è diffusa l’impressione che
essa sacrifichi le questioni sociali a vantaggio di quelle economiche, e che allo stesso tempo i presunti benefici della concorrenza
«libera e non distorta» tardino a farsi vedere. Questo è un giudizio
tagliato con l’accetta e senza dubbio esagerato, ma purtroppo non
del tutto privo di fondamento: in materia di politica sociale, dopo
l’adozione del Trattato di Amsterdam (1997), l’Unione Europea ha
effettivamente cambiato rotta. Certo, non si tratta di un abbandono
totale, come a volte si crede, ma le continue riduzioni verificatesi
negli ultimi quindici anni mostrano chiaramente che, ormai, il sociale viene considerato dalle autorità europee più come un peso
che come il cemento di una costruzione comune.
454
Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (454-460)
approfondimenti
Quando l’Europa era (anche) sociale
Contrariamente a ciò che si afferma in modo un po’ affrettato,
il “Mercato comune”, come si diceva negli anni Sessanta-Settanta,
agli inizi della costruzione europea, non era soltanto una “Europa
degli affari”. Esso istituiva un Comitato economico e sociale europeo, che riuniva i rappresentanti dei partner sociali (datori di lavoro
e salariati), e il Fondo sociale europeo destinato a migliorare le opportunità di occupazione. Queste due istituzioni esistono tuttora
e le loro prerogative, così come gli stanziamenti destinati al loro
funzionamento, non hanno smesso di crescere. Inoltre, il Trattato
di Roma (1957) comprendeva due disposizioni fondamentali: quella
che applica ai lavoratori migranti originari dei Paesi membri il diritto del lavoro, le condizioni salariali e le prestazioni sociali del Paese
di accoglienza e quella per cui la sanità, le condizioni di lavoro e i
diritti sociali dei lavoratori sono di competenza comunitaria. Previo accordo del Consiglio dei Ministri, la Commissione europea ha
così potuto emanare numerose direttive, che i singoli Paesi membri
erano tenuti a incorporare nella propria legislazione nazionale: sulla
sicurezza nelle miniere o sulle navi, sulla protezione dal rumore o
dalle sostanze tossiche, sulla durata massima settimanale dell’orario di lavoro, sui licenziamenti collettivi, ecc. Certo, la “gamba”
economica del Trattato di Roma (e di quelli successivi) era nettamente più sviluppata rispetto a quella sociale, ma di fatto esistevano entrambe.
Negli anni Ottanta, la costruzione europea inizia la svolta economico-liberale che, a partire dall’Atto unico europeo (1985) e poi
dal Trattato di Maastricht (1992), approderà nel 1998 all’Unione
economica e monetaria e alla moneta Per Atto unico europeo si intende l’insieme
unica. Il paradosso di quel periodo è di modifiche apportate al Trattato di Roma
che questa svolta si è realizzata sotto la con lo scopo di di rilanciare l’integrazione
guida di Jacques Delors – presidente europea e di portare a termine la realizzadella Commissione europea dal 1985 zione del mercato unico, in cui le stesse
regole valgono per tutti gli operatori, a preal 1995 – la cui strategia mirava a far scindere dalla loro nazionalità.
crescere la gamba sociale quanto meno allo stesso ritmo di quella economica, al fine di combinare
– come scrive nelle sue Mémoires – «la competizione che stimola, la
cooperazione che rafforza e la solidarietà che unisce» 1. Tanto che –
visto a posteriori – quel periodo si rivela l’età dell’oro dell’Europa
sociale, come sostiene il sociologo francese Jean-Claude Barbier 2.
1 Delors J. – Arnaud J.-L., Mémoires, Plon, Parigi 2004, p. 326 (trad. it. Memorie, Rubbettino, Soveria Mannelli [CZ] 2009).
2 Barbier J.-C., La Longue Marche vers l’Europe sociale, PUF, Paris 2008, p. 83.
Il sociale, gamba atrofizzata dell’Europa
455
Jacques Delors fa affidamento sul Comitato economico e sociale
– «davvero un buon compagno di strada», scrive – per rilanciare il
dialogo sociale. Gli accordi collettivi conclusi tra le parti sociali a
livello europeo sono ripresi da alcune direttive della Commissione,
ad esempio quelle sul congedo parentale (1996), sul lavoro part-time
(1997), sull’informazione e la consultazione dei lavoratori (1998) e
sul lavoro a tempo determinato (1999). Parallelamente, al Vertice di
Strasburgo viene presentata una Carta comunitaria dei diritti sociali
dei lavoratori (1989). Solo il Regno Unito rifiuta di firmarla, come
si oppone anche alla proposta di inserire nel Trattato di Maastricht
misure di progresso sociale su temi come l’uguaglianza di genere, le
condizioni di lavoro, l’informazione dei lavoratori, la sicurezza sul
lavoro e l’inclusione sociale: riguardo a tutti questi provvedimenti,
era ormai previsto che la loro adozione da parte del Consiglio dei
Ministri richiedesse soltanto una maggioranza qualificata (invece
dell’unanimità). Queste disposizioni sono state quindi relegate in
un protocollo allegato, firmato da 11 Stati (sui 12 di allora), prima
di essere finalmente inserite nel Trattato di Amsterdam nel 1997
(nel frattempo il Regno Unito aveva cambiato maggioranza e punto
di vista).
In definitiva, come afferma l’economista francese Robert Salais,
si può «concludere oggi che l’Europa sociale lanciata da Delors ha
lasciato intravedere [un modello volto a] creare attraverso i diritti sociali i primi fondamenti di una comunità politica europea […], ma
[…] di fatto essa si è limitata essenzialmente a cercare di realizzare
[…] un sociale legato alla creazione di uno spazio di concorrenza
leale e, di conseguenza, costantemente minacciato da stratagemmi
che tendono a indebolire le protezioni» 3. Ma a nostro avviso si può
anche dire che, sapendo che il contesto economico e politico era
quello del liberalismo sfrenato, essa è riuscita a limitarne l’impatto
sociale e a contenere l’ondata liberale. Non si può dire lo stesso dei
successori di Delors, meno coraggiosi e meno caparbi.
Prevale il diritto alla concorrenza
A partire dal 1997, infatti, «il sociale diventa sempre più uno
strumento della competitività economica», come sintetizza l’economista francese Michel Dévoluy 4. Si tratta di fare in modo
che esso «non intralci il dinamismo dell’economia di mercato».
Paradossalmente, questa priorità dell’economia, benché a scapito
del sociale, è stata affermata non da un’istituzione economica,
3
Salais R., Le viol d’Europe, PUF, Parigi 2013, p. 325.
Dévoluy M. – Koenig G. (edd.), L’Europe économique et sociale. Singularités, doutes et perspectives, Presses universitaires de Strasbourg, Strasburgo 2011, p. 175.
4
456
Denis Clerc
approfondimenti
ma giudiziaria: la Corte di giustizia dell’UE (precedentemente
Corte di giustizia delle Comunità europee). Su questo punto essa
ha contribuito a disfare il tessuto sociale in modo sorprendente e
importante. Sorprendente perché, almeno in Francia, il giudice è
spesso colui che dichiara nulle le decisioni economiche (o per lo
meno impone loro dei limiti) quando non tengono sufficientemente
conto della dimensione sociale. Importante perché, attraverso una
serie di sentenze, la Corte di giustizia ha instaurato una giurisprudenza che subordina il sociale alle libertà economiche. Con la sentenza Schmidberger (2000), ha dato ragione a un’azienda olandese
i cui camion erano stati bloccati in Austria da una manifestazione
che impediva l’accesso a un ponte. Poiché la manifestazione era stata
autorizzata a livello locale senza che lo Stato intervenisse, la Corte
ha ritenuto che quest’ultimo avesse implicitamente tollerato una forma di restrizione alla libertà di circolazione, generatrice di danno
economico tanto quanto il protezionismo. Con la sentenza Viking
(2005) è stata data ragione a una società finlandese che, per ridurre
i costi, aveva licenziato i propri marinai finlandesi, immatricolato
le proprie navi sotto bandiera estone e assunto equipaggio estone: la
libertà di iniziativa è stata considerata più importante rispetto all’azione collettiva del sindacato finlandese. Ugualmente, con la sentenza Laval (2005) la Corte di giustizia ha dato ragione alla filiale
lettone di una società svedese che aveva distaccato dei lavoratori lettoni per costruire una scuola in Svezia … alle condizioni di lavoro e
con i salari della Lettonia. Di fatto, esiste una direttiva europea che
impone di pagare i lavoratori in trasferta all’estero secondo le regole
del Paese di accoglienza, ma l’obbligo è limitato alle regole stabilite
per legge; ma in Svezia, le questioni riguardanti i diritti sociali sono
regolate in prevalenza attraverso accordi collettivi.
Dumping sociale istituzionalizzato
Oltre alla Corte di Giustizia, anche le altre istituzioni europee
hanno fatto la propria parte in questo indebolimento relativo dello
spazio del sociale. L’UE, di fatto, si basa ormai sul «metodo aperto
di coordinamento» (MAC). La Commissione è incaricata di preparare una “agenda sociale”, che proponga grandi obiettivi strategici, a
volte quantificati, da raggiungere entro una data lontana nel tempo
(dal 2010, è la cosiddetta strategia Europa 2020). Una volta che
questi obiettivi sono stati ratificati o emendati dal Consiglio Europeo, ciascun Paese è invitato a elaborare annualmente un resoconto
degli strumenti utilizzati per realizzarli e dei risultati ottenuti. Il dispositivo è dunque totalmente volontario: nessuna direttiva, nessun
finanziamento, nessun obbligo, nessuna sanzione. Il MAC si basa
Il sociale, gamba atrofizzata dell’Europa
457
soltanto sul benchmarking, una sorta di albo
d’oro risultante dal confronto tra i risultati dei
vari Paesi, nella speranza
che le buone pratiche si
diffondano a macchia
d’olio. In campo sociale,
il risultato è stato spesso
una sorta di concorrenza
tra modelli nazionali. È
il caso, ad esempio, della
drastica riforma delle pensioni e del sussidio di disoccupazione –
penso alla Germania e alle Riforme Hartz avviate dal cancelliere
Schröder –, che intendeva ridurre il costo del lavoro e quindi migliorare la competitività. Le riforme in questione paiono auspicabili anche per gli altri Paesi e vengono allora raccomandate dalla
Commissione, che preme perché anche loro le realizzino. Ormai
l’economico non è più determinante “in ultima istanza”, ma –
oserei dire – in prima istanza: il sociale è ai suoi piedi. Secondo
l’economista del lavoro francese Isabelle Terraz 5, «fingendo di ignorare che i sistemi di protezione sociale e le istituzioni del mercato
del lavoro sono il risultato di peculiarità nazionali, di compromessi
storici e di modelli culturali diversi da Paese a Paese, il MAC torna
a promuovere un modello sociale particolare, convinto che si tratti
del giusto modo di reagire alle sfide del futuro».
Va precisato, tuttavia, che se il MAC può generare effetti perversi, può anche dinamizzare certe politiche sociali; in particolare, ormai ogni obiettivo europeo si basa su degli indicatori di riferimento
declinati Paese per Paese. Così, uno dei cinque obiettivi strategici
di Europa 2020 è la diminuzione di 20 milioni del numero di individui in situazione di povertà o di esclusione sociale. Vengono
utilizzati tre indicatori per misurare il numero di persone in queste
condizioni: uno monetario (le persone il cui livello di vita è inferiore alla soglia di povertà nazionale), uno di «grave deprivazione
materiale» (abitazione, alimentazione, ritardi nei pagamenti, ecc.)
e uno di bassa intensità occupazionale (i nuclei familiari in cui gli
adulti con meno di sessant’anni sono stati occupati per meno di
un quinto dei 12 mesi precedenti). Nel 2010 si contavano nell’UE
117 milioni di persone che vivevano in famiglie in cui si verificava
almeno una di queste condizioni. Nel 2012 questa cifra è passata a
Europa 2020 (da leggere “venti-venti”) è la strategia decennale per la crescita definita dall’UE nel 2010. Non mira soltanto a uscire dalla crisi, ma vuole anche colmare le lacune
del modello di crescita europeo e creare le condizioni per un
diverso tipo di sviluppo economico, più intelligente, sostenibile e solidale. Per questo l’UE si è data cinque obiettivi da
realizzare entro la fine del decennio, che riguardano l’occupazione, l’istruzione, la ricerca e l’innovazione, l’integrazione
sociale e la riduzione della povertà, il clima e l’energia. La
strategia indica anche sette settori di intervento su cui concentrare gli sforzi per il raggiungimento degli obiettivi: l’innovazione, l’economia digitale, l’occupazione, i giovani, la
politica industriale, la povertà e l’uso efficiente delle risorse.
5 In Dévoluy M. – Koenig G. (dir.), L’Europe économique et sociale. Singularités,
doutes et perspectives, cit., p. 195.
458
Denis Clerc
approfondimenti
123 milioni a causa della
Verso il massimo ribasso sociale
crisi. Il Comitato per la La giurisprudenza che deriva dalla sentenza Laval non ha
protezione sociale (uno gli stessi effetti dappertutto. In Francia ha poca importanza,
degli organi della Com- perché la parte essenziale dei diritti sociali (contributi somissione europea) segue ciali, previdenza, ferie, condizioni di lavoro) è stabilita dalla
attentamente questi in- legge o da accordi collettivi aventi forza di legge. Nonostante questo, oggi, sono circa 200mila i lavoratori in situazione
dicatori, come quelli re- di distacco provenienti da altri Paesi dell’UE, tramite agenlativi a pensioni, sanità e zie di lavoro interinale ungheresi, polacche o ceche, e ora
disoccupazione. Richia- anche bulgare o romene (dal 1° gennaio 2014 la libertà di
ma l’attenzione di ogni circolazione e di lavoro riguarda anche i lavoratori di questi
Stato membro sui ritardi due Paesi). I loro contributi sono versati agli enti previdenziali dei Paesi di origine secondo le percentuali in essi
rispetto agli obiettivi eu- vigenti. Ma queste percentuali sono particolarmente basse
ropei e svolge quindi, in nei Paesi ex comunisti dell’Europa centro-orientale, mentre
qualche modo, un ruolo il salario netto versato a questi lavoratori è quasi sempre
di sentinella. Si può spe- fissato al minimo stabilito dall’accordo collettivo del settore
rare che tale ruolo serva a in cui operano. In Germania, dove il salario minimo legale
stimolare gli Stati a fare non esiste, la giurisprudenza Laval permette di assumere
lavoratori in distacco pagati due o tre euro all’ora nei settori
uno sforzo supplementa- in cui le difficili condizioni di lavoro riducono il numero
re in campo sociale per di candidati nazionali. Così, la libertà di circolazione dei
correggere le tendenze lavoratori all’interno dell’UE sta attaccando le fondamenta
oggi in atto. Un discorso della protezione sociale dei Paesi più sviluppati.
analogo vale per un altro
degli obiettivi di Europa 2020: riportare dal 14% del 2010 al 10%
la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno interrotto
prematuramente la propria formazione. Contrariamente alla riduzione della povertà, in questo caso la tendenza recente si muove nella
giusta direzione (12,8% nel 2012). Nei loro rapporti annuali 6, gli
Stati membri devono spiegare le ragioni per le quali si avvicinano
o si allontanano dagli obiettivi fissati. La Commissione può quindi
formulare delle raccomandazioni, anche se questi obiettivi non sono
di competenza delle autorità comunitarie. Così, la protezione sociale e l’istruzione, che rimangono essenzialmente prerogative
nazionali, possono in parte “comunitarizzarsi”, in un processo
di “sorveglianza multilaterale”.
Insomma, come si vede, il sociale non è ignorato nei dispositivi
europei. Ma, come osserva – non a torto – Michel Dévoluy, «la
strumentalizzazione del sociale al servizio della competitività indebolisce la costruzione europea», con il rischio che venga istituzionalizzato così una sorta di dumping sociale all’interno dell’Unione
6 I cosiddetti Programmi nazionali di riforma (PNR), che definiscono annualmente
gli interventi che ciascuno Stato deve adottare per il raggiungimento degli obiettivi
nazionali di crescita, produttività, occupazione e sostenibilità, delineati dalla strategia
Europa 2020.
Il sociale, gamba atrofizzata dell’Europa
459
stessa. Invece di essere una componente dell’integrazione economica, come nel periodo del Mercato comune, il sociale potrebbe allora
contribuire ad allentarla, dato che ogni Paese fa di tutto per ridurne
i costi e, di conseguenza, per ridurre quella componente di welfare
che era la caratteristica degli Stati fondatori. Ultimamente questo
rischio si è accentuato in ragione della priorità attribuita alla concorrenza e al ruolo del mercato. L’Europa sociale esiste, ma tende
a indebolirsi perché è percepita sempre di più come un costo e
non come un investimento sulle persone, al contrario di ciò che
proponevano Jacques Delors e Michel Dollé 7. Paradossalmente, da
questo punto di vista, la crisi, che ha costretto la maggior parte dei
Paesi – ad eccezione, purtroppo, di quelli con un debito pubblico
giudicato eccessivo – a gonfiare la spesa per la protezione sociale al
fine di bloccare la spirale depressiva della congiuntura, ha evidenziato l’importanza di mantenere o costruire le basi di un sistema
di welfare. Non resta che persuadere le autorità europee che questo
aspetto positivo vale anche per le persone, favorendone l’autonomia,
l’occupabilità e l’integrazione sociale.
7
Delors J. – Dollé M., Investir dans le social, Odile Jacob, Parigi 2009.
Testo originale «Le social, jambe atrophiée de l’Europe», in Projet, aprile 2014,
12-18. Traduzione di Cinzia Giovari. Neretti, riquadri e adattamento delle note a cura
della Redazione.
460
Denis Clerc
La riforma liturgica
e l’impegno sociale
Andrea Grillo
Professore di Teologia Sacramentaria, Facoltà Teologica
del Pontificio Ateneo S. Anselmo, <grilloreba@gmail.com>
approfondimenti
Rilettura pastorale di un rapporto delicato
La riforma liturgica promossa dal Vaticano II intendeva rendere più consapevole e attiva la partecipazione dei credenti
alla liturgia e colmare il divario progressivamente creatosi tra
la fede celebrata nelle chiese e l’azione nella società. A cinquant’anni di distanza la questione è ancora attuale. Come
va intesa la liturgia? Quale funzione svolge nel rapporto tra la
fede e la vita? Quali prospettive apre all’impegno dei cristiani
nella società la rinnovata comprensione della liturgia data dal
Concilio?
I
l recente anniversario della Costituzione conciliare Sacrosanctum
Concilium (SC) sulla liturgia ha portato alla ribalta, ancora una
volta, una questione decisiva per il cristianesimo: quale rapporto possiamo o dobbiamo istituire tra l’azione rituale 1 della
liturgia e l’azione dei cristiani sul piano etico, politico e sociale?
E quindi, come evitare il pericolo di autoreferenzialità della liturgia,
come pure quello opposto e almeno altrettanto grande di una sua
mera riduzione strumentale?
In una formula divenuta ormai classica, la SC aveva affermato
chiaramente che «la liturgia è il culmine (culmen) verso cui tende l’a1 L’azione rituale è il linguaggio complesso, verbale e non verbale, mediante il
quale libertà umana e grazia divina entrano in rapporto, valorizzando ogni livello della
esperienza (sensoriale, morale, intellettuale e razionale) per vivere una comunione
più profonda.
Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (461-469)
461
zione della Chiesa e, al tempo stesso, la
fonte (fons) da cui promana tutta la sua
energia» (n. 10). Parlare della liturgia
in termini di culmen et fons evidenzia
il suo ruolo complesso e fondamentale:
essa è nello stesso tempo a monte e a
valle rispetto a ogni altra azione, esperienza e compito ecclesiale. In questa
prospettiva, la liturgia non è anzitutto qualcosa che la Chiesa gestisce e
di cui è “padrona”, quanto piuttosto è la Chiesa a essere frutto
della liturgia (cfr FUCI 2005, 41-50). Ciò apre immediatamente a
una ulteriore riflessione che tematizza esplicitamente in che modo
le “altre azioni” della Chiesa e dei cristiani possano rinnovarsi a
partire dall’azione rituale. E questo senza pretendere alcun automatismo, ma anche senza chiudere i riti in una presunta e presuntuosa
autosufficienza.
Per rispondere a queste domande, preferiamo non tanto presentare le novità introdotte dal Concilio, frutto di un lungo percorso
di riflessione avviato dal Movimento liturgico, quanto ragionare a
partire dai dibattiti e dalle pratiche ad esso successivi. Di certo l’attuazione della SC ha cambiato il modo
Con l’espressione Movimento liturgico (ML)
di vivere i momenti liturgici, ma queci si riferisce ad alcuni teologi e liturgisti,
sto cambiamento quale ripercussione
attivi in particolare in Francia, Belgio e
ha determinato sul piano sociologico,
Germania, che all’inizio del XX secolo si
sul modo di concepire la Chiesa e il suo
adoperarono perché vi fosse una parteciimpegno nella società? In altri termipazione più attiva e consapevole dei fedeli
ni, come comprendiamo oggi il ruolo
alle celebrazioni liturgiche.
decisivo che può essere svolto dal rito
liturgico sia nei confronti della fede nel Mistero dell’incarnazione,
passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo Figlio di Dio (nel seguito dell’articolo ci riferiremo a questo Mistero usando il termine
Evento pasquale o, più semplicemente, Evento), sia nel suo rapporto
con la vita quotidiana dei credenti in tutte le sue sfumature, compreso anche l’impegno politico e sociale?
Ci auguriamo che il percorso tracciato in queste pagine aiuti ad
approfondire l’interrogativo sulla funzione che il rito è chiamato
ad espletare nella relazione tra la fede e la vita. Una funzione che,
in realtà, risulta così poco decisiva agli occhi di molti che, magari con buone intenzioni, finiscono per valorizzare in maniera
esclusiva l’uno o l’altro polo, senza cogliere il ruolo di mediazione
proprio del rito, che apre un modo diverso di stare nella Chiesa e
nel mondo.
La Sacrosanctum Concilium, votata il 4 dicembre 1963, è il primo documento adottato dal Concilio Vaticano II. Preceduta e
preparata da un ampio dibattito, introduce
una riforma liturgica generale per assicurare la partecipazione attiva del popolo di
Dio all’azione rituale. L’elemento che più
si ricorda di questa riforma è il passaggio
dalla celebrazione in latino a quella nelle
lingue parlate nei vari Paesi.
462
Andrea Grillo
approfondimenti
1. La liturgia è un optional?
Se l’Evento pasquale è già nella vita e la vita già comunica
a questo Evento, quale ruolo può avere la liturgia, e anzitutto l’eucaristia, che non sia secondario, accessorio e comunque
dispensabile? La diffusa difficoltà a concepire la funzione della liturgia si mostra in modo esemplare nel bisogno di introdurre una
duplice sottolineatura: il rito non è né l’Evento pasquale né la vita.
Oggi dobbiamo avere il coraggio di chiederci: una volta che avessimo ribadito questa affermazione negativa con tutta la forza necessaria, non avremmo forse già definitivamente squalificato la delicata
funzione che il rito liturgico svolge proprio perché quell’Evento resti
ancora evento di questa nostra vita e perché la nostra vita comunichi
profondamente proprio a quell’Evento? Per poter dare una risposta
fondata a questa domanda è necessario passare in rassegna alcune
possibili interpretazioni per vagliarne la bontà.
a) Posizioni riduzionistiche
A prima vista, potrebbe sembrare che il rapporto più importante – cioè quello tra la Pasqua e la nostra esistenza – abbia già
una sua relazione profonda, mentale od operativa, che la liturgia
rischia semplicemente di appesantire, di solennizzare o addirittura
di ostacolare. La liturgia si incaricherebbe soltanto di esprimere una
esperienza che fondamentalmente si fa altrove rispetto allo spazio
e tempo che essa determina, che può accadere ovunque e sempre
piuttosto che nel “qui ed ora” del rito. Proprio per questo la liturgia
sperimenterebbe una sua costitutiva inessenzialità nei confronti del
vero rapporto, già esistente e in qualche modo autosufficiente, tra
Evento della Pasqua e vita storica della comunità. Qui ci troviamo
al centro di un problema che non è soltanto pratico, ma riguarda
piuttosto il ruolo che il culto sacramentale esercita perché la fede in
Cristo Signore possa restare un atto fondamentale della vita, anche
nella sua determinazione storico-sociale.
Da un altro punto di vista, potrebbe apparire che il rito liturgico
abbia un rapporto diverso con l’Evento pasquale rispetto a quello
che ha con la vita. Esso sarebbe una sorta di dato acquisito, assicurato dalla tradizione, dalla sua struttura collaudata e ripetuta, dai riferimenti interni e dalla sua stratificazione. Invece, il rapporto con la
vita dipenderebbe in ogni atto di culto da una buona volontà, quasi
fosse un optional e una specie di aggiunta a ciò che il rito realizza
di per sé in modo quasi autonomo e staccato rispetto al quotidiano.
A uno sguardo più attento, però, anche questa visione risulta assai
manchevole e bisognosa di essere corretta. Il rito liturgico è se
La riforma liturgica e l’impegno sociale
463
stesso solo se mantiene strutturalmente il doppio rapporto con
l’Evento pasquale e con la vita, se mette in comunicazione questi due poli. Aver perduto questa percezione delle cose, aver creduto
che rito ed Evento dialoghino indipendentemente dalla vita, è una
delle ragioni della crisi che ha fatto sorgere, all’inizio del XX secolo, la questione liturgica, mettendo così in moto quella riflessione
sulla che, attraverso il Movimento liturgico, ha portato alla riforma
liturgica del Vaticano II.
Per superare queste aporie sono state proposte e praticate nel
tempo diverse risposte che non sempre si sono rivelate all’altezza.
Spesso si è reagito alla difficoltà del rito di essere in rapporto con
la vita e con l’Evento con un certo semplicismo, soprattutto con
l’illusione che questo rapporto potesse essere diretto e immediato,
quasi fosse sufficiente, per così dire, “mettere la vita nel rito” per
risolvere l’imbarazzo.
Un’altra risposta inadeguata è stata quella di pensare che il rapporto della vita quotidiana con l’Evento pasquale fosse concepibile
nei termini di un “farsi presente”, un “rappresentarsi” dell’Evento
nella vita a cui poi ci si dovrebbe adeguare. Se così fosse, noi dovremmo pensare che si possa conoscere l’Evento prima di partecipare ad esso, e questo comprometterebbe irrimediabilmente non solo
la nostra liturgia, ma anche la nostra stessa fede. Se credere fosse
solo “rappresentarsi” il Mistero pasquale, e vivere fosse solo adeguare
l’esistenza a quella rappresentazione del Mistero, la liturgia, di nuovo, non potrebbe essere altro che un peso da portare, una tassa da
pagare o una convenzione puramente esteriore da sopportare.
b) Un mistero inesauribile
Per chiarire quanto appena detto, è utile fare riferimento all’esperienza delle relazioni tra uomini. Se si applicasse la modalità
semplicistica della rappresentazione nell’approccio agli altri, le conseguenze sarebbero spesso deleterie. Se quando ci troviamo di fronte
a un altro riteniamo di poterlo conoscere semplicemente pensandolo
interiormente, oppure facendo qualcosa insieme, il suo mistero ci
rimane irrimediabilmente nascosto. Pensiamo di dominarlo, ma
in realtà ne restiamo fuori giudicandolo o strumentalizzandolo.
Se vogliamo aver parte al mistero di un altro, dobbiamo invece
intrecciare “riti” con lui: salutarlo, parlargli, ascoltarlo, fargli doni,
riceverli, mangiare, passeggiare, insieme ridere e piangere. Solo così
scopriamo sorprendentemente due effetti di questi riti:
– riusciamo a escludere di poter sapere tutto di lui, vale a dire
che più “celebriamo con lui” e più riconosciamo di non poterlo “giudicare”, di non poterlo ridurre a una nostra idea...
464
Andrea Grillo
approfondimenti
– possiamo sentire con lui una profonda connaturalità, coappartenenza, partecipando noi della sua vita e lui della nostra.
Il rito, nell’incontro interumano, è ciò che media l’evento di un
altro da me che in tal modo posso fare entrare nella mia vita. Ancor
più precisamente, l’evento che è l’altro da me mediato dal rito ci
conduce alla profondità insondabile della nostra esistenza come
mistero di grazia e d’amore.
Il medesimo ruolo svolge il rito liturgico per il rapporto con il
Mistero di Dio rivelatosi in Cristo. Se pensiamo di poter semplicemente rappresentare il Mistero nella teoria o di adeguarlo nella
prassi, ci illudiamo di possederne la totalità, ma ne restiamo fuori.
In questa prospettiva, la liturgia decade irrimediabilmente a semplice espressione esterna di questa nostra presunta certezza interiore. Se
invece accettiamo di entrare ritualmente in rapporto con esso, allora
cominciamo a farne parte: non possiamo più percepirne la totalità,
ma sappiamo di partecipare ad essa per grazia.
Solo la partecipazione all’Evento consente di conoscerlo adeguatamente, ossia di farne parte senza poterlo esaurire, lasciandolo restare nella sua insondabilità di Mistero. Celebrare il Mistero significa in questo caso porre le condizioni per dipendere
dall’Evento – ossia per stare in un rapporto di “comunione”
con il Dio fatto carne – e perciò poterne vivere la pienezza del
dono di grazia. Viceversa, se la conoscenza del Mistero fosse la
condizione della partecipazione, si verificherebbe immediatamente
l’impossibilità di una autentica partecipazione, poiché avremmo già
tutto il contenuto assicurato nella semplice rappresentazione e non
ci interesserebbe più far parte di esso nella celebrazione. L’idea che
la conoscenza e la vita – ridotte a intellettualismo e a moralismo
– possiedano “concettualmente” la chiave del Mistero è uno dei
modi con cui la fede può indebolirsi al punto tale da perdere ogni
aggancio con la vita.
2. Alcuni corollari
Questa comprensione rinnovata della funzione svolta dal rito nel
rapporto tra la vita del credente e l’Evento fondamentale della fede
che è il Mistero pasquale è feconda sotto altri due aspetti che toccano nel vivo l’esperienza quotidiana di ogni uomo: una comprensione
più matura della libertà umana e del tempo.
a) Libertà e dipendenza
Su questo aspetto è interessante richiamare il contributo del teologo gesuita Karl Rahner. In un suo famoso saggio sul simbolo
(Rahner 1965), egli aveva individuato uno spazio proprio e irriduLa riforma liturgica e l’impegno sociale
465
cibile alla dimensione simbolica nella fede. Alla base del suo ragionamento vi era la convinzione che la tensione dell’uomo a trovare
la propria essenza (in un linguaggio più piano, trovare se stesso)
passa per l’espressione in altro. Rahner poneva così un legame tra
esperienza ed espressione 2, che sfugge facilmente alla percezione
dell’uomo moderno.
La forte correlazione tra i poli della questione – trovare la propria
essenza ed esprimersi in altro da sé – risulta oggi estremamente problematica. Il motivo della incomprensione si deve alla dimenticanza
che per la realizzazione di sé è necessario il rapporto con l’altro. I
molteplici livelli in cui si sperimenta l’alterità sono vissuti oggi più
sotto il segno dell’opposizione che sotto quello della correlazione.
Così, solo per citare i casi principali, si contrappongono autonomia
ed eteronomia, novità e tradizione, libertà e autorità. Bisogna notare
che il recupero del ruolo del rito perché la fede cristiana sperimenti
un profondo rapporto tra Evento pasquale e vita privata, pubblica e
comunitaria del battezzato, deve riscoprire non l’opposizione, ma la
correlazione, il rapporto quasi genealogico tra questi elementi che
la cultura contemporanea tende a opporre. Che l’eteronomia sia
fonte di autonomia, che la tradizione garantisca la novità, che
l’autorità sia sorgente di libertà è ciò che il rito produce simbolicamente, rendendo possibile l’esperienza secondo cui l’Evento
– luogo originario di eteronomia, tradizione e autorità – può essere
effettivamente rilevante e decisivo per una vita che si voglia autonoma, nuova e libera.
b) Il rito tra tempo ordinario e tempo festivo
In parallelo con queste avvertenze rispetto alla correlazione tra
libertà e autorità, la mediazione del rito tra Evento pasquale e vita
può essere compresa anche con una adeguata riflessione sul tempo.
La cultura di oggi tende a percepire il rapporto con il tempo
non più nella scansione tra feriale e festivo, ma in quella tra
tempo del lavoro e tempo libero. Questa evoluzione culturale non
riesce più a collocare agevolmente il rito festivo all’interno della
alternativa secca tra lavoro e riposo. Questa mancanza è una delle
cause più profonde del tramonto del rito.
Bisogna invece scoprire che il rito liturgico non soltanto dice
qualcosa della nostra libertà, ma regola anche il senso del nostro
tempo in un modo assolutamente peculiare. Il tempo festivo è dono
2 La relazione tra esperienza ed espressione costituisce la “natura dell’uomo” tra
invisibilità e visibilità, tra pensiero e linguaggio, tra interiorità ed esteriorità. Nella
logica dell’attenzione al linguaggio (la “svolta linguistica”) maturata dalla filosofia del
Novecento, l’espressione è condizione della esperienza.
466
Andrea Grillo
approfondimenti
del tempo, riconoscimento ed esperienza della relazione entro cui
e grazie a cui il tempo si dischiude nell’uomo. Non c’è una vera
correlazione tra il tempo della vita e il senso del tempo rivelato
dall’Evento, ossia l’amore, se non ci lasciamo donare un tempo
diverso sia da quello del compito lavorativo, sia da quello della assenza di compito, del tempo libero. Entrambi questi tempi hanno
bisogno di un’interruzione rituale, che dica il loro senso e senza la
quale restano certo importanti, ma privi di anima. Bisogna quindi
riconoscere che il rito permette una continuità tra vita ed Evento
soltanto a patto di saper interrompere la vita per farla corrispondere
alla sua verità. L’impatto della riscoperta del festivo da parte di SC
(la domenica e l’anno liturgico) costituisce una risorsa fondamentale
per una lucida impostazione del rapporto della fede con il lavoro e
con la vacanza.
3. Il rito come mediazione
Il rito non è né l’Evento né la vita: questa affermazione da cui
abbiamo preso le mosse resta vera. Ma è proprio questo suo “essere
altro” a garantire un rapporto significativo tra vita ed Evento grazie
alla sua mediazione. Infatti, il nostro rapporto con la Pasqua e il
nostro rapporto con la vita non è mai diretto. Proprio questo livello –
quello del nostro rapporto con l’Evento della Pasqua e con la pienezza della vita – è il terreno su cui il rito diventa necessario e prezioso.
Il rito liturgico è perciò quella dimensione espressiva che configura e rafforza l’esperienza dell’Evento nella vita e l’esperienza della
vita nell’Evento. Ci fa entrare nell’Evento con la vita e nella vita alla
luce dell’Evento. Ma per farlo ha bisogno di uomini e donne disposti a interrompere la loro vita per lasciar spazio alla verità della loro
libertà come dono. Persone disposte a partecipare all’Evento non
solo nelle comode forme della rappresentazione o dell’adeguamento.
Il rito rinuncia sia a rappresentare sia ad adeguare, aprendo così a
una vita realmente inesauribile e disposta alla conversione continua,
capace di vivere le logiche dei diritti e dei doveri alla luce della logica
dei doni.
Se riformuliamo la questione partendo dal suo centro, ossia dal
Mistero di Cristo, dalla incarnazione, passione, morte e resurrezione
del Figlio di Dio, vediamo che questo Evento non è mai accessibile
direttamente, non si constata semplicemente come un fatto dimostrabile, ma vi si entra attraverso una narrazione e una celebrazione,
mediante una “parola” e attraverso un “sacramento”. Il narrare e
il celebrare non sono semplicemente due mezzi con cui rappresento l’Evento, ma piuttosto sono linguaggi, mediazioni, prospettive, che mi dispongono “entro” l’efficacia dell’Evento. In
La riforma liturgica e l’impegno sociale
467
altri termini, nella espressione rituale (molteplice e stratificata) l’esperienza non è semplicemente “espressa”, ma “sperimentata”. Come
dice il Concilio in SC 59, i sacramenti non solo «suppongono» la
fede come esperienza, ma anche «la nutrono, la irrobustiscono e la
esprimono», cioè la edificano esprimendola nelle forme complesse
dell’azione rituale.
Dire «Credo in Dio, Padre Onnipotente» è già rito, perché
originale mediazione dell’evento nel quotidiano e del quotidiano
nell’evento. È già sempre una affermazione simbolico-rituale, perché esprime non il mio sapere o il mio dovere, la mia coscienza o
il mio impegno, ma il mio essere, il mio trovare me stesso soltanto
nella relazione a Cristo, il mio partecipare di Dio in Cristo. Questa
professione resta coerente con quanto dice solo quando ammette
di non poter dire tutto, proprio sul fondamento del fatto di essere
accolto nel Mistero della creazione e redenzione di Dio, di far parte
del mistero stesso che Dio è e che in Cristo si è rivelato.
Il rito liturgico non è allora una sorta di appesantimento del
rapporto diretto tra Cristo e il quotidiano, ma piuttosto l’elemento unificante, il medium, che mette in comunicazione i due
poli nella comunione che si attua tra l’“una volta per tutte” e il “qui
e ora”. Ad esempio, la forma del “pasto” permette al “sacrificio della
croce” di entrare nella quotidianità del bisogno dell’uomo e, nello
stesso tempo, consente al bisogno autoreferenziale del cibo di aprirsi
alla relazione originaria, che lo fonda e lo trascende. Per realizzare
questo, però, il rito deve assumere tutta la ricchezza del proprio
bagaglio di linguaggi, codici e messaggi, perché proprio in questo
modo – con tutti questi elementi che lo costituiscono – vede realizzato l’essenziale e crede presente quello che sta celebrando.
Il rito modifica il quotidiano, distinguendolo e salvandolo dal
banale, poiché ne allontana la ripetitività e così disvela la libertà nella sua sostanza di grazia; nello stesso tempo ristruttura il rapporto
con l’Evento, distinguendolo e salvandolo dalla lontananza, poiché
ne avvicina la verità e rende possibile parteciparvi, scoprendo nella
grazia una libertà. Per questo tutti gli elementi del rito, comprese
tutte le dimensioni linguistiche che corrispondono a profondi bisogni dell’uomo, realizzano quella presenza della sostanza che non è
soltanto “essere ciò che vediamo”, ma anche “ricevere quel che si è”,
dono del corpo di Cristo che riceviamo ed edificazione della Chiesa
che siamo.
4. Per una diversa esperienza ecclesiale e sociale
Alla luce di questo breve percorso, si coglie come il testo di SC
abbia impostato una diversa esperienza ecclesiale e spirituale, un
468
Andrea Grillo
approfondimenti
Concilio Vaticano II, Costituzione Sacrosanctum
Concilium sulla sacra liturgia, 1963 (SC).
FUCI (2005), Il Concilio davanti a noi, AVE,
Roma.
Grillo A. (2003), La nascita della liturgia nel
XX secolo. Saggio sul rapporto tra Movimento
Liturgico e (post-)Modernità, Cittadella, Assisi.
Grillo A. – Ronconi M. (2009), La riforma della
Liturgia. Introduzione a Sacrosanctum Concilium, Periodici San Paolo, Milano.
Rahner K. (1965), «Sulla teologia del simbolo»,
in Id., Saggi sui sacramenti e sull’escatologia,
Paoline, Roma, 51-107.
La riforma liturgica e l’impegno sociale
risorse
modo diverso di stare nella Chiesa e nel mondo. Tale mutamento,
tuttavia, rinuncia alle “vie brevi” proprio mediante il gesto profetico
con cui si annuncia che l’intelligenza dei riti è decisiva per «tutta
l’azione della Chiesa» – anzi, ne costituisce il «culmen et fons» – ma
tale intelligenza avviene grazie al rito stesso (SC, nn. 10-11). Potremmo dire che la sollicitudo della Chiesa per la “res socialis”, che
risale alla fine del XIX secolo con il rullo di tamburi della Rerum
novarum del 1891, acquista a partire da Sacrosanctum Concilium un
orizzonte più maturo.
La sollecitudine pastorale diventa consapevole che inevitabilmente l’attenzione per le res novae passa attraverso una modalità di
partecipazione al “culmine” e alla “fonte” dell’agire ecclesiale che
la liturgia incarna storicamente con l’apporto di una pluralità di
linguaggi concorrenti. Riuniti nell’assemblea che celebra, tutti
i battezzati vivono l’esperienza di un dono che “parola” e “sacramento” rendono presente e attuale in modo originario, senza riduzioni o strumentalizzazioni. Questa esperienza illumina
l’agire dei cristiani sul piano etico, politico e sociale, tocca la lotta
tra i diritti e i doveri che riguarda ogni generazione. La percezione
acuta del dono può esprimersi solo trasgredendo i linguaggi ordinari e sovrapponendo le espressioni più diverse: cantando e tacendo,
muovendosi e arrestandosi, levandosi in piedi o inginocchiandosi
nel raccoglimento, ascoltando religiosamente o acclamando nella
gioia. Tutto questo non riduce o supera la lotta tra diritti e doveri,
ma la contestualizza in una comunione originaria e definitiva da cui
e verso cui muove il corso della storia.
Alla ambizione pastorale del Concilio Vaticano II corrisponde
una Chiesa che, per vivere la pienezza della propria vocazione sociale, sa sempre iniziare e finire sul livello simbolico della azione
rituale, interpretando così profeticamente e sacerdotalmente la condizione storica della propria regalità. In altri termini, una Chiesa
che, nel suo culmine e fonte liturgico, scopre il primato di un centro
di Cristo e dell’alter Cristus che è “periferia”.
469
scheda / film
A
Lunchbox
di Ritesh Batra
India, Francia, Germania,
USA 2013
Academy 2
Drammatico, 105 min
Ila ogni giorno cucina il
pranzo per il marito, lo
ripone in una lunchbox e
lo consegna a chi glielo
porterà, che per errore
lo fa avere ad un’altra
persona, Saajan. Suo
marito non si accorge di
ricevere cibo preparato
da un’altra donna mentre
Sajaan inizia a rispondere
ai biglietti che Ila inserisce
nella lunchbox, dando
il via a un epistolario
destinato a incidere sulle
vite di entrambi.
470
Saajan Fernandes, scontroso impiegato dell’ufficio reclami di un’azienda, prossimo alla pensione dopo 35 anni di
grigio ma onorato servizio, cominciano ad arrivare i succulenti
manicaretti che Ila cucina per il marito. La donna si rende
conto dell’errore e invece di chiarire l’equivoco col fattorino,
manda insieme al pranzo un biglietto per il misterioso destinatario. Fernandes risponde in maniera abbastanza fredda,
dando però il via a un epistolario destinato a cambiare la
vita dei protagonisti, due persone con dei vuoti da riempire.
Fernandes infatti è vedovo e conduce un’esistenza piuttosto
ritirata, mentre Ila si sente trascurata dal marito e neanche i
pasti che lei cucina con infinita cura, quasi in una versione
indiana e neorealista del Pranzo di Babette o di Come l’acqua
per il cioccolato, riescono a farle ritrovare la strada per il cuore
del proprio (si scoprirà infedele) consorte. Ma i treni sbagliati
possono arrivare nelle stazioni giuste e forse sarà il cuore di
Fernandes ad essere raggiunto da Ila. Prende così vita un
lungo scambio di messaggi, che si trasformerà in un’affettuosa amicizia, fatta di brevi confessioni sulle loro solitudini,
sulle loro paure, sui ricordi e sulle loro piccole gioie. Scriversi
diventerà un modo per sentirsi vicini in una metropoli come
Mumbai che spesso distrugge speranze e sogni. La consegna del pasto sarà il rito quotidiano che li unirà.
Lunchbox è un film sobrio, delicato e originale diretto dall’esordiente Ritesh Batra: una regia che prende immediatamente le distanze dalla commedia tipica di Bollywood, scartando
alla radice eccessi, ridondanze e fatuità. L’autore sceglie infatti di concentrarsi sugli aspetti più profondi della narrazione, privilegiando l’interiorità dei personaggi, il loro bisogno di
comunicare e, soprattutto di sentirsi meno soli. Quello che gli
preme restituire, anche attraverso la costruzione della messa in scena, è il loro intimo sentire, il loro disagio di fronte a
un’esistenza vuota e sempre uguale. Così il loro agire minimale – per lo più costituito dalle abitudini culinarie di lei e da
quelle professionali di lui – si coniuga con il peso e il significato della parola scritta e della riflessione; e parallelamente si
alterna, nel montaggio, alle riprese della vita cittadina, caotica
e opprimente. La macchina da presa interviene dunque nel
sottolineare ed isolare l’unicità della loro relazione epistolare,
offrendo uno spessore, umano e spirituale, che risalta sullo
sfondo metropolitano, freddo e indifferente. Un distacco che
si esprime anche nei colori: tonalità di grigio e di colori scuri
caratterizzano le immagini d’ambiente; mentre sfumature più
calde, accoglienti e vivaci riguardano il cibo, nelle sue varie
articolazioni. Lunchbox è un film in cui il rito quotidiano del
cucinare e del pranzo viene elevato a strumento di conoscenza reciproca, di partecipazione emotiva, di vitalità, un vero e
proprio linguaggio relazionale, che in un quotidiano “spendersi per l’altro” trova la strada di un’insospettabile apertura
degli orizzonti.
Andrea Lavagnini
punti di vista
Cattolici in politica:
minoranza creativa
nella società italiana
Giorgio Campanini
Professore f.r. di Storia delle dottrine politiche
nell’Università di Parma
Quanto incide la tradizione cattolica sulla società del nostro
Paese? E in politica i cattolici sono davvero una minoranza,
e di che tipo? A tali quesiti cerca di dare una risposta questo
contributo, tracciando le linee principali della storia della presenza cattolica in politica nel corso dei 150 anni di vita della
nostra Repubblica, dalla Breccia di Porta Pia a oggi, e indicando alcune piste di riflessione per tutti i cattolici impegnati.
L’
impegnativo e un poco provocatorio titolo di questo contributo fa riferimento al concetto di minoranza dei cattolici
nella attuale situazione della società italiana, ma di che tipo di minoranza si parla? Passiva e insignificante, oppure attiva e
creativa?
Da un primo punto di vista, si potrebbe affermare che in Italia
i cattolici sono ancora una componente maggioritaria del popolo
italiano: al di là del numero dei praticanti domenicali (tra il 20 e il
25% della popolazione), le tradizioni, il linguaggio, le arti e i costumi sono indicativi di questa presenza della Chiesa e dei cattolici (cfr
Melloni 2013 e Garelli 2007). L’Italia, anche quella parzialmente
secolarizzata di oggi, non è pensabile al di fuori della sfera di
influenza del cattolicesimo: chiunque abbia occasione di visitare
popoli di altra tradizione, dall’Africa alla Cina, non manca di rendersi conto dell’orma profonda che il cattolicesimo ha impresso nella
società italiana.
Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (471-480)
471
Tuttavia il processo di secolarizzazione in atto nel nostro Paese
da almeno 150 anni, e cioè dalla raggiunta unità politica, ha influenzato profondamente la società italiana; lo si constata soprattutto in due importanti ambiti: quello della cultura, al cui interno
la presenza cattolica, pure importante e significativa, può apparire
marginale, e quello del costume, con particolare riferimento alla sfera famigliare e sessuale, anche se i matrimoni religiosi, contratti in
forma cattolica, rappresentano ancora oggi un’ampia maggioranza 1.
Un particolare ambito di riflessione, al quale faremo soprattutto
riferimento, è rappresentato dalla politica. Qui si pone un duplice
problema, che può essere affrontato a partire da due diversi punti di
vista. I cattolici, in politica, sono realmente una minoranza? E
se di minoranza si può parlare, essa è marginale e passiva, oppure è
autenticamente creativa e, dunque, capace di incidere sulla società
italiana (cfr in proposito Sorge 2010, 65 e Turi 2014, 48 ss.)?
Si cercherà di rispondere a questi interrogativi, sempre a partire
dalla scelta di campo dichiarata in precedenza, e cioè che si farà
riferimento esclusivo alla presenza dei cattolici nella società e, più
specificamente, in politica.
Un necessario excursus storico
Per poter rispondere a questi interrogativi, si impone un rapido
excursus storico, riferito ai circa 150 anni che ci separano dall’Unità
d’Italia (1860) e dalla fine del potere dei pontefici (1870), cioè dalla
Breccia di Porta Pia, assunta dall’ideologia laicista come punto di
riferimento non solo della fine del potere temporale dei papi, ma
anche della (presunta) fine del cattolicesimo.
Questa tesi ha avuto una parvenza – ma solo una parvenza –
di credibilità per quanto riguarda gli anni che vanno dal 1870 al
1943, e cioè sino alla caduta del fascismo. In questa stagione di
circa settant’anni, in effetti, i cattolici sono stati sostanzialmente
assenti dalla vita politica (salvo la breve parentesi del Partito popolare di Luigi Sturzo dal 1919 al 1923), ma non certo dalla vita
sociale. L’amplissima messe di studi sul Movimento cattolico ha
posto in evidenza come siano state molteplici le forme di presenza
dei cattolici nella società: dalle cooperative alle società di mutuo
soccorso, dalle casse rurali alle amministrazioni comunali. Il non ex1 Si deve riconoscere che il processo di secolarizzazione, soprattutto da un decennio a questa parte, ha in parte scalfito l’antico legame tra Chiesa e famiglia (cfr
Campanini 2013b, 41 ss.). Resta però il fatto che negli anni Duemila i matrimoni
celebrati con rito civile, non pochi dei quali contratti da emigrati non cattolici, sono
stati poco più di un terzo del totale e che molti di questi – secondi matrimoni di
divorziati – sarebbero stati celebrati con rito religioso se la attuale disciplina della
Chiesa lo avesse consentito (cfr Donati 2012, 48 ss.).
472
Giorgio Campanini
punti di vista
pedit, ossia il divieto di partecipare at- Con il non expedit (“non conviene”) papa
tivamente alla vita politica, non esclu- Pio IX nel 1868 dichiarò inaccettabile per
deva una forte presenza nel sociale, che i cattolici italiani partecipare alle elezioni
politiche e, per estensione, alla vita politiin effetti si è verificata soprattutto nelle ca. Fu abrogato ufficialmente da Benedetto
Regioni del Settentrione, ma anche il XV nel 1919.
Mezzogiorno ha registrato significative esperienze, soprattutto in Campania e in Sicilia (cfr Traniello e
Campanini 1997 e Scoppola 2005).
A questo settantennio di apparente marginalità è subentrato un
cinquantennio (1943-1992) di forte protagonismo e, al limite,
di egemonia dei cattolici attraverso il partito della Democrazia
cristiana, di dichiarata ispirazione cattolica e a lungo appoggiato e sostenuto dalla stessa gerarchia ecclesiastica; la DC ha
svolto un ruolo fondamentale nella resistenza ai totalitarismi, sia
con la lotta partigiana sia, ancor più, con la resistenza passiva, il
soccorso ai perseguitati e l’aiuto alle popolazioni disastrate; nell’elaborazione della Carta costituzionale; nell’avvio della ricostruzione,
nella gestione di quella fase storica detta del “miracolo economico” (1950-1970) alla quale si guarda ancora oggi, anche da parte
dei critici di quella stagione, con ammirazione e nostalgia. La fase
terminale della DC, con i fenomeni di degenerazione accentuatisi
dopo la morte di Aldo Moro (1978) non può fare dimenticare i suoi
meriti precedenti: gli stessi fenomeni di corruzione che hanno caratterizzato quella stagione appaiono a non pochi osservatori ben poca
cosa di fronte al malcostume e alla corruzione che hanno caratterizzato spesso la cosiddetta “seconda Repubblica”. Si era pensato che
i cattolici al potere fossero la causa prima della corruzione, ma si è
dovuto constatare che il cambio della classe dirigente non ha affatto
eliminato il fenomeno, anzi, lo ha forse accentuato.
In sintesi, i circa 150 anni di storia che ci separano dall’Unità
possono essere definiti ora quelli dell’esclusione, ora quelli dell’inclusione. Siamo oggi di fronte a una nuova marginalità, quasi a un
nuovo non expedit (Bobba 2010)?
I cattolici minoranza politica?
La drammatica fine della DC ha indotto diversi osservatori a
decretare la fine di una forte presenza cattolica in politica, e specificamente nelle sue istituzioni rappresentative, nazionali e locali. Ma
le cose stanno veramente così? Anche prescindendo dalle conclamate
(ma spesso retoriche e strumentali) affermazioni di ossequio alla
Chiesa, al suo Magistero e alla sua Tradizione, si deve constatare
che la presenza dei cattolici nelle istituzioni non è mai venuta meno.
Si potrebbe quasi affermare che, se si tornasse a riunire i cattolici
Cattolici in politica: minoranza creativa nella società italiana
473
“osservanti” presenti nei diversi partiti, essi sarebbero ancora
la maggioranza relativa e quindi hanno un peso tutt’altro che
marginale. Perché, dunque, la sensazione diffusa della loro “insignificanza” o, comunque, marginalità?
La risposta è semplice e complessa nello stesso tempo: semplice,
poiché è evidente che presenze cattoliche frammentate e disperse
sebbene numerose non hanno la forza di una compagine unitaria
e compatta; complessa, perché questa frammentazione corrisponde
a un nuovo contesto storico che i cattolici non hanno il potere di
modificare e che in Occidente, e comunque in Italia, deriva dalla
conclusione del periodo delle contrapposizioni ideologiche, con l’inizio della stagione delle contrapposizioni programmatiche.
A lungo gli italiani si sono divisi su “grandi questioni”: il rapporto Stato-Chiesa, le forme della democrazia, la collocazione del Paese
nel contesto internazionale, risolte la prima grazie al Concordato del
1929 e alle successive intese del 1984, la seconda con l’approvazione
della Carta Costituzionale che fonda i diritti della persona; la terza
con l’ingresso dell’Italia nell’Europa unita.
Non manca chi – interpretando in modo estremistico alcune
sollecitazioni e messe in guardia del Magistero – ritiene di poter
identificare una formazione politica cattolica sulla base della discriminante rappresentata dalle questioni etiche, da quelli che vengono
definiti “principi non negoziabili” (cfr Campanini 2013a), espressione che per altro non ricorre nei documenti del Magistero della Chiesa, ma appare assai arduo identificare una formazione unitaria di
cattolici sulla base di questioni come la regolazione delle convivenze
o le decisioni relative al “fine vita”. Senza contare che una siffatta
formazione avrebbe inevitabilmente una connotazione negativa, e
cioè quella della difesa di alcuni valori, ma non avrebbe alle spalle
alcun progetto reale di società.
I nodi da sciogliere
Il terreno sul quale si giocherà il futuro del Paese, e sul quale
sarà giudicata la creatività dei cattolici, è vasto e complesso, ma vi
sono tre questioni fondamentali da affrontare e, possibilmente, da
risolvere.
La prima è di natura economica, ove si pone il problema se puntare su uno Stato forte e interventista oppure su uno Stato che stimoli e regoli l’economia di mercato a partire dalla consapevolezza
che il problema prioritario da risolvere è quello della disoccupazione,
soprattutto femminile e giovanile.
La seconda questione riguarda il rapporto fra Stato e autonomie
locali (Regioni, Province, Comuni) sia sotto il profilo della legisla474
Giorgio Campanini
punti di vista
zione sia dal punto di vista dell’allocazione delle risorse disponibili,
ovvero in quale misura debbano essere assegnate allo Stato o agli
enti locali, con una versione ora più forte ora più debole del principio di sussidiarietà.
L’ultima questione aperta è il ruolo dell’Italia in Europa e, in
generale, nella comunità internazionale: se il suo contributo alla pace e allo sviluppo debba avvenire attraverso missioni militari a fini
umanitari o se invece debba essere privilegiata la via della cooperazione allo sviluppo, valorizzando, in questa prospettiva, energie
intellettuali e conoscenze scientifiche spesso abbondanti in Italia e
qui impossibilitate a esprimersi. Sullo sfondo si colloca il contributo
che l’Italia può dare alla pace nel mondo, nella linea indicata dai
periodici messaggi dei pontefici.
Ci si è limitati all’indicazione di alcune grandi tematiche, sia
perché stilare l’elenco dei problemi del Paese significherebbe compilare un lungo e a volte malinconico cahier de doléances, sia perché
l’indicazione delle priorità non può essere opera individuale, ma
implica l’incontro e la collaborazione di diverse competenze. Né è
un caso che da molti e da molto tempo si invochi la redazione di un
manifesto-programma come quello che, alla vigilia della caduta del
fascismo, venne stilato a Camaldoli nel 1943 e pubblicato a Roma
nel 1945 sotto forma di “Codice”.
Il conflitto delle interpretazioni
Come avviene in ambito filosofico e teologico, anche in politica
si è di fronte al “conflitto delle interpretazioni”: a partire dallo
stesso patrimonio di valori che si esprime nel cattolicesimo, si è
di fronte a diverse letture degli stessi problemi e, conseguentemente, a differenti proposte politiche. Riprendendo le tematiche
in precedenza evidenziate, come affrontare i problemi dell’econoIl Codice di Camaldoli è un documento
(titolo originale Per la comunità cristiana)
emerso dall’incontro che si tenne dal 18 al
24 luglio 1943 presso il monastero benedettino di Camaldoli, sotto la guida di mons.
Adriano Bernareggi, assistente ecclesiastico
dei laureati dell’Azione Cattolica, dove un
gruppo di intellettuali – laici e religiosi – cattolici si riunì con lo scopo di confrontarsi e
riflettere sul magistero sociale della Chiesa,
sui problemi della società, sui rapporti tra
individuo e Stato, tra bene comune e libertà
individuale. Il 25 luglio e i successivi av-
venimenti modificarono il piano di lavoro,
che prevedeva una ampia partecipazione;
la stesura fu affidata a Sergio Paronetto,
Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni, Giuseppe Capograssi che la completarono nel
1944. Una delle caratteristiche essenziali
del “Codice”consiste nel porre la giustizia
sociale tra i fini primari dello Stato, così
come la salvaguardia della libertà, istanze
che influenzarono gli intellettuali cattolici
dell’ala sociale della DC e la stessa stesura
della Carta Costituzionale (cfr Baietti e Farese 2012).
Cattolici in politica: minoranza creativa nella società italiana
475
mia? Puntando sul pubblico o sul privato? Come realizzare concretamente il principio di sussidiarietà? Come contemperare la “scelta
pacifista” insita nella natura profonda del messaggio cristiano con il
doveroso impegno a favore delle vittime della violenza?
Interpellate su questo insieme di problemi, le comunità cristiane
darebbero inevitabilmente risposte diverse e proporrebbero conseguentemente soluzioni differenziate: analogamente i cristiani che
siedono in Parlamento o nei Consigli regionali e locali si dividerebbero. Come sarebbe possibile militare nello stesso partito se, pur
nell’accordo su valori fondamentali, si optasse per soluzioni operative profondamente diverse?
Da questo punto di vista sembra si debba affermare che – almeno nella normalità dell’agire politico e fatta salva la necessaria unità
sui temi etici – la diversità dei punti di vista e delle conseguenti
decisioni operative non è l’eccezione, bensì la regola: quanto è avvenuto in una situazione di emergenza, come nella stagione della
guerra fredda e del prolungato infeudamento di varie forze politiche
all’ideologia marxista e alla prassi del comunismo, è stato il risultato
di una contingenza eccezionale, fortunatamente superata. È possibile che, a proposito dell’attuale crisi economica, possa essere invocato
il caso dell’eccezionalità e non si può escludere che di fronte alla
gravità del problema i cattolici ovunque schierati trovino, felicemente, un punto di incontro e di convergenza per il bene del Paese;
ma questa unità non potrebbe diventare la regola una volta che il
quadro generale del Paese fosse sottratto all’assillo dell’emergenza.
La pluralità delle scelte politiche dei cattolici è d’altra parte ormai
la linea prevalente in pressoché tutti i Paesi dell’Occidente (esclusa
la Germania, almeno in parte), dagli Stati Uniti alla Francia, dalla
Gran Bretagna alla Polonia. E non è un caso che Paesi che hanno
conosciuto una stagione, talora assai lunga, di “unità politica” dei
cattolici, li vedano ora schierati su posizioni diverse. Ciò che importa, alla fine, non è tanto il restare insieme a ogni costo, ma semmai
il pensare insieme a un comune progetto di società: affrontando i
problemi senza essere condizionati dalle reciproche “appartenenze”,
con la piena disponibilità al dialogo e all’accettazione di posizioni
che inizialmente erano state rifiutate in via pregiudiziale. È a questo
livello che potrebbe essere raggiunta dai cattolici impegnati in
politica non una compiuta unità ma una convergenza pratica,
non solo in ordine ad alcuni valori condivisi ma anche, non in
pochi casi, in ordine alle soluzioni concrete da adottare.
Le comunità cristiane, nelle loro varie articolazioni, potrebbero
essere il luogo, doverosamente “neutrale” quanto alle scelte di campo, nel quale realizzare questo confronto tra cattolici. Si potrebbe
476
Giorgio Campanini
punti di vista
qui verificare che quanto unisce è assai più di quanto divide (cfr
Alici 2013).
Quali potrebbero essere i luoghi di questa possibile “nuova creatività”, che riprenda, nel contesto del XXI secolo, le intuizioni della
migliore cultura cattolica, dal “Codice di Camaldoli”, così attento
alla giustizia sociale, alle grandi intuizione del sindaco di Firenze
Giorgio La Pira, pioniere della riconciliazione tra i popoli e dell’impegno per la pace?
La risposta a questo interrogativo implicherebbe un’analisi ad
ampio raggio dei problemi della società italiana, pertanto ci si limiterà qui a individuare tre nodi fondamentali del messaggio sociale
cristiano, oggetto di ripetuti interventi del Magistero sociale della
Chiesa e riconducibili alla fondamentale categoria di bene comune.
Il primo ambito di questo progetto di rinnovata creatività
dei cattolici è quello della politica internazionale, in duplice
prospettiva: quella dell’impegno per la pace e quella della lotta alla
fame, all’ignoranza e al sottosviluppo.
È ben noto l’apporto significativo e determinante fornito dai cattolici alla pacificazione in Europa, soprattutto attraverso l’impegno
per l’Europa unita. Questo ideale appare oggi sbiadito, se non del
tutto oscurato, per le cadute efficientistiche e burocratiche che le
istituzioni europee hanno conosciuto, soprattutto da due decenni a
questa parte. Ma è possibile, ed è compito preminente dei credenti,
rifondare le radici ideali e spirituali dell’Europa e farne un punto essenziale di riferimento per la collaborazione tra i popoli e per la pace
nel mondo. Oltre tutto, su questo terreno sono possibili larghe convergenze fra credenti e non credenti (cfr Simone 2008 e Alici 2008).
Un secondo campo di impegno è quello della giustizia
sociale, esso pure antico e sempre al di là della forma-partito. Si sta
facendo strada nel mondo una economia umanistica che sta conoscendo una stagione felice, dall’India del premio Nobel per l’economia Amartya Sen agli Stati Uniti di un altro vincitore del medesimo
riconoscimento, Joseph Stiglitz, e che anche in Italia ha conosciuto
significative espressioni nell’ambito della cosiddetta “economia di comunione”, con il superamento della pura e autoreferenziale economia
di mercato, finalizzata esclusivamente al profitto, in nome di un’economia partecipata e solidale, preoccupata non soltanto dell’efficienza
produttiva ma anche e soprattutto delle relazioni umane; un’economia che non rinuncia all’efficienza ma che non fa esclusivamente
del profitto la categoria-chiave del suo operato (cfr Bruni 2008 e
Zamagni 2008). Si tratta, per ora, di piccole isole, quasi di una sorta
di spina nel fianco del dominante modello capitalistico, ma di esperienze che vanno diffondendosi e che del resto sono sollecitate dalla
Cattolici in politica: minoranza creativa nella società italiana
477
crescente consapevolezza, acuita dalla crisi, dell’inevitabile fine di un
modello di economia consumistico e distruttivo dell’ambiente e delle
relazioni umane. L’idea che progresso economico e aumento del PIL
vadano di pari passo con il soddisfacimento dei bisogni fondamentali
e con il conseguimento di quella che, sinteticamente, si può definire
“felicità collettiva”, trova sempre meno sostenitori e si va facendo
strada la convinzione che un’economia della quantità debba cedere il
passo a un’economia della qualità: e che cos’altro è tutto ciò, se non la
ripresa della grande tradizione patristica e medievale, a partire dalla
modernità travolta dalla cultura e dalla prassi del capitalismo?
Passando dalla sfera del pubblico (politica ed economia) a
quella del privato, o meglio, dell’apparente privato, un ruolo
determinante è chiamata a svolgere un’istituzione oggi rimessa
drammaticamente in discussione dall’esplosione dei diritti (o sedicenti tali) degli individui, la cui protezione è sempre più frequentemente estesa anche in ambito legislativo: la famiglia. Dire “famiglia” non è dire uso libero e disinibito in tutte le sue forme di
una sessualità orientata esclusivamente alla relazione e al piacere
dei singoli individui, bensì evocare un progetto di vita fondato su
due pilastri essenziali, quello della stabilità – perché solo nel tempo
la relazione di coppia può esprimere la sua potenzialità creativa e
aprirsi alla generazione, di per sé stessa un impegno a lunga durata – e quello della solidarietà, del reciproco servizio e anche della
capacità di sacrificio, fondamento di quelle energie solidaristiche
che le attuali società occidentali stanno largamente perdendo e che,
non a caso, finiscono per mettere in crisi la famiglia stabile fondata
su un amore capace di affrontare e superare la sfida della durata.
Un “modello” di famiglia, dunque, che è strutturalmente, per il suo
stesso esistere, una scuola di solidarietà e di impegno per la giustizia
che nessun’altra realtà può sostituire (cfr Donati 2012 e CEI 2011).
Del resto, come essere solidali e aperti se la relazione di coppia si
pone nel segno di una esclusiva gratificazione reciproca, lasciando
fuori dal suo orizzonte ogni “terzo”, e cioè molto spesso il figlio e,
in ogni caso, la società?
Per una nuova creatività politica
L’attuale situazione dell’Italia e del mondo dovrebbe rappresentare per i cattolici italiani una forte sollecitazione a tornare a “pensare”
politicamente, come diceva Giuseppe Lazzati (1988). La crisi della
DC è intervenuta quando la frenesia del “fare” ha eclissato l’attitudine a pensare: da questo punto di vista, la tragica fine di Aldo
Moro (1978), un uomo che, ostinatamente e cocciutamente, richiamava l’importanza e il valore del pensiero, è emblematica: per una
478
Giorgio Campanini
punti di vista
lunga stagione la politica dei cattolici Sotto la responsabilità della Giunta centrasi è trascinata sull’onda del passato le dell’Azione Cattolica e in accordo con la
senza riuscire a trovare vie nuove e Santa Sede, nel 1925 si costituisce l’Istituto cattolico di attività sociali (ICAS), per
conseguentemente impantanandosi garantire alle istituzioni sociali “bianche”
nella pura gestione del potere.
quegli spazi che la Confederazione italiana
La nuova situazione del mondo – dei lavoratori (CIL) sembrava ormai incae non soltanto gli inquietanti scenari pace di tutelare e che, oltre a promuovere
dell’economia – pongono ai cattolici attività di studio, ebbe il compito di curare
l’organizzazione delle Settimane sociali dei
l’istanza di ritornare a pensare, indivi- cattolici italiani.
duando momenti e luoghi adatti. In altre stagioni l’Istituto cattolico di attività sociali (ICAS) ha svolto un
ruolo di grande importanza. Non sono mancati poi, in questi anni,
dalle periodiche Settimane sociali dei cattolici ai Convegni di Todi,
interessanti esperimenti in questa direzione; non si è riusciti però
a creare luoghi specifici per l’esercizio di quel discernimento che è
essenziale per la politica come lo è per l’etica (cfr Campanini 2010).
Quale può oggi essere la via da seguire, in modo anche da promuovere e coordinare una rete fra i vari centri di ricerca di ispirazione
cristiana che non mancano nel nostro Paese? Il ricco Magistero sociale
della Chiesa dovrebbe rappresentare il fondamento di questa riflessione comune, ma la sua concreta lettura nello specifico contesto politico
italiano non potrebbe che essere responsabilità di chi vi è direttamente
impegnato, in linea con quella legittima “autonomia” della politica
sottolineata dal Concilio Vaticano II (cfr Savagnone 2013).
Si tratta dunque di pensare politicamente, insieme, per poi
agire politicamente, anche se divisi. Passa per questa via l’auspicio
di una nuova e felice stagione dell’impegno politico dei cattolici, che
sia volto soprattutto a ridurre e, se possibile, a debellare, l’inaccettabile scandalo della povertà in un Paese e in un mondo che grazie
alle acquisizioni della tecnica potrebbe avere ragione di questo male
antico. A questa priorità dell’impegno politico dei cattolici ci ha fortemente richiamato papa Francesco nella sua esortazione apostolica
Evangelii gaudium, allorché, a partire dalla denuncia dello scandalo
della povertà, ha affermato: «Ogni cristiano e ogni comunità sono
chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri» (n. 187), sottolineando che questo è uno dei compiti
primari della politica. «Prego il Signore» – conclude ancora su questo punto il Pontefice – che ci regali più politici che abbiano davvero
a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri» (n. 205). Questa
nuova generazione di politici, tuttavia, non potrà cadere dall’alto:
potrà soltanto essere il frutto di un’attenta analisi dei problemi e di
una lucida individuazione delle soluzioni. Alla fine, è questo uno dei
fondamentali banchi di prova della “creatività” politica.
Cattolici in politica: minoranza creativa nella società italiana
479
risorse
In una cultura come quella italiana ancora impregnata di valori
cristiani, pur se non esplicitamente percepiti come tali, i cattolici
pienamente appartenenti alla comunità cristiana sono una minoranza: tutte le indagini statistiche e sociologiche vanno in questa direzione. Ma vi sono fondamentalmente due modi di essere minoranza:
quello “catacombale”, il solo possibile ieri come oggi dove l’ambiente
esterno è ostile e a volte persecutorio, quello lucido e aperto tipico di
tutte le minoranze attive e propositive, consapevoli di essere portatrici di valori inconsapevolmente condivisi da molti altri, da quanti
forse senza rendersene conto attendono un orientamento per il loro
incerto cammino.
Al di là di eventuali scelte di campo partitiche, i cattolici italiani – ora anche con la forte sollecitazione del magistero di papa
Francesco – sono chiamati a essere questa minoranza creativa e
propositiva, interprete dell’anima profonda del Paese, incunabolo di una nuova società che prenda il posto di quella attuale,
in cui ormai quasi nessuno si riconosce più. Essere minoranza
creativa implica la pazienza dei tempi lunghi e insieme lucidità e coraggio nell’intraprendere il cammino: ma non può che essere questo
il terreno sul quale si misureranno la forza e la fantasia del cattolicesimo italiano.
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scheda / documenti
«Funzioni e ordinamento
dello Stato moderno»
P
er dire una parola che adesso ci richiami più direttamente e più specificamente alla nostra coscienza di cattolici,
che di fronte a un compito il quale parte da una premessa di
radicale rinnovamento noi non possiamo non tener conto del
presente. Non si può evidentemente distruggere la casa […]
prima che sia stata costruita l’altra. Ma la casa si può usarla
come un meno peggio e tuttavia non accettare e pensare
efficacemente alla costruzione della casa nuova. Ora a me
pare che, per noi cattolici, il modo efficace di pensare alla
costruzione della casa nuova sia anzitutto partire da questa
premessa: non avere paura dello Stato. [...] Respingere ogni
visione pessimistica: non limitare l’autorità dello Stato, invece
che diffondere uno scetticismo sulla sua funzione o esasperare nel garantismo la sua efficienza; affermare, costruire e
diffondere un’analisi sociologica che veda tutta la verità del
presente, che determini la coscienza profonda dei compiti
prossimi, non rinviandoli a decenni: che quindi consenta di
fondare una ideologia politica e infine un programma di strumentazione giuridica. Questo è il presupposto di tutto. O si
fa questo, o altrimenti non ci si salverà. L’avere indebolito lo
Stato o avere paralizzato la sua autorità allo scopo di difendersi non tanto da eventuali pericoli presenti, ma da quelli
che altri potrebbero apprestarci cogliendo le nostre forme
per imporci un’autorità tirannica, potrebbe far sì che molte di
queste cose a un certo punto ci rovinino addosso. Al posto di
uno Stato debole, agnostico, insufficiente, verranno altri che
costruiranno uno Stato forte e volitivo, eventualmente senza
di noi, eventualmente contro di noi.
Nel capo XIII dell’Epistola ai romani, negli ultimi versetti, S.
Paolo […] indica negli uomini che governano lo Stato, anche
se sono romani, anche se sono pagani, anche se si valgono
di questa autorità contro Dio, i ministri. […] Nel testo greco,
mentre per parecchi versetti ritorna la parola diacono, diaconos, alla fine, quando si tratta di inculcare ai romani che
bisogna pagare il tributo a chi si deve, qualunque tributo,
allora si indicano coloro che esigono il tributo non più come
diaconi, come ministri semplicemente, ma con una parola
più forte, più comprensiva: leitourgoi. Gli «operatori liturgici», per così dire, nel senso evidentemente dei liturgici che
apprestavano i servizi pubblici nello Stato greco, gli operatori
liturgici di Dio. A me pare che gli uomini i quali vedano profilarsi uno Stato capace di imporre loro dei gravi sacrifici di
ordine materiale allo scopo però di avviare ad una reformatio
del corpo sociale e ad una maggiore aequalitas fra gli uomini
debbano vedere finalmente profilarsi i «liturgici di Dio».
Pubblichiamo la
conclusione della
relazione generale tenuta
da Giuseppe Dossetti al
III Convegno nazionale
di studio dell’Unione
giuristi cattolici italiani
nel 1951 sul tema
«Funzioni e ordinamento
dello Stato moderno».
Nonostante siano trascorsi
più di sessanta anni
dal momento in cui fu
pronunciato, questo
discorso presenta una
sorprendente attualità
sui limiti degli assetti
istituzionali consacrati
nella Carta costituzionale,
adottata solo alcuni anni
prima, e sulla necessità
di un cambiamento
riformatore.
Il testo della relazione di
Dossetti con un ampio
apparato critico è tratto da
G. Dossetti, «Non abbiate
paura dello Stato!».
Funzioni e ordinamento
dello Stato moderno, a
cura di E. Balboni, Vita e
Pensiero, Milano 2014.
481
voci del mondo
L’Etiopia: potenzialità
e contraddizioni
dell’Africa emergente
Michele Boario
Economista dello sviluppo, consulente di organizzazioni internazionali
e del Ministero degli Affari Esteri, <miche_b@hotmail.com>
Emanuele Fantini
Università di Torino, Dipartimento di Culture, Politica e Società,
<emanuele.fantini@unito.it>
I risultati ottenuti nell’ultimo decennio in termini di crescita
economica hanno portato l’Etiopia alla ribalta dell’attenzione
internazionale. Il modello di sviluppo etiope si fonda sul ruolo
dello Stato attraverso una politica di massicci investimenti pubblici. Per quanto ancora si rivelerà sostenibile questa strategia,
che emargina il settore privato? E come il sistema politico, che
ha registrato negli ultimi anni una restaurazione autoritaria,
potrà reggere alle tensioni provocate dai cambiamenti sociali
innescati dalla crescita economica? Quale nuovo ruolo è chiamata ad assumere la cooperazione internazionale allo sviluppo?
U
na ventata di afro-ottimismo ha contagiato negli ultimi anni gli analisti economico-finanziari, la stampa specializzata
e le organizzazioni internazionali che guardano con rinnovato interesse ad un “continente in movimento» (Bonaglia e Wegner
2014): la società di consulenza McKinsey dal 2010 ha puntato i
riflettori sui “leoni africani” (McKinsey Global Institute 2010);
secondo la rivale Ernst & Young per gli investimenti esteri diretti
«è arrivata l’ora dell’Africa» (Ernst & Young 2011); le speranze della
rivista The Economist sono riposte nell’«Africa che cresce» a velocità
superiore rispetto alle altre regioni del pianeta (Africa rising 2013);
la Commissione economica per l’Africa dell’ONU si chiede invece
come liberare il potenziale del continente per trasformarlo in un
«polo di crescita economica globale» (UNECA 2012). Le perplessità
482
Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (482-493)
voci del mondo
in merito all’attendibilità delle statisti- L’appellativo “tigri asiatiche” identifica,
che su cui si basano queste analisi o sul a partire dalla fine degli anni ’90, quattro
carattere strutturale delle trasformazio- Paesi dell’Asia orientale (Corea del Sud,
Hong Kong, Singapore e Taiwan) che regini economiche in corso nel continente stravano tassi di crescita particolarmente
africano non mancano (Jerven 2013). elevati. Altri quattro Paesi (Filippine, InGli elenchi dei Paesi virtuosi cambiano donesia, Malesia e Thailandia) venivano
in base agli indicatori e ai processi presi talvolta identificati come “tigri minori”.
in esame, senza che sia per ora emersa L’acronimo BRICS riunisce cinque Paesi
una categoria omogenea e definita, co- (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica)
me nel caso delle “tigri asiatiche” o dei diventati protagonisti dell’economia mondiale negli ultimi due decenni.
BRICS.
L’Etiopia è uno tra i pochi Paesi
sempre menzionati nelle classifiche e nei rapporti sull’Africa
emergente, in virtù di tre elementi: un tasso di crescita del PIL
(Prodotto interno lordo) che negli ultimi 7 anni si è attestato attorno alla media del 10% e alla cui origine non vi è l’esportazione
di materie prime ma un vasto programma di investimenti pubblici;
l’adozione di strategie e politiche di sviluppo in virtù delle quali l’Etiopia è uno dei pochi Paesi africani che sembrano in grado di raggiungere gli Obiettivi di sviluppo del Millennio alla loro scadenza
naturale nel 2015 1; una tradizione di stabilità politica che ne fa un
alleato chiave delle diplomazie occidentali in una regione strategica
ma turbolenta quale il Corno d’Africa, in particolare per quanto
riguarda la guerra al terrorismo di matrice fondamentalista islamica.
Questi risultati sono stati ottenuti nel contesto di una chiusura
sempre più marcata dello spazio politico, in particolare all’indomani delle controverse elezioni nazionali del 2005. La coalizione
dell’Ethiopian People Revolutionary Democratic Front (EPRDF) si
è di fatto trasformata in partito unico, e una serie di leggi e dispositivi di controllo ha limitato fortemente gli spazi per l’espressione
della critica e del dissenso da parte dell’opposizione politica, della
stampa indipendente, delle organizzazioni non governative e della
diaspora (Human Rights Watch 2014). Questa tendenza continua
anche dopo l’improvvisa morte nel 2012 di Meles Zenawi, leader
dell’EPRDF, primo ministro dal 1991 e principale artefice delle politiche che hanno trasformato il Paese negli ultimi anni.
Nonostante la recente restaurazione autoritaria, l’Etiopia resta
uno dei principali beneficiari a livello mondiale della cooperazione internazionale allo sviluppo, anche da parte dei Paesi europei e degli USA, che almeno sulla carta vincolano la concessione
1 Fissati nel 2000 dall’Assemblea generale dell’ONU, gli Obiettivi di sviluppo del
Millennio indicano una serie di traguardi in settori come l’istruzione, la sanità, l’ambiente e la parità tra i sessi, da raggiungere entro il 2015 (a riguardo cfr Fantini 2007).
L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente
483
di aiuti al rispetto della democrazia e dei diritti umani. L’Etiopia è
uno dei pochi Paesi in cui anche la Cooperazione Italiana, nonostante i pesanti tagli di risorse subiti negli ultimi anni, mantiene una
presenza significativa. A dispetto del volume di risorse investite, i
donatori europei e americani sembrano tuttavia perdere terreno e
influenza, come in altri contesti africani, di fronte all’avanzata di
nuovi e non ortodossi partner dello sviluppo, quali Cina, India,
Turchia, Brasile o Corea del Sud.
Il presente articolo analizza le principali trasformazioni politiche,
economiche e sociali che investono oggi l’Etiopia, evidenziandone potenzialità e contraddizioni, e suggerendo come esse pongano
alcune questioni sulla legittimità e la tenuta dell’attuale Governo,
nonché sull’efficacia delle strategie a cui si ispirano le politiche internazionali di cooperazione allo sviluppo.
Federalismo etnico e centralismo democratico
L’attuale assetto istituzionale dell’Etiopia è il risultato dell’insurrezione armata condotta dal 1975 al 1991 dal Fronte popolare di
liberazione dell’Eritrea (EPLF) e dal Fronte popolare di liberazione
del Tigrè (TPLF) contro il regime militare filosovietico del Derg.
Tra i principali fattori alla base del conflitto vi era la “questione nazionale”, insita nel processo di formaIl termine Derg (che in lingua ge’ez signifizione dello Stato etiope, che tradizioca “Consiglio”), abbreviazione di Consiglio
nalmente vedeva il dominio di alcuni
di coordinamento delle Forze armate, della
gruppi etnici, in particolare gli amhara
Polizia e delle Forze territoriali, indica il redell’altopiano centrale, nei confronti
gime militare al potere in Etiopia dal 1974
degli altri. Nel tentativo di risolvere la
(anno in cui fu deposto l’imperatore Hailé
Selassié) al 1991.
questione nazionale, all’indomani della
vittoria contro il Derg, l’EPLF dichiara
l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia, mentre il TPLF, espressione
di una minoranza della popolazione in una regione economicamente
e geograficamente marginale, il Tigrè, coopta altre élite regionali nel
Fronte popolare rivoluzionario e democratico dell’Etiopia (EPRDF)
e ridisegna il Paese in una repubblica federale. La Costituzione del
1995 divide il Paese in 9 Stati regionali a base etnica e 2 distretti cittadini (Addis Abeba, la capitale, e Dire Dawa). Ispirandosi
al principio di autodeterminazione dei popoli, prevede una forte
autonomia per gli Stati regionali, incluso il diritto alla secessione,
in rottura con la tradizione centralista ereditata dall’epoca imperiale. In Africa il federalismo etiope rappresenta l’esperimento più
radicale di istituzionalizzazione dell’appartenenza etnica come
principale referente della vita politica. Diversi osservatori l’hanno
descritto come un tentativo originale di rispondere alla crisi dello
484
Michele Boario – Emanuele Fantini
voci del mondo
Stato postcoloniale, coniugando la modernità delle garanzie costituzionali e dei diritti di cittadinanza con la legittimità tradizionale
legata all’appartenenza etnica. A corollario del federalismo etnico,
l’EPRDF ha promosso, con particolare vigore dal 2001 a oggi, un
forte decentramento amministrativo.
Nella pratica, tuttavia, federalismo etnico e decentramento
amministrativo sono fortemente limitati dalla struttura gerarchica e centralizzata dell’EPRDF. Richiamandosi al centralismo
democratico del partito marxista-leninista e all’esperienza della lotta
armata di liberazione, l’EPRDF si pone come avanguardia politica
della popolazione rurale, sovrapponendo e identificando la propria
struttura con quella dell’amministrazione pubblica, in continuità
con la tradizione culturale e politica amhara, che identifica con un
unico termine (menghist) lo Stato, il Governo e il partito al potere.
I partiti etnici che compongono l’EPRDF, al potere nei rispettivi
Stati regionali, fungono da cinghia di trasmissione delle politiche
e delle priorità stabilite a livello nazionale. Paradossalmente, questo
sistema ha finito per garantire all’attuale Governo un controllo del
territorio e una penetrazione nella vita quotidiana delle comunità
locali nettamente superiori a quelli dei suoi predecessori, sulla carta
ben più centralizzati.
La sfida più significativa alla tenuta di questo sistema di governo si è verificata in occasione delle elezioni nazionali del maggio
2005, quando l’opposizione, riunita nella Coalizione per l’unità e
la democrazia, ha riportato un successo imprevisto, aggiudicandosi
il sindaco della capitale Addis Abeba e rivendicando la maggioranza dei seggi in Parlamento. I risultati ufficiali, pubblicati tre mesi
dopo il voto, attribuivano invece la vittoria all’EPRDF, spingendo
l’opposizione a boicottare il nuovo Parlamento. Nei mesi seguenti
l’EPRDF avviava una restaurazione autoritaria, volta a recuperare
consenso e controllo della popolazione. Architrave di questo progetto
è la trasformazione dell’EPRDF da partito di militanti (300mila nel
2006) a partito di massa, di fatto partito unico, con 5 milioni di
iscritti attuali. L’iscrizione al partito è oggi indispensabile per accedere a incarichi nella funzione pubblica e alle risorse controllate dal
Governo (fertilizzanti, microcredito, ecc.). In nome della partecipazione, inoltre, il numero dei rappresentanti eletti nei consigli locali è
stato innalzato a 300, ma l’EPRDF è l’unica forza politica in grado
di esprimere un numero così elevato di candidati, a livello locale e
nazionale: infatti si è aggiudicato la quasi totalità dei seggi in palio
alle elezioni nazionali del 2010 e a quelle amministrative del 2008
e del 2013. La chiusura dello spazio politico è stata completata con
l’adozione di misure di limitazione dell’espressione del dissenso:
L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente
485
una legge antiterrorismo che lascia notevoli margini di discrezionalità
al Governo nel sanzionare atti giudicati in contrasto con la sicurezza
nazionale; una legge sulle organizzazioni della società civile (2009)
che vieta alle ONG (Organizzazioni non governative) “internazionali” (ovvero che ricevono più del 10% del budget da finanziatori
stranieri) di lavorare nei settori politicamente sensibili, quali i diritti
umani o la risoluzione dei conflitti; minacce, ritorsioni e incarcerazioni di giornalisti indipendenti, sia etiopi sia stranieri.
La morte improvvisa di Meles nell’agosto 2012 ha aperto una
fase di riconfigurazione politica. Nell’immediato, le differenti
componenti dell’EPRDF hanno trovato un accordo nella promozione a Primo ministro e leader del partito dell’ex vice di Meles, Hailemariam Desalegn, figura atipica rispetto alla tradizione di leadership
politica etiope: appartiene infatti a un gruppo etnico minoritario del
Sud del Paese, e non alle etnie amhara o tigrina che hanno tradizionalmente espresso la classe dirigente; diversamente da Meles e dalla
sua cerchia ristretta di consiglieri, la carriera politica di Hailemariam
non è stata legittimata dalla partecipazione alla guerra di liberazione; inoltre per la prima volta il leader non appartiene alla Chiesa
ortodossa etiope, ma al movimento pentecostale, in forte crescita nel
Paese, e in particolare a una setta considerata da molti eretica, anche
all’interno del mondo protestante, per via del rifiuto del dogma della
Trinità (Haustein e Fantini 2013). Anche in virtù di questi elementi,
non è ancora certo che la leadership di Hailemariam sarà riconfermata in occasione delle elezioni nazionali del 2015. Nel frattempo,
l’attuale Governo continua a fondare la propria legittimità sull’eredità politica di Meles e sul culto della sua persona, celebrandolo come
“leader visionario” e “padre della pace e dello sviluppo”.
Il modello del developmental State
Tra i lasciti più significativi del lungo governo di Meles, vi è
senza dubbio il processo di crescita economica che ha interessato
l’Etiopia negli ultimi 10 anni. Le stime del Governo parlano di una
media del 10,7% all’anno. Nel 2012, le statistiche ufficiali hanno
presentato l’Etiopia come la dodicesima economia a più rapida crescita nel mondo. Se riuscisse a continuare su questa strada, potrebbe
raggiungere il gruppo dei Paesi a medio reddito entro il 2025, come
previsto dal piano di sviluppo del Governo (Growth and transformation plan, GTP). Tuttavia l’attendibilità di queste statistiche è
da valutare con prudenza. Innanzi tutto, i dati per il calcolo del
PIL sono considerati poco affidabili da quasi tutti i principali osservatori internazionali; inoltre la stima del tasso di crescita appare
viziata da errori metodologici, velleità propagandistiche e timori
486
Michele Boario – Emanuele Fantini
voci del mondo
dei funzionari pubblici nel riportare risultati non in linea con gli
obiettivi programmati. Inoltre, la forte inflazione che ha interessato
il Paese negli ultimi anni ha generato una sorta di “illusione monetaria”: nelle dichiarazioni ufficiali si tende infatti a confondere i
risultati nominali con quelli reali (cioè al netto dell’inflazione). Pur
con queste riserve, la crescita economica dell’Etiopia resta significativa: le stime informali del Fondo Monetario Internazionale (FMI)
indicano una crescita media annua che nell’ultimo decennio si
attesterebbe intorno a un ragguardevole 7% reale.
Al di là dei numeri, l’originalità del caso etiope è legata al modello di sviluppo che ha permesso questi risultati. Dagli anni ’90
l’EPRDF ha rifiutato le politiche di aggiustamento strutturale e liberalizzazione economica promosse dalla Banca Mondiale (BM) e
dal FMI, per adottare invece una strategia ispirata al modello del developmental State asiatico, che prevede un ruolo di guida e l’intervento attivo dello Stato per orientare l’economia e stimolarne la
crescita. Paradossalmente, oggi questo modello è lodato dalle stesse
istituzioni finanziarie internazionali (BM e FMI), che presentano
l’Etiopia come caso di successo per l’intero continente, in sintonia
con gli attuali paradigmi dello sviluppo inclini a rivalutare il ruolo
dello Stato e della good governance. In Etiopia il processo di crescita
economica non è guidato dall’estrazione di risorse naturali, come
in Angola o in Ciad, né dallo sviluppo del settore privato, come in
Kenya. Negli ultimi anni esso è stato favorito da una vasta politica
di investimenti pubblici (strade, edilizia abitativa, grandi dighe e
centrali idroelettriche, all’origine anche di tensioni con l’Egitto sulla
gestione del Nilo).
La domanda chiave è quanto a lungo una tale politica possa
continuare a sostenere la crescita. Anche se non esiste una risposta univoca e valida per tutti i Paesi, la storia economica evidenzia
che arriva sempre il momento in cui lo Stato deve progressivamente
ritirarsi per garantire la sostenibilità della crescita. L’evidenza empirica mostra che in Etiopia negli ultimi dieci anni il developmental State ha funzionato, ad esempio riducendo la percentuale della
popolazione considerata povera (dal 38,9% nel 2004 al 29,6% nel
2012, secondo i dati della BM). I dati economici più recenti sollevano tuttavia dubbi sulla possibilità di continuare ancora a lungo su
questa strada. Le risorse finanziarie e umane sono quasi totalmente
assorbite dalle attività di investimento delle imprese pubbliche e non
sono dunque disponibili per le iniziative private; nel medio periodo
si registra, inoltre, un calo sia dei consumi sia degli investimenti privati, mentre la componente pubblica di questi ultimi è in aumento.
Queste tendenze andrebbero invertite.
L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente
487
Per mantenere la crescita economica in Etiopia è necessario aumentare la produttività delle attività esistenti, comprese quelle agricole, e crearne di nuove: entrambi gli sforzi richiedono maggiori
investimenti da parte del settore privato. L’evidenza empirica mostra con chiarezza una relazione positiva tra la quota di investimenti
privati sul totale degli investimenti e il tasso di crescita del PIL.
Nove posti di lavoro su dieci, nel mondo “in via di sviluppo”, si
trovano nel settore privato. Mercati più accessibili e competitivi consentono ai Paesi a basso reddito di intraprendere percorsi di crescita
per affrancarsi dalla povertà. Inoltre le esportazioni generate dal
settore privato permettono di aumentare la valuta estera disponibile
per importare quanto necessario alla costruzione di infrastrutture.
Allo stesso modo, le imposte pagate da imprese private e singoli cittadini permettono la fornitura di servizi sanitari e istruzione. Infine
i flussi migratori dalle campagne verso le città, che inevitabilmente
accompagneranno la trasformazione strutturale auspicata dal GTP a
favore dell’industria, potranno essere assorbiti soltanto da un’espansione del settore privato.
Tutto ciò non significa che il developmental State non abbia un
ruolo da giocare. La capacità dello Stato è certamente alla base della
stabilità politica ed economica e contribuisce a garantire che i diritti
umani, la sicurezza personale e la proprietà privata siano rispettati.
Lo Stato svolge inoltre un ruolo importante per superare quelli che
la teoria economica chiama “fallimenti del mercato” (ad esempio per
quanto riguarda la disponibilità dei beni pubblici, come la sicurezza,
o la sanità). È dunque auspicabile che i donatori internazionali sostengano l’intervento del Governo nei mercati in cui le inefficienze
limitano la crescita del settore privato e impediscono la partecipazione dei poveri, senza dimenticare che l’esperienza dei Paesi sviluppati indica chiaramente che mercati competitivi, fondati su principi
di responsabilità sociale e popolati da imprese private dinamiche,
offrono il modo più efficace per creare ricchezza, posti di lavoro e
prosperità per tutti su basi sostenibili.
Nel caso etiope, il Governo correttamente segnala la debolezza del settore privato. Diversi fattori storici e politici hanno
limitato l’imprenditorialità e gli investimenti privati. Gli anni del
Derg, caratterizzati da una proprietà statale quasi totale e da costante guerra civile, hanno atrofizzato l’iniziativa privata e spinto i migliori imprenditori a fuggire all’estero. Negli ultimi anni, una parte
della diaspora etiope è rientrata, ma il livello di imprenditorialità rimane basso. Per di più, alla scarsità di investimenti privati interni si
aggiunge uno dei più bassi tassi di investimenti diretti esteri. Infine,
nel valutare le dimensioni effettive del settore privato dell’economia
488
Michele Boario – Emanuele Fantini
voci del mondo
etiope bisogna tener conto dell’esistenza di due grandi e influenti
blocchi, in teoria privati, ma di fatto strettamente legati al Governo:
MIDROC (Mohammed International Development Research and
Organization Companies), conglomerato di proprietà dello sceicco
etio-saudita Mohammed Hussein Ali Al Amoudi, ed EFFORT (Endowment Fund for the Rehabilitation of Tigray, Fondo di dotazione
per il risanamento del Tigré), gruppo di imprese “affiliate al partito”
che operano, spesso in posizione di leader, nei settori di commercio,
agricoltura, fertilizzanti, produzione di cemento, tessile e abbigliamento, bestiame, cuoio, trasporti, estrazione mineraria, ingegneria
e finanza. Settori come le telecomunicazioni, l’energia, le banche,
le assicurazioni, il trasporto aereo, il trasporto su terra e lo zucchero sono in una situazione di monopolio pubblico o di predominio
dello Stato. In un contesto fortemente burocratico come quello
dell’Etiopia, le imprese statali hanno notevoli vantaggi rispetto
a quelle private, tra cui la facilità di accesso al credito, alla valuta
straniera e allo sdoganamento delle merci importate.
In aggiunta a tutti i problemi esaminati finora, è importante osservare che il successo economico in Etiopia viene ancora guardato
con sospetto. In particolare, tra i fedeli della Chiesa ortodossa etiope
è radicata l’idea che l’arricchimento derivi da un patto col diavolo,
mentre tra i politici e i funzionari governativi posizioni analoghe
sono alimentate dal background ideologico marxista. Come risultato, al di là delle dichiarazioni ufficiali, l’operato del Governo e
l’atteggiamento della società sono spesso poco favorevoli verso
gli imprenditori privati. Non sorprende dunque che in Etiopia la
cultura imprenditoriale rimanga poco sviluppata.
Anche la cooperazione internazionale allo sviluppo, tradizionalmente concentrata in Etiopia su settori quali la sanità, l’istruzione e la sicurezza alimentare, deve cominciare a sostenere la crescita
economica etiope trovando risorse addizionali e puntando di più
sull’iniziativa privata. Oggi il settore privato riceve appena il 2%
degli aiuti pubblici allo sviluppo destinati all’Etiopia.
Una società in trasformazione e fermento
I processi politici ed economici appena descritti hanno innescato profonde trasformazioni nella società etiope, in direzione della
crescente diversificazione e stratificazione di un tessuto sociale in
passato accomunato da condizioni generali di povertà prossime alle
soglie di sussistenza.
Le stime ufficiali registrano un generale miglioramento
degli indicatori di sviluppo sociale. L’osservazione diretta sembrerebbe confermare questa tendenza a livello di servizi sociali di
L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente
489
base, ad esempio in termini di presenza di personale medico nelle
aree rurali, di tassi di accesso all’istruzione primaria e secondaria,
di potenziamento delle infrastrutture idriche e fognarie. Tuttavia,
secondo la classifica redatta sulla base dell’indice di sviluppo umano
dalle Nazioni Unite, nel 2013 l’Etiopia occupava il 173° posto su
186 Paesi (UNDP 2013), registrando soltanto un leggero miglioramento rispetto al 2003 (169° su 175). Più di una persona su dieci
nel Paese è considerato “malnutrito cronico”, cioè dipendente in maniera strutturale dagli aiuti alimentari a prescindere dall’andamento
della produzione agricola.
L’ambiguità di questi dati deriva anche dalle contraddizioni delle
strategie di mobilitazione della popolazione ai fini dello sviluppo
adottate dal Governo etiope. Da un lato, ispirandosi all’esperienza
della lotta armata, esse enfatizzano il coinvolgimento attivo della
popolazione, richiamando i temi della partecipazione che dominano
la retorica ufficiale della cooperazione internazionale allo sviluppo. Dall’altro lato, il mito fondante della lotta armata è tradotto e
aggiornato in una serie di politiche che, in nome dello sviluppo e
della partecipazione, inquadrano la popolazione e monopolizzano le
risorse in chiave autoritaria (cfr Tommasoli 2014). Accanto al partito, sono state create negli ultimi anni delle strutture parallele,
le “armate dello sviluppo”, in cui la popolazione è inquadrata
per categorie (donne, giovani, contadini, ecc.) e chiamata a contribuire ai lavori pubblici “comunitari” (costruzione di scuole, strade, dispensari, ecc.) e a mettere in pratica i programmi di sviluppo
promossi dal Governo. La struttura capillare e gerarchica di queste
organizzazioni si fonda sulla selezione di donne, contadini e villaggi
“modello”, che, in cambio della cooptazione nel partito e dell’accesso agevolato alle risorse controllate dallo Stato (terra, credito, fertilizzanti, aiuti alimentari), sono incaricati di mostrare, attraverso il
loro esempio, la bontà delle politiche governative.
Una delle novità che ha accompagnato queste politiche è il cambio di strategia in materia di sviluppo rurale: dal sostegno all’agricoltura familiare e di sussistenza ai fini del raggiungimento della sicurezza alimentare, all’adozione di un modello di produzione
orientato al mercato. Questo passaggio alimenta processi di concentrazione della terra a favore di alcuni “contadini modello” che
diventano imprenditori agricoli e la conseguente trasformazione di
altri contadini in braccianti salariati. Tra i più penalizzati vi sono
i giovani: da un lato non riescono ad accedere ad appezzamenti di
dimensione sufficiente a sostenere una famiglia e quindi a compiere
il passaggio generazionale alla categoria degli adulti; dall’altro non
trovano sbocco in un mercato del lavoro ancora asfittico a causa dei
490
Michele Boario – Emanuele Fantini
voci del mondo
nodi descritti sopra. Per molti l’unica prospettiva resta l’emigrazione, sia verso i principali centri urbani del Paese, sia all’estero.
L’emigrazione clandestina di ragazze etiopi verso i Paesi del Golfo
persico, dove finiscono impiegate come lavoratrici domestiche in
condizioni che spesso rasentano la schiavitù, rappresenta un fenomeno sempre più consistente, rispetto al quale urge la definizione
di una politica ufficiale che assicuri la tutela dei diritti umani fondamentali e che affronti il nodo dell’emigrazione come potenziale
risorsa di sviluppo.
Questi itinerari di ascesa sociale e accumulazione economica –
più o meno di successo – alimentano anche un’altra trasformazione, peraltro registrata in diversi contesti africani: l’ampliarsi della
fascia di popolazione che si identifica come classe media. Non
è più soltanto il risultato dell’espansione del settore pubblico – che
con un milione di funzionari resta il principale datore di lavoro
nel Paese – ma anche della crescita economica, in ambito sia rurale
sia urbano. Emerge una “classe media multitasking”, che genera il
proprio reddito e alimenta le proprie aspirazioni attraverso percorsi
che alternano e sovrappongono posizioni nel settore pubblico, nell’economia privata e nel settore dello sviluppo e della cooperazione
internazionale.
Un particolare fermento si registra infine nella sfera religiosa.
La Costituzione federale del 1995 riconosce la libertà di culto e la separazione tra Stato e Chiesa, in rottura sia con le persecuzioni patite
da tutti i gruppi religiosi sotto la dittatura filosovietica del Derg, sia
con lo status di religione di Stato di cui godeva la Chiesa ortodossa
etiope in epoca imperiale. Ad approfittare del nuovo clima di libertà
religiosa è stato soprattutto il movimento pentecostale, i cui fedeli
sono passati dal 5,5% della popolazione nel 1984 al 21% nel 2011.
Il proselitismo aggressivo delle Chiese pentecostali e la loro carica
di rottura con la tradizione contribuiscono a rimettere in discussione lo storico, ma pur sempre delicato, equilibrio tra cristianesimo e
islam (cui aderisce il 33,9% della popolazione). Inedite sono infine
le tensioni tra il Governo e la comunità islamica. Nel 2011 il Governo ha tentato di imporre una leadership e una dottrina islamica
“moderata” e “filogovernativa”, pilotando la nomina dei vertici del
Consiglio supremo degli affari islamici e giustificandosi con la necessità di contrastare l’islam estremista e filoterrorista. L’interferenza
ha suscitato le proteste della comunità islamica e numerose manifestazioni pacifiche per chiedere il rispetto dei principi costituzionali.
L’episodio ha riaperto la questione dell’identità dei musulmani in
Etiopia: pur facendo parte della storia del Paese – i primi musulmani arrivarono nel VII sec. a seguito del profeta Maometto – l’islam
L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente
491
non è mai diventato costitutivo dell’identità nazionale ed è stato di
fatto escluso dalla storiografia ufficiale e dal potere. Di fronte al risentimento alimentato da questa esclusione, l’ingerenza del Governo
in nome della lotta all’estremismo e al terrorismo di matrice islamica
rischia purtroppo di trasformarsi in una profezia che si autoavvera.
Le questioni aperte
L’interazione dei processi politici, economici e sociali qui descritti pone sfide urgenti e complesse sia al Governo etiope sia ai suoi
partner della cooperazione internazionale allo sviluppo.
Una prima questione riguarda l’inclusività dei processi di
crescita economica e sviluppo. Nel modello del developmental
State teorizzato da Meles (Zenawi 2012), la coalizione di governo
è chiamata a restare al potere per almeno vent’anni, al fine di garantire la stabilità e la continuità necessarie a consolidare i processi
di sviluppo. La legittimità di questo progetto, che sacrifica la possibilità di alternanza democratica sull’altare della stabilità e della
crescita economica, è fortemente vincolata alla capacità dell’EPRDF
di promuovere processi di sviluppo inclusivi. Come ammesso dallo
stesso Meles «cesseremo di esistere come nazione a meno di crescere
in fretta e condividere la nostra crescita» (cit. in De Waal 2013).
Prima ancora che sul terreno della democrazia, le prossime elezioni
nazionali del 2015 si giocheranno sul consenso che l’EPRDF avrà
saputo consolidare rispondendo alle aspettative di fasce sempre più
ampie della popolazione di poter beneficiare in qualche misura della
ricchezza che viene creata nel Paese.
Una seconda questione attiene alla relazione tra sviluppo,
crescita economica e democrazia e non riguarda solo l’Etiopia.
La preparazione di diversi appuntamenti nei prossimi anni – definizione dell’agenda globale per lo sviluppo post 2015 (a riguardo cfr Pallottino 2013), revisione del trattato di Cotonou tra UE
e Paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico) – impone ai “donatori
tradizionali”, tra cui l’Italia e i Paesi dell’UE, di ripensare teorie,
politiche e strumenti della cooperazione allo sviluppo alla luce di
due fenomeni, particolarmente evidenti nel caso etiopico. Da un
lato la sempre maggior rilevanza degli attori della cooperazione
economica for profit, anche rispetto alla contrazione degli aiuti
pubblici allo sviluppo e alla necessità di favorire processi di crescita
endogeni attraverso il rafforzamento di iniziative private: il moltiplicarsi degli investimenti esteri diretti (ad esempio il progetto del
gruppo tessile H&M di fare dell’Etiopia la sua piattaforma per la
produzione in Africa); il diffondersi delle iniziative di responsabilità
sociale d’impresa, di fondazioni private e del filantrocapitalismo; e
492
Michele Boario – Emanuele Fantini
voci del mondo
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L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente
risorse
infine la crescita delle rimesse della diaspora africana, che sommate
agli investimenti esteri superano ormai il volume degli aiuti pubblici allo sviluppo. Dall’altro lato, vanno segnalate le contraddizioni
insite nel sostegno a regimi autoritari, come quello dell’Etiopia o
del Ruanda, a dispetto dei principi di condizionalità democratica, e
l’affermarsi di modelli di cooperazione alternativa da parte dei
Paesi emergenti (Cina, Brasile, Turchia, Indonesia, ecc.), nell’ambito della “crescita del Sud” fotografata dall’ultimo Rapporto sullo
sviluppo umano (UNDP 2013). Di fronte all’attrattiva esercitata
sui Governi africani da parte di modelli come quello cinese, che coniugano crescita economica e autoritarismo politico, i Paesi europei
e l’Italia sono chiamati a ridefinire innanzitutto il loro modello di
sviluppo e nello specifico le teorie della good governance, per riaffermare il legame tra sviluppo e democrazia con maggiore incisività
teorica e coerenza nella pratica.
493
scheda / geo
L’
Etiopia
494
Etiopia è considerata il più antico Stato
africano, il cui nome compare già nei poemi omerici. Il primo regno etiope storicamente
rilevante è quello di Axum (IV-I secolo a.C.),
ma è nel XIII secolo d.C. che venne fondata
la dinastia salomonica (che rivendicava la discendenza diretta da re Salomone) e con essa
l’impero etiope, caduto nel 1974, quando un
colpo di Stato ha deposto l’ultimo imperatore
Hailé Selassié e ha portato al potere una giunta
militare guidata dal dittatore Menghistu Hailé
Mariam. Questa storia di indipendenza politica (interrotta solo dai 5 anni di dominazione
coloniale italiana), culturale e religiosa (grazie al ruolo peculiare della Chiesa ortodossa etiope) ha reso l’Etiopia un punto di
riferimento per tutto il continente, soprattutto negli anni della
decolonizzazione. Nell’Etiopia gli africani vedevano – e in parte
vedono ancora – un modello da seguire nel processo di affrancamento dalle potenze coloniali. Non è un caso che nel 1964
Addis Abeba sia stata scelta come sede per l’Organizzazione
dell’unità africana e nel 2002 per l’Unione africana.
Oggi l’Etiopia è un Paese di 91 milioni di abitanti che cerca di
uscire dal sottosviluppo secolare che l’attanaglia: circa il 40%
della popolazione vive con meno di 1,25 dollari al giorno. Dal
punto di vista economico, si sta muovendo su quattro fronti.
Il primo è lo sviluppo dell’agricoltura, in maggior parte legata
ancora a metodi tradizionali, ma che può contare su coltivazioni
di eccellenza, quali il caffè, di cui è uno dei maggiori produttori
mondiali, e il teff, un cereale autoctono che si sta rapidamente diffondendo in Occidente perché privo di glutine. Il secondo
fronte è quello dell’energia: attraverso la realizzazione di grandi
dighe sui principali corsi d’acqua, compreso il Nilo azzurro, e
lo sfruttamento delle grandi risorse geotermiche, l’Etiopia punta
non solo all’autosufficienza energetica, ma anche all’esportazione di elettricità nei Paesi confinanti. La terza scommessa è il
turismo, con la valorizzazione di percorsi legati alla storia del
Paese, che toccano le regioni settentrionali, e di altri più naturalistici, che interessano quelle meridionali. Infine, il Governo
sta cercando di potenziare le infrastrutture (strade e ferrovie) e
di stringere intese con i Paesi confinanti (Gibuti e Sudan) per
accedere ai porti del Mar Rosso.
Politicamente, l’Etiopia si fonda su un delicato equilibrio tra le
etnie principali. Storicamente il gruppo dominante è quello degli amhara (38% della popolazione), ma dal 1991, anno della
caduta della dittatura di Menghistu, sono i tigrini del Nord (7%
della popolazione) a svolgere un ruolo prevalente nelle istituzioni statali. A livello internazionale, l’Etiopia ha stretto un’alleanza
molto forte con gli Stati Uniti. I recenti interventi nella guerra
civile somala sono stati letti da molti analisti come un capitolo
della “guerra globale” che Washington sta combattendo per
contenere la diffusione del fondamentalismo islamico.
Enrico Casale
Tom Greene SJ
Coordinatore Sociale della Conferenza, Washington, USA
voci del mondo
La risposta degli Stati Uniti
all’immigrazione irregolare
La morte di troppi migranti nel Mediterraneo continua a interpellare la coscienza del Paese e dell’Europa. Il rispetto dei
diritti umani dei migranti è però una questione globale: l’analisi
dell’evoluzione della politica migratoria degli Stati Uniti mostra
come essa risponda a una strategia di sfruttamento della paura
e alla logica della militarizzazione, con evidenti finalità commerciali. Si tratta di una dinamica che può illuminare anche
quanto accade in altre parti del mondo.
V
iviamo in un mondo di grandi disuguaglianze che causano la migrazione di milioni di persone in cerca di un luogo sicuro in cui vivere e trovare un lavoro che consenta di
mantenere la propria famiglia. Eppure, anziché averne compassione
e accoglierli degnamente, il mondo preferisce rispondere con crescente violenza, con atteggiamenti aggressivi e ostili che penalizzano
e abbrutiscono chi migra.
Negli Stati Uniti, la risposta che viene data ai migranti è
determinata da tre fattori: paura, commercializzazione e militarizzazione; presumibilmente altri Paesi seguono questo esempio,
cercando di dirottare i flussi migratori verso altri Stati e sfuggendo
così alla responsabilità di approfondire le cause che spingono le persone a varcare i loro confini.
Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (495-500)
495
Un clima di paura: realtà concreta o realtà virtuale?
Border Patrol 1 è un videogame giocato già molti milioni di volte:
lo scopo è uccidere i messicani che cercano di attraversare il confine
con gli Stati Uniti. Il gioco propone tre categorie di migranti messicani: i nazionalisti, i trafficanti di droga e le “fattrici”. Il nazionalista è raffigurato come un invasore armato che tenta di riconquistare il territorio statunitense un tempo appartenente al Messico. Il
trafficante di droga è un personaggio coperto di tatuaggi che porta
in spalla un carico di marijuana, mentre le donne messicane sono
rappresentate come “fattrici”, che portano con sé bambini denutriti
e piagnucolosi. Non ci sono figure di messicani intesi come amici,
parenti, vicini di casa, richiedenti asilo, seri lavoratori o esseri umani
(!). Se sconcerta scoprire quanti milioni di persone hanno utilizzato
questo gioco, è addirittura desolante osservare come il dibattito congressuale americano sulla riforma dell’immigrazione sembri adottare le stesse categorie proposte dal videogioco.
Nel 2013, a una domanda sugli studenti immigrati irregolari
che terminano la scuola superiore col massimo dei voti, il membro
del Congresso Steven King di New York ha risposto che «per ogni
immigrato che diventa il primo della classe ce ne sono altri 100 che
pesano 60 chili e hanno polpacci come meloni perché trasportano
35 chili di marijuana attraverso il deserto» 2. L’immagine evocata da
King ricalca il modello proposto dal videogame. Quando ho sentito
questa affermazione, sono rimasto sbalordito che un rappresentante
eletto dal popolo potesse insinuare un tale stereotipo nel dibattito
nazionale sulla riforma dell’immigrazione. Comunque, riflettendoci
sopra, mi sono reso conto che affermazioni di questo genere sono la
logica conseguenza di un clima che si è andato formando da qualche
tempo: l’idea che gli immigrati siano dei criminali e la tendenza
a criminalizzare gli immigrati che vivono negli Stati Uniti.
Questo è l’ambiente in cui alcuni credenti impegnati lavorano
per una riforma dell’immigrazione, in un clima in cui gli oppositori
approfittano dei timori della popolazione, descrivendo gli immigrati alla stregua di criminali che attentano alla nostra sicurezza e
al nostro modo di vivere. Giocare sulla paura è divenuta la tattica
preferita di quanti vogliono rallentare od ostacolare gli sforzi per
1
In <http://nerdnirvana.org/g4m3s/borderpatrol.htm>.
Parker A., «G.O.P. Congressman’s Remarks Undermine Party’s Immigration
Efforts», in The Caucus (blog di The New York Times), 23 luglio 2013, <http://
thecaucus.blogs.nytimes.com/2013/07/23/g-o-p-congressman-undermines-partysimmigration- efforts/?_r=0>.
2
496
Tom Greene SJ
voci del mondo
offrire un percorso verso la regolarizzazione agli 11-12 milioni di
immigrati irregolari che vivono negli USA.
Si direbbe che la paura pervada ogni aspetto della nostra vita
e di fatto impedisca l’interazione con altre persone e culture, che
invece farebbe scomparire la paura e favorirebbe rapporti di amicizia,
solidarietà e comunione. Nel Salvador, le università americane annullano i programmi di scambi internazionali in seguito a un allarme
lanciato dal Dipartimento di Stato americano prendendo a pretesto un episodio isolato, in cui peraltro non erano coinvolti cittadini
americani. Dopo l’attentato di Bengasi, in cui l’11 settembre 2012
fu ucciso il diplomatico americano John Stevens, il Dipartimento di
Stato ha rafforzato le misure di sicurezza per i propri dipendenti in
tutto il mondo, impedendo loro ogni interazione costruttiva con le
popolazioni locali e provocando una crescente dipendenza da informazioni di seconda mano nello stilare le relazioni sulla situazione
locale, sulla cui base viene deciso il destino di migliaia di richieste di
asilo politico. Quali speranze ci sono di riconoscere l’umanità dell’“altro” quando sussiste un tale clima di ostilità e paura?
La commercializzazione dei migranti e la privatizzazione
della detenzione
Gli Stati Uniti spendono per la detenzione degli immigrati 2,8
miliardi di dollari all’anno, una somma doppia rispetto al 2006.
Nel 2004, a Houston (Texas) c’erano 45 posti letto per minori non
accompagnati in stato di detenzione: oggi si calcola che ce ne siano
400. Un analogo incremento si è avuto negli spazi per gli adulti e
ogni giorno ci sono 34mila migranti (uomini e donne) incarcerati.
Per poter detenere una popolazione così numerosa, gli Stati Uniti
mantengono una costellazione di 250 centri di reclusione, in
grande maggioranza di proprietà e a gestione privata. Società
come GEO Corp. e Community Corrections of America (CCA)
fanno a gara nell’ottenere contratti pubblici e traggono vantaggio
dalla cultura della paura. Di conseguenza il mondo imprenditoriale
ormai considera gli immigrati non solo come criminali, ma come
una occasione per fare affari: immigrati uguale soldi, e subito!
Nel 2006, l’industria privata della detenzione è riuscita a convincere i parlamentari conservatori ad approvare una legge secondo
la quale il numero di immigrati detenuti può essere pari a 34mila
ogni giorno 3. In pratica la legge garantisce alle imprese private
3 Miroff N., «Controversial quota drives immigration detention boom», in The
Washington Post, 14 ottobre 2013, <www.washingtonpost.com/world/controversialquota-drives-immigration-detention-boom/2013/10/13/09bb689e-214c-11e3-ad1a1a919f2ed890_story.html>.
La risposta degli Stati Uniti all’immigrazione irregolare
497
del settore della detenzione che le strutture da loro costruite e
gestite saranno riempite di migranti in stato di detenzione al
costo di circa 160 dollari al giorno pro capite. Che importa se la
maggior parte di questi immigrati reclusi non ha precedenti penali?
La detenzione dei migranti è un affare! Il sistema è vorace, e guai a
chi si azzarda a sottrarre nutrimento finanziario all’insaziabile bocca
dell’industria delle carceri. Nel discutere il bilancio federale, il Dipartimento per la sicurezza interna ci ha provato, sostenendo che il
Governo avrebbe potuto risparmiare riducendo il numero di posti
per la detenzione di migranti a 31.800; i deputati conservatori degli Stati in cui il sistema della detenzione privata è profondamente
radicato hanno respinto questa proposta e stabilito un aumento del
budget per tenere i migranti in prigione di 400 milioni di dollari.
Questa costruzione di opportunità di rendita da parte di imprese
private a scopo di lucro in un periodo di crisi economica non è oggetto di un esame approfondito e suscita scarsa indignazione, mentre i programmi federali per fornire cibo ai bambini poveri vengono
tagliati con nonchalance.
La militarizzazione dei migranti: il confine inteso
come zona di guerra
Nel 2007 ho avuto modo di visitare la cittadina di confine di
Brownsville (Texas), una località tranquilla della valle del Rio Grande con una popolazione di oltre un milione di persone, per la maggior parte immigrati messicani di prima, seconda o terza generazione. Brownsville è sempre stata in ottimi rapporti con Matamoros, la
città gemella dall’altro lato della frontiera. Ricordo che attraversavo
il confine semplicemente per andare a pranzo e fare due passi nella
piazza centrale di Matamoros e poi rientrare negli Stati Uniti. Nessuna fila di macchine in attesa di controlli al confine; anzi, erano
evidenti gli scambi commerciali e l’interazione quotidiana tra cittadini dei due Paesi che attraversavano la frontiera per fare acquisti,
andare a lavorare o a scuola.
Ora è tutto cambiato. Il Dipartimento per la sicurezza interna ha
eretto un muro di acciaio che separa le due cittadine, attraversando
addirittura il campus dell’Università statale di Brownsville. Il muro
è un segno di divisione che impedisce alle due comunità persino di
vedersi. I tempi di attesa al confine si sono allungati, perché sono
aumentati i controlli e le ispezioni.
Le pattuglie che sorvegliano il confine sono triplicate dopo
l’11 settembre e un nuovo progetto di legge propone di aumentare
gli agenti di 20mila unità, nonostante il numero di persone arre498
Tom Greene SJ
voci del mondo
state per ingresso clandestino sia al minimo degli ultimi 39 anni 4.
Il basso numero di arresti si accompagna tuttavia a un aumento
della violenza nei confronti degli immigrati: da gennaio 2010 la
polizia di frontiera ha ucciso 16 persone, tutte disarmate, accusate
al massimo di aver lanciato dei sassi. Quello che appare un uso
sproporzionato della forza ha richiamato l’attenzione del Governo
statunitense, che ha ordinato un’inchiesta al riguardo. Il rapporto finale dell’inchiesta ha concluso che la polizia di frontiera non
dispone di un metodo adeguato di raccolta di informazioni sulle
accuse di uso sproporzionato della forza e che alcuni agenti non
sono a conoscenza delle regole della polizia di frontiera sull’uso
della forza. Gli uomini della polizia di frontiera svolgono un lavoro
difficile, ma la mancanza di standard adeguati per le indagini sui
casi di persone uccise al confine mostra una mancanza di rispetto
per le vite che essi spezzano.
Il progetto di riforma 5 della legge sull’immigrazione approvato dal Senato degli Stati Uniti il 27 giugno 2013 prosegue la tendenza alla militarizzazione e stanzia oltre 46 miliardi di dollari per
l’acquisto da fornitori accreditati di equipaggiamento militare da
destinare al confine con il Messico, tra cui elicotteri Blackhawk,
droni, sensori a raggi infrarossi. In seguito al voto favorevole del
Senato, il deputato Beto O’Rourke di Brownsville si è dimesso dal
Congressional Hispanic Caucus (il gruppo che riunisce i deputati
di origine latinoamericana) per protestare contro la militarizzazione
della propria città e della zona di confine. Quello che più fa infuriare è la lampante mancanza di qualunque consultazione dei residenti,
sulla cui vita si abbattono gli effetti della costruzione del muro e
della militarizzazione della frontiera: una mancanza che consente
agli interessi economici dei fornitori del Governo di dettare le politiche pubbliche.
Il giuramento di fedeltà alla bandiera americana afferma che gli
Stati Uniti sono «un’unica nazione sotto Dio», ma ormai c’è chi
sostiene che si stiano tramutando in «una nazione in appalto» 6 a
causa dell’esternalizzazione della responsabilità del Governo per
la sicurezza interna a imprese private, che hanno mostrato una
4 Sharkey J., «Border Patrol grows as seizures drop», in Aljazeera America, 22
agosto 2013, <http://america.aljazeera.com/articles/2013/8/22/border-patrol-growingasapprehensionsdrop.html>.
5 Border Security, Economic Opportunity, and Immigration Modernization Act
(S.744). Il progetto non è ancora stato discusso alla Camera dei rappresentanti.
6 Stanger A., One Nation under Contract. The Outsourcing of American Power
and the Future of Foreign Policy, Yale University Press, New Haven (Ct, USA), 2009.
La risposta degli Stati Uniti all’immigrazione irregolare
499
insufficiente disponibilità a mantenere adeguati meccanismi di controllo e assunzione di responsabilità. Le imprese di detenzione private a scopo di lucro e i fornitori militari sono una prova che questo
è quello che sta accadendo riguardo all’immigrazione.
È compito della comunità dei credenti ridare concretezza al fatto
di essere una nazione sotto Dio, un Dio che esige rispetto per la
dignità umana di ogni persona, a prescindere dal fatto che abbia i
documenti in regola. Man mano che le imprese private assumono
al posto del Governo la responsabilità dei trattamenti inflitti ai migranti, cambiano le strategie per ottenere il riconoscimento della
oro dignità. Oltre ai gruppi di pressione su deputati e senatori, ci sono oggi coloro che sfidano le imprese private attraverso la pressione
che possono esercitare come azionisti (shareholder advocacy). Grazie
a queste pressioni, una delle maggiori imprese attive nel settore della
detenzione sta elaborando una nuova politica per il rispetto dei diritti umani dei propri detenuti. L’applicazione e il rispetto di questa
politica resta l’obiettivo ultimo, ma i risultati raggiunti attraverso
questa pressione fanno sperare che si riuscirà ad arginare l’ondata
di commercializzazione e militarizzazione degli immigrati in
atto negli Stati Uniti.
L’immagine che abbiamo delle persone fa la differenza: se ce
le rappresentiamo come criminali pericolosi, ecco che ne derivano
politiche repressive. Se invece in loro vediamo noi stessi e li incontriamo come esseri umani, allora le nostre politiche e le nostre leggi
saranno il riflesso di questa immagine.
Articolo pubblicato in Promotio Iustitiae, n° 113, 2013/4; titolo originale «U.S. Migrant Detention in a Culture of Fear, Commercialization and Militarization». Traduzione dall’originale inglese di Simonetta Russo. Adattamento, neretti e note a cura
della Redazione.
500
Tom Greene SJ
© SONIA FRANGI
immagini
Sonia Frangi
Finestre 2014: Lipari
Una finestra aperta sulla bottega di un pescatore, un lavoro che fa parte
della tradizione e della vita quotidiana, uno di quegli antichi mestieri
che hanno resistito nel tempo e che tendono a scomparire soppiantati
dal progresso o dall’industrializzazione. Ma il lavoro, qualunque esso
sia, è parte integrante della vita dell’uomo, spazio essenziale per il rispetto e la promozione della dignità della persona.
502
cristiani e cittadini
Alla riscoperta dell’insegnamento
sociale della Chiesa
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la nostra società
recensione
Dalla biblioteca di Aggiornamenti
Sociali, un libro da leggere
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bibbia aperta
Elementi di riflessione sociale
a partire da testi biblici
bibbia aperta
Madre e figlio
di Giuseppe Trotta SJ
Redazione di Aggiornamenti Sociali
F
in dalle origini del cristianesimo Maria ha goduto di una particolare venerazione da parte dei credenti: un papiro
del III sec. d.C. conserva una delle più
antiche preghiere alla Madre di Dio. In
questo appellativo è sintetizzata l’unicità
di una donna resa grande da una maternità straordinaria, ma la cui figura è spesso tratteggiata in modo irrealistico, che
l’allontana dall’esperienza quotidiana. A
questo proposito il Concilio Vaticano II
esorta «i teologi e i predicatori della parola divina ad astenersi con ogni cura da
qualunque falsa esagerazione» (cfr Lumen
gentium 67).
Se ci si attiene ai testi biblici, Maria
emerge come una donna che, nonostante
il destino eccezionale, non è stata preservata dalle necessità di una comune
esistenza umana, in particolare quella di
sperimentare e apprendere: la Vergine ha
dovuto imparare a essere la madre di Gesù e lui, a sua volta, a esserne figlio.
Per quanto irripetibile, questa relazione offre molti spunti di riflessione,
soprattutto se paragonata ad altre simili
descritte dalla Bibbia stessa, come quella
fra Eva, Caino e Abele, la prima famiglia
504
Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (504-508)
della storia biblica. In questo confronto si
può rileggere l’esperienza di tante madri e
figli il cui rapporto fondamentale, strutturante, presenta spesso dei vissuti non
così semplici da rielaborare.
Una maternità compromessa
Uno dei titoli attribuiti a Maria è
“la nuova Eva”. A partire da Giustino,
un padre della Chiesa del II sec. d.C.,
il confronto fra le due donne è servito a
illustrare il ruolo della prima nella storia
della salvezza. Anche un discorso sulla relazione madre-figlio può giovarsene, perché la filiazione da Eva è all’origine della
vita sulla terra e di uno stile di rapporti
familiari da cui dipende, in parte, un
certo andamento degli eventi nella storia.
Ricordiamo la vicenda: Dio aveva ordinato all’umanità di cibarsi di tutti gli
alberi del giardino, tranne quello della
conoscenza del bene e del male. Eva, ingannata dal serpente, ne mangia il frutto e lo dà anche ad Adamo (cfr Genesi
2-3). Con questo gesto i due progenitori
trasgrediscono la legge, percepita come
un impedimento da superare per realizzare in pieno il proprio essere limitato.
bibbia aperta
Il senso di quel comando, invece, era di
mantenere l’umanità all’interno di una
relazione costitutiva con l’altro da sé in
quanto elemento necessario alla pienezza, non limitante. Entra così nella storia
un modo autoreferenziale di affermarsi,
di “crescere e moltiplicarsi”, in cui l’altro
non è un soggetto di pari dignità, ma un
oggetto funzionale.
Il rapporto con il maschile, attraverso il quale si costituisce e si manifesta
la femminilità di Eva, viene alterato e si
riflette anche sulla sua maternità. Prima
della trasgressione, infatti, Adamo riconosce la differenza di questa nuova creatura, che Dio ha tratto dal suo fianco,
rispetto a sé e alle altre a cui ha appena
dato il nome dicendo: «Costei si chiamerà
donna (’ iššâ) perché dall’uomo (’ îš) è stata
tratta» (Genesi 2,23). Qui la relazione è
basata sull’equilibrio fra differenza e somiglianza – sottolineato dal gioco delle
parole ebraiche – grazie al quale ciascuno
dei due può riconoscere la propria specifica personalità.
Dopo la trasgressione, invece, la
donna riceve il suo nome proprio, che,
però, non fa più riferimento al rapporto
originario e costitutivo con l’uomo, ma
alla funzione da lei assunta nella storia
in quanto madre: «Adamo chiamò la sua
donna Eva, perché lei fu la madre di tutti
i viventi» (Genesi 3,20). In questo modo,
il nome della donna – che nella mentalità
biblica ne esprime l’essere – rappresenta la
sua relazione con i figli che, in un contesto esistenziale divenuto autoreferenziale,
può anche essere svincolata da quella con
Adamo, il quale sembra prenderne atto
e avallare la situazione, escludendosi da
tale rapporto.
Infatti, la prima filiazione viene descritta così: Adamo conobbe Eva, la sua
donna, la quale concepì e generò Caino e
disse: «Ho acquistato un uomo con il Signore». Poi partorì ancora suo fratello Abele
(Genesi 4,1-2). Pur avendo concepito il
primo figlio dal suo uomo, la prima donna dice (e a chi sta parlando? A se stessa!)
di aver “acquistato” un uomo “con” il
Signore. Adamo è sparito, sostituito da
un Dio interpretato come potere assoluto
– cioè sciolto da ogni vincolo relazionale
– di dare la vita.
Non si tratta di colpevolizzare Eva e
tutte le donne in lei, come ha fatto una
certa interpretazione misogina di questi
testi, ma di smascherare le logiche deleterie secondo cui i progenitori agiscono.
Del resto lei è «la donna ingannata, ingannatrice a sua volta poi negata come
donna, promossa come madre e infine
conosciuta come oggetto. Che può fare
un essere-oggetto se non […] possedere
infine come è posseduto?». Eva è prigioniera della mentalità fallica del serpente,
il quale l’ha ingannata facendole credere
di poter accrescere il proprio essere appropriandosi di ciò che non ha e non può
possedere (cfr Balmary M., Abele o la
traversata dell’Eden, EDB, Bologna 2004,
139-148 e 219-221).
La logica autoreferenziale che elimina dalla filiazione la relazione essenziale
con l’altro sesso si riflette nel verbo usato
da Eva, «ho acquistato», dalla cui radice ebraica, qānâ, viene anche il nome
del figlio, qaîn, “Caino”. “Comperare”,
“possedere” sono i possibili significati di
questa parola, di cui il primogenito porta
impresso nel suo essere il senso economico, la logica di mercato, frutto dell’azione di una madre onnipotente, capace di
“acquistare” un figlio usando Dio come
partner.
Il racconto della prima filiazione prosegue mostrandoci gli effetti di un tale
modo possessivo e autoreferenziale di impostare la relazione madre-figlio: Caino
presentò dei frutti del suolo come offerta al
Signore; mentre Abele anche lui presentò
delle primogenite del suo gregge e il loro
grasso. Il Signore considerò Abele e la sua
offerta, ma non considerò Caino e la sua
Madre e figlio
505
offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo
volto era abbattuto (Genesi 4,3-5).
Il primogenito è in preda a un comprensibile narcisismo, viste le premesse,
e risulta incapace di accettare un “No!”
apparentemente immotivato da parte di
un Dio costretto a prendere il posto di
un padre annichilito di fronte al ruolo
materno della donna.
Il racconto non spiega perché l’offerta
di Caino venga ignorata e così tende a
suscitare lo stesso risentimento e desiderio di rivalsa provato dal protagonista di
fronte alla percezione di aver subito un
torto. Il lettore è chiamato a distaccarsi
dal riferimento narcisistico verso se stesso
per capire la pedagogia di Dio, il quale,
da vero padre, contrasta la preferenza accordata dalla madre al primogenito con
quella donata al minore. Infatti Abele,
il cui nome significa “nebbia”, “vapore”
o anche “vanità” (cfr Qoelet 1,2), è stato reso insignificante da Eva, anche lui è
vittima di un amore materno squilibrato.
Se Caino cogliesse l’occasione offertagli
di dominare l’istinto narcisistico e vendicativo potrebbe diventare fratello di
Abele, superando la relazione possessiva
ed esclusiva con la madre (cfr Wénin A.,
Da Adamo ad Abramo, o l’errare dell’uomo. Lettura narrativa e antropologica della
Genesi, EDB, Bologna 2008, 93-112).
A ben vedere, anche se Dio accoglie
l’offerta del figlio minore e ignora quella
del maggiore, prende più a cuore le sorti
di quest’ultimo, chiamandolo ad andare
oltre se stesso: Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai
forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene,
il fallimento è accovacciato alla tua porta;
verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo»
(Genesi 4,6-7). Il primogenito si dibatte
in una comprensibile difficoltà di cui non
ha colpa e da cui non sarebbe aiutato a
uscire da un atteggiamento paternalistico
o giudicante. Perciò Dio dimostra la sua
506
Giuseppe Trotta SJ
sollecitudine nei suoi confronti rivolgendogli un appello a dominare le emozioni
negative, in cui risuona non un rimprovero castrante, ma la fiducia di poter riuscire nell’impresa.
Purtroppo Caino resta chiuso in se
stesso, non riesce a venir fuori dalla gabbia dorata dell’amore materno e infatti
non risponde al monito del Dio-padre
che lo affida alla sua libertà responsabile
verso il fratello. Se la parola aveva contraddistinto in origine la possibilità degli
umani di entrare in un rapporto privilegiato col potere creatore di Dio (cfr Genesi 1,26-30), è proprio di questa possibilità di interlocuzione che la maternità
compromessa di Eva priva il primogenito
e il minore. Abele, però, non ha bisogno
di esprimersi verbalmente, gli bastano i
gesti, perché, in quanto escluso, ultimo,
è favorito agli occhi di quel potere che è
amore e giustizia insieme.
La nuova Eva e il nuovo Adamo
In Caino si ripete la vicenda dei genitori, anche lui è costretto ad allontanarsi da Dio, il quale, però, lo protegge:
Il Signore impose a Caino un segno, perché
non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato
(Genesi 4,15).
Più tardi nella storia di Israele la Legge imporrà l’obbligo di consacrare ogni
primogenito e il segno di protezione e
appartenenza diventerà la circoncisione:
Il Signore disse a Mosè: «Consacrami ogni
primogenito, quello che apre il grembo tra i
figli di Israele, di uomini o di animali: esso
appartiene a me» (Esodo 13,1-2). Il rituale
avveniva a Gerusalemme, nel tempio, e vi
si può scorgere anche la funzione simbolica di esorcizzare ogni possibile possessività dei genitori verso il figlio. Anche
su Gesù viene compiuto questo rito (cfr
Luca 2,21-24) e così la sua relazione filiale viene da subito collocata, almeno simbolicamente, nel giusto equilibrio fra unità e alterità, in particolare nei confronti
bibbia aperta
della madre. Maria, infatti, potrebbe a
ben diritto pensare di aver “acquistato
un figlio con il Signore”, perché il suo
rapporto con Gesù si svolge in un certo
senso in assenza del padre. E invece proprio in questo si manifesta la qualità della
sua maternità verginale.
Impostato correttamente nel suo inizio, come si è poi incarnato e sviluppato
nel concreto il rapporto madre-figlio?
Può aiutarci un testo inedito di Paola
Bassani, psicologa, animatrice del Centro
Giovani Coppie San Fedele di Milano,
scomparsa di recente, rielaborato qui di
seguito.
Il primo episodio in cui avviene
quel distacco nella relazione da cui Gesù emerge nella sua autonomia di figlio
e Maria come madre più consapevole è
proprio nel tempio a Gerusalemme, dopo il tradizionale pellegrinaggio annuale.
Durante il ritorno a Nazareth, accortisi dell’assenza del figlio nella carovana,
Giuseppe e Maria tornano indietro e lo
trovano nel tempio a discutere con i dottori della legge. La domanda-rimprovero
della madre è carica di tutta l’ansia accumulata nei tre giorni di ricerca: «Figlio,
perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e
io, angosciati, ti cercavamo», ma deve fare
i conti con la risposta di un Gesù ormai
dodicenne, età in cui il giovane israelita
diventa responsabile in prima persona
dell’osservanza della legge: «Perché mi
cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (cfr Luca
2,41-52).
Per la prima volta Maria affronta la
lenta fatica di separarsi dal proprio figlio,
la pazienza di esserci ma non troppo, di
lasciare che trovi la sua strada senza pretendere di conoscerla per lui. Gesù, invece, impara a fare i conti con i limiti, le
ansie, le aspettative dei genitori: sentire
il conflitto tra il loro bene e i propri progetti gli consente di crescere, di fare delle
scelte profondamente personali.
Maria rimprovera Gesù, ma poi sta
con i suoi tormenti e le sue gioie, le conserva nel cuore. Cosa significa? Innanzitutto non si lamenta, non si arrabbia:
sente lacerarsi le viscere, ma nel profondo
sa che il figlio ha ragione. Perciò non si
mette a congetturare, a cercare di capire
con la testa, ma accoglie i dolori e le ansie nel luogo dell’amore, dove aveva fatto
esperienza di fiducia e libertà.
La capacità di Maria di stare con i
suoi vissuti, di custodirli ed elaborarli,
in psicologia viene definita “capacità negativa”. La funzione della madre in questo senso è fondamentale: deve essere in
grado di stare con le emozioni negative,
l’ansia, la rabbia, la paura, senza scappare, agirle o sentirsi minacciata da esse,
soprattutto senza sentire minacciato il
bene che prova nei confronti del figlio.
In questo modo gli insegna a non temere
il mondo emotivo, ad ascoltarlo, a riconoscere e dare un nome alle emozioni che
lui stesso prova e quindi a governarle.
Secondo alcuni studi psicoanalitici recenti l’integrazione fra emotività e
corporeità è necessaria per uno sviluppo
umano equilibrato, ma non è un evento
naturale. L’insediarsi dello psichico nel
corporeo è un fenomeno legato al tempo,
ai ritmi, al divenire del corpo, di cui il
femminile fa esperienza soprattutto nella
gravidanza. Pertanto il silenzio di Maria
non indica un atteggiamento passivo o
rinunciatario di una madre dolce, ma
debole, bensì il coraggio di farsi carico
del proprio vissuto emotivo di mamma,
senza farne oggetto il figlio, come Eva,
ma lasciandogli tempo e spazio.
Un altro episodio significativo manifesta il passaggio verso lo stadio adulto
della relazione: le nozze di Cana (cfr il
riquadro alla p. seguente).
La secca risposta di Gesù alla richiesta più o meno esplicita di Maria sembra
segnare un’ulteriore incomprensione (tra
l’altro è la stessa espressione rivolta a GeMadre e figlio
507
Giovanni 2,1-5
1
solo madre e figlio, ma
una donna e un uomo che
portano avanti un proprio
progetto con dignità e collaborazione. In quest’ottica, il femminile di Maria
non è lo stereotipo della
donna, ma un archetipo
indispensabile per la realizzazione di ogni essere umano, per la
sua reale incarnazione. Da questa femminilità autentica, vergine, deriva una
maternità realmente feconda ed efficace.
Per questo, in punto di morte, dalla croce Gesù affida Maria al discepolo
amato, anonimo, dicendo alla madre:
«Donna, ecco tuo figlio!», e a lui: «Ecco tua
madre!» (cfr Giovanni 19,25-27). Ancora
una volta egli fa appello alla femminilità
di Maria, a quella dimensione viscerale,
profonda, forte e sensibile, capace anche
di andare oltre i legami di parentela. Lei,
con la sua maternità, ha generato lui come uomo e figlio; adesso lui dona lei al
mondo come donna e madre.
Inoltre, offre al discepolo la possibilità
di fare la sua stessa esperienza. Infatti, in
chiave psicoanalitica, Gesù, uomo e figlio
compiuto, presentando Maria al discepolo perché la prenda con sé nella sua casa
come madre, lo invita a familiarizzarsi
con quel femminile e a integrarlo nel suo
maschile, come ha fatto lui, il “nuovo
Adamo”.
A partire da questa offerta del figlio,
Maria resta per tutti – uomini e donne
– l’esempio di una femminilità e di una
maternità integra e feconda, di un’umanità pienamente realizzata nella sua capacità di generare nuova vita.
Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e
c’era la madre di Gesù. 2 Fu invitato alle nozze anche Gesù
con i suoi discepoli. 3 Nel frattempo, venuto a mancare il
vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». 4 E
Gesù rispose: «Cosa c’è tra me e te, o donna? Non è ancora
giunta la mia ora». 5 La madre dice ai servi: «Fate quello
che vi dirà».
sù da un indemoniato! Cfr Marco 5,7).
Ma lei non si ferma davanti al suo «No!»
e invita comunque i servi a seguirne le
istruzioni. Cosa sta facendo? Disobbedisce al Figlio di Dio? Non lo ascolta?
Maria si rivela una donna attenta e
tenace: emerge in lei un femminile intuitivo e sempre più sicuro di sé, come se il
processo di separazione dal figlio avesse
conferito alla madre una maggiore fiducia anche in se stessa, in ciò che è bene
fare. Caino, nel suo narcisismo, aveva interpretato il rifiuto di Dio come un’offesa
personale. Lei, invece, non fa una piega
e dimostra un atteggiamento di grande
confidenza verso Gesù, andando oltre le
sue parole grazie alla profonda empatia
materna con cui ne intuisce i sentimenti
più intimi, al punto da poterli anche dolcemente forzare.
Da parte sua, in questo comportamento il figlio non vede più in lei tanto una mamma petulante, quanto una
donna che “seduttivamente” lo invita ad
agire. Perciò la sua risposta è da uomo,
ironica, ha il sapore complice di chi riconosce una sensibilità “altra” da sé, da
accogliere e rispettare, alla quale ci si può
liberamente adeguare, senza per questo
lasciarsene possedere abdicando alla propria. Qui Gesù e Maria non sono più
508
Giuseppe Trotta SJ
di Jeffrey D. Sachs
Direttore di The Earth Institute, Columbia University, New York;
Consigliere speciale del Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon
per gli Obiettivi di sviluppo del millennio
G
li insegnamenti di Gesù offrono una
buona notizia per i giusti, siano essi
poveri ed emarginati oppure ricchi ma
generosi. Tutti possono trovare posto nel
regno. C’è invece poco conforto per coloro che pensano che solo la loro ricchezza
potrà salvarli. La parabola di Lazzaro e
dell’uomo ricco è un monito sul destino dei ricchi che ignorano i poveri (Luca
16,19-31).
Quindi non dovremmo essere sorpresi
dalle reazioni molto divergenti all’esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii gaudium. Da un lato, in tutto il mondo
la gente è stata immediatamente attirata
dalla forza del messaggio di speranza e
giustizia sociale del Papa, entusiasmata
dalla sua critica alla «dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano» (EG, n. 55) e ispirata dal
suo appello alla solidarietà con i poveri.
Tuttavia negli Stati Uniti un certo
numero di persone notoriamente ricche
e alcuni commentatori che abitualmente
parlano in loro nome hanno reagito con
grande irritazione: «Marxista», hanno
strillato alcuni e l’accusa è riecheggiata; il
Papa è «confuso», hanno dichiarato altri.
cristiani e cittadini
Papa Francesco,
riformatore del mercato
Altri ancora hanno cercato di sminuire
la portata del suo messaggio, sostenendo
che in realtà esso è diretto alla sua terra
di origine, l’Argentina, piuttosto che agli
Stati Uniti. Almeno una persona molto
benestante ha minacciato di rifiutare una
donazione per il restauro della Cattedrale
di St. Patrick di New York.
Coloro che presumono di leggere nelle parole del Papa un piano economico
specifico si sbagliano. Egli, come Gesù,
non offre alcun piano di questo genere:
«Questo non è un documento sociale»,
precisa (EG, n. 184). Gesù non rovesciò
i tavoli dei cambiavalute per dare attuazione a una riforma del sistema bancario
del suo tempo, ma piuttosto per sollevare
una questione morale: la casa della giustizia divina era diventata un covo di ladri.
Papa Francesco porta il messaggio di Gesù al cuore del capitalismo contemporaneo, ricordandoci che abbiamo bisogno
di un quadro di riferimento morale per la
nostra economia del XXI secolo.
Questo messaggio però è fondamentalmente sovversivo nei confronti degli
atteggiamenti prevalenti nei corridoi del
potere americano, a Wall Street come a
Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (509-512)
509
Washington. Proprio per questo la sua
importanza è cruciale. Troppi tra i ricchi
e i potenti negli Stati Uniti sono in balia
di una ideologia economica che pone il
diritto di proprietà sopra la dignità umana, persino al di sopra della sopravvivenza delle persone. Troppi credono che la
moralità sia il risultato del mercato.
Non è un’esagerazione. La dottrina del
libertarianismo, ad esempio, come esposta
da Ayn Rand [1905-1982, scrittrice e filosofa americana di origine russa, N.d.R.]
e dai suoi seguaci, tra cui Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve
[la Banca centrale americana, N.d.R.], si
basa sull’idea che la giustizia economica
sia definita dalla “libertà” del mercato,
intesa come libertà di acquistare, vendere
e proteggere la proprietà personale. Né il
Governo, né la legislazione e neppure l’autocontrollo morale dovrebbero interferire.
Secondo questa teoria, le tasse sono considerate una forma di servitù nei confronti
dello Stato, anche quando le entrate fiscali
sono destinate a nutrire i poveri, sostenere
i disoccupati, fornire servizi sanitari agli
indigenti e proteggere l’ambiente per tutti.
La Chiesa e il diritto di proprietà
La Chiesa ha giustamente e costantemente respinto l’idea che il diritto di proprietà privata sia sacrosanto. La Chiesa
moderna, sin da quando per la prima volta ha affrontato la questione economica
durante la prima rivoluzione industriale,
in particolare nell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891), ha giudicato
con favore l’economia di mercato, ma in
una forma in cui il diritto alla proprietà
privata sia inserito in un quadro di riferimento etico. La moralità e la dignità
umana devono occupare il primo posto e
il diritto di proprietà dovrebbe essere sensibile al più alto richiamo della giustizia.
Così si esprime Leone XIII: «È lecito,
dice san Tommaso, anzi necessario all’umana vita che l’uomo abbia la proprietà
510
Jeffrey D. Sachs
dei beni. Ma se inoltre si domandi quale
debba essere l’uso di tali beni, la Chiesa
per bocca del santo Dottore non esita a
rispondere che, per questo rispetto, l’uomo non deve possedere i beni esterni come propri, bensì come comuni, in modo
che facilmente li comunichi all’altrui necessità. […] In conclusione, chiunque ha
ricevuto dalla munificenza di Dio copia
maggiore di beni, sia esteriori e corporali
sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti,
di servirsene al perfezionamento proprio,
e nel medesimo tempo come ministro
della divina provvidenza a vantaggio altrui» (RN, n. 19).
Sulla stessa linea, Leone XIII sosteneva che i contratti conclusi sulla base
del libero consenso tra le parti possono
essere considerati ingiusti quando esse
sono troppo disuguali per ricchezza e
potere. Come Paolo VI più tardi affermò
nell’enciclica Populorum progressio (1967),
rinviando proprio all’insegnamento di
Leone XIII, «la legge del libero consenso
rimane subordinata alle esigenze del diritto naturale» (PP, n. 59). Su scala globale Paolo VI osservò che anche il libero
scambio tra le nazioni deve essere soggetto alle esigenze della giustizia sociale.
L’insegnamento della Chiesa descrive
il quadro di riferimento morale del diritto
di proprietà attraverso l’espressione “destinazione universale dei beni”. Certo –
sostiene la Chiesa – la proprietà è e deve
essere (perlopiù) privata, in quanto essa
aumenta l’efficienza, protegge la famiglia
e permette alla classe media di resistere al
saccheggio da parte dello Stato. Tuttavia
la proprietà deve essere compresa anche
come un patrimonio pubblico; i bisogni
dell’umanità devono avere la precedenza
sulle pretese dei singoli individui alla proprietà privata, soprattutto quando sono in
gioco le necessità dei poveri o l’ambiente.
In linea con questa grande tradizione,
papa Francesco si pone come obiettivo
niente di meno che ristabilire un fonda-
cristiani e cittadini
mento morale per i nostri rapporti economici locali, nazionali e globali, attraverso la diffusione dell’insegnamento della
Chiesa sulla giustizia sociale, che affonda
le proprie radici nella tradizione ebraica.
Ma, al di là delle dottrine specifiche, il
Papa richiama temi universali che sono
condivisi da molte grandi religioni, oltre
che da agnostici e atei, a cui ha rivolto
l’invito a unirsi nella ricerca della giustizia e della pace. Egli scrive che un dialogo interreligioso «in cui si cerchi la pace
sociale e la giustizia è in sé stesso, al di là
dell’aspetto meramente pragmatico, un
impegno etico che crea nuove condizioni
sociali» (EG, n. 250).
Il codice morale del Papa
Papa Francesco sta dando nuovo vigore a un codice morale largamente, se
non universalmente, condiviso, ma che è
stato eclissato dai lustrini della nostra era
mediatica e dirottato dall’idolatria della
proprietà privata (che il Papa paragona al
vitello d’oro; cfr EG, n. 55). Con la sua
gioia e umiltà, Francesco sta cercando di
svegliarci dal nostro torpore, da ciò che
egli chiama «la globalizzazione dell’indifferenza» (EG, n. 54).
Papa Francesco ci chiede di risvegliare
la nostra coscienza morale personale. Non
sappiamo quello che facciamo – ci spiega
– perché «Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione
dinanzi al grido di dolore degli altri, non
piangiamo più davanti al dramma degli
altri né ci interessa curarci di loro, come
se tutto fosse una responsabilità a noi
estranea che non ci compete. La cultura
del benessere ci anestetizza e perdiamo la
calma se il mercato offre qualcosa che non
abbiamo ancora comprato, mentre tutte
queste vite stroncate per mancanza di
possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo» (ivi).
La scienza economica, che è la mia
professione, esemplifica questo progres-
sivo allontanamento dalla morale. Nella
sua ricerca del “rigore scientifico”, la teoria economica dominante ha abbandonato da molto tempo il tradizionale interesse per un quadro di riferimento etico.
Una scienza che ebbe inizio come branca
dell’indagine morale, nel XX secolo si era
ormai trasformata in una “ragazza pompon” del materialismo egoistico, con poco o nessun interesse per la ricerca etica.
Il benessere umano, al centro degli interessi filosofico-morali degli economisti
classici, nelle mani di quelli del XX secolo è diventato praticamente sinonimo dei
beni materiali di cui ciascuno dispone.
Ci sono tre conseguenze disastrose
della globalizzazione dell’indifferenza.
La prima è che la società nel suo complesso, comprese le élite della finanza e
del mondo accademico, ha abbandonato
ogni interesse per il destino dei poveri,
quando non arriva addirittura a incolparli della loro condizione. La seconda è che
i mercati finanziari sono stati deregolamentati e gli scambi di mercato sono diventati il test della moralità. Anche se le
grandi banche di Wall Street spacciavano
titoli tossici a ignari acquirenti stranieri,
alimentando così la bolla finanziaria che
scoppiò nel 2008, l’amministratore delegato di Goldman Sachs dichiarava che,
in fin dei conti, l’azienda stava compiendo la volontà di Dio, poiché contribuiva
a creare ricchezza e posti di lavoro. La
terza conseguenza è che gli economisti
di professione, cui appartengo, sono stati complici di questo processo, gettando
alle ortiche la deontologia professionale
nel momento in cui molti si precipitavano ad accettare impieghi estremamente
ben remunerati a Wall Street. Il premiato
documentario Inside Job del 2010 [vincitore del premio Oscar nel 2011, per la
regia di Charles H. Ferguson, N.d.R.]
mette in mostra un ceto di professionisti
dell’economia che ha smarrito la propria
bussola morale.
Papa Francesco, riformatore del mercato
511
risorse
I risultati sono devastanti. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito
negli Stati Uniti ha raggiunto il più alto
livello nell’arco di un secolo, se non di
più. L’illegalità e la corruzione nel mondo
della finanza hanno quasi portato al crollo dell’economia mondiale. E, in un’epoca di ricchezza globale senza precedenti, i
poveri di tutto il mondo sono stati spesso
lasciati soli a cercare di sopravvivere in
mezzo a tremende avversità.
Consideriamo un recente esempio
particolarmente scioccante. Il Fondo globale per la lotta all’AIDS, la tubercolosi e
la malaria è l’istituzione chiave a livello
mondiale per finanziare la lotta contro
queste tre malattie mortali, che la scienza
moderna è in grado di curare e spesso di
prevenire. Il Fondo globale ha salvato milioni di vite dispensando farmaci e presidi preventivi come le zanzariere contro la
malaria. Eppure, quando lo scorso anno
il Fondo globale lanciò un appello per ottenere nuovi fondi, chiedendo 5 miliardi
di dollari ai Governi e alle imprese di tutto il mondo per potersi prendere cura di
centinaia di milioni dei più poveri della
terra, non riuscì a raggiungere il proprio
obiettivo, raccogliendo solo 4 miliardi. Il
miliardo che manca avrà un costo considerevole in termini di morti e sofferenze,
nel momento in cui gli ambulatori esauriranno farmaci e presidi sanitari salvavita.
Eppure questo miliardo di dollari è inferiore ai guadagni registrati nel 2013 da
diversi proprietari di hedge fund. È meno
di quanto spende ogni giorno il Pentago-
no [il Ministero della difesa statunitense,
N.d.R.]. È meno di un dollaro all’anno
per ciascun abitante dei Paesi ad alto
reddito. Perché il Fondo globale non ha
raccolto abbastanza denaro? C’è solo una
ragione – e non è una giustificazione –: la
globalizzazione della indifferenza.
Ridare vigore a un codice morale
economico globale può essere la nostra
ancora di salvezza nel XXI secolo. In un
momento in cui le nostre società sono
lacerate da disuguaglianze senza precedenti, in cui sei milioni di bambini sotto
i cinque anni potrebbero essere salvati
ogni anno da morte prematura e in cui
la distruzione sconsiderata dell’ambiente
mette la vita degli esseri umani e di milioni di altre specie in pericolo, il nostro
atteggiamento e i nostri giudizi morali
saranno la determinante principale del
nostro destino.
A questo punto della storia, l’umanità
è a un bivio e seguirà la strada che saremo
noi a scegliere. Abbiamo i mezzi tecnici
per risolvere i nostri problemi a livello
nazionale e globale: mettere la povertà al
bando, combattere le malattie, proteggere
l’ambiente e dare istruzione e formazione
a chi non ce l’ha. Ma possiamo farlo e lo
faremo solo se ci sta abbastanza a cuore
da sopportare lo sforzo che richiede.
Siamo di fronte a una crisi morale
molto più che a una crisi finanziaria o
economica. Per questo dobbiamo essere grati a papa Francesco: con amore ci
ricorda che le nostre aspirazioni più alte
sono davvero alla nostra portata.
EG = FRANCESCO, esortazione apostolica Evangelii gaudium, 2013.
Francesco», in Aggiornamenti Sociali, 1 (2014)
5-12.
PP = PAOLO VI, enciclica Populorum progressio,
1967.
Foglizzo P., «“Chiamati a essere poveri”: una
proposta personale, una questione sociale»,
in Aggiornamenti Sociali, 12 (2013) 814-821.
RN = Leone XIII, enciclica Rerum novarum, 1891.
Costa G., «La gioia del Vangelo: il segreto di papa
GFATM, The Global Fund to Fight AIDS, Tuberculosis and Malaria, <www.theglobalfund.org>.
Titolo originale «Market Reformer», pubblicato in America, 24 marzo 2014; traduzione di Paolo
Foglizzo.
512
Jeffrey D. Sachs
La Presidenza del Consiglio
dell’Unione Europea
tools
di Luca Lionello
Dottorando di ricerca in Istituzioni e Politiche
presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali
dell’Università Cattolica di Milano
N
egli ultimi mesi i mezzi di informazione italiani hanno parlato
sempre più frequentemente del “semestre europeo” e delle responsabilità che
l’Italia assumerà nella seconda parte di
questo anno, quando diventerà Presidente del Consiglio dell’Unione Europea
(nel resto dell’articolo questa istituzione
sarà chiamata semplicemente Consiglio).
Nonostante sia una notizia ampiamente
discussa dai media, non è sempre chiaro
che cosa esattamente il Governo italiano si accinga a presiedere. Si parla spesso
impropriamente di Presidenza europea o
di Presidenza dell’Unione Europea (UE).
Anche la stessa dicitura “semestre
europeo” solitamente utilizzata in realtà non è corretta, perché nel linguaggio
ufficiale dell’UE essa identifica ormai le
procedure volte a coordinare le politiche economiche e di bilancio nell’ambito dell’UE portate avanti dalle varie
istituzioni europee e non la Presidenza
semestrale del Consiglio. Alla luce di
questa possibile confusione, in prima
battuta è utile fare chiarezza sui nomi
delle diverse istituzioni europee e sulle
loro funzioni.
Dal 1º luglio 2014, infatti, l’Italia
sarà a capo di una soltanto di queste istituzioni: il Consiglio, la cui Presidenza,
secondo le regole previste dal Trattato di
Lisbona, spetta a ogni Stato membro per
un periodo di sei mesi in base a un sistema di rotazione paritaria. Il Consiglio è
un organismo intergovernativo responsabile, insieme con il Parlamento Europeo,
della funzione legislativa e di quella di
approvazione del bilancio. Per una serie
di materie particolarmente sensibili, come ad esempio il coordinamento delle
politiche economiche o la politica estera e
di sicurezza comune, il Consiglio assume
invece una posizione predominante adottando da solo le decisioni più importanti.
Il Consiglio di cui l’Italia assumerà
presto la Presidenza non va confuso né
col Consiglio d’Europa, che non è un’istituzione dell’UE (cfr Liva 2012), né
col Consiglio Europeo, l’altra istituzione
intergovernativa dell’UE in cui siedono
i Capi di Stato o di Governo dei Paesi
membri e che svolge una funzione di impulso politico definendo gli orientamenti e le priorità politiche generali dell’UE.
Mentre il Consiglio ha una Presidenza
Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (513-517)
513
semestrale a rotazione, il Consiglio Europeo ha un Presidente fisso, eletto una
volta ogni due anni e mezzo a maggioranza qualificata, con mandato rinnovabile una sola volta, carica al momento
ricoperta da Herman Van Rompuy, il cui
incarico scadrà il prossimo dicembre. La
distinzione tra le due Presidenze è stata
sancita dal Trattato di Lisbona. Prima
della sua entrata in vigore, il 1º dicembre 2009, la Presidenza a rotazione tra i
Governi nazionali riguardava infatti sia
il Consiglio sia il Consiglio Europeo. Il
Trattato di Lisbona ha deciso invece di
introdurre una Presidenza permanente
del Consiglio Europeo per meglio coordinare i suoi lavori interni e garantirne
una rappresentanza più efficace verso
l’esterno. Infine, va ricordato che il quadro delle maggiori istituzioni europee è
completato dalla Commissione Europea,
presieduta da José Manuel Barroso, e dal
Parlamento Europeo.
Primus inter pares a gruppi di tre
Soffermiamoci ora sul Consiglio,
considerandone i compiti e le modalità di funzionamento. Poiché si tratta di
un’istituzione intergovernativa, la sua
Presidenza viene esercitata a rotazione
dall’esecutivo di ogni Paese membro, il
quale agisce come primus inter pares per
un periodo di sei mesi. Sebbene sia un
periodo limitato nel tempo, si tratta di
un’occasione importante grazie alla quale
il Governo di turno può avanzare le sue
proposte per lo sviluppo della politica europea e del processo di integrazione.
La Presidenza a rotazione è un meccanismo creato nel 1957 dal Trattato di
Roma. Si tratta di una regola consolidata
che mira a garantire una gestione condivisa del coordinamento intergovernativo dell’UE. Il Trattato non prevede una
disciplina dettagliata del funzionamento
della Presidenza, che pertanto si è evoluta insieme con gli sviluppi politici e
514
Luca Lionello
istituzionali dell’UE. In effetti, anche se
nel corso del processo di integrazione le
istituzioni sovranazionali (Parlamento e
Commissione Europea) si sono progressivamente rafforzate, in moltissimi settori della politica europea i Governi non
hanno accettato cessioni sostanziali di
sovranità e si sono riservati il potere di
decisione seguendo il modello della gestione intergovernativa. Il Consiglio svolge pertanto una funzione fondamentale
nell’equilibrio istituzionale dell’UE.
D’altra parte l’allargamento dell’Unione nel corso degli ultimi vent’anni
ha profondamente trasformato il funzionamento della Presidenza a rotazione di questa istituzione. Se agli inizi del
processo di integrazione un Governo
assumeva la Presidenza ogni tre anni ed
esisteva una forte omogeneità tra i Paesi
membri dal punto di vista delle priorità e
delle strategie politiche, in seguito all’allargamento dell’UE ciascun Paese membro attualmente ricopre la carica ogni
quattordici anni. La Presidenza è diventata quindi un compito quasi eccezionale
per il Governo di uno Stato membro e risulta più difficile coordinare il passaggio
di consegne da un Paese all’altro.
Per facilitare la continuità dell’operato
del Consiglio, il Trattato di Lisbona ha
pertanto introdotto una gestione della
Presidenza a gruppi predeterminati di
tre Stati membri per un periodo di diciotto mesi, nell’arco del quale ciascun
Governo esercita la Presidenza per sei
mesi, mentre gli altri lo assistono in tale
compito sulla base di un programma stabilito in comune. La Presidenza a gruppi
di tre intende favorire la continuità nella
gestione della Presidenza del Consiglio,
permettendo di perseguire obiettivi più
ambiziosi di quelli normalmente realizzabili in un orizzonte di soli sei mesi. Allo
stesso tempo, la formazione dei terzetti
favorisce uno scambio di esperienza tra
gli Stati membri di lunga data e quelli en-
tools
trati solo di recente nell’UE e assicura un
equilibrio nella Presidenza tra Paesi grandi e piccoli. Ad esempio, l’Italia sarà in
gruppo con la Lettonia e il Lussemburgo
per il periodo 1º luglio 2014-31 dicembre
2015. I terzetti e l’ordine di successione
vengono stabiliti dal Consiglio, tenendo
conto delle diversità degli Stati membri
e degli equilibri geografici dell’Unione,
mentre il Parlamento Europeo non viene
coinvolto in queste scelte.
si con il Presidente della Commissione
e gli altri Governi del terzetto. Il Consiglio si riunisce in una “formazione”
diversa a seconda del settore delle politiche UE di cui si occupa. Ad esempio, la
formazione Economia e Finanza (ECOFIN) vede la partecipazione dei ministri
dell’Economia e delle Finanze, mentre
la formazione Ambiente è composta dai
ministri delle Politiche ambientali. Ogni
formazione viene presieduta dal ministro
del Governo titolare della Presidenza del
I compiti della Presidenza
Consiglio competente per materia. L’unidel Consiglio
ca eccezione è costituita dalla formazione
Gli effettivi poteri di cui gode la Pre- Affari esteri, che a partire dall’entrata in
sidenza del Consiglio sono oggetto di di- vigore del Trattato di Lisbona nel 2009 è
battito tra gli specialisti delle istituzioni presieduta dall’Alto Rappresentante per
europee. Alcuni infatti considerano la gli Affari esteri e la politica di sicurezza
Presidenza come una responsabilità senza dell’Unione Europea, ruolo ricoperto atpotere, facendo notare che il Consiglio è tualmente da Catherine Ashton.
comunque in grado di operare anche senIn secondo luogo, la Presidenza fisza il coordinamento del suo Presidente, sa le priorità politiche per il semestre.
il quale non può impedire l’adozione di All’inizio del mandato, il Capo di Stato
decisioni a lui scomode. Altri hanno in- o di Governo del Paese che ha assunto
vece apprezzato il ruolo di leadership che la Presidenza presenta davanti al Parlala Presidenza del Consiglio può svolgere. mento Europeo un programma d’azione,
Per molti Governi il semestre di presiden- illustrando quali sono le sue priorità e in
za del Consiglio è diventato un banco di che modo intende raggiungerle. Allo stesprova del loro europeismo e un’occasione so modo, una volta concluso il proprio
per illustrare agli altri partner la propria mandato, il Governo uscente svolge una
visione del processo di integrazione e le relazione finale davanti al Parlamento
proprie priorità politiche.
Europeo per illustrare i risultati ottenuti.
Le responsabilità che gravano sulla
La Presidenza svolge poi una funzioPresidenza del Consiglio sono fonda- ne di negoziato nel processo decisionale,
mentalmente quattro. Innanzitutto il dovendo trovare un compromesso tra gli
Presidente espleta alcuni compiti ammi- Stati membri, in particolare nel caso in
nistrativi di organizzazione delle riunioni cui i Governi abbiano interessi nazionali
del Consiglio stesso, fissandone l’agenda contrapposti. Questo compito è evidene coordinando il dibattito, consultando- temente necessario al fine di raggiungere
le maggioranze richieste
in seno al Consiglio per
Col termine “formazione” si identificano le dieci aree di
l’adozione di una decisioazione politica in cui è organizzato il lavoro del Consiglio:
ne comune. Ricordiamo
Affari generali; Affari esteri; Economia e finanza; Giustiche il Trattato di Lisbona
zia e affari interni; Occupazione, politica sociale, salute e
ha introdotto un sistema
consumatori; Competitività; Trasporti, telecomunicazioni ed
energia; Agricoltura e pesca; Ambiente; Istruzione, giovendi votazione “a doppia
tù, cultura e sport.
maggioranza”, che entrerà
La Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea
515
pienamente in vigore a partire dal 2017.
Perché una proposta sia adottata, servono
due tipi di maggioranza: una maggioranza di Paesi (almeno 55%) e una maggioranza della popolazione totale dell’UE (i
Paesi a favore dovranno rappresentare almeno il 65% della popolazione dell’UE).
Infine, la Presidenza è responsabile
della rappresentanza del Consiglio. Questa funzione è esercitata sia all’interno
dell’UE, ad esempio durante i negoziati
tra il Consiglio stesso e il Parlamento Europeo per l’approvazione delle leggi o del
bilancio, sia verso l’esterno in relazione ai
soggetti terzi.
Opportunità e rischi
La Presidenza del Consiglio deve
evidentemente esercitare i suoi compiti
con imparzialità e nell’interesse generale dell’Unione. Per questo motivo viene
previsto un dialogo molto stretto tra la
Presidenza e le altre istituzioni UE (il
Parlamento, la Commissione e il Consiglio Europeo).
In particolare, la collaborazione col
Consiglio Europeo è stata modificata a
seguito delle decisioni prese col Trattato di Lisbona del 2009. Infatti, l’ultima
volta che l’Italia ha assunto un ruolo di
guida e coordinamento nelle istituzioni
europee, nella seconda metà del 2003,
il Governo italiano aveva gestito la Presidenza di due organi: il Consiglio e il
Consiglio Europeo. Questa volta, invece,
la Presidenza italiana dovrà gestire competenze più circoscritte relative alla sola
Presidenza del Consiglio.
Questa limitazione introdotta dal
Trattato di Lisbona, in realtà, non impedirà automaticamente al Governo italiano, nella qualità di Presidente del Consiglio, di esercitare un ruolo di impulso
anche sui lavori del Consiglio Europeo.
Le regole di procedura di quest’ultimo
prevedono infatti che il suo Presidente debba fissare l’agenda e coordinare
516
Luca Lionello
il lavoro in stretta cooperazione con lo
Stato membro che ha la Presidenza del
Consiglio. In questa prospettiva, mentre
il Presidente del Consiglio Europeo deve
assicurare la preparazione e la continuità dei lavori del Consiglio Europeo, il
Presidente del Consiglio può svolgere un
ruolo più di iniziativa politica. Questo
vale in particolare per il Consiglio in formazione Affari generali, che ha il compito di preparare i lavori del successivo
Consiglio Europeo stabilendone l’agenda
insieme con il Presidente del Consiglio
Europeo. La cooperazione tra le due Presidenze è così stretta che il Capo di Stato
e di Governo titolare della Presidenza del
Consiglio può prendere il posto del Presidente del Consiglio Europeo in caso di
fine prematura del suo mandato o di un
suo impedimento. Grazie a questa stretta
collaborazione, il Governo titolare della
Presidenza del Consiglio sarà pertanto in
grado di influenzare l’agenda politica del
Consiglio Europeo e quindi dell’UE. Le
regole di procedura non fissano in realtà
le modalità di cooperazione dei due Presidenti, al di là di una serie di incontri periodici prestabiliti. Il loro rapporto dipende in concreto dalla maggiore o minore
sintonia tra il Presidente del Consiglio
Europeo e il Capo di Stato o di Governo
del Paese di turno titolare della Presidenza del Consiglio.
In base a quanto abbiamo detto, pur
agendo in maniera super partes e nel rispetto del principio di leale cooperazione,
la Presidenza può godere di un margine
di manovra importante nell’adempimento dei suoi compiti. Si tratta di un soft power che il Governo incaricato della Presidenza può usare per modellare l’agenda
politica e spingere l’attenzione degli altri
Governi verso questioni specifiche di suo
interesse, facendo attenzione a non abusarne.
I risultati ottenibili in concreto dalla
Presidenza di turno dipendono essenzial-
tools
Consiglio dell’UE, <www.consilium.europa.eu>.
economica e monetaria lungo le direttive
già indicate dalla Commissione Europea
nel Blue Print on a Deep and Genuine
Economic and Monetary Union, pubblicato nel novembre 2012. Questo processo di riforma prevede il superamento
della crisi del debito sovrano attraverso
la creazione dell’unione bancaria, fiscale,
economica e politica (così dette “quattro
unioni”). Al momento è stata realizzata
solo l’Unione bancaria, che tuttavia necessita del sostegno delle altre per essere
realmente efficace.
Un’ultima considerazione: trattandosi
di un incarico oneroso, l’assunzione della
Presidenza del Consiglio non è immune
da rischi. Una gestione goffa degli importanti incarichi istituzionali affidati
al Governo incaricato della Presidenza
rischia di comprometterne il prestigio a
livello europeo e internazionale, riducendo di fatto il suo peso politico in seno alle
istituzioni intergovernative.
Anche le crisi di Governo che avvengono durante il semestre europeo sono
generalmente considerate un fallimento
della prova europea cui i Paesi membri
sono chiamati a sottoporsi con l’assunzione della Presidenza.
Law Review, 3, 597-604.
Chalmers D. – Davies G. – Monti G. (2010), European Union Law, Cambridge University Press.
Draetta U. (2009), Elementi di diritto dell’Unione
Europea, Giuffré, Milano.
Chiti M. P. – Greco G. (2005), Trattato di diritto
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Liva M. (2012), «Consiglio d’Europa», in Aggiornamenti Sociali, 5, 445-448.
Commissione Europea (2012), Blue Print on a
Deep and Genuine Economic and Monetary
Union, in <www.ec.europa.eu>.
Tesauro G. (2012), Diritto dell’Unione Europea,
CEDAM, Padova.
Common Market Law Review Editorial Comments
(2010), «The post-Lisbon institutional package:
Do old habits die hard?», in Common Market
risorse
mente dal carattere e dalla capacità di
leadership del Governo incaricato. Per fare alcuni esempi, il semestre di Presidenza tedesco nella seconda metà del 2007
è stato particolarmente importante per
rilanciare il progetto di riforma dei Trattati dopo il fallimento della Costituzione
europea e arrivare alla firma del Trattato
di Lisbona. Durante il semestre francese,
nella seconda metà del 2008, la Presidenza guidata da Nicolas Sarkozy ha svolto
un ruolo importante di coordinamento
della posizione europea in relazione alla
crisi russo-georgiana che ha permesso di
evitare una pericolosa escalation del ricorso alla forza nella regione. Venendo
all’Italia, nel 1990 il semestre di Presidenza è stato un momento importante
per accelerare il negoziato sulla creazione
dell’Unione monetaria, che ha poi portato alla firma del Trattato di Maastricht.
Per quanto riguarda le priorità della
prossima Presidenza italiana, è auspicabile che il Governo proceda sulla via delle
riforme dell’Unione, mettendo all’ordine
del giorno il tema della crescita e dell’occupazione a livello europeo. Questo potrà essere fatto rafforzando l’integrazione
della zona euro e sviluppando l’Unione
Thomson R. (2008), «The Council Presidency in
the European Union, Responsibility with Power», in Journal of Common Market Studies,
3, 593-617.
La Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea
517
Mauro Magatti – Laura Gherardi
Una nuova prosperità
Quattro vie per una crescita integrale
recensione
Feltrinelli
Milano 2014
pp. 198, € 18
di Giorgio Nardone SJ
Professore di Etica speciale
I
mpegnato ormai da alcuni anni a riflettere sulle sorti del capitalismo (cfr Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo
tecno-nichilista e La grande contrazione. I
fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto), in quest’ultimo volume il sociologo Mauro Magatti prosegue la sua ricerca
insieme alla collega Laura Gherardi. I due
autori esplorano il volto che il capitalismo
ha saputo assumere «a seguito della crisi
finanziaria, economica, sociale ed energetica del 2008» (p. 10) e si interrogano
sui suoi (eventuali) destini prefigurando
una sperata “nuova prosperità”, che sappia coniugare la ripresa della crescita con
un rinnovato fondamento cultural-ideale
dell’agire umano.
Il titolo del primo capitolo – «Gli spiriti
del capitalismo» – espone già la principale
categoria interpretativa: il capitalismo, nel
tempo, diviene. Come osservano i sociologi
francesi Luc Boltanski ed Ève Chiapello,
«facendo propri i valori in nome dei quali
è criticato, il capitalismo si rilegittima, si
trasforma e si rilancia. Silenzia la critica e,
riattivando il desiderio, motiva le persone a
partecipare al circuito economico» (p. 23).
In effetti, esso ha a che fare con le cose
518
Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (518-520)
dure o inevitabili della vita (produzione e
consumo) e, al tempo stesso, col desiderio
umano inteso come unione tra una qual
certa forza aggressiva (alcuni parlerebbero
di libido) e una dimensione che sconfina
nel simbolico e nell’ideale. Perciò il capitalismo non è statico, ma diviene nelle tecniche produttive e nel suo “spirito”, giacché a
trasformarsi è anche e proprio questo “spirito”, ossia «l’ideologia che sostiene, giustifica e stimola l’impegno delle persone alla
produzione e al consumo» (p. 24). Vi fu il
capitalismo della prima industrializzazione
ottocentesca (liberazione dalla antica dipendenza di tipo agrario e personale); fece
seguito quello novecentesco (uguaglianza di tutti entro il quadro giuridico dello
Stato-nazione, nascita dello Stato sociale,
liberazione dall’incertezza e dal bisogno,
consumo di massa); venne infine il capitalismo dei nostri anni. In quest’ultimo
stadio, le nuove tecniche informatiche si
uniscono a un ideale di scelta individuale
che ignora il mondo.
In ciascuna di queste fasi è centrale la
parola “liberazione”: essa sembra specificare la già citata nozione di desiderio. «Combinandosi con le dimensioni materiali e
recensione
istituzionali, lo spirito del capitalismo definisce una “economia psichica” che costituisce la grammatica combinatoria tra
individuo e sistema, tra psiche e materialità, tra cultura e struttura. Anche se declinata secondo accezioni assai diverse nelle
varie fasi storiche, la libertà è sempre stata
il valore fondativo dell’assiologia del capitalismo. Incrociandosi con i destini della
modernità, questa formazione economicosociale è stata capace di mettere a profitto
le diverse domande di liberazione avanzate dalle società occidentali nel corso degli
ultimi secoli» (p. 17). Di liberazione aveva
già parlato il sociologo e filosofo Max Weber (1864-1920) rispetto alle tradizionali
forme di dipendenza (asservimento alla
terra e controllo sociale delle piccole comunità). Ma questa liberazione, realizzata
dal capitalismo e dall’urbanizzazione, fu
pagata con l’assoggettamento alla impersonale catena di montaggio.
Preso atto di questi elementi del capitalismo, le analisi del libro sono guidate da
una domanda ermeneutica estremamente
esigente: quali sono i valori che sostengono e legittimano l’impegno personale e
che sarebbero lo “spirito del capitalismo”
in questa determinata fase storica? Dobbiamo sempre ricordare che la realtà viva
di tale impegno va colta nell’attività produttiva di una società, non nei discorsi di
questo o quel personaggio. La risposta a
questa domanda viene dalla considerazione delle vicende degli ultimi anni.
Finora la storia del capitalismo pareva
unire assieme la critica e il suo superamento, lati negativi e nuovi lati positivi sempre
riaffioranti. Pare però che a un certo punto questa logica si sia arrestata: nell’ultimo capitalismo, quello entrato in crisi sul
piano strutturale e simbolico nel 2008,
affiora un grave limite antropologico ed
etico. Esso fa riferimento «a un’assiologia
del tutto diversa da quella precedente per
la concezione che propone dell’Io, della
libertà e del legame» (p. 36): nasce il ca-
pitalismo “tecno-nichilista”. Già nei movimenti post-Sessantotto emergeva una
nozione “estetica” dell’io e della sua ormai
solitaria libertà: ogni forma di legame con
altri e con il territorio portatore di una tradizione era avvertita soltanto come limite
doloroso. L’avvento di Internet (che apre
alla istantanea e individualistica mondialità di ciascuno con ciascun altro) accentua
e stabilizza la novità. Nasce un «sistema
tecnico planetario [che] si è, poi, combinato con “lo spazio estetico mediatizzato”
– di cui Internet è l’emblema – i cui tratti
costitutivi sono la sensorialità, la spettacolarizzazione e l’equivalenza dei significati
[…] Nel capitalismo tecno-nichilista, il
potere della tecnica, ampliando gli spazi
dell’azione individuale, si combina con
una mediatizzazione sempre più pervasiva
nel quadro di una progressiva perdita di
senso condiviso» (p. 35). La vita contemporanea si fonda su due “infrastrutture”.
Una è «il sistema tecnico planetario», che
è un «quadro rigido» dal quale siamo costretti a «performance sempre più elevate»
– lo si noti – «sia quando lavoriamo, sia
quando consumiamo» (p. 39). La seconda
è puramente emotiva, poiché nel già citato «spazio estetico mediatizzato» si coltiva
«una soggettività emotiva e superficiale»
(ivi). Da un lato vi è una iper-razionalizzazione tecnica, dall’altro una iper-soggettivizzazione. Diventano allora difficili un
agire che sia «razionale rispetto al valore»
e un’affettività che sia «capace di appassionarsi e prendere cura» (pp. 39-40). Si può
uscire da tale situazione?
Come è sempre avvenuto nella lunga
storia che stiamo esaminando, la dura necessità ha una sua funzione: il tecno-nichilismo deve fare i conti con il «vincolo delle risorse ambientali e sociali, che […] ha
consumato senza preoccuparsi di rigenerarle» (p. 42). La crisi ecologica e l’apparire
sulla scena economica del mondo di nuovi soggetti di gigantesca rilevanza (Cina,
Brasile ecc.) pongono termine all’ultima
Una nuova prosperità
519
triste stagione del capitalismo. Ne nascerà
un’altra migliore? Già nell’introduzione
del libro si risponde affermativamente, sia
pure nel modo della fondata speranza: dei
«segnali sembrano suggerire che nelle società avanzate sia presente, ancorché sottotraccia, un piano culturale emergente» (p.
12). Esso si fonderebbe su una «concezione
di valore» inteso come «valore contestuale
(o condiviso)» (ivi). Dovrebbe verificarsi
ancora una volta quel rinnovamento di cui
il capitalismo è stato capace dopo ogni sua
crisi. Dal punto di vista dei consumatori,
il tener conto del “contestuale” significa
avvertire il rapporto tra benessere del singolo e ambiente, anche quello sociale. Dal
punto di vita dei produttori (delle «aziende
più innovative», p. 27), il medesimo tener
conto significa non opporre più guadagno
e tutela dell’ambiente, ma assumere una
progettualità a più lungo termine, tale da
convertire ciò che prima si avvertiva come
limite in nuove opportunità.
Di «creazione di valore condiviso»
hanno parlato nel 2011 gli economisti
americani Michael E. Porter e Mark R.
Kramer come «una crescita che sappia coniugare valore economico e valore sociale
inteso, in senso ampio, come valore per
le collettività» (p. 58). Il loro approccio è
audace fin nella innovazione semantica: il
nuovo valore economico sarà in se stesso
“condiviso”. Nel passato la produzione era
perseguita a spese dell’ambiente, a spese
dei salariati, a spese del territorio (ci si trasferisce dove il produrre costa meno). Certamente non tutto era lecito, ma si trattava
di limiti imposti dallo Stato. Ormai però è
l’interesse della stessa azienda (non siamo
affatto in una prospettiva di libera benevolenza) a imporre di tener conto di ciò che
avviene nei tempi lunghi e nelle comunità
in cui si opera. Al riguardo, gli AA. del
nostro libro preferiscono parlare di “valore
contestuale”, così illustrato: «per prosperare, oltre che per legittimarsi nelle condizioni poste dalla seconda globalizzazione,
520
Giorgio Nardone SJ
le imprese intuiscono che è opportuno
entrare in una relazione di win-win con
il contesto, con il quale scambiano valore,
e con le collettività che lo popolano» (p.
60). Lo sviluppo della green economy e
la produttiva collaborazione tra molti resa
possibile da Internet sono un esempio del
nuovo che avanza. Vi sarebbe una innovazione nella nozione stessa di bene con la
nascita dei “beni relazionali”. Il godimento di tali beni «dipende da una condivisione nella reciprocità, dunque dalla relazione
con altri. Non riducibili a merci, tali beni soddisfano bisogni evoluti di chi vive
nelle società avanzate» (p. 63). È il caso,
ad esempio, del social housing, cioè la ricerca di soluzioni abitative che valorizzino
la dimensione relazionale andando oltre
le concezioni novecentesche degli edifici
residenziali.
La parte finale del libro espone teorie
affini al contestualismo: il “convivialismo”, l’economia della “contribuzione”,
la “generatività”. Tutte pongono l’accento
sui tempi lunghi della nuova progettualità imprenditoriale, sulla cura per molte
realtà che risultano favorevoli alla produzione proprio quando sono valutate in modo non più strumentale. Tutto si ridurrà
a convertire la psicologia verticistica del
manager? Si tratta piuttosto della nascita
di una nuova comune attenzione: ciò che
conta è l’approvazione di coloro che formano il “contesto” sociale.
Il lettore di questo libro deve affrontare un linguaggio non difficile, ma assai
mobile e vario, spesso allusivo, quasi inventato lì per lì. D’altronde, il capitalismo
si presenta come una unità assai complessa: per comprenderlo si dovranno usare
linguaggi diversi e accostare tra loro realtà
anche disparate. In effetti, assai ampia
e differenziata e sempre innovantesi è la
realtà che qui si coglie in azione: la vita
umana. Che nell’agire produttivo proprio
essa si offra tutta intera allo sguardo è forse il messaggio ultimo del libro.
Leggere Francesco
Jorge Mario Bergoglio
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Dono, dunque siamo
Otto buone ragioni per credere in una società più solidale
UTET, Torino 2013, pp. 142, € 12
D
onare, per-donare,
con-donare. Diverse
coniugazioni di un solo
verbo, di un’unica azione,
che appare oggi, in una
società asservita all’utile e
schiacciata dalle logiche
economiche e frenetiche
dell’interesse, del profitto e dello scambio, quasi sovversiva. Ma che proprio per
questo risulta decisiva, perché fa saltare
gli schemi e reintroduce nella grammatica incancrenita del linguaggio consumistico il concetto della gratuità e dell’assenza di garanzie, chiamando in causa la
libertà di ciascuno di poter scegliere se,
come e quanto “rischiare” nei rapporti
con l’altro. E perché così facendo apre alla relazione, dilata la dimensione del tempo contro il vulnus della smemoratezza,
promovendo la socialità, una nuova (ma
sarebbe forse meglio dire primigenia) so-
cialità, meno succube dei feticci dell’utile
e del tornaconto immediato.
È un coro a più voci ma che canta
sul medesimo spartito quello degli otto
autori di questo agile volume collettaneo
pubblicato dalla UTET lo scorso anno:
filosofi (Salvatore Natoli e Laura Boella),
sociologi (Zygmunt Bauman), antropologi (Marco Aime e Marino Niola), psicanalisti (Luigi Zoja), enigmisti (Stefano
Bartezzaghi), economisti (Stefano Zamagni) sono stati chiamati a dare una
loro interpretazione sul tema del dono e
l’hanno letto e sviscerato secondo le sue
molteplici sfaccettature, interpellandosi
e interpellandoci sul ruolo del dono – e
dunque della gratuità pur nelle sue molteplici e talora contraddittorie declinazioni (l’amicizia, la generosità, la solidarietà,
il volontariato) – nel terzo millennio. Un
dono per la riflessione.
Marco Ostoni
Elena Parasiliti
Ti chiamo per nome
Storie di riconciliazioni possibili
Terre di Mezzo, Milano 2013, pp. 160, € 12
L
a sentenza di un giudice, di condanna o di
assoluzione dell’imputato,
è solo il primo passo verso
il ristabilimento della giustizia violata da un presunto reato. Lo scopo della giustizia civile e penale dovrebbe essere
quello di ripristinare la giusta relazione fra
le parti in conflitto, ma non sempre viene
raggiunto. Una vera conciliazione fra vittima e reo rientra nell’ambito della giustizia
riparativa, quella che si ristabilisce quando
522
chi ha subito il torto è disponibile a concedere il suo perdono al colpevole, il quale,
da parte sua, riconosce il male commesso
e si dispone a ripararlo secondo le modalità concordate con la controparte.
Accade spesso, invece, che la vittima
voglia a tutti i costi farla pagare al reo,
mentre questi non è minimamente disposto a riconoscersi colpevole; oppure si pratica un falso perdono sotto forma di oblio,
rinuncia a denunciare il male subito, come
se nulla fosse successo, a parte la rabbia e
il desiderio di rivalsa che non vanno via.
vetrina
In queste situazioni c’è un’implicita negazione dell’altro, un non volerlo riconoscere
nella sua personalità, cercare di annullarlo
in qualche modo, farne sparire il nome.
Questo libro raccoglie una serie di storie in cui, invece, il faticoso percorso della
denuncia e del riconoscimento del male
fino al giusto perdono è riuscito: vittima e
colpevole sono arrivati a pronunciare l’uno
il nome dell’altro.
In appendice un elenco di Associazioni che stanno introducendo in Italia
la pratica della mediazione, un percorso
privilegiato per arrivare alla giustizia riparativa.
Giuseppe Trotta SJ
Matt Ridley
Un ottimista razionale
Come evolve la prosperità
Codice Edizioni, Torino 2013, pp. 418, € 15,90
O
ttimista e razionale. Anzi, ottimista perché razionale. Tale si definisce Matt Ridley, divulgatore scientifico
americano già noto in Italia per alcuni
volumi pubblicati, fra gli altri, da Instar
e Adelphi. E il suo nuovo libro non a caso
reca nel titolo il doppio aggettivo: perché
si prefigge di dimostrare, dati alla mano,
che gli scenari per il mondo non possono
essere così cupi come molti “catastrofisti”
(specie in una fase di prolungata crisi come l’attuale) li vogliono vedere.
Lo fa partendo dal presupposto che i
molteplici e straordinari miglioramenti
avvenuti, pur fra molte contraddizioni,
negli ultimi diecimila anni nella qualità
media della vita delle persone difficilmente potranno lasciare il posto a repentini
cambiamenti in negativo.
Non è, quella di Ridley, una fiducia
scriteriata nel progresso, ma una proiezione costruttiva sul futuro dell’umanità
basata sull’analisi attenta e documentata
delle trasformazioni (sociali, culturali,
economiche, tecnologiche, politiche, ecc.)
che hanno contraddistinto la nostra storia
a partire dalla rivoluzione del Neolitico
e con un’impressionante accelerazione a
partire dalla Rivoluzione industriale. Ma
soprattutto alla luce di una grande fiducia
riposta nell’“intelligenza collettiva”, ovvero nella capacità dell’uomo di adeguarsi
di volta in volta ai tempi assecondando
i cambiamenti, mettendo a
confronto conoscenze, studi, analisi per individuare
soluzioni atte a superare
problemi di approvvigionamento delle risorse, migliorare la produttività,
individuare alternative a
materie prime in via di
esaurimento, ridurre l’inquinamento,
ripensare gli stili di vita, ecc.
Ridley mette sotto osservazione anche
i “grandi pessimismi” emersi a partire soprattutto dalla seconda metà del ’900 (la
crisi demografica, quella petrolifera, il
terrore delle pandemie, il timore dell’insostenibilità della crescita economica,
ecc.); in particolare punta il dito sui due
più inquietanti “spettri” che volteggiano
sul mondo d’oggi: il surriscaldamento
del clima e la fame che in Africa tiene in
scacco circa 1 miliardo di persone. E di
fronte ad essi conclude con la stessa incrollabile certezza: «La domanda non è se
sia possibile proseguire sulla stessa strada
di adesso, perché la risposta è ovviamente
negativa, ma piuttosto quale sia il modo
di assecondare al meglio la corrente di
cambiamento necessaria affinché cinesi,
indiani e africani possano vivere agiatamente come fanno oggi gli americani»
(pp. 310-311).
Marco Ostoni
523
Estate giovani 2014
Attività estive dei gesuiti per i giovani e del Jesuit Social Network
A
nche quest’anno i
gesuiti propongono
ai giovani numerose attività. In particolare segnaliamo, dal 13 al 20
luglio, a Ziano Piacentino (PC) gli esercizi spirituali
ignaziani tenuti da Giuseppe Riggio SJ e
da Anna Maria Bucciotti. A Selva di Val
Gardena, dal 6 al 17 agosto, si terrà il corso «Che società vogliamo? testimonianze e
proposte», guidato dal dott. Gherardo Colombo e da Silvano Fausti SJ. Nella settimana dal 16 al 23 agosto, a San Giacomo
d’Entracque (CN), la settimana biblica sul
tema «Ospiti inattesi. Lo straniero nella
Bibbia e nel cinema», guidata da Giancarlo Gola SJ, p. Dominik Markl SJ, Guido
Bertagna SJ e Francesca Mazzini.
Il Jesuit Social Network, sempre a
Selva di Val Gardena, dal 26 luglio al 6
agosto, propone il percorso «Scoprirsi
nelle diversità. Rileggersi a confronto con
l’ingiustizia del mondo», per giovani dai
19 ai 35 anni, dove a partire dalla lettura della propria esperienza e della propria
interiorità si cercherà di comprendere che
temi complessi come la giustizia trovano
un luogo di incontro proprio dentro di noi
e sono in grado di cambiarci e di metterci
in movimento. Per info e iscrizioni: frigeri@jsn.it, www.jsn.it, www.gesuiti-selva.it.
A Reggio Calabria, Giovanni Ladiana SJ
terrà il corso di esercizi spirituali ignaziani
per chi opera in terre di mafia, dal titolo
«“Cessi la cattiveria dei malvagi, rendi saldo il giusto, tu che scruti mente e cuore,
o Dio giusto”. Essere credenti in terre di
mafia». Il corso si svolgerà dal 16 al 23
giugno presso la casa di spiritualità Santa
Maria Porto di Pace. Info e prenotazioni:
0965/679021.
Presso la Residenza Universitaria di
Campo dei Gesuiti a Venezia dal 17 al 24
agosto si terrà la quinta edizione del corso
biennale «Faith and politics» per giovani
europei alla ricerca di un legame tra fede
e politica. Info e prenotazion su www.faithandpolitics.eu.
Segnaliamo infine le varie esperienze
missionarie, tra cui i campi di volontariato organizzati dalla Lega Missionaria
Studenti in Romania, a Cuba e in Perù
(info su www.legamissionaria.it) e quello
in Benin organizzato dal MAGIS, dal 5 al
29 agosto (info su www.jsn.it).
17-19 luglio, Monastero di Siloe, Poggi del Sasso (GR)
Siloe Film Festival
Alla ricerca della bellezza
I
l Centro Culturale
San Benedetto, in
collaborazione con l’Ufficio Nazionale per le
comunicazioni sociali
della CEI, il Progetto
Culturale della CEI, la Fondazione Ente dello Spettacolo, la Fondazione Bertarelli e l’ACEC, organizza la
524
prima edizione del Siloe Film Festival,
dedicato al cinema documentario e ai
cortometraggi.
Il Festival ha come tema per l’edizione 2014 «Alla ricerca della bellezza»
e prevede un bando di concorso (www.
siloefilmfestival.it – sezione Concorso)
rivolto agli autori di cortometraggi a
soggetto e d’animazione (durata max. 30
vetrina
minuti) e di documentari (durata max.
60 minuti).
«I film selezionati – spiega Fabio Sonzogni, direttore artistico del Siloe Film
Festival – racconteranno del bisogno di
lavare gli occhi, tornare a desiderare di
sapere, tornare a guardare. Dovranno
mostrare la strada che conduce alla Bel-
lezza, al suo riconoscimento, a quella Luce nascosta tra le pieghe delle cose, anche
tra la fatica del vivere».
Termine ultimo per presentare le
opere è venerdì 20 giugno 2014. I titoli
selezionati per il Festival saranno poi resi
noti venerdì 4 luglio 2014.
Info: segreteria@siloefilmfestival.it
3-7 novembre, Milano
2014 International Metropolis Conference
Migration. Energy for the Planet, feeding cultures
I
l Forum internazionale Metropolis
mette in connessione buone pratiche,
politiche e ricerche in materia di migrazione. Esso mira ad approfondire l’analisi
dei fenomeni sociali legati alle migrazioni, a incoraggiare le ricerche sulle politiche migratorie e a facilitare l’uso dei risultati delle indagini da parte dei governi
e delle organizzazioni non governative.
Nei suoi 18 anni di vita il progetto è cresciuto costantemente fino a coinvolgere
attualmente vari organismi internazionali, molte istituzioni e ONG provenienti
da Nord America, Europa e gran parte
dell’Asia. Quest’anno il Forum si terrà a
Milano, in previsione dell’Expo del 2015,
e porrà l’accento sul valore e sul significato delle migrazioni nei primi anni di
questo secolo.
Nei cinque giorni della Conferenza sono previste otto sessioni plenarie
mattutine con relatori altamente qualificati, che offriranno riflessioni e spunti
su alcune delle più importanti e attuali
questioni migratorie quali: 1. Il fenomeno delle migrazioni forzate causate dalle
tensioni e dai conflitti nel Mediterraneo;
2. Le sfide che i migranti irregolari pongono ai cittadini e ai governi dei Paesi
che li accolgono, analizzando il crescente
fenomeno delle sanctuary cities, città che
offrono servizi pubblici ai migranti irre-
golari, nonostante le
restrizioni
na ziona li;
3. Le politiche dell’Unione
Europea per la governance delle migrazioni nei prossimi dieci anni sulla base
dei cambiamenti istituzionali introdotti
con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona; 4. La possibilità di accordi commerciali regionali come ASEAN, UE,
NAFTA e Unione africana per favorire
una cooperazione intercontinentale nella
gestione delle migrazioni; 5. Migrazioni,
cibo e cultura: l’alimentazione come lente attraverso cui esplorare la proliferazione delle industrie culturali e la diversità
produttiva nelle città; 6. Il vantaggio
competitivo della diversità: analisi delle politiche pubbliche e imprenditoriali
volte ad attrarre immigrati di talento le
cui competenze possono essere fonte di
arricchimento per tutti; 7. Migrazione
come strumento di sviluppo; 8. Il ruolo
dei mezzi di comunicazione, tra cui i social media, nel guidare l’opinione pubblica in merito ai migranti, alla migrazione
e alla diversità culturale. Nel pomeriggio
seguiranno numerosi workshop paralleli
che analizzeranno in dettaglio una vasta
gamma di temi. Info e iscrizioni: www.
metropolis2014.eu.
525
Appuntamenti
Roma, 3 giugno
Alle ore 12, presso la Camera dei Deputati, si terrà la presentazione dell’ultimo libro di Bartolomeo Sorge SJ, Gesù
sorride.
Milano, 8 giugno
Alle ore 20,45, all’Auditorium San Fedele (via Hoepli 3/b), concerto dell’ensemble Entr’acte, composto anche da
alcuni strumentisti della Scala, con musiche di Cras, Galante e Ravel. Nel corso dell’iniziativa saranno raccolti fondi
per il Monastero di Deir Mar Musa, la
comunità monastica fondata in Siria dal
gesuita Paolo Dall’Oglio (rapito il 29
luglio 2013). L’ingresso è gratuito con
offerta libera.
Info: ufficiostampa@popoli.info 02.86352231
Bologna, 11 giugno
L’Istituto regionale di Studi sociali e
politici “Alcide De Gasperi” organizza
un colloquio su «Il rinnovamento di papa Francesco». Interverrà con una sua
riflessione il direttore di Aggiornamenti
Sociali, Giacomo Costa SJ.
Via Scipione dal Ferro 4, ore 21.
526
Roma, 18 giugno
In occasione della Giornata del Rifugiato (20 giugno), presso l’Aula Magna
dell’Università Gregoriana (via della Pilotta 4), alle 18 si terrà il Colloquio sulle
Migrazioni dal titolo «Chi chiede asilo lo
chiede a te. La vera sicurezza è l’ospitalità». Interverranno l’on. Enrico Letta, don
Virginio Colmegna, Presidente della Casa della Carità di Milano, e Giovanni Lamanna SJ, Presidente del Centro Astalli.
Info e prenotazioni: Fondazione Centro
Astalli, 06.69925099 - astalli@jrs.net
Bergamo, 20 giugno
La Redazione del quotidiano on line
santalessandro.org della Diocesi di Bergamo organizza il convegno «La Chiesa,
i social network e Internet». Interverranno Giacomo Costa SJ, direttore di Aggiornamenti Sociali, con la relazione «La
comunità cristiana e la rete: un incontro possibile» e don Antonio Sciortino,
direttore di Famiglia Cristiana, con la
relazione «Come abitare da credenti i
social network e la rete». Conclusioni di
don Alberto Carrara, direttore di santalessandro.org. Sala Piatti, via San Salvatore in Città Alta, ore 17,30-20.
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aggiornamenti sociali
GIUGNO-LUGLIO 2014
editoriale
Chiara Tintori
Condividere per conciliare
445-452
mappe
APPROFONDIMENTI
Denis Clerc
Il sociale, gamba atrofizzata dell’Europa
Poste Italiane SpA - Spedizione in a. p. - DL353/2003 (conv. in L. 27/02/2004, n.46), art.1, c. 1 DCB Milano € 5,00
Andrea Grillo
La riforma liturgica e l’impegno sociale.
Rilettura pastorale di un rapporto delicato
454-460
461-469
PUNTI DI VISTA
Giorgio Campanini
Cattolici in politica: minoranza creativa
nella società italiana
471-480
VOCI DEL MONDO
Michele Boario – Emanuele Fantini
L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni
dell’Africa emergente
482-493
Tom Greene SJ
La risposta degli Stati Uniti all’immigrazione irregolare
IMMAGINI
Sonia Frangi
Finestre 2014: Lipari
495-500
501-502
bussola
bibbia aperta / Madre e figlio504-508
di Giuseppe Trotta SJ
cristiani e cittadini / Papa Francesco, riformatore del mercato509-512
di Jeffrey D. Sachs
tools / La Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea
513-517
di Luca Lionello
recensione / Una nuova prosperità
518-520
di Giorgio Nardone SJ
vetrina / Libri, film, eventi522-526