IL LABORATORIO - Collegio dei Maestri Venerabili della Toscana

IL LABORATORIO
RIVISTA DI STUDI MASSONICI ED ESOTERICI
Collegio Circoscrizionale dei Maestri Venerabili della Toscana
2014 n. 3-4
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IL LABORATORIO
RIVISTA DI STUDI MASSONICI ED ESOTERICI
Collegio Circoscrizionale dei Maestri Venerabili della Toscana
2014 n. 3-4
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Grande Oriente d’Italia
Collegio Circoscrizionale dei Maestri Venerabili della Toscana
Borgo degli Albizi 18 — 50122 Firenze — Tel. 055 2340543 — 055 2340544 — Fax 055 2341233
IL LABORATORIO
Direttore:
Francesco Borgognoni,
Presidente del Collegio dei Maestri Venerabili della Toscana
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Direttore Responsabile: Leopoldo Gori
Direttore Scientifico:
Mariano L. Bianca
aneidos@libero.it
Organizzazione:
Enzo Heffler, Maurizia Trapuzzano
Redazione:
Commissione Cultura Collegio Toscano
IL LABORATORIO è consultabile on line sul Sito e sulle News del Collegio Toscano
ISSN 1128-3599
Rivista fondata da Blasco Mucci
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 4229 dell’8 giugno 1992.
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“Bibliografia”: es. Rossi, M., Titolo, Casa Editrice, anno. Questo formato vale anche per i testi indicati nelle note.
2
INDICE
Editoriale - Francesco Borgognoni
p.
5
V.I.T.R.I.O.L. Viaggio nell’interiorità del sé e del mondo - Mariano L. Bianca
p.
7
Abramo, Ulisse & C. Figure del viaggio e figure in viaggio - Francesco Parasole
p.
14
Pinocchio, la favola - Luciano Angeli
p.
26
Conversazione su Dante - Stefania Pavan
p.
33
Armonia e Bellezza. La musica come esperienza del sacro - Andrea Severi
p.
41
La Massoneria, scuola di silenzio, scuola di libertà - Antonio Allegretta
p.
48
Social network e Massoneria - Federico Donati
p.
51
Sul comportamento in Loggia - Leopoldo Gori
p.
57
Storia della Massoneria - Guglielmo Adilardi
p.
58
Storia della Logge della Toscana - Nino Provenzali
p.
64
p.
67
Documenti e testi antichi - Cristiano Bartolena
p.
69
Recensioni e segnalazioni bibliografiche
p.
72
Massoni Toscani - Francesco Bartolozzi
(Firenze 1727- Lisbona 1815) -
Luciano Rossi
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4
Editoriale
Libera muratoria e Società
Francesco Borgognoni
Presidente del Collegio Circoscrizionale dei MM. VV. della Toscana
Sin dalle sue origini la Massoneria ha fornito alla
società – ed ha tratto da questa – le individualità in grado di delineare i tragitti verso l’orizzonte
lontano del bene dell’uomo. Mediante questa
azione di scambio perenne e che faceva perno
sulle idee e sulle azioni di alcuni uomini – i migliori tra tutti – si sono poste le fondamenta delle
società democratiche.
Infatti, la libera-muratoria, nei suoi trecento anni
di attività conclamata, è stata sicuramente il luogo in cui gli uomini liberi, legati solo da vincoli di
fratellanza, hanno potuto costruire itinerari all’interno dei territori di una spiritualità laica che prevedesse comportamenti ispirati da un grande rigore morale, e convincimenti attenuati da una ottima propensione alla tolleranza. La dimensione
esoterica di quell’impegno ha consentito a coloro
che si erano incamminati su quegli itinerari di vivere socialmente in forza di quei valori che sono
stati parte integrante del sistema delle libertà civili in Occidente. Quella dimensione è stata il fondamento del patto istituzionale posto a base del
rapporto tra cittadini e società.
Vi è, quindi, una considerazione preliminare che è
il back di questa riflessione e che risiede nella convinzione di come sia necessario tenere sempre illuminata la zona nella quale quei percorsi e quell’impegno si concretizzano in una prassi consolidata e condivisa, che è il lavoro di Loggia. Un lavoro
che, qualora si sviluppi nei gradi di competenza, è
in grado di promuovere un “cammino di chiarimento” che, da sempre e implicitamente, la liberamuratoria tiene all’oggetto delle proprie intenzioni.
Quello che desidero dire è che “normalmente e
dall’inizio” i massoni si pongono il problema della
utilità dei rapporti da tenere con il mondo profano,
della loro eventuale struttura, dei tempi e dei modi
del loro comporsi. Ma che, nella contemporaneità
dei nostri tempi la normale evoluzione della nostra
Istituzione – segnata da una serie di avvenimenti
su cui in altra sede sarà doveroso soffermarsi più
a lungo – andando ad impattare una fase della storia economica, politica e sociale dell’Italia, assolutamente particolare, determina una originalità che
deve essere interpretata con intelligenza. In questi ultimi anni la questione è diventata quasi
dirimente: Cultura Massonica e Cultura Profana,
Solidarietà e Filantropia, Operatività e Speculazione, Società di Massa e Società Iniziatica, sono aree
di riferimento di un ragionamento che sconta una
qualche difficoltà.
La questione sta al centro delle competenze del
Presidente del Collegio, soprattutto in merito alle
funzioni di coordinamento dell’attività delle Logge
ed alla conseguente propensione al suggerimento
e all’indirizzo. Una funzione che si può realizzare
solo scontando gli elementi di novità che l’attualità
propone, senza impaurirsi nell’affrontare lo smarrimento che talvolta quegli elementi di novità, soprattutto se inaspettati, possono provocare nel nostro “corpo sociale”. La capacità, quindi, di disegnare nuovamente – ed incessantemente – questo percorso di comprensione, presuppone una disposizione all’osservazione attenta del Nostro Mondo, le cui caratteristiche debbono essere prese in
esame sempre da un punto di vista che ne colga la
molteplicità e la “stupenda ambiguità”, intrinseca alla sua esistenza stessa.
Da una parte, infatti, noi tutti viviamo immersi dentro una associazione che si organizza e si pensa
come tale, con le sue cellule connettive e i suoi
momenti di controllo, le riassunzioni di carattere
amministrativo-gerarchico e gli uffici su base territoriale. Dall’altra, però, siamo assolutamente consapevoli di essere – anche e soprattutto – una
Aggregazione di libere individualità che si incon5
trano e si confrontano sulla base di regole e obbiettivi
che la Tradizione Massonica ci consegna ed il cui
adeguamento alle esigenze delle “circostanze attuali” costituisce uno degli obbiettivi più importanti
della costruzione dell’ “homo massonicus”.
In mezzo a tutto questo sta la Loggia. Con la sua
struttura, le sue possibilità ed i suoi limiti. Ma soprattutto con la sua autonomia che le permette di
collocarsi al centro ideale del nostro sistema di ritrovarsi, speculare e comunicare.
Ecco che, quindi, la consapevolezza di essere immersi in una Società Profana dal cui seno estraiamo coloro che saranno i nostri fratelli, ed al cui
interno ricollochiamo le necessarie mediazioni di
carattere culturale, sociale ed economico – forse
si dovrebbe dire politico anche – quasi ci obbliga
ad una continua riconsiderazione della nostra storia recente, soprattutto in relazione alle mutate condizioni della Società Italiana. Che poi ci sia l’esigenza forte di collocare questa tessera all’interno
del più vasto mosaico – perlomeno – europeo, è
altra questione che non è all’Ordine dei Lavori.
Quando si adopera, quindi, l’espressione “circostanze attuali” si intende alludere alle condizioni
ultime del connaturarsi di una vicenda – la nostra vicenda – che data trecento anni e che si
muove entro il duplice confine rappresentato dall’evolversi del nostro modo di ritrovarsi e lavorare e dall’obbligo di recuperare incessantemente la leggerezza di collocarsi dentro gli usi, i costumi e le leggi della Società Italiana. Ancora
una duplicità quindi. Ancora l’importanza di sapere interpretare i nostri passaggi interni, anche
alla luce dell’atteggiamento di una profanità che
ci scruta e ci studia.
“Hic Rodhus, hic salta”.
Noi proveniamo da una storia recente complicata.
I venti anni di Virgilio Gaito e Gustavo Raffi hanno
lasciato il segno. Prima l’obbligatorietà di resistere
e non sparire; poi le prime reazioni e riproposizioni;
ancora una strategia della trasparenza e della spiegazione; infine una rappresentazione di noi forte e
continuata presso la società civile, realizzata sul
terreno della cultura soprattutto, ma anche su quello
della filantropia e dei diritti civili.
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Tutto questo ha comportato il pagamento di un
prezzo sul terreno della ritualità e della preparazione esoterica. Un prezzo che dobbiamo cominciare a non pagare.
Naturalmente ci deve essere assai chiaro quanto
appaia inconcepibile tornare indietro. Abbandonare la strada maestra della rappresentazione di
noi stessi presso la Società Civile sarebbe un
errore grave. Ci esporrebbe a sospetti e non troverebbe giustificazione. E non solo. Ci impedirebbe di collegarci – o tentare di collegarci –
con i settori più avanzati della società che sono i
luoghi da cui dovranno uscire i fratelli del futuro
prossimo. Indietro non si torna, dunque come
l’Illustrissimo e Venerabilissimo Gran Maestro,
Stefano Bisi ha più volte ripetuto nel recente
passato.
Indietro non si torna, quindi. Ma riuscendo – e
questo è il compito di coloro che idealmente su
queste pagine si ritrovano – ad interpretare questa fase nuova che si è aperta con la elezione
del nuovo G.M. come un momento in cui si possa recuperare e riscoprire tutta la forza e la preziosità di una tradizione che, facendo perno sulle
caratteristiche di un pensiero simbolico, ci semplifichi l’approccio con la diversità permettendoci di affrontare le incredibili sfide che il mondo contemporaneo pone, alla morale, alla politica e all’economia.
Un punto di equilibrio dunque che si può raggiungere solo recuperando per intero tutta l’importanza dei lavori di Loggia nei tre gradi. Individuando nella attività delle Officine la necessaria ed ineliminabile fase di preparazione ed
adeguamento ad ogni impresa. Per quanto la si
giudichi difficile ed elevata. La Loggia è, infatti,
l’unico strumento a nostra disposizione per sintetizzare, nel metodo, l’approccio alle questioni
e, nel contempo, per agevolare la creazione di
una “giusta e perfetta” operatività. Una attività
che non deve trovare mai riposo e che, anzi, deve
costituire il terreno sul quale si distende la catena degli incarichi e delle promozioni. In Loggia e
fuori di Loggia. Alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo.
V.I.T.R.I.O.L.
Viaggio nell’interiorità del sé e del mondo
Mariano L. Bianca
V.I.T.R.I.O.L. è un acrostico utile per comprendere la natura e i significati del lavoro che l’iniziato compie, con l’ausilio di strumenti esoterici,
nel suo mondo interiore, nella comunità iniziatica
e nel mondo.
Questo acrostico è un insegnamento che segue chi intende intraprendere un cammino
iniziatico. Una volta superato il rito
d’iniziazione, l’iniziato si rivolge alla conquista di quel mondo nascosto (occulto) che prima dell’iniziazione era sconosciuto e coperto
da un velo.
L’iniziazione è una porta ermetica che si apre
all’iniziato per permettergli di ritrovare se
stesso, dare senso alla sua vita e disporre la
sua mente alla ricerca del fondamento, delle
essenze e del senso del reale (la gnosi).
I testi esoterici e le pratiche rituali indicano la
via e gli strumenti. La via inizia con un’apertura e con uno svelamento di se stessi e un’appropriazione continua di concezioni, simboli e
pratiche rituali che possono togliere il velo che
ricopre la realtà e non permette di coglierla
nella sua essenza, anche se non si potrà mai
farlo in modo definitivo.
Concezioni, simboli e pratiche rituali sono fondamentali per proseguire il cammino iniziatico
e ottenere una profonda trasmutazione e
rigenerazione del proprio sé che non si attuano solo sul piano della gnosi ma anche su quelli
psichici ed etici; questi ultimi sono fondamentali, ma sono solo una parte e non la più rilevante del cammino iniziatico che si amplia e
si completa con la gnosi esoterica che ha un
carattere metafisico perché si riferisce a ciò
che è oltre l’individualità, le apparenze e il
mondo sensibile.
I significati esoterici
Il V.l.T.R.I.O.L. può essere interpretato in modi
diversi e in conformità a queste interpretazioni
è possibile comprendere i significati del cammino iniziatico e di ogni comunità, come la Massoneria, che l’ha posto come uno dei suoi principi
iniziatici.
La versione tradizionale in latino del
V.I.T.R.I.O.L. è la seguente: Visita interiora
terrae, rectificando invenies occultum
lapidem. La traduzione italiana dell’acrostico è
la seguente: Visita l’interno della terra e modificandolo troverai una pietra oscura.
L’acrostico è composto da sette parole ed è diviso in tre parti; la prima, formata da tre termini
(Visita interiora terrae), è relativa al viaggio e
al rivolgimento; quella centrale (rectificando)
al processo che s’intende attivare e quella finale, anch’essa formata da tre termini (invenies
occultum lapidem), a ciò che si raggiunge, lo
scopo del cammino iniziatico.
Per capire il significato dell’acrostico è necessario analizzare i singoli termini.
a) Visita
Il primo dei termini del ternario iniziale è visita.
Il verbo visitare si riferisce a un atto che è compiuto o a qualcosa che si fa: si dice visitare un
amico o visitare un luogo. La parola visitare significa intraprendere un viaggio, breve o lungo
che sia, per spostarsi da un luogo, fisico o di
altra natura, e raggiungerne un altro. Intraprendere un viaggio iniziatico significa, da un lato,
entrare nel proprio sé e, dall’altro, abbandonare
una condizione, la dimora attuale, e cercarne
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un’altra anche se non la si conosce. Il termine
visita fa riferimento all’azione dell’iniziato di
compiere un viaggio, di allontanarsi da ciò che
egli è: dalla condizione fisica, psichica ed esistenziale nel quale si trova, di abbandonarla e di
rivolgersi altrove, verso un’altra condizione.
Visita, inoltre, indica un rivolgimento verso qualche cosa: rivolgersi verso un obiettivo diverso,
un alcunché che ancora non si conosce; mettere tra parentesi ciò che si è e rivolgersi altrove:
per essere ciò che non si è, secondo il motto
iniziatico: tu sei quello che non sei. Il rivolgimento, insito nel visitare, è il primo momento del
cammino iniziatico che attiva il processo di
trasmutazione e rigenerazione del proprio sé e
dell’ampliamento della propria conoscenza
esoterica.
b) Interiora terrae
L’acrostico indica che il cammino si fonda su un
rivolgimento (visita) verso l’interiora terrae (si
riveda quanto affermato in precedenza sul sé).
Nella via misterica, esoterica e iniziatica l’uomo
dirige il suo rivolgimento verso ciò che è interno,
interiore, dentro, nascosto e anche sotto.
Il viaggio inizia con una discesa nell’interiorità di
sé, della terra e del mondo: l’iniziato non si rivolge a ciò che appare e che è sensibile, ma a ciò
che è nascosto di ogni cosa. L’iniziato si rivolge
a ciò che è dentro, oltre, interno, profondo, ciò
che sta negli inferi dai quali si parte, ma da cui
ci si deve allontanare. La trasmutazione degli
iniziati, degli eroi per usare un termine ripreso
da Della Riviera, secondo le tradizioni misteriche
antiche, è sempre un viaggio verso e negli inferi, il mondo ctonio o sotterraneo.
Solo rivolgendosi verso l’interno e il profondo
è possibile risalire: nel profondo si possono trovare indicazioni che permettono di ampliare la
gnosi. Gli inferi sono ciò che è oscuro, nascosto
e non facilmente accessibile (il mondo ctonio);
si possono ricordare i viaggi di Enea, di Ulisse,
di Dante nonché quello di Odino che gli permise
di conoscere il linguaggio magico delle rune e di
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bere l’idromele: la conoscenza che si ottiene visitando il mondo dei morti.
L’espressione interiora terrae non di rado è
riferita solo al sé di ogni iniziato; l’interiora
terrae è il sé profondo di ogni uomo per cui il
cammino iniziatico si dovrebbe restringere al rivolgimento verso la propria interiorità enucleata
dal motto conosci te stesso (ãíöèé óåáõôüí).
Questa interpretazione fornisce una considerazione della natura soggettiva, esistenziale e psicologica non solo del V.I.T.R.I.O.L. e dell’iter
iniziatico, ma anche dell’esoterismo sostenendo
che la via iniziatica si riduce all’obiettivo di entrare nel proprio mondo interiore e solo in esso
trovare la conoscenza essenziale delle cose.
Sebbene sia vero che il cammino iniziatico consista anche nella conoscenza del proprio sé, non
si riduce a essa perché si rivolge all’intero cosmo per ottenerne una conoscenza profonda riferita al suo fondamento, alla sua essenza e al
suo senso. In tal modo, il cammino iniziatico, da
un lato, si rivolge al sé e, dall’altro, lo trascende
per proiettarsi in una dimensione che oltrepassa la
soggettività e che può dare ragione anche di essa.
I processi iniziatici, sebbene coinvolgano anche
aspetti psicologici, non hanno una natura
meramente psicologica o etica riferita al solo piano
dell’esistenza, al contrario, fanno sì che l’individualità
sia sospesa in modo che il sé individuale si trasmuti
e si trasporti in una dimensione sovraindividuale
che è l’obiettivo di ogni cammino iniziatico.
Per queste ragioni, l’espressione interiora terrae
non è riferita solo al mondo interiore di ogni sé,
ma all’interiorità di ogni cosa, ciò che è nascosto di ogni cosa e che va oltre l’involucro
esteriore dell’uomo e del mondo. L’interiora
terrae è ciò che sta sotto, dentro o dietro l’apparenza dell’involucro esteriore di ogni cosa.
Infatti, ciò che è interno non appare, è nascosto
e non è interamente svelabile. L’interiora
terrae, nel V.I.T.R.l.O.L., ha un significato molto
più ampio di quello soggettivo-psichico che è stato
accettato da alcune correnti esoteriche e anche,
in modi diversi, da alcune istituzioni massoniche.
Se l’interiora terrae non è inteso solo come
l’interiorità dell’individuo, ma come l’interno del
mondo, allora, il processo iniziatico non ha un
obiettivo solo etico, psichico o esistenziale ma,
pur coinvolgendolo, si dirige al raggiungimento
di qualcosa che supera le esigenze psicologiche,
esistenziali o etiche di ogni uomo e si rivolge alla
comprensione dell’essenza delle cose che non è
costituita dalla loro apparenza sensibile; è fondamentale la distinzione tra la scorza, o involucro esterno, e il mallo che è ciò che si nasconde
all’interno di ogni cosa: l’interiora terrae è il
mallo del sé e di ogni cosa del mondo.
Per raggiungere l’interno del sé e del mondo è
necessario un intenso lavoro che nell’acrostico
è indicato dall’azione del verbo rettificare che
in termini massonici è simbolizzato dalla
levigazione della pietra grezza.
c) Rectificando
Il termine rectificando è quello ‘mediano’:
esso si colloca tra la terna iniziale (visita interiora terrae) e la terna finale (inveniens
occultum lapidem) e indica l’attività fon-
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damentale dell’iniziato.
Rectificando correla le due parti dell’acrostico
e così completa il suo significato. Il rivolgimento, visita, una volta che è stato innescato come
azione iniziatica, si sviluppa attraverso il processo della modificazione che conduce al risultato:
invenies occultum lapidem.
Il termine rectificando può essere diversamente interpretato. Anche in questo caso è compresa ma superata la riduzione psicologica secondo
cui rectificando è solo un processo psichico di
modificazione del proprio sé. Se ci si chiede a
che cosa sia rivolto e su che cosa sia attuato
questo processo di modificazione e se l’interiora terrae non è soltanto il sé individuale, ma
anche l’interiorità del mondo, allora la
‘rettificazione’ non è rivolta solo a una modificazione del sé, dell’interiorità del soggetto, ma
riguarda l’intera realtà incluso il mondo umano.
Modificare l’interiorità della terra (rectificando)
significa modificare poco alla volta sia il proprio
sé (la sua trasmutazione e rigenerazione) sia il
mondo, incluso quello umano (da qui, all’interno
della Massoneria l’impegno di modificare la società), e operando così è possibile trovare
l’occultum lapidem: la pietra oscura di sé e del
mondo. L’opera del rettificare riguarda l’intera
realtà e il modo in cui la si osserva e ci si pone
dentro di essa; come l’osservazione del sé individuale verso il mondo interiore è possibile solo
viaggiando all’interno, dimenticando e mettendo
da parte gli aspetti fenomenici, sensibili e superficiali, così la modificazione del mondo si riferisce a ciò che è ultimo e interno e alla sua scorza
che è l’involucro apparente e sensibile, ciò che
appare. Un processo ‘teurgico’ per il quale la
modificazione del sé conduce alla modificazione
del mondo, perché uomo e mondo sono parte di
una sola realtà, come si afferma nel Pimandro.
Per questo, l’iniziato non aspira solo a modificare il suo sé ma anche modificare il mondo e in
tal senso è il costruttore di se stesso e partecipa
alla costruzione dell’intero cosmo; si pensi, per
esempio, alle attività alchemiche e magiche, nonché alla costruzione delle cattedrali e a ogni al10
tra azione che l’iniziato compie nel mondo.
Per quanto concerne il sé il termine rectificando
indica quella modificazione che intende riportare l’interiorità della terra, il suo sé, al suo stato
originario: la radice latina del termine rectus (dal
verbo rego) che significa giusto, non nel senso
morale, ma in quello di ciò che è originario, semplice, senza artifici e anche perfetto. Si fa quindi
allusione a una condizione di deturpazione della
interiorità del sé e del mondo, per cui la modificazione intende riportarli a una condizione originaria; rettificare, perciò, è una particolare azione di modificazione rivolta ad allontanare ciò che
ha snaturato l’interiorità della terra e perciò riportarla alla sua essenza. In termini esoterici, si
fa riferimento a un ritorno dell’uomo in senso
simbolico a un periodo precedente a una ‘caduta’ o a una degenerazione.
Passiamo ora ad analizzare la terza parte
dell’acrostico. La parte finale dell’acrostico indica i risultati che si ottengono partendo dal rivolgimento e attuando il processo di
rettificazione. Come la prima parte essa è costituita da tre termini: invenies occultum lapidem,
troverai una pietra oscura (nascosta, segreta, non
levigata).
d) Invenies
Il termine invenies ha il duplice significato di
ricercare e trovare. Trovare è il risultato del ricercare che si può raggiungere se si parte dal
rivolgimento verso sé e il mondo e si attua il processo di rettificazione: solo così si potrà scoprire
qualcosa di nascosto e di segreto.
Invenies significa anche ricercare per trovare
qualcosa. Il termine non indica solo l’azione del
trovare, ma anche quella della ricerca che porterà alla pietra occulta dopo aver modificato l’interno della terra: se si opera in tal modo si troverà senz’altro qualcosa.
Dove si ricerca e si ritrova questo qualcosa?
Dove si colloca questo qualcosa che si ricerca e
si ritrova? Ciò che si ricerca lo si trova nell’interiorità della terra: in ciò che è interno e nascosto
nell’uomo e nel mondo su cui si è operato con
l’azione della rettificazione. Ricercare e ritrovare, inoltre, sono riferiti a qualcosa che non era
conosciuto e così si amplia la conoscenza. Si
ricerca e si ritrova sempre qualcosa non sapendo di trovare, perciò questo termine sta a significare che ci si troverà di fronte a qualcosa che
non si conosce, con la quale non si aveva avuto
alcun contatto. Una dimensione nella quale non
ci si era volti, un luogo che non si sapeva della
sua esistenza, una realtà che era ignota. Ciò vale
per il mondo interiore e per l’interiorità del reale.
L’opera del ricercare porta all’ignoto del sé e
del mondo che è un occultum lapidem. Il ternario
collega l’invenies, ciò che è ricercato, con ciò
che sarà ritrovato.
e) Occultum
La parola occultum si riferisce a una realtà nascosta e segreta. Ciò che è ricercato e trovato è
nascosto e invisibile perché si trova oltre il sensibile e l’apparente e, come tale, è segreto; i termini
nascosto (o occulto) e segreto non sono sinonimi;
nascosto è riferibile a qualcosa che non è facile
cercare e trovare, che è lontano dalla vista e dall’osservazione e che è coperto da un velo che bisogna togliere; segreto, invece, è relativo a ciò che
non è dicibile e descrivibile in modo chiaro e il suo
significato non è accessibile né comprensibile a
tutti. Segreto corrisponde a ciò che è esoterico,
che non è per tutti, ma solo per coloro che hanno
intrapreso una via verso la gnosi. Inoltre, il termine
occultum è riferito anche a qualcosa che non ha
solo il carattere di essere nascosto ma anche quello di essere grezzo ed è passibile di essere sottoposto a un processo di conoscenza e di rettificazione:
la levigazione della pietra grezza che è l’opera fondamentale dei percorsi massonici.
f) Lapidem
Questo termine, come si è visto, può esser tradotto
con pietra: quello che si cerca e si trova è una
pietra oscura, nascosta, una pietra grezza. Nel-
l’usuale interpretazione questa pietra è ciò che si
trova nel proprio mondo interiore: quella forma grezza che può essere levigata e plasmata e che dà
luogo al sé rinato e rigenerato; quest’ultimo è proprio il risultato della levigazione della pietra nascosta. Questa pietra nascosta, oscura e grezza dove
si deve ricercare e ritrovare? Questa pietra, come
dice l’acrostico, è nella parte interna della terra,
che non è, come si è detto, solo il mondo interiore
soggettivo, ma l’interiorità del mondo e della realtà
in generale: la sua origine, il fondamento e le sue
essenze ulteriori e ultime perché non si può procedere oltre. La pietra oscura che si ricerca e si ritrova, come risultato di un’opera esoterica, possiede, come il Graal, l’elisir alchemico o la pietra
filosofale, un potere e un significato in se stesso. Il
simbolismo del Graal è assimilabile, anche se con
diversi significati, a quello della pietra oscura, così
come lo è l’interpretazione alchemica.
Qual è il significato e perché l’uso del termine
lapidem in questo acrostico si colloca in una dimensione esoterica? Ricercare e ritrovare una pietra, oscura e nascosta, significa trovare qualcosa
che è solido, ha un peso, un valore e una rilevanza.
La pietra non è un soffio, ma è una materia dura,
inerte e al contempo viva e plasmabile. Se il processo del rettificare è un’alterazione, allora la pietra non si cerca, ma si ri-cerca, non si trova ma si
ri-trova perché è sempre stata presente ma è stata occultata dalla deturpazione o dall’ignoranza che
nasconde ogni cosa.
Sulla pietra che si ri-cerca e si ri-trova l’iniziato
incide il suo cammino; una pietra difficile da incidere, infatti, la materia di cui è costituita è tale da
richiedere l’uso di strumenti appropriati perché
possa essere lavorata: le conoscenze esoteriche.
Incidere il proprio cammino sulla pietra significa
svolgere un’opera solida che non sarà alterata né
dissolta e potrà permanere nel tempo.
La pietra è ciò che permane perché è il solido, la
permanenza del mondo e del mondo interiore, la
presenza forte, ultimativa, ineludibile, proprio perché costituita da una materia che permane. Nell’interiorità del sé e del mondo essa rappresenta la
loro permanenza e la loro continuità d’essere; la
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differenza rispetto a ciò che passa, muta, è superficiale, sensibile, leggero e che scompare. La pietra non è passeggera ma è una permanenza e una
solidità del sé e del mondo.
Niente si costruisce sulla sabbia, come si afferma
nel Nuovo testamento e si può costruire solo su
ciò che è pesante, rilevante, degno di permanere
nel mondo, opposto al superficiale che scompare
ed è soggetto a continue trasformazioni. Il
V.I.T.R.I.O.L. afferma che nella realtà e nel proprio mondo interiore si può ricercare e ritrovare
una solidità, una permanenza, che è sempre presente e sulla quale si può agire con appropriati strumenti che permettono di ritrovare l’originario (rettificando) e da qui operare sulla pietra oscura per
modificare il proprio sé e il mondo.
Questa permanenza è ciò che si trova scavando
nella superficialità e sensibilità del mondo, nella leggerezza sfuggevole dell’esistere e nella scorza del
proprio sé: ri-cercare e ri-trovare una pietra oscura e nascosta. La pietra non è facilmente raggiungibile ma, una volta raggiunta, manifesta la sua
natura all’iniziato: quella di essere oscura. L’oscurità della pietra sta a significare che è qualcosa
che non si manifesta in modo immediato; è necessario avvicinarsi ad essa, soffermarsi, voltarla e
rivoltarla, incidere su di essa il proprio percorso;
solo in questo modo ci si appropria di questa pietra,
si modifica e la si rende parte attiva della vita come
qualcosa cui si è intimamente legati. Più ci si avvi12
cina e ci si appropria della pietra oscura, più appare permanente, duratura ma sempre nascosta da
un velo.
La pietra rappresenta l’essenza, il significato, la
solidità, la permanenza dell’interno del proprio
mondo e della realtà in generale, in contrasto
con ciò che è esteriore, scorza e involucro. La
pietra è la permanenza rispetto al transeunte di
sé e del mondo, ma è anche ciò su cui si deve
operare perché quest’opera porta alla gnosi.
Mondo interiore e realtà in generale sono costituiti da questa natura occulta o nascosta, da qui
il lavoro esoterico che consiste non solo nell’avvicinarsi all’occulto, ma nel considerarlo come
qualcosa di svelabile che permane e che non è
mai raggiungibile in toto, ma qualcosa di esso
può essere raggiunto.
La pietra occulta significa anche che l’iniziato
vive entro l’occulto, entro quello che è segreto,
nascosto, al di là di ogni cosa, oltre e ultimo: la
parte interna di ogni cosa. L’iniziazione, in questo senso, è un processo che apre una porta, ma
la apre all’oscurità; chi non segue la gnosi ritiene che il mondo sia ciò che vede, che appare,
che gli è manifesto, che è facilmente raggiungibile. Per l’iniziato, invece, il mondo non è questo, o meglio non solo questo, e la sua vita si
impianta nel nascosto e nell’occulto e la luce
che potrà entrare nella caverna permetterà di
ritrovare qualche carattere della pietra, ma non
potrà essere tale da annullare questo mistero
dell’ultimità nascosta delle cose. Il mistero
dell’ultimità nascosta delle cose è rischiarato dalla gnosi dell’iniziato che lavora la pietra; tuttavia, quest’ultima resta tale, non interamente conoscibile, indicibile, anche se la conoscenza esoterica la può in qualche modo raggiungere e comprendere qualche suo aspetto.
L’occultum lapidem è la gnosi e allo stesso tempo
il tutto, è ciò che è colto, ma mai nella sua interezza.
Il processo iniziatico è quel cammino che tende a,
che svela qualche cosa, che leviga la pietra e così
amplia la conoscenza di sé e del mondo. La conoscenza è il fondamento ma anche il complemento
dell’oscuro; conoscenza e oscurità sono tutt’uno
nel processo iniziatico.
L’iniziato viaggia sempre nell’oscurità (le tenebre) e nella conoscenza (o luce), cogliendo l’una
e l’altra, muovendosi sempre in un continuo alternarsi tra ignoranza e gnosi (da qui, per esempio, il pavimento a scacchi bianchi/neri del Tempio Massonico). La gnosi non potrà mai avere
fine, né la conoscenza potrà essere completata
né la pietra occulta potrà mai essere levigata
completamente. Il cammino iniziatico non permane nell’oscurità senza alcuna luce che rischiara l’ambiente; la luce è la gnosi che è raggiunta
e levigata nel cammino e che permette di portare alla superfice qualcosa della pietra e di svelare allo stesso tempo la sua intima oscurità, segretezza e mistero che sta a fondamento e a
permanenza della realtà e del mondo interiore.
Il V.I.T.R.I.O.L. permette di comprendere la natura del rito d’iniziazione e di ogni cammino
iniziatico e, al contempo, di distinguerli da ogni
altra forma di percorso psichico.
La gnosi iniziatica si rivolge all’occultum
lapidem di sé e del mondo e l’iniziato è sempre
di fronte alla pietra occulta e a un passo successivo di conoscenza che non permette di annullare l’occulto ma di percorrerlo; egli percorre l’occulto con la luce della gnosi che raggiunge poco
alla volta e che gli permette di continuare il cammino: per questo, perfezionamento interiore e
ampliamento della gnosi sono due aspetti complementari.
La via iniziatica, secondo quanto insegna il
V.I.T.R.I.O.L., è una pratica continua di porsi
sempre di fronte alla pietra oscura, al segreto e
al mistero; la via iniziatica indica che il cammino
è sempre rivolto verso l’occulto, ma la gnosi che
si raggiunge passo per passo permette di intraprendere il cammino nelle tenebre con una fiaccola in mano; come Diogene che con la sua lampada cerca l’uomo per tutta la sua vita, così l’iniziato cerca se stesso e l’essenza del mondo (la
gnosi), percorrendo le tenebre con una luce sempre più chiara e rivolgendo la sua attenzione con
continuità verso ciò che è oscuro, che è segreto,
il mistero inteso come ciò che non si svela mai,
ma è sempre soggetto a un rivolgimento che
permette di svelare qualcosa.
Con riferimento alla Massoneria il V.I.T.R.I.O.L.
non è relativo solo alla condizione interiore ma,
anche alla vita nel Tempio e all’atteggiamento e
alla pratica che il massone deve avere verso se
stesso con gli altri e nel mondo.
Anche in questo senso il massone è sempre alla
ricerca e ha sempre difronte a sé la pietra oscura,
il mistero di se stesso, degli altri e del mondo;
proprio perché è consapevole di questo, il suo atteggiamento è sempre una ricerca di un rivolgimento verso la gnosi che permette di percorrere
le tenebre senza la paura di perdersi nella sua
interiorità nel tempio e nella famiglia umana.
13
Abramo, Ulisse & C.
Figure del viaggio e figure in viaggio
Francesco Parasole
“Esso ritorna, esso torna infine in patria
il mio proprio io, e la parte di lui che è stata
a lungo lontana e sparsa tra le cose e le apparenze”
Friederic Nietzsche
Il viaggio lo si fa e lo si descrive. Lo si fa e lo si
racconta come esperienza personale: ed allora
è letteratura e, a volte nostro malgrado, finzione. Lo si fa e lo si descrive refertandolo: ed
allora è antropologia, etnologia, studi di folklore.
Ricercare sul campo non è necessariamente
essere nella dimensione del viaggio. Il catalogo
delle tipologie di viaggio è lungo quanto gli aggettivi che possono essere accostati al termine.
E le metafore e le similitudini che dal “viaggio”
traggono vita e rappresentazione sono infinite.
Questi aggettivi e queste metafore-similitudini
hanno fra loro spesso e volentieri rapporti sfumati e di sinonimia. Il viaggio è un immenso serbatoio di analogie. Su tutte è il “viaggio iniziatico”
che costituisce una sorta di campo archetipico
di riferimento1. Ma esistono altri due archetipi
di viaggio (di poco sottostanti al più generale):
quello di Ulisse e quello di Abramo. Le loro variegate manifestazioni hanno informato, informano e informeranno la nostra civiltà “occidentale”, o quel che ne resta. Ma, a ben vedere,
non solo. Il viaggio di Abramo è quello di sola
andata. Quello di Ulisse è quello di solo ritorno.
Ma le cose, nelle vicende umane, non sono mai
così semplici. A volte si intraprende un viaggio
di sola andata perché incapaci di tornare indietro. A volte si fanno solo viaggi di ritorno, perché incapaci di affrontare il nuovo. In entrambi
i casi la storia non è mai lineare. Se poi aggiungiamo che il più delle volte andata-e-ritorno si
intrecciano, coincidono o si confondono l’uno
nell’altro, ecco che cominciano i guai per noi
poveri uomini.
14
Il viaggio di Ulisse è iniziato più di tremila anni
fa. Come tutti sanno, è di fatto un “ritorno” (gr.
nòstos), fantastico e tormentato, e talmente iniziatico che dall’Odissea trae origine ogni trama, ogni romanzo, ogni personaggio di racconto, ogni eroe-protagonista che è in un modo o
nell’altro un’incarnazione di Ulisse, un’incarnazione di Nessuno alla ricerca di una identità.
L’identità la si trova nel “ritorno” a casa dopo
aver superato varie prove (le avventure, che
siano di terra, di mare o dello spirito e del linguaggio). La si ritrova dopo un viaggio d’andata
nella scissione, nella frammentarietà, dopo un
viaggio verso l’ignoto
che ci ha diviso, saggiando con
crudeltà le
nostre capacità di resilienza.
Chi sopravvive, ritorna,
per inventarsi nuovamente: non a
caso Ulisse,
Odisseo,
pare riparta, certo anche per seguir virtute e
canoscenza ... ma forse per poter nuovamente in eterno provar nostalgia e nuovamente così
ritornare. Il “ritorno” è dunque una condizione
dell’esistenza: il tentativo di ricomporre una
polarità. Quello che ero, quello che son diventato (uno nessuno centomila), quello che vorrei
tornare ad essere ma che non sarò mai più, perché carico d’anni ed esperienze. Non si ritorna
mai gli stessi, impunemente. In fondo la mag-
gior parte degli archetipi – queste forme vuote
ma così universali e cariche di senso e di mistero – si presentano come polarità, variegate mappe, con molti termini in opposizione a segnare
percorsi e in cui si aggira la nostra esistenza
come fra miraggi.
Ulisse ritorna dopo un assedio, quello di Troia,
cantato nell’Iliade. L’assedio è la negazione del
viaggio. Franco Ferrucci, in un piccolo capolavoro ingiustamente dimenticato, parla dell’assedio come di una “posizione di stallo”: “un
cerchio gravitante verso il centro”, dove il
prima e il dopo non esistono ed il tempo è sospeso. Ed afferma che “il primo modello narrativo che ci viene offerto” agli albori della
letteratura occidentale “è quindi l’assedio”,
perché nell’equilibrio degli opposti definiti dal
cerchio (Troiani ed Achei) si realizza la sfera,
che “è il punto di massima resistenza reale e
mentale alle forze del caos” 2. Accettare il
viaggio (rompere l’assedio) è accettare il rischio
del caos, accettare il rischio dell’annichilimento,
il rischio di perdersi nello spazio e nel tempo.
Ecco allora che, estrema difesa al perdersi nel
caos, è il viaggio inteso come “ritorno”, un ripercorrere a ritroso vie già percorse. Seguire
un itinerario già tracciato. Il ritorno implica una
concezione del tempo sostanzialmente “ciclica”.
E una rinnovata necessità di ricomporsi, di chiudersi in se stessi, una rinnovata necessità di assedio, ma in un’edenica, utopica condizione originaria.
Già sappiamo che il nòstos non evitò al variegato Ulisse di perdersi. Col “ritorno” ci viene
offerto il secondo modello narrativo: che poi è
la lotta col labirinto muniti del filo di Arianna.
Ma per accettare il viaggio, ancorché di ritorno,
bisogna provarne curiosità, desiderio e quasi
sempre dolore. Tutto questo è espresso dal termine nostalgia. Per abbandonare l’assedio immobile e senza tempo è necessario che in noi
fiorisca e s’imponga la nostalgia, la “sofferenza del/per il ritorno”: sofferenza provocata da
un desiderio inappagato, ma anche dolore che
provoca il ritornare.
Milan Kundera in uno dei suoi romanzi, L’ignoranza, fa un excursus solo apparentemente linguistico sulle significazioni di “nostalgia” e parla
anche di Ulisse3. In sintesi egli dice che la nostalgia è la sofferenza provocata dal desiderio
inappagato di ritornare. Che per questa nozione
fondamentale la maggioranza degli europei può
utilizzare una parola di origine greca (nostalgia
appunto), ma anche altre parole che hanno radici nella lingua nazionale: gli spagnoli dicono
añoranza, i portoghesi saudade. In ciascuna
lingua queste parole hanno una diversa sfumatura semantica. Spesso indicano esclusivamente la tristezza provocata dall’impossibilità di ritornare in patria. Rimpianto della propria terra.
Rimpianto del paese natio. Il che, in inglese, si
dice homesickness. O, in tedesco, Heimweh.
In olandese: heimwee. Ma questi termini danno
una riduzione spaziale di questa ben più articolata nozione. Sempre in tedesco esiste un termine pregnantissimo, molto usato nel romanticismo, Sehnsucht, praticamente intraducibile. Si
è proposto “anelito”, “struggimento”, un desiderio doloroso. Ovvero mentre Heimweh è il
desiderio di riappropriarsi del passato, spesso
legato ad oggetti precisi, la Sehnsucht è la ricerca di qualcosa di indefinito nel futuro. Più
precisamente, si potrebbe tradurre Sehnsucht
con “desiderio del desiderio”. Una delle più antiche lingue europee, l’islandese, distingue i due
termini: söknudur: «nostalgia» in senso lato; e
heimfra: «rimpianto della propria terra». Per
quest’ultima nozione i cechi, accanto alla parola
«nostalgia» presa dal greco, hanno un sostantivo tutto loro: stesk, e un verbo tutto loro. La più
commovente frase d’amore ceca, “stýská se
mi po tobì”: «ho nostalgia di te», fa concretamente coincidere la donna amata con la propria
terra natia, la terra madre: «non posso sopportare il dolore della tua assenza, che è come esser lontani dalla propria terra». In spagnolo,
añoranza viene dal verbo añorar («provare
nostalgia»), che viene dal catalano enyorar, a
sua volta derivato dal latino ignorare. Alla luce
di questa etimologia, la nostalgia appare come
15
la sofferenza dell’ignoranza. Ma si può provare nostalgia per ciò che si sa, per ciò che si
sapeva e non si sa più, per ciò che non abbiamo
mai saputo e che forse vorremmo sapere, ovvero un anelito che è dolore per la conoscenza.
Ancora Kundera: più la nostalgia è forte, più si
svuota di ricordi. Diventa desiderio puro. Più
Ulisse si struggeva, più dimenticava. Perché la
nostalgia non intensifica l’attività della memoria, non risveglia ricordi, basta a se stessa, alla
16
propria emozione, assorbita com’è dalla sofferenza. La nostalgia (o il suo eccesso) da stimolo
al viaggio di ritorno, può diventare condizione
permanente dell’anima, blocco, situazione di
assedio, incapacità non-volontà al viaggio4.
Il viaggio di Abramo è iniziato forse più di quattromila anni fa, da Ur dei Caldei. Di lui ne parla
solo La Genesi e il Corano, ma è «padre di
molti (popoli)» secondo la ridenominazione divina. La sua “nostalgia” è quella di Dio, di un Dio
che è entrato nella Storia attraverso la sua storia individuale di uomo,
è la “nostalgia” (Sehnsucht, diremmo) per la sua promessa. La promessa delle promesse che si incarna in una terra. La sua “nostalgia”
è quella per una moltitudine di discendenti, come le stelle del cielo
e più; discendenti che sa di non
esser destinato a conoscere. Il
viaggio di Abramo è un viaggio di
sola andata, che implicherà sacrifici ed assedi (e per il suo popolo
anche molti esodi), all’inseguimento di un Dio che parla solo a lui e
che pur si nasconde nella caligine.
È una fuga, questo viaggio, una
fuga d’amore e di ambizione. Un
viaggio, come totale apertura all’Altro. Un viaggio di fede e di fiducia,
ben lontano dall’atteggiamento
guardingo, prudente e sospettoso di
Ulisse. Anche qui dunque un
archetipo potente ma decisamente
opposto a quello dell’eroe greco.
Abramo si fida, Ulisse mai!
Ma vediamo cosa ci racconta in
proposito il filosofo francese di origine ebreo-lituana Emmanuel
Lévinas: «l’itinerario del pensiero
occidentale resta quello di Ulisse,
la cui avventura nel mondo non è
stata che un ritorno alla sua terra
natale, una compiacenza del “medesimo”, una misconoscenza dell’
“altro”. Al viaggio di Ulisse, il quale desidera
soltanto tornare a casa sua, è necessario contrapporre l’apertura di Abramo che si incammina in vista di una Terra Promessa»5. Il compiacersi del “medesimo” ed il misconoscere
l’ “altro” è movimento di ritorno per riconquistare la propria identità (l’Io), ponendo distanza
(o fuggendo) dall’ “altro”, dalla relazione con lo
straniero. Abramo si getta a corpo morto nel
“totalmente Altro”. Ma, apparente contraddizione con quello fin qui detto, il Dio con cui parla
gli permette di non disperdersi in questa avventura, in questa apertura del viaggio. Abramo e il
suo popolo nel viaggio verso, nel viaggio dell’andata, trovano quello che Ulisse trovò solo
nel viaggio del ritorno. La fondazione di un popolo, della sua tetragona identità, attraverso il
rischio di un cammino verso l’ignoto, un cammino di promessa. Ecco un altro dei paradossi del
viaggio. Da Abramo ad oggi, di diaspora in
diaspora, e di esodo in esodo, sembra un destino
segnato, dove i “ritorni” risultano perennemente precari e in condizioni ineluttabili di assedio.
Anche Ulisse, però, dovrà riconquistare la sua
casa, ripetendo un antico assedio. Quindi ecco
che le due polarità iniziano ad avvicinarsi, a sfumare i loro confini. Fra un Abramo ed un Ulisse
esistono dei “gradi” intermedi: il viaggio come
necessità fatale, condizione esistenziale (per ogni
religione siamo tutti pellegrini), il viaggio necessario, che tutti ci rende migranti. Migranti,
senza alcun prefisso d’origine o direzione a rassicurarci.
Ed allora fra un Abramo ed un Ulisse si
sdipanano il viaggiare del pellegrino e quello del
nomade, il viaggiare del missionario e quello
dell’Ebreo errante. Dove, anche qui solo apparentemente, la distinzione insanabile e radicalmente oppositiva è quella fra l’andare e basta, o il ritornare; fra avere uno scopo o non
avere uno scopo.
Fra un Ulisse che si ricerca (l’Io) e un Abramo
che ricerca (l’Altro), esiste ad esempio, ed in
particolar modo in letteratura, il Doppio, il cosiddetto “motivo del Doppio”, altra particolari-
tà che il viaggio porta con sé. Il “doppio” allude
ad una crisi dell’Io, ad una crisi della soggettività. Nel “doppio” si afferma, tentando di contraddirla, la molteplicità (che ci spaventa, sia essa
quella degli altri che quella dell’inconscio). Il
“doppio” è il risultato di un viaggio di andataritorno, dove si ritorna disastrati, misconosciuti
a noi stessi e ciò nonostante si tenta di ricomporci
in qualche modo. È come un processo di sintesi
che segnala uno sforzo fallito di assimilazione
dell’alterità per arricchire l’identità di partenza.
Nel “doppio” quella dimensione di alterità che
viene assimilata nella soggettività di fatto indebolisce l’identità di partenza, quell’identità che
troppo spesso diamo per scontata nel momento
in cui ci mettiamo a leggere il mondo, ad intraprendere il viaggio.
In questo che potremmo definire il viaggio del
“doppio”, Abramo la vince su Ulisse (ancorché
quest’ultimo simbolizzi la conoscenza razionale). Abramo (simbolo della conoscenza spirituale) supera la prova del doppio, Ulisse ne è vittima. È un po’ come se fosse lui, l’eroe greco
dalla “multiforme mente”, una delle incarnazioni dell’Ebreo errante 6 . Sempre secondo
Lévinas, per Abramo «l’Altro cesserebbe di
essere un’entità da avvicinare, definire, assimilare, ma un dono da accogliere nella sua infinita
distanza. L’universo del doppio (quello di
Ulisse) sembra invece negare questo tipo di
esperienza che si apre all’epifania dell’Altro, il
quale, lungi dall’essere un dono, viene a costituire una minaccia»7.
Ma in ogni viaggio è anche importantissimo il
tempo. Abbiamo detto che il viaggio del ritorno,
quello di Ulisse, implica una concezione del
tempo sostanzialmente “ciclica”. Il viaggio di
Abramo allora implicherà una concezione del
tempo sostanzialmente “lineare”. Un tempo
che pro-cede. Un tempo che non ritorna. Un
tempo che si consuma nel suo solo scorrere in
un verso («fino alla consumazione dei secoli»).
Il tempo di Abramo, che è anche il nostro, ci
concede un’unica possibilità, un’unica possibili17
tà di viaggio, di incontro e di riscatto. Un’unica
possibilità di salvezza, se vogliamo. Il tempo di
Ulisse è quello del ritorno, del tempo che si
riavvolge e ricomincia, il tempo delle stagioni
che si ripetono, il tempo circolare, quello
sapienziale. Ma i greci avevano parole per entrambe le specie di tempo, anzi, qualcosa di più.
Il tempo perfetto eterno e ripetibile era detto
àion (lat. aevum), il tempo lineare, misurabile e
consumabile era chrònos. E il qualcosa di più,
era una terza parola: kairòs, il tempo della possibilità, dell’incontro cruciale, vitale, un tempo
discontinuo e miracoloso delle opportunità, dell’avventura, l’attimo da cogliere e da fissare, il
tempo “maturo” dell’accadere. Il tempo “debito” (dovuto a noi stessi, contingenza propizia
che dà luogo ad ogni identità, ma anche contratto, come si contraggono “debiti” appunto,
nei confronti di qualcuno)8. Molto di più dunque
di una semplice sintesi delle due nozioni precedenti. Il kairòs è dunque anche il tempo del viaggio e del racconto, dell’ucronia dell’assedio e
dell’utopia del ritorno. Il tempo della Tradizione,
che è fiume e radice insieme, dove ogni progresso ha bisogno di un ritorno ed ogni ritorno di
un progresso. Che questo poi sia finito o infinito,
non ci è dato saperlo.
Allora anche ogni libro è un viaggio nel kairòs
(“cronotopo” lo definisce riduttivamente e con
un tecnicismo piuttosto bruttino Michail
Bachtin9), dove è necessario, per non perdersi,
procedere come Abramo ma con la nostalgia
guardinga, menzognera e mimetica di Ulisse.
Ora, sarà opportuno esemplificare quanto fin qui
detto rivolgendo la nostra attenzione a tre
fenomenologie di viaggio incarnate in tre opere
letterarie recenti. A mio parere non immuni dalla marca iniziatica, né dalla qualificazione
ulissiaca e/o abramitica. Ognuno a suo modo,
come è giusto che sia.
Tre tipi di viaggio, tre tipi di percorso (umano e
artistico), tre generi di racconto, tre autori estremamente diversi per stile, pensiero ed approdi
del pensiero. Perché anche i pensieri sono viaggi o veicolano viaggi, ed ogni tanto approdano,
18
si soffermano in qualche porto, mai
definitivamente. In ciò consentendo con il Trevi
che «la letteratura...non è qualcosa di “scritto
bene”. È una forma di conoscenza del mondo
in cui, al soggetto astratto di ogni altro ordine
di sapere, si sostituisce un individuo unico, psicologicamente e storicamente determinato,
irripetibile nella sua conformazione»10, e che,
conseguentemente, «la letteratura ... è un criterio di conoscenza, uno scandaglio che può
arrivare dove altri linguaggi non arrivano»11.
Quantificando banalmente: c’è più esoterismo
e viaggio iniziatico in un’opera letteraria che in
qualsiasi discorso (scientifico o “ispirato” che
sia) su esoterismo e viaggio iniziatico, compreso il presente articolo. L’inaffidabile letteratura rivela, l’affidabile discorso scientifico, tutt’al più, descrive.
I tre autori-esempio sono: Giovanni Lindo
Ferretti, Vinicio Capossela, Fabio Genovesi; rispettivamente: classe 1953 (Cerreto Alpi), 1965
(Hannover), 1974 (Forte dei Marmi). Essi rappresentano solo un trentennio della seconda metà
del “Secolo breve”, in realtà “veloce”, ed anche
ben scansionati di decennio in decennio nell’ordine di apparizione. Solo un trentennio della seconda metà del “Secolo breve”: quindi, volenti o
nolenti, tre ben distinte generazioni.
Il mio maestro delle scuole elementari diceva
che le generazioni erano come i nonni. Ogni
nonno, quantificabile un po’ per eccesso, faceva cento anni. In questo modo noi pargoli ci
orientavamo nelle distanze della Storia, compitando con le dita. Erano altri tempi. Ancora
non avevamo percepito l’invasione dei barbari,
ancora E.J. Hobsbaw non aveva scritto il suo
“Il secolo breve”, né Zygmunt Bauman aveva registrato il marchio della Società liquida,
con tutte le prolifiche variazioni sul tema e le
possibili sostituzioni nominali da aggiungere all’aggettivo liquido. È solo di recente che i
sociologi, dopo aver definito sommariamente
la nozione di “generazione” come «gruppo
esposto agli stessi eventi storici», hanno infine
ammesso che essa è «un’unità di misura non
standard quantificabile nella distanza media fra
genitori e figli (20-25 anni)»12. In ciò peccando
ulteriormente per approssimazione. Le generazioni viaggiano più veloci e un decennio è già
tutta un’altra storia.
Giovanni Lindo Ferretti, Vinicio Capossela, Fabio Genovesi sono di tre diverse generazioni
(anche se consecutive), non per la diversità
dello stile, che sarebbe dato insufficiente e ingenuo, ma per concezione, livello e approccio
al viaggio, e al tempo del viaggio (che pur si
riverberano nello stile) e che riescono ad evocare nelle loro opere. Tre velocità diverse. Tre
percorsi diversi. Scanditi in tre mistiche differenti, all’interno dello stesso campo di gioco e
delle stesse polarità.
Il primo fu famoso cantautore punk italiano degli anni ’80, tuttora canta ed è performer in contesti vari, dove fa antologia del suo passato, crea
canzoni nuove, prega, rilascia interviste, scrive
e recita. Dopo un percorso accidentato, intenso
e per alcuni pieno di contraddizioni patenti, dopo
aver anche toccato il fondo della sofferenza nella
malattia (per alcuni la sua “Via di Damasco”),
attualmente vive nel suo paese natale, Cerreto
Alpi, paese di montagna in provincia di Reggio
Emilia, dove scrive, compone musica, collabora
con la Comunità Montana e le associazioni culturali locali e alleva i suoi cavalli, che usa anche
per spettacoli itineranti, ai limiti del circense e
delle rappresentazioni di Sons et lumières, ma
ormai più d’ispirazione spirituale che
psichedelica. In un’intervista al quotidiano
L’Avvenire del 2009 afferma: «Dopo aver cercato il senso in mille modi senza trovarlo, l’ho
trovato tornando a casa. Al mio mondo di quando ero bimbo: i monti, il rosario, ... Ma Giovanni
Lindo Ferretti oggi chi è? Nel Te Deum può
scoprirlo»13. E scusate se è poco...
Giovanni Lindo Ferretti, per alcuni un
“voltagabbana” (dei molti che si registrano nella
storia delle arti), in realtà è un Reduce, come il
consapevole titolo della sua autobiografia, edita
da Mondadori nel 2006. Quindi un “ritornato”,
un “ricondotto”, forse un “ridotto” (con facile
ed arbitrario scambio fra ricondurre e ridurre), comunque non un semplice sopravvissuto
a una guerra, secondo l’opinione corrente.
Decisamente un Abramo nella parte iniziale della sua vita, ora un Ulisse che, come il primo,
ogni tanto per curiosità, ma parrebbe soprattutto per necessità di vita, riprende il viaggio solo
in via momentanea e missionaria. Ora finalmente un Odisseo, che secondo la controversa etimologia può anche significare «odiato, tenuto in
dispregio»14. Un Ulisse con la fede di Abramo,
che ha consumato nell’adempimento la sua nostalgia di casa e nutre quella del divino nella
devozione e nella tradizione cattolica. Il personaggio è quello del “Figliuol prodigo”, la trama è quella di una redenzione biblica.
Vinicio Capossela «cantautore, polistrumentista
e scrittore italiano», di più ampio successo ma
anch’esso per “palati fini”, sempre in giro per
spettacoli, tessitore raffinato di testi e musiche, ironico, allusivo, etnico e satirico, leggero
ed allegorico, sembra vivere solo una dimensione abramitica ancorché decisamente laica.
Apparentemente per lui il viaggio è solo di andata, è solo per seguir virtute e canoscenza
... ma con la fede che ci sia, da qualche parte,
un’Isola che non c’è, vale a dire, una Terra
Promessa. Anche se questa sua velocità di
viaggio si porta dietro, usa e rielabora materiali di indubbio antico spessore, navicelle d’ingegno dal profondo pescaggio. L’itineranza comunque sembra essere la sua cifra. Dei tre è
colui che maggiormente incarna il nomadismo
dell’artista. Ma in Tefteri, come si vedrà,
scoprireremo apertamente il suo momento o
se vogliamo la sua essenza ulissiaca, al di là
dei suoi interessi e delle suggestioni poetiche
attinte dalla conoscenza della musica etnica
mediterranea. Un’essenza ulissiaca sottesa, un
viaggio di ritorno, come necessità di
reindividuazione delle “radici”. Il personaggio
è quello dell’“Ebreo errante”, ma auto-maledettosi, la trama è quella di una tragedia (esser
costretti a vagare in eterno anche quando si
tenta di ritornare).
19
Dei tre, Fabio Genovesi è lo scrittore “puro”. Il
giovane scrittore “puro”. Decisamente, e ancora, un assoluto “Apprendista”. La sua Terra
Promessa è là dove è nato, Forte dei Marmi.
Dov’è nato e vive e vuole continuare a vivere.
Non ha bisogno di mettersi in viaggio per cercarla, già c’è e c’insiste sopra («hic manebo
optime!»). Non ha bisogno di “ritornare”, di lì
non si è mai mosso, nonostante che la sua mitica
Forte dei Marmi, per la russificazione e
bastardificazione patinata che ha subito, sia diventata Morte dei marmi (titolo del suo gustosissimo ritratto del villaggio natio, edito da
Laterza e giunto nel 2013 alla sua 6a edizione).
Una Morte dei marmi in cui resiste e si ostina
ad abitare, sentendosi eroicamente sotto assedio, difendendo l’avamposto e sacrificando la
vera nostalgia ai soli ricordi del bel tempo che
fu. Dei tre Fabio Genovesi è lo “scrittore barbaro”, secondo l’accezione di Baricco:
calvinianamente rapido, veloce ed anche esatto, se vogliamo, ma dalle traiettorie di superficie, accattivanti e consolatorie, apparentemente semplici e senza eccessivo spessor di memorie15. È un Abramo fondamentalmente soddisfatto e un po’ accidioso, un Ulisse curioso e
divertente, ma pronto a rimettersi quanto prima
in pantofole, un viaggiatore svagato, un ironico
turista per caso, ma anche un Giovanni Drogo
alleggerito del suo deserto dei tartari, che al più
coincide col giardino di casa sua o con la pineta
dei dintorni. Ma non si pensi all’assenza totale
del viaggio. Anche questo forse è un altro modo
di viaggiare, di tracciar mappa fra l’estremo
Ulisse e l’estremo Abramo. Qui, il personaggio
è quello del “Disincantato”, la trama è quella
della commedia, in cui il protagonista deve ancora decidere se intraprendere il viaggio, e quale tipo di viaggio, e nel frattempo fa prove generali su prove generali, cavalcando un simpatico,
divertente asinello, quello di Buridano.
Tecnicamente, l’ultimo libro di Giovanni Lindo
Ferretti, Barbarico (Mondadori 2013) è un diario della contemporaneità dell’autore, senza registrazione di giorni, scandito temporalmente e
20
tematicamente dalla successione delle ore
canoniche e dalla suddivisione del giorno secondo la regola benedettina. Il richiamo-modello è
quello di un memoriale spirituale e civile di un
reduce che del viaggio vive una dimensione
eremitica, monastica o da “chierico vagante”.
Con qualche richiamo alle Confessioni di
Sant’Agostino (si parva licet ...).
Tefteri – Il libro dei conti in sospeso (Il
Saggiatore 2013) di Vinicio Capossela e Tutti
primi sul traguardo del mio cuore (titolo che
è citazione di un verso del poeta Alfonso Gatto
– Mondadori 2013) sono reportage.
Il primo si presenta come “quaderno di viaggio”, il viaggio in Grecia di Capossela,
appuntistico, che finge la scrittura di getto (a se
stesso), come serbatoio di impressioni, immagini, personaggi, non destinato alla pubblicazione.
Il richiamo-modello sono i famosi diarireportage di Goethe e Stendhal e di altri illustri
viaggiatori del XVIII-XIX secolo.
Il secondo è il reportage propriamente detto,
articoli commissionati, nel nostro caso, dal Corriere della Sera a Genovesi, inviato speciale per
seguire da Napoli a Brescia, le 21 tappe del Giro
d’Italia 2013. La missione: non la cronaca dell’evento sportivo, ma, di luogo in luogo toccato,
“pezzi” giornalistici di costume. Un guardarsi
intorno agli accadimenti agonistici. Ritratti di
personaggi e di ambienti, l’epos del ciclismo nella
ritrattistica di alcuni suoi “eroi” (o campioni che
dir si voglia), il ritratto di un’Italia di provincia, a
momenti malinconico, a momenti da Cristo si è
fermato a Eboli, a momenti divertentissimo, ironicissimo e disincantato. Insomma, vizi e virtù di un’Italia che non cambia. Il richiamo-modello è quello, ad esempio, dei resoconti di Robert
Louis Stevenson (XIX sec.) e di altri brillanti
giornalisti anche contemporanei.
Con Barbarico G.L. Ferretti dà compimento ad
un movimento lungo e meditato, iniziato con Reduce (ma anche prima): ricollocarsi nel proprio
centro. Evidentemente non solo un ricollocarsi
spaziale, o un semplice cambio di residenza
anagrafica che lo rivede nel proprio paesello
natale. Il movimento può sembrare una manovra di ripiego di chi sconfitto dalla vita cerca di
salvare il salvabile in una fuga di ritorno. Non è
così. Non totalmente, almeno. Anche se l’autore afferma di nutrire forti dubbi sulle sorti dell’animo umano.
C’è quasi una sfrontata fierezza nel titolo, come
una sfida del sopravvissuto verso chi lo vuole
rubricare fra i sopravvissuti. Barbarico. Ma
ancor più si disvela l’essenza di sfida nel titolo
completo del libro che scopriamo solo all’interno, in esergo all’indice: montano italico cattolico romano – BARBARICO. Ognuna di queste
definizioni meriterebbe un paragrafo. Qui diciamo che Ferretti si colloca nella tradizione e in un
tempo ben preciso: il Medioevo. Rivendicando
una scelta identitaria, culturale e spirituale al di
fuori dello scorrer lineare di chrònos (in ciò è
Ulisse), ma dentro un’altra scansione dello stesso, metastorica, tradizionale, se vogliamo anche
un po’ mitica, quella del kairòs di Abramo, cioè
di chi, pur accettando lo scorrer lineare della vita,
ormai si lascia sedurre con fiducia solo dalla
Promessa e non più dalle promesse. Questa scansione è calibrata dalla suddivisione benedettina
del giorno (e dei giorni): Ora .. .Lege ... et Labora ... e all’interno del tempo di preghiera, che
si dispiega fra lo studio ed il lavoro in tutta la
giornata, un’ulteriore divisione: la “liturgia delle
ore”: Lodi, Vespri e Compieta. Originale suddivisione in capitoli di un monaco che adotta
un’antica regola di comunità, ma da eremita. Così
come le preghiere, lo studio (la lettura) e la meditazione costituivano per il monaco un’alternanza fra salmodie e bibliche narrazioni, Barbarico
ci si presenta come un prosimetro: un’alternanza fra prosa e poesia (o potenziali “canzoni”).
Dove comunque prevale la prosa. Perché i tempi lo impongono? Perché non son tempi di poesia questi? Forse. Questo libro, mistico e lievemente visionario, sembra essere un “itinerario della
mente verso Dio”, dove ogni tappa, che riesce ad
essere viaggio di andata e ritorno, rispetta l’antica sequenza anagogica: lectio, cogitatio, meditatio(/oratio) e infine contemplatio. Ma con
sguardi concreti e taglienti sulle misere realtà
umane. Un’apparente reazione, che si fa in Ferretti critica feroce che si sforza (cattolicamente?) di essere amorevole. Anche in questo barbarico. L’autore non è “uscito dal mondo”, ma
si è riposizionato nel mondo per meglio comprenderlo e tentare di amarlo, nonostante tutto.
«Sono vecchio, operando per lo più per reazione
tendo ad essere reazionario. Montano per discendenza e per scelta, per contingenza da
centocinquant’anni italiano ma sono italico da
secoli e secoli e il futuro non è dato; cattolico
romano in lotta perenne con un substrato barbarico, un sentire profondo che secoli di fede e
devozione hanno contenuto, limato, educato ma,
inutile mentire, affiora qua e là prepotente: occhio per occhio, dente per dente […] Fatico nel
perdono che rimane un cammino tortuoso, aspro,
difficile e vale solo se tiene lo sguardo rivolto
all’Altissimo: verticale. Se facile, gratuito, orizzontale, dimentica le vittime e sostiene i carnefici; gronda sangue innocente».
Queste sono le premesse. E il libro si sdipana in
riflessioni acute sulla contemporaneità, sul senso del suo lavoro quotidiano recuperato e sviluppato nella sua piccola comunità, sul lavoro che
ancora lo porta a viaggiare, sulle sue letture per
lo più invernali. Riflessione, meditazione, preghiera, a volte come canto. Scorrendo gli autori di
cui ci racconta la lettura scopriamo tante cose
anche solo facendone una breve lista: Gómez
Dávila, Geminello Alvi, Edmondo Borselli, Cormac McCarthy, Simone Weil, Pietrangelo Buttafuoco ... Idee sull’Europa, sulla giustizia, sull’equità e anche sull’economia si filtrano e si
costruiscono in discorso sapienziale, tradizionale, religioso. Discorso per niente scontato, discorso meritevole di attenzione.
«C’è un’infinitesimale parte di ogni essere che
anela ad altro, ad una compiutezza che non possiede ma di cui percepisce mancanza […]
L’ostentazione di buoni sentimenti e rettitudine
morale non basta a penetrare un mistero che
contempla il male, il dolore, la caducità dell’umano operare […] La scoperta, materiale carna21
le, del senso del dovere ha ribaltato ogni mio
pensiero cresciuto sempre più insoddisfatto nel
regno dei diritti». Ed ecco che in mezzo a queste riflessioni, apparentemente disparate, in
realtà ampie, c’è il racconto dell’assistenza
alla madre malata, fino agli ultimi suoi giorni.
Esperienza individuale, concreta, che si fa
metafora cosmica in un canto, dove anche la
rima, espediente poetico arcaico, si fa ritmo
dell’esistenza.
Potremmo poi procedere nell’analisi per “parole-chiave”, e in questa opera ce ne sono
molte. Tramandare e Tradizione (possibilmente senza tradimento) e, enucleandovi un
po’ di sarcasmo iperbolico, ascoltare il suo
senso del cammino e del viaggio: «Le ideologie ambientali e animaliste vanno ad occupare il posto che già fu delle ideologie politiche come a dire: fallito il progetto uomo nuovo avanti con il nuovo animale […] meglio
assecondare il ritmo del cammino, assaporare ciò che nel mondo permane a discapito del
brusio costante con scoppi di fragore a cui
siamo assuefatti […] e il viaggio diventa processione, acquista dimensione sacrale». Per
concludere infine, come suggestione ed invito
alla lettura, con la sua verità abramitica, che
pur lascia intatta la necessità del viaggio
ulissiaco: «Più si affievolisce il rapporto con
Dio più aumentano gli dèi sulla scena. Essere
ateo è facoltà dell’uomo, può presupporre una
qual certa grandezza, l’idolatria è servile comunque»16.
Bellissimo viaggio pagano a risalir sorgenti
verso un’altra delle nostre radici è Tefteri –
il libro dei conti in sospeso. Il sottotitolo è
la traduzione del titolo, tefteri parola neogreca che significa appunto «quaderno dove si
registrano i conti della spesa fatta a credito»,
quello che ricordo usava anche mia madre
quando al negozio di alimentari comprava «a
chiodo» (come si dice in Versilia), “segnando” giornalmente la spesa e poi pagando a
fine mese. Il bottegaio aveva il suo quader22
netto e lo riscontrava con quello di mia madre. Dalla rapida collazione i conti tornavano
sempre e i debiti venivano prontamente saldati. Anche la copertina del libro mi ricorda il
tefteri di mia madre. La partita doppia di
cui si tratta in questo libro è quella del secolare debito di civiltà che la nostra cultura ha
con la Grecia e del “debito pubblico” che attualmente ha la Grecia nei confronti dell’Europa. Entrate e uscite, debiti e crediti. Sensibilità, cultura e visione del mondo contro economia “globale”, la più triviale e depredatrice, quella del capitalismo finanziario più sfrenato e selvaggio. Sui debiti si calcolano e si
pagano gli interessi, il più delle volte usurai.
Più il debito mai pagato è di lunga data, più gli
interessi si dovrebbero accrescere, con tutto
quel che ne consegue. Nel caso della Grecia,
evidentemente, la regola non è tale, non funziona. Forse, si dirà, perché categorialmente
non omogenea è la natura del debito/credito:
da una parte l’immateriale, dall’altra il materiale ... come se non si sapesse che ora l’economia e i suoi meccanismi sono fra le nozioni
più esizialmente immateriali che la metafisica
del virtuale ci impone! La Grecia depredata è
dunque a debito, ma sarebbe lungo parlarne e
rischieremmo un antieconomico romanticismo.
E comunque non vorrei essere frainteso, il libro non parla di tutto questo come se fosse
un trattato di ragioneria o un j’accuse ideologico del cantautore politicizzato di turno. Tutto questo è sotteso, alluso e si propone come
una delle molteplici chiavi di lettura del viaggio in Grecia di Vinicio Capossela.
Questo, come si è detto, è un taccuino di viaggio. Un viaggio di andata che si rivela in realtà un ritorno. Partito come Abramo, verso
una Terra Promessa, pur con fede incerta, il
bardo Capossela si trova a ripercorrere la via
di Ulisse, il ritorno alle origini, al proprio posto
nel mondo. Un ritorno che trova la “casa”
saccheggiata e preda dei Proci – Pretendenti
di non si sa più che cosa, ormai. Già lo sapeva l’autore che questo viaggio sarebbe stato
un ritorno, ma nella finzione letteraria tutto
si perdona e si assolve per poter vivere un
sogno ed incarnare un’esprienza di fatto
sapienziale. Egli, forse alla ricerca di nutrimento alla propria musica e alla propria più
ampia ispirazione, va alle sorgenti che non
vorrei chiamare come gli esperti «musica etnica», perché esperto non sono ed è riduttivo.
Egli di fatto evoca nel viaggio atmosfere magiche e mitologiche a sostegno della propria
erranza, e scopre che la Tradizione è, certo,
“radice” che complessamente s’indelta, ma
soprattutto “fiume” dai mille affluenti. Feconda ramificazione impura e impuro specchio
d’acque correnti e innocenti. Vinicio
Capossela, in questo libro, scopre nella grecità
che ci informa e ci appartiene, la nostra reale
natura, quella del meticcio17. La Grecia come
nodo di popoli, dove tutto fu possibile perché
l’indigeno si fuse con l’indoeuropeo che a sua
volta si fuse col semita che a sua volta si fuse
con l’“orientale”; e di meticcia fusione in meticcia fusione in una Galilea delle genti dove
tutto sarebbe stato possibile.
Il viaggio si compie nel periodo di Pasqua del
2012. E se non è altamente simbolico tutto
questo ... ma non mi ci soffermo. Dico solo
che anche qui il tempo ha una scansione “altra”, il tempo del viaggio si declina e compone diversamente. E il diario realizza la sua
liturgia con scansioni che hanno qualcosa a
che vedere col sacro: la magia di incontri con
23
personaggi fatali, che parlano della krìsis, ma
anche di poesia, e di incontri con musiche
d’amore e protesta. Nel rebètiko (termine
semigreco e semiturco), la musica “popolare” di amore e ribellione, e nella figura di mitici
rebètes (i cantanti/cantori di rebètiko) si riepiloga potentemente e visceralmente tutta la
cultura greca dalle origini, la nostra cultura
(che è nostro debito): l’epica omerica, la tragedia, la commedia, il dionisiaco e l’apollineo,
l’affilata razionalità e la passione d’amore che
consuma – e in questa ricapitolazione
itinerante Capossela riesce a scrivere pagine
stupende. Dove ben presto si scopre: che il
rebètiko veicola nostalgia in ogni sua accezione, che è intriso di quello che gli spagnoli
chiamano duende, ma che in portogallo potrebbe essere anche saudade e che il
màngas, protagonista maschile delle canzoni
dei rebétes, è lo splenetico “maledetto”
baudelairiano, ma anche il gaucho che ci ha
ben fatto conoscere Borges. E tutto l’universo allora si tiene nel viaggio, solo nel viaggio,
se non fosse che l’uomo vi ha rinunciato in
preda all’assedio che si è imposto.
Viaggio epico con disincanto e con intelligente
ironia, quello di Fabio Genovesi. L’epos del ciclismo e dei suoi eroi è perfettamente tratteggiato, con quel misto di nostalgia, malinconia e
senso delle buone cose di pessimo gusto, che
non ci fa tagliare le vene, ma anzi intelligentemente ci consola e distrae. Il suo è
un viaggio rapido, leggero, fatto di
lievi sguardi obliqui che suscitano
buon umore, e con la certezza del
ritorno a casetta propria. Abbiamo
bisogno anche di questi viaggi.
Viaggi fuori porta, viaggi di più corto
respiro, dove magari Abramo ed
Ulisse restano sullo sfondo (e in
agguato), ma che ci fanno tornare
a casa “felici e contenti”, un po’
più riposati e pronti per la tenzone
con la quotidianità.
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Viaggi in famiglia e di famiglia, dove il sentimento più profondo che si prova è l’affetto.
E non è comunque poco. Riflessioni laiche e
disimpegnate: ben venga lo stile barbaro della
pronta battuta e della satira (che sia di costume o meno). Scansioni in brevi capitoletti (uno
per tappa del “Giro”), dove ogni percorso fatto da questi guerrieri aligeri è pretesto per
sguardi su storie e ambienti della località raggiunta o da raggiungere. In alcuni ciclisti intervistati, in alcune storie raccontate di ciclisti del passato, potremmo anche riconoscere
gli Achille, gli Aiace e gli Ulisse di una moderna epica, tragicomica, malinconica, nostalgica o acutamente, benevolmente critica.
L’itinerario di conoscenza qui si fa senza compromettersi, distanziando nell’ironia un possibile coinvolgimento più profondo, che possa
andare al di là di una semplice, umana simpatia. Neutralizzando in tal modo i pericoli che
ogni viaggio si porta con sé, nel suo divenire e
in ogni storia nel mentre che si racconta.
Questi tre esempi, attinti dalla letteratura contemporanea e senza palesi pretese di esoterici
messaggi da affidare solo «a chi ha orecchi
da intendere», ci danno la misura di come, in
fondo, ogni percorso possa essere, e di fatto
lo è, un viaggio iniziatico; condizione necessaria e sufficiente è che ci sia “consapevolezza” o, se vogliano, “coscienza” del viaggio
da parte di ogni viator. Stati dell’Essere che
si articolano per gradi o livelli, che si diffe-
renziano in molteplici vie e nelle rotte le più
disparate, ma all’interno di una stessa mappa
costruita per polarità (gli Archetipi) e Figure,
che da traiettoria a traiettoria, da stazione a
stazione, da relazione a relazione, ci conducono
al perfezionamento, quello a noi possibile.
Pellegrini assoluti, ognuno di noi interpreta il
proprio viaggio e la propria nostalgia che del
viaggio è ferita aperta. Nella vita, come nella
letteratura, ci si difende come possiamo dai
pericoli, in varia misura consapevoli che comunque ci sono e sono ineludibili. E in questa
difesa, che a volte è confessione di resa al
Divino, a volte ricerca disperata nel labirinto,
a volte semplice e sicura navigazione da diporto, incarniamo un po’ Abramo e un po’
Ulisse, Figure universali del viaggio. In questa difesa sappiamo che dobbiamo andare,
assediare, ritornare (o ripiegare) e magari
procedere in esodi d’incerta promessa, a seconda delle avventure che ci capitano. Sono
i modelli della nostra strategia, modelli di noi
figure in viaggio che ci ostiniamo a voler dare
un senso, ci ostiniamo a voler trasformare il
tempo cosmico in un personale, significativo
kairòs.
Note
Cfr. E. Trevi, Il viaggio iniziatico, Laterza, BariRoma 2013.
2
F. Ferrucci, L’assedio e il ritorno – Omero e gli
archetipi della narrazione, Mondadori, Milano
1991, passim.
3
M. Kundera, L’ignoranza, Adelphi, Milano 2011.
4
Nel qual caso parliamo di “malinconia”,
melancholia, l’“atra bile” di ippocratica memoria
che si trasforma in accidia romantica, sul piano
letterario, o depressione sul piano psicopatologico.
5
E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaka Book, Milano 1982, p. 14.
6
A proposito dell’«archetipo dell’uomo maledetto
da Dio e costretto a vagare per l’eternità ... », cfr.
S. Falchi, L’Ebreo Errante dalle origini al XVI
1
secolo, in «AnnalSS 4, 2004 (2007)» – Università
di Sassari, pp. 109-127.
7
E. Lévinas, op. cit., ibidem.E in particolare sul
motivo del “doppio” in letteratura cfr. anche la
rapida sintesi di C. Mengozzi, Io È/E un Altro, in
www2.units.it/clettere/doppio.htm).
8
G. Marramao, Kairòs. Apologia del tempo debito, Laterza, Bari-Roma 2005, 3 ed. (1 ed. 1992).
9
M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino
2001. Di fatto in Bachtin la nozione di “cronotopo”
diventa una categoria narratologica mutuata dalla
fisica della relatività.
10
E. Trevi, op. cit.,pp. 27-28.
11
Ibidem, p. 16.
12
it.wikipedia.org/wiki/Generazione.
13
In http://www.giannimaroccolo.com/stampa/
pgggr/pgggr_slowfood3.pdf.
14
La duplicità/polarità semantica dell’etimo
dell’antroponimo “Odisseo”, da potersi intendere
sia in senso passivo (“l’odiato”) che in senso attivo (“colui che odia e tiene in dispregio”), che nel
caso del nostro eroe potrebbe ben definirsi ulteriore indizio di doppiezza, è sagacemente messa
in evidenza da M. S. Mirto, Etimologia del nome
e identità eroica: interpretazioni umane e divine, in «Il Nome del testo» IX (2007), ETS, Università di Pisa, pp. 221-229. Resta comunque il fatto
che la sostanziale oscurità di questo antroponimo
resiste brillantemente ad ogni indagine storicolinguistico-comparativa.
15
A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione,
Feltrinelli, Milano 2013 (2006).
16
Dei passi citati ho volutamente evitato di segnalare il luogo, a beneficio – spero – della continuità del discorso, che vorrebbe essere impressionistico ed evocativo.
17
La sostanziale natura meticcia della cultura, contro ogni concetto di purità di razza e di rappresentazione schematica (e menzognera) di una sedicente pura Tradizione delle origini, è efficacemente sostenuta da M. Bettini, Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, Il Mulino, Bologna
2011. L’autore, per sostenere questo, sostituisce,
nel rappresentare la Tradizione, alla metafora delle radici, quella del fiume. In ciò, tuttavia, peccando nello schematismo opposto, altrettanto
criticabile e riduttivo.
25
Pinocchio ...
la favola
Luciano Angeli
Il mondo fantastico in cui si svolge la storia
del burattino Pinocchio e dei personaggi che
ruotano intorno alla sua figura è il corollario di una qualunque seppure avvincente favola per bambini; oppure racchiude in sé
contenuti, significati, simboli e finalità che
fanno di quel mondo la trasposizione metaforica di una tradizione iniziatica alla quale
presumibilmente apparteneva il suo autore?
In questo mio articolo cercherò di rappresentare il contesto storico e culturale in cui si inserisce la figura di Carlo Lorenzini proponendo alcune testimonianze sulla sua dibattuta appartenenza alla Massoneria e i parallelismi ravvisabili
tra le vicende che caratterizzano il cammino verso
la trasformazione in un vero uomo del burattino
Pinocchio con i rituali e la simbologia dell’istituzione iniziatica.
Carlo Lorenzini, in arte Collodi dal nome della
cittadina della Valdinievole di origine della madre, iniziò a scrivere la storia di Pinocchio nel
1880 in età adulta, a 55 anni.
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Inizialmente la favola sarà pubblicata sul “Giornale per i Bambini” di Ferdinando Martini con il
titolo di Storia di un burattino, a puntate, in
quindici capitoli, con il finale tragico dell’impiccagione di Pinocchio alla grande quercia per
mano degli assassini “Chiuse gli occhi, aprì la
bocca, stirò le gambe e dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito”.
Due settimane più tardi, quando i piccoli lettori,
erano ormai convinti che Pinocchio fosse morto
impiccato, nella rubrica del giornale “Posta dei
bambini” il redattore capo, Ferdinando Martini,
il 10 novembre del 1881, annunciò “Una buona
notizia. Il signor C. Collodi mi scrive che il
suo amico Pinocchio è sempre vivo e che sul
suo conto potrà raccontarne ancora delle
belline. Era naturale: un burrattino, un coso
di legno come Pinocchio ha le ossa dure, e
non è tanto facile mandarlo all’altro mondo.
Dunque i nostri lettori sono avvisati: presto
presto cominceremo con la seconda parte
della Storia d’un burrattino intitolata Le avventure di Pinocchio”.
Infatti il Lorenzini a partire dal 6 febbraio 1882
riprese la pubblicazione della favola, in tre blocchi suddivisi in vari capitoli sino al trentaseiesimo
pubblicato il 25 gennaio 1883. Successivamente
l’editore riunì la favola in un volume illustrato da
Enrico Mazzanti e la propose ai lettori all’interno della serie dei libri per ragazzi che affiancavano le collane dei libri scolastici.
Diverse sono le ipotesi sul perché il Lorenzini
abbia ripreso a scrivere le storie del burattino.
Le più accreditate riguardano, da una parte, le
innumerevoli proteste del pubblico infantile, dall’altra le ristrettezze economiche e l’esigenza di
pagare certi debiti di gioco, considerato che percepiva dal Biagi 20 centesimi a rigo. Scrive il
Collodi al Biagi dopo aver redatto i primi due
capitoli: “Ti mando questa bambinata, fanne
quello che ti pare; se me la stampi, pagamela bene per farmi venir la voglia di seguirla”.
Volontà di narrare una storia educativa di ispirazione massonica? Certo che il burattino, attraverso un lungo e faticoso cammino, verrà guidato verso la via iniziatica che gli permetterà di
trasformarsi da un semplice pezzo di legno animato in un vero uomo. Alcuni dati che possiamo
certamente rilevare sono l’universalità del messaggio contenuto nel racconto e l’interesse che
la storia da oltre un secolo suscita non solo tra i
lettori di ogni età, ma anche da parte di scrittori,
critici, psicoanalisti, studiosi delle religioni di ogni
parte del pianeta, al punto di conquistare una
notorietà e una diffusione associabili alla Bibbia
e al Corano.
Un’altra verità sul successo della nostra storia
la fornisce un anonimo sul “Fanfulla della Domenica” del 19 settembre 1880, che scrive “Il
Collodi ha veramente le difficili e molte qualità che ci vogliono a scrivere libri per i ragazzi. Li conosce: sa il modo di pensare e di
fare, sa il loro linguaggio e lo adopera”.
Ma tornando al tema del Collodi massone, premetto che l’appartenenza del Lorenzini alla
Massoneria non è avvallata, al momento, da alcun riscontro ufficiale reperibile tra la documentazione in possesso del G.O.I. Va ricordato anche, a tale proposito, che nel secolo scorso molte logge massoniche furono incendiate e buona
parte delle testimonianze della loro storia distrutte
o disperse. Inoltre all’epoca del Collodi le società segrete, le società dei Liberi Pensatori furono
soggette alla scomunica da parte della Chiesa e,
pertanto, costrette ad operare nell’ombra e nella massima segretezza.
È importante ricordare che il Collodi aveva partecipato volontario alle campagne risorgimentali
del 1848 e del 1859 ed era il maestro riconosciuto del giornalismo “umoristico” dell’epoca. Fondò nel 1848 la rivista “Il Lampione” che, come
riferisce il Lorenzini stesso, “ha illuminato tutti coloro che erano in bilico nelle tenebre”,
ma che poco dopo incorse negli strali della censura e venne chiuso.
Seguirono altre iniziative editoriali quali “Lo
scaramuccia”, “La Lente” e il celebre “Fanfulla”
caratterizzato da brevi testi, ricchi di sberleffi, a
commento di personaggi, fatti e costumi dell’epoca accompagnati spesso da caricature.
In quel contesto letterario furono Guido Biagi
e Ferdinando Martini (entrambi massoni) a
chiamare a raccolta il Collodi e il gruppo degli
scrittori vicino al “Fanfulla” e al suo supplemento il “Fanfulla della domenica”, fondato
dal Martini, al fine di cooperare a una vasta
impresa educativa, rivolta anche ai bambini,
col proposito tutto risorgimentale di formare i
futuri cittadini italiani.
Fondamentale, pertanto, appare la profonda
amicizia instauratasi tra il Lorenzini e il Martini,
giornalista-editore fiorentino già Ministro della
Pubblica Istruzione durante il primo ministero
Giolitti eletto proprio nel Collegio di Pescia al
Parlamento Nazionale dove vi rimase ininterrottamente per oltre quarant’anni.
Martini visse buona parte della sua vita in
Valdinievole dove morì, a MonsummanoTerme,
e occupò un ruolo di primaria importanza nell’ambiente massonico dell’epoca. Nella cerchia
di letterati ed intellettuali che ruotavano intorno
all’orbita del Martini vanno annoverati i massoni
Giovanni Pascoli e il suo maestro Giosuè
Carducci, il quale in una lettera si rivolge al
Lorenzini da “massone a fratello”.
Ferdinando Tempesti, uno dei maggiori studiosi di Carlo Lorenzini, nell’introduzione al
Pinocchio uscito nei classici dell’Universale
Feltrinelli, riporta come prove dell’appartenenza alla Massoneria dell’autore della favola una
lettera al massone Pietro Barbera (1844) che
termina con un riferimento al “fratello
Collodi” e una frase di Giovanni Prati (1885)
dedicata ai massoni: “Lunatici apostoli d’un
simbolo politico e religioso, nel quale la mia
natura, l’esperienza, la tradizione del mondo
e dei miei studi mi vietan di credere”, inserendo tra quegli “apostoli” il nostro scrittore.
27
Lo stesso Tempesti nel volume Pinocchio e i
simboli della “Grande Opera”, scritto dal
sociologo Nicola Coco e dallo specialista di
dottrine ermetiche Alfredo Zambrano, riporta, tra l’altro, frammentarie notizie circa
l’affiliazione del Lorenzini ad una imprecisata obbedienza e riporta un particolare della
vita familiare del Lorenzini dove la madre, addolorata di avere un figlio massone, cerca di
convincerlo a fare atto di presenza alla messa di mezzogiorno in Santa Maria Maggiore a
Firenze al fine di smentire quelle dicerie. Dall’altra parte si vede il Lorenzini rassicurare la
madre affermando: “non sono un
miscredente, a Dio ci credo. Stia tranquilla che ci credo”.
Sulla scorta di quanto fin qui riferito ritengo non
azzardato sostenere che il Lorenzini abbia potuto attingere dalla Massoneria, se non l’ispirazione per la realizzazione dell’intera storia,
almeno diversi simboli e significati inserendoli all’interno del racconto dove, comunque, tutti
i personaggi fanno parte di un percorso
educativo incentrato sulla vicenda di un burattino e di “un segreto misterioso” che vede
il protagonista trasformarsi in asino per divenire infine un giovane uomo.
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È indubbio che agli occhi di un adulto questo
libro possa manifestarsi come una significativa
metafora della vita e della sua evoluzione spirituale rappresentata dal lungo percorso tortuoso
di un semplice pezzo di legno grezzo con le forme di un burattino in cui vengono coinvolti tutti i
sentimenti e i travagli dell’animo umano, dall’impertinenza del figlio verso il padre, all’innocenza
del bambino che pur senza cattiveria si fa indurre in tentazioni cacciandosi continuamente nei
guai, dall’amore innato tra genitore e figlio e
dall’animo indulgente del genitore, sempre pronto
a correre in soccorso e a perdonare, al lavoro
nella sua durezza per la sopravvivenza con il richiamo al facile arricchimento e ancora alla giustizia e all’ingiustizia, alla gioia e al dolore, alla
paura, alla morte, alla fantasia, alla conoscenza
e alla trasformazione.
Cercherò, adesso, di evidenziare quelle parti della
favola che maggiormente presentino delle
assonanze e delle rispondenze con il mondo
massonico.
C’era una volta ... Un re! Diranno subito i
miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice
pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si
mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Sin dai primi righi lo scrittore vuole da subito
marcare la distanza dal tradizionale mondo
fiabesco presentando come protagonista della
storia un semplice pezzo di legno da catasta quale
materia prima per creare un burattino che poi si
trasformerà in uomo.
Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome
gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi,
e tutti se la passavano bene. Il più ricco di
loro chiedeva l’elemosina.
Da questo momento in poi Pinocchio e Geppetto
vivranno in una sorta di simbiosi dove padre e
figlio patiranno l’uno per le sofferenze dell’altro,
dove entrambi naffronteranno innumerevoli tra-
versie sia pure in luoghi e modi diversi ed entrambi gioiranno delle speranze reciproche.
Fra mille peripezie Pinocchio prima di divenire
Uomo compirà una serie innumerevole di “viaggi” che lo vedranno entrare in contatto con tutti
gli elementi primordiali – Acqua, Aria, Fuoco
e Terra – così come simbolicamente si dovrà
sottoporre ai loro effetti il profano nel rituale di
iniziazione. Le numerose peripezie ed esperienze accompagneranno Pinocchio in quel lungo
cammino che dalle tenebre lo condurrà al
raggiungimento della Luce e, quindi, alla rinascita come uomo. Le avventure del nostro burattino ricordano le passioni della vita, gli ostacoli
e le difficoltà che l’uomo incontra e che non potrà
vincere se non attraverso l’acquisizione di quella forza morale che gli permetterà di lottare contro ogni avversità.
Iniziamo con il primo contatto con l’Acqua
che avviene quando Geppetto viene arrestato
e Pinocchio nel tornare verso casa si trova
immerso in un temporale ... tuonava forte
forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse
fuoco e un ventaccio freddo e strapazzone,
fischiando rabbiosamente e sollevando un
immenso nuvolo di polvere, faceva stridere e cigolare gli alberi della campagna.
Pinocchio nel XXXIV capitolo sarà gettato in
mare e, mangiato dai pesci, ritorna ad essere
un burattino e mentre nuota per salvarsi verrà ingoiato dal terribile pescecane, successivamente attraverserà il mare a nuoto “con il
babbo a cavalluccio sulle spalle” riuscendo ad
arrivare alla spiaggia.
Dall’acqua passando al Fuoco quando tornato a
casa bagnato da una “catinellata d’acqua che
lo annaffiò dalla testa ai piedi” e “si addormentò con i piedi sopra il caldano pieno di
brace accesa e nel dormire i piedi – che erano di legno – gli presero fuoco”.
Il contatto con il fuoco lo ritroviamo ancora nell’incontro con Mangiafuoco che minaccerà di
bruciarlo insieme ad Arlecchino.
Successivamente rischierà ancora di bruciare
quando gli assassini per rubargli le monete d’oro
appiccheranno il fuoco e infine quando il Pescatore Verde lo vuol friggere sul fuoco come un
pesce.
Innumerevoli sono pure i contatti con l’Aria che
è presente nel volo del pulcino quando Pinocchio
affamato rompe il guscio dell’uovo, così come
ritroviamo tale elemento in tutti i volativi presenti nella fiaba: dalla Civetta, al Corvo, dal Falco,
al Colombo, che porta Pinocchio in alto nel cielo, massima espressione di elevazione collegata
all’aria.
I contatti con la Terra li ritroviamo nel momento
in cui semina gli zecchini nel Campo dei Miracoli e costringeranno Pinocchio a proseguire il
suo percorso privo di beni materiali o, verso la
fine del racconto, quando, con l’aiuto del tonno,
raggiungerà la spiaggia e con l’incontro di animali striscianti quali il serpente e la lumaca.
Oltre al richiamo ai quattro elementi troviamo
altri riferimenti al mondo esoterico come l’evocazione del cielo stellato nel Campo dei Miracoli
e, successivamente, ancora più marcatamente
all’uscita della bocca del pescecane dove quel
cielo stellato, oltre che tema di meditazione, diventerà guida verso la meta. La volta stellata –
ha un profondo significato simbolico – essa è
presente all’interno di ogni tempio massonico e
sta a rappresentare il cosmo infinito, l’evoluzione spirituale, il tetto del mondo.
La visione della volta stellata sta a rammentare
che il lavoro di costruzione del tempio rimarrà
29
eternamente incompiuto, in quanto la nostra opera
di ricerca interiore, di perfezionamento umano e
di verità non avranno mai fine.
Pinocchio si mosse brancolando in mezzo a
quel buio e cominciò a camminare tastoni
dentro il corpo del Pescecane, avviandosi un
passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano
... e più andava avanti, e più il chiarore si
faceva rilucente e distinto: finché, cammina
cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato … che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco,
come se fosse di neve o di panna montata ...
Siamo nel XXXV capitolo, stiamo per giungere
al termine della nostra storia e la descrizione di
questo luogo buio non può che portare alla mente di ogni massone il Gabinetto di Riflessione,
luogo angusto e buio dove è presente un piccolo
tavolo illuminato da una candela su cui giace un
pezzo di pane, una brocca d’acqua e del sale,
così come sono presenti resti di ogni tipo nello
stomaco del pescecane, che stanno a significare la temporaneità dell’esistenza e che tutto è
destinato ad essere mutato.
La Camera di Riflessione invita il profano-neofita
di spogliarsi delle sue paure, delle sue insicurezze,
dei metalli per rinascere e lo incita a proseguire
il percorso della sua esistenza, rettificandola, al
fine di risvegliare la sua coscienza in una nuova
dimensione, per dare un senso diverso alla sua
vita. Non a caso Pinocchio dopo essere uscito
dal ventre/camera di riflessione superando il
“mare” dell’inconscio riesce finalmente ad approdare alla spiaggia che rappresenta il momento della presa di coscienza di sé quale preludio
della via iniziatica. Infatti il nostro Burattino –
Profano rinascerà Bambino – Iniziato.
Proverò adesso a fornire una rappresentazione
in chiave esoterica dei principali personaggi della storia.
Cominciamo da Mastr’Antonio detto Mastro
30
Ciliegia il quale prese subito l’ascia arrotata
per cominciare a levigargli la scorza e
disgrossarlo ... Ma quando fu lì per lasciare
andare la prima asciata, rimase col braccio
sospeso in aria, perché sentì una vocina sottile sottile, che disse raccomandandosi – Non
mi picchiar tanto forte! E così dopo aver dato
il primo solennissimo colpo sul pezzo di legno ... Ohi! Tu m’hai fatto mal! Gridò rammaricandosi la solita vocina.
È evidente che Mastro Ciliegia o meglio Maestro Ciliegia non è all’altezza del ruolo: pur essendo un brav’uomo è incapace di lavorare su
quel pezzo di legno dotato di un’anima al suo
interno, anche lo strumento usato per sgrossarlo
non è quello giusto, così come la sua stessa destinazione finale (vuol farne infatti una gamba
per il tavolino). Per tali motivi il Ciliegia esce di
scena per lasciare il posto ad un altro maestro
del legno, il vecchio e saggio Geppetto.
In quel punto fu bussato alla porta. Ed ecco
allora esordire il nostro Mastro Geppetto, il quale tornato a casa prese subito gli arnesi e si
pose a intagliare il suo burattino. Iniziò a
sgrossare il pezzo di legno grezzo così come per
similitudine avviene nel nostro caso con gli apprendisti che associati alla pietra grezza dovranno essere guidati nella trasformazione della pietra informe in pietra cubica, elemento basilare
nell’opera edificatoria dell’arte muratoria.
L’attività del falegname è simbolicamente connessa all’operato di colui che deve creare ordine dal caos, vita dalla morte.
È, infatti, con animo puro e con dedizione che il
nostro maestro seguirà nella crescita, nel processo di miglioramento, di perfezionamento e di
trasformazione la sua creatura. Nel capitolo successivo venderà la propria casacca di fustagno
per acquistare al burattino l’abbecedario ... ritornando a casa in maniche di camicia mentre fuori nevicava.
??E la casacca babbo?
??L’ho venduta.
??Perché l’avete venduta?
??Perché mi faceva caldo.
L’abbecedario che alla fine del IX Capitolo
Pinocchio venderà per andare a vedere il teatrino
dei burattini ... È Pinocchio! È Pinocchio! Urlano in coro tutti i burattini ... è il nostro fratello Pinocchio ... Pinocchio vieni quassù da
me – grida Arlecchino – vieni a gettarti tra le
braccia dei tuoi fratelli di legno... e qui ogni
riferimento alla fratellanza ritengo non sia affatto causale.
A questo punto appare la figura del burattinaio
Mangiafuoco ... (questo era il suo nome) pareva un uomo spaventoso, specie con quella
sua barbaccia nera, che a uso grembiale, gli
cropriva tutto il petto e tutte le gambe; ma
nel fondo poi non era un cattiv’uomo.
Infatti il terribile Mangiafuoco descritto come
burbero e minaccioso in realtà è un uomo di animo gentile e compassionevole e come ogni buon
Maestro avrà cura del suo Apprendista, infatti
dopo aver minacciato, sgridato e fatto capire a
Pinocchio e ad Arlecchino, i loro errori commessi
li perdonerà e con commozione consegnerà al
nostro burattino le cinque monete, che aveva
incautamente sperperato, permettendogli così di
potere riprendere il suo viaggio.
Il Gatto e la Volpe … il gatto è cieco da entrambi gli occhi. Egli non potrà mai avere la possibilità di ricevere la LUCE, la sua cecità è la rappresentazione della benda simbolo delle tenebre.
La volpe invece è zoppa e, pertanto, associabile
all’imperfezione del cammino claudicante del
profano. Nel rituale dell’iniziazione il neofita viene
introdotto nel tempio con il piede sinistro scalzo
che renderà il suo cammino zoppicante prima di
divenire regolare.
Nel XVI capitolo troviamo Pinocchio impiccato
dagli assassini a un ramo della Quercia Grande
e il cappio posto al suo collo cinge anche quello
del neofita bendato, zoppicante e dall’aspetto
scomposto con una spalla scoperta. Ed è a questo punto che appare la Fata dai capelli turchini
e la fatina impietosita alla vista di quell’infelice che, sospeso per il collo, ballava il
trescone alle ventate di tramontana, batté per
tre volte le mani insieme e fece tre piccoli
colpi. Perché proprio tre colpi? Tre sono i colpi
che il profano deve battere alla porta del tempio
per potere essere ammesso.
Nel capitolo successivo Pinocchio verrà accompagnato da conigli celati da cappucci neri,
come i fratelli fra le colonne nel Tempio, al
cospetto di tre medici, rispettivamente, nel rituale di iniziazione, il Maestro venerabile, il
Fratello esperto e il Maestro delle cerimonie,
che lo costringeranno a bere la medicina amara
dopo aver avuto prima la pallina di zucchero
ossia il liquido dolce e quello amaro, che dovrà bere il profano per assaporare il bene e il
male, il piacere della solidarietà dei Fratelli in
contrapposizione all’amarezza e ai rimorsi per
il tradimento dei valori massonici. Subito dopo
la Fatina dirà a Pinocchio “Tu sarai il mio
fratellino ...”.
Ritroviamo di nuovo la Fatina nel XXIX capitolo dove comunica a Pinocchio che il suo
desiderio si sarebbe finalmente realizzato ...
“Domani finirai di essere un burattino di
legno e diventerai un ragazzo perbene”,
ma il nostro burattino ancora non è pronto e
pur con tutta la buona volontà sarà di nuovo
attratto dal mondo profano e si farà convincere da Lucignolo di seguirlo nel Paese dei
Balocchi. E nel medesimo capitolo la Fata fa
preparare duecento tazze di caffè e di latte e quattrocento panini imburrati di sotto
e di sopra.
La tradizione vuole che nella storia di Hiram,
leggendario architetto incaricato della costruzione del Tempio di Re Salomone, siano presenti due file di duecento melagrane attorno
a ciascun capitello delle due colonne del tempio, in tutto quattrocento, così come le duecento tazzine del racconto che oltre alla coincidenza numerica rappresentano anche il bianco (il latte) e il nero (il caffè) simboli dell’eterna contrapposizione tra il bene e il male, la
luce e le tenebre.
La Fata dai Capelli Turchini, che assiste
Pinocchio e lo soccorre in più momenti rappresenta la massima espressione del
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razionalismo, il vero, il bene, l’intuizione, l’armonia ... impersonifica massonicamente la ragione nella sua espressione più pura. Al contrario della fata Lucignolo raffigura il vizio,
che lo distoglie dal Dovere.
Il vizio, inteso come pericolo contro il quale
bisogna armarsi con tutte le forze della Ragione e con tutta l’energia come suggerisce
al nostro personaggio il Grillo Parlante,
dispensatore di insegnamenti e, pertanto, figura assimilabile all’interno del Tempio
Massonico alla funzione dell’Oratore, colui
che è custode della Legge Massonica, perfetto conoscitore delle costituzioni e dei regolamenti e preposto all’istruzione dei Fratelli.
Ometto di trattare dei soggetti più o meno secondari come il serpente, la colomba, la lumaca, la civetta e, infine, le api in quanto ognuno di essi è presente nelle più svariate realtà
iniziatiche per il loro forte e variegato significato simbolico, evocativo ed esoterico.
Vicini ormai alla conclusione del nostro cammino di esegesi massonica all’interno delle avventure di Pinocchio, ci troviamo nella bocca
del pescecane dove il maestro Geppetto e il
protagonista della sua opera, si ritroveranno
di nuovo insieme pronti ad affrontare l’ultimo
viaggio che porterà il neofita, una volta usciti
dalla bocca dell’enorme pesce, a vedere un
bel cielo stellato e un bellissimo lume di
luna.
Compiuto il suo ultimo viaggio il nostro burattino inizierà una nuova vita fatta di studio, lavoro a sostegno del suo povero babbo.
E un bel mattino Pinocchio aprirà gli occhi e
si accorgerà di essere un bambino ed ecco
che con il risveglio a nuova vita, possiamo affermare che il viaggio iniziatico si è finalmente completato. Com’ero buffo, quand’ero un
burattino! E come ora sono contento di
essere diventato un ragazzino perbene!
L’unicità di questo capolavoro alla luce del
presente lavoro è costituita dalla capacità del
Lorenzini di diffondere una verità esoterica
universale, quella del miracolo della
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trasmutazione a nuova vita del suo personaggio, attraverso la semplicità del linguaggio con
cui ci si rivolge a un bambino.
La nostra favola è l’esempio più rappresentativo di quella letteratura laica, educativa,
sotterranea e a tratti segreta, che ha dovuto
sottrarsi alla censura di quell’ala meno illuminata ed elitaria della cultura cattolica del
tempo.
Nella lettura di queste pagine abbiamo trovato significati che ci hanno portato a quelle virtù
purtroppo sempre più dimenticate quali l’umiltà, la compassione, la temperanza, la carità,
la libertà, l’uguaglianza, la fratellanza che noi
massoni nei nostri templi perseguiamo nel tentativo di creare uomini autentici, giusti, uomini che tendono ad una vita in cui il bene, l’amore e la giustizia possano trovare una casa comune e affermarsi, all’esterno, nella società.
Concludo ricordando che in Piazzale Doteo a
Milano, nel 1955 venne realizzata una fontana dedicata a Pinocchio in cui è rappresentato il burattino inanimato e il bambino da lui
generato che lo fissa. Ai lati del basamento ci
sono o meglio, a causa dell’incuria o ancora
peggio di qualche vandalo, c’erano il Gatto e
la Volpe.
Sul pilastro centrale è incisa una frase del
poeta Nino Negri che recita: “Com’ero buffo
quand’ero un burattino! E tu che mi guardi, sei ben sicuro di aver domato il burattino che vive in te?”.
Conversazione su Dante
Stefania Pavan
Siamo nel 1933, nella Russia sovietica, in uno
dei periodi più bui della storia del paese, un poeta scrive il saggio Razgovor o Dante (Conversazione su Dante), che è forse uno dei più illuminanti e stupefacenti mai apparsi.1 Dante diviene una cifra identitaria e disvelatrice della
personalità umana, artistica e storica dell’umanità nel suo complesso.
È un genere critico che non rientra in canoni
codificati, che spiazza il lettore, che lo obbliga
ad abbandonare il rassicurante codice interpretativo consegnatogli dalla tradizione esegetica
dantesca: Mandel’štam è la guida che prende
per mano e conduce il lettore a viaggiare all’interno del viaggio più famoso e imperscrutabile
della letteratura; anche il viaggio della Conversazione è «non meno ricco di avventure e suggestioni, dentro la Commedia dantesca».
Mandel’štam scrive il Razgovor tra la primavera e l’estate del 1933, quando si trova in Crimea,
una delle tappe di un pellegrinaggio coatto al quale
lui, poeta in un periodo di totale assenza di libertà artistica nella Russia sovietica, è costretto già
da circa dieci anni; la sua è un’esistenza raminga,
è un viandante un pellegrino un vagabondo per
cause politiche, amplificate dal suo essere un
poeta. Una evidente somiglianza, una contiguità
con Dante, che in parte spiega e giustifica la
consonanza della migliore parte della letteratura
russa con la figura umana e l’espressione artistica di Dante. Solo nel 1967 la Conversazione
viene pubblicata in Russia.
Nel 1933, quando scrive la Conversazione,
Mandel’štam con la moglie Nade da si trova sulla costa orientale della Crimea: prima a Staryj
Krym e poi a Koktebel’; legge, oltre a Dante,
Petrarca, Ariosto e Tasso.
Mandel’štam legge Dante in italiano, utilizzando
l’edizione oxoniense; Anna Achmatova ricorda
la passione di entrambi per Dante, il loro recitare assieme i versi del poeta italiano. Ma la sua
conoscenza del poema risale ad alcuni anni prima, quando essa è basata sulla traduzione ottocentesca in tedesco di Streckfuss. Mandel’štam
inizia con riflessioni stupefacenti, nulla di simile
era ed è stato detto:
“Il discorso poetico è un processo incrociato, e
si compone di due specie di suono: la prima di
esse è il cambiamento – che noi possiamo udire e percepire – degli strumenti stessi del discorso poetico, emersi strada facendo nello
slancio del discorso; la seconda è il discorso
vero e proprio, ossia l’attività che, sul piano dell’intonazione e della fonetica, viene svolta da
tali strumenti”.
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Concepita in questi termini, la poesia non è una
parte della natura – si trattasse anche della sua
parte migliore, più eletta – e, ancor meno, è un
suo rispecchiamento, ciò che si tradurrebbe in
un dileggio del principio di identità; ma con strabiliante indipendenza essa si installa in un campo d’azione nuovo, extraspaziale impegnandosi
non tanto a raccontare, quanto piuttosto a recitare la natura, attraverso i mezzi strumentari
denominati volgarmente immagini.
Il discorso, o il pensiero, poetico soltanto in
modo estremamente convenzionale può essere definito sonoro, poiché in esso noi udiamo
soltanto l’incrociarsi di due linee, una delle
quali, se presa a sé, è affatto muta, mentre
l’altra, se presa al di fuori della sua metamorfosi strumentaria, è priva di qualsiasi valore e
di qualsiasi interesse, e si presta a venir parafrasata, il che, a mio parere, è un indizio sicurissimo dell’assenza di poesia: giacché, dove
un’opera si rivela commisurabile alla sua parafrasi, là non ci sono lenzuola gualcite, la
poesia, per così dire, là non ha pernottato.
Dante è un provetto forgiatore di strumenti
poetici, e non un confezionatore di immagini.
È uno stratega delle trasformazioni e degli
incroci, ed è meno che mai un poeta nell’accezione “paneuropea” ed esteriormente culturale del termine2.
cattedrale gotica esiste solo nello slancio dell’esecuzione. Pensiamoci: queste parole di
Mandel’štam potrebbero definire in modo perfetto la Sagrada Familia di Gaudi. Sono due
esempi di mimesis artistica del pensiero, dove si
coniugano invenzione e realtà, mito e fede, storia e leggenda, in uno slancio interpretativo-esecutivo che ha pochissimi paragoni.
Angelo Maria Ripellino nella sua Nota sulla
prosa di Mandel’stam, scrive:
“Il sogno di Mandel’stam è di costruire una prosa-Ermitage, o meglio (con locuzione a lui cara)
cattedrali verbali, che siano luogo di convergenza e compendio di varie arti e branche dello
scibile. E perciò comprime insieme ed incastra
eterogenei strati culturali, trasponendo ora la
musica in ottica, ora in botanica la pittura, con
un’attenzione spasmodica al particolare, ai piccoli nulla. […] una pingue calligrafia a forti inchiostri, in cui le cose acquistano coscienza dei
propri contorni e sentore di imprevedibili
contiguità”4.
Queste parole riecheggiano l’idea, fondamentale nella poetica mandel’štamiana della poesia
come costruzione e, ancora più chiaramente, della
costruzione della poesia assimilabile alla costruzione della cattedrale gotica:
“Tutti i casi nominativi vanno sostituiti con dei
casi dativi che indichino una direzione. Questa è
la legge della materia poetica, materia che è
convertibile e sempre in via di convertirsi, che
esiste solo nello slancio dell’esecuzione”3.
La materia poetica «esiste solo nello slancio dell’esecuzione»; il lavoro dell’Iniziato e dell’Iniziata esiste solo nello slancio dell’esecuzione; la
34
La poesia, cattedrale gotica, non è parte né
rispecchia la Natura, perché la Natura va recitata, con i mezzi della «metamorfosi
strumentaria»; perché questo è la cattedrale
gotica, questo è la poesia, la «metamorfosi
strumentaria» mediante «trasformazioni e incroci» della Grande Opera, che non accetta parafrasi, che non è commisurabile, dove «le cose
acquistano coscienza dei propri contorni e sentore di imprevedibili contiguità».
Nella prosa del 1933 Viaggio in Armenia
Mandel’štam scrive:
“Quando ero bambino una sorta di stupida suscettibilità, un falso orgoglio, mi tratteneva sempre dall’andare a cercare frutti di bosco o dal
chinarmi a raccogliere funghi. Le gotiche pigne
e le ghiande ipocrite nei loro cappucci monastici
mi piacevano più dei funghi. Passavo la mano
sulle pigne. Si rizzavano, cercavano di convincermi di qualcosa. Nella loro tenerezza nascosta, nel loro aprirsi geometrico intuivo i rudimenti dell’architettura, il cui demone mi ha accompagnato per tutta la vita”.
Un altro poeta, il premio Nobel Seamus Heaney,
nota che già nel 1923, nel saggio L’Umanesimo
e il presente, Mandel’štam pone in evidenza la
propria concezione della società ideale, che ri-
sulta avere la stessa struttura dell’edificio o della poesia ideali. La pietra, la parola, l’individuo
devono mantenere e realizzare pienamente il sé
creativo, ma devono anche essere parte di un
«noi», una «architettura sociale», allo scopo di
portare allo sviluppo più fecondo il loro potenziale. Dove il nuovo «gotico sociale è il libero
gioco di pesi e forze, una società umana concepita come una complessa e densa foresta
architettonica in cui tutto è efficiente e individuale, e in cui ogni particolare risponde alla concezione dell’insieme». È un’esaltante visione di
armonia.
“Il fatto che i valori dell’umanesimo siano diventati ormai rari, quasi tolti dalla circolazione e
nascosti sottoterra, non è in sé un cattivo segno.
I valori umanistici si sono semplicemente ritirati.
Si sono nascosti come la valuta aurea (…). Il
cambio di valuta aurea è l’affare del futuro, e
nell’ambito della cultura ciò che ci si pone
dinnanzi è la sostituzione di idee provvisorie – di
banconote cartacee – con l’oro coniato dalla tradizione umanistica europea; i magnifici fiorini
dell’umanesimo suoneranno di nuovo, non contro
la picca dell’archeologo, ma (…) come le monete
sonanti che circolano passando di mano in mano”5.
Circa venti anni prima della Conversazione, nel
1912 Mandel’štam ha scritto Utro akmeizma
(Il mattino dell’acmeismo), manifesto del movimento acmeista, pubblicato solo nel 1919. Il
manifesto è incentrato sulla parola poetica, così
come essa funziona ed entra in relazione col
mondo; essa è l’unione di molti elementi e il significato cosciente Logos; che non ha «valore
in sé», ma permette di accedere ad una «gioiosa
interazione con i proprî simili, come le singole
pietre in una cattedrale gotica», da cui discende
anche l’importanza fondamentale del rapporto
tra poesia e mondo reale; il quale, a sua volta, è
composto di fenomeni tutti egualmente importanti perché, per il fatto stesso di esistere, si oppongono al non essere, al vuoto: «Amate l’esistenza della cosa più della cosa stessa e il vostro
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essere più di voi stessi: ecco il più grande precetto dell’acmeismo».
Anche Borges nota l’importanza della “cosa”
nella Divina Commedia quando, a proposito
dell’incipit del III canto dell’Inferno, sottolinea
che quelle terzine, incise sull’architrave della
porta a lettere di fuoco, dal significato così oscuro, non fungono da semplici epigrafe; perché:
«Dante poteva dirlo in terza persona, ma ha qui
un’intuizione straordinaria: la porta che parla in
prima persona».
Il fenomeno sensibile è la materia della poesia,
materia che si fa esperienza grazie alla sacralità
insita nella cosa. Ma la parola poetica non è riproduzione dell’oggetto-fenomeno, è creazione
di immagini-simboli che, per essere compresi,
vanno decodificati. Il poeta, e il/la Libero/a Muratore/trice rielaborano e decodificano il simbolo, per quindi ricrearlo in modo incessante, mediante i sensi – la logica – l’intuizione – l’inconscio singolo e collettivo. Un esempio su tutti, non
è un caso che le terzine conclusive delle tre
Cantiche sottolineino la riacquisizione del senso
della vista, associata alle “stelle”.
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinnovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire alle stelle.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
Lo stretto rapporto tra la luce e la fisiologia dell’occhio è da Dante chiaramente espresso nel
canto XXVI del Paradiso:
E come a lume acuto si disonna
per lo spirto visivo che ricorre
a lo splendor che va di gonna in gonna,
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e lo svegliato ciò che vede aborre,
sì nescia è la sùbita vigilia
fin che la stimativa non soccorre;
così de li occhi miei ogni quisquilia
fugò Beatrice col raggio d’i suoi,
che rifulgea da più di mille milia:
onde mei che dinanzi vidi poi;
e quasi stupefatto domandai
d’un quarto lume ch’io vidi tra noi.
E la mia donna: «Dentro da quei rai
vagheggia il suo fattor l’anima prima
che la prima virtù creasse mai».
Tutto questo porta all’idea che lo spazio predomini sul tempo; porta all’idea che la metafora
del viaggio predomini su ogni altro campo
semantico-metaforico; tanto più ciò è percepibile,
se riferito ad un viaggio che si snoda nel cosiddetto aldilà; forse, sarebbe preferibile utilizzare la
definizione “realtà laterale”: ciò che esiste ma che
l’uomo deve imparare a “vedere” con un diverso,
più complesso, interiore senso della vista.
Spesso la critica e la filologia dantesche hanno
rilevato che nella prima e nella terza Cantica
della Divina Commedia non esiste l’umana categoria del tempo, e che questo si riflette nella
scelta dei tempi verbali. E come mai potrebbe
esistere il tempo che scorre là dove è l’eternità?
Solo il Purgatorio, supporto all’umana paura
dell’ignoto: “non ti preoccupare, resta un po’ lì e
poi potrai anche tu salire più in alto”, deve fare i
conti con il conteggio temporale, perché al delitto deve corrispondere una pena adeguata. Ma
la prima e la terza Cantica, forti e assertive, si
basano su di una sostanziale acronia, o forse è
meglio dire pancronia, compensata da un’enorme componente topica.
“È impensabile leggere i canti di Dante senza
rivolgerli al presente. È per questo che essi sono
stati creati. Sono armati per percepire il futuro.
Ed esigono un commento in Futurum.
Per Dante il tempo è il contenuto della storia,
concepita come un unico atto sincrono, e viceversa: contenuto è il tenere insieme il tempo da
parte di un gruppo di compagni che, uniti, lo cercano e lo scoprono.
Dante è antimodernista. La sua contemporaneità
è inesauribile, incalcolabile e inestinguibile”6.
Urania prevale su Clio; e gli antichi lo sapevano,
perché Urania è la prima delle Muse.
Lo spazio contiene il caos primigenio, dal quale
ha origine il cosmos, la costruzione del Grande
Architetto dell’Universo: la cattedrale gotica e il
poema dantesco quali due umane realizzazioni
del cosmos.
Che il cronotopo della Divina Commedia sia il
viaggio non è dubbio. Ma quale viaggio? Siamo
di fronte ad un viaggio che infrange i canoni,
che non ha precedenti né seguaci degni di questo nome. Apparentarlo ipso facto alla tradizione del viaggio nell’oltretomba è quanto meno
riduttivo. Dante non si limita ad incontrare gli
spiriti dei defunti, colmo del terrore di un possibile non ritorno; Dante compie un vero e proprio
viaggio esistenziale: tutte le vite e la storia
pregresse sono riportate al presente ma proiettate nel futuro. Dante scende e percorre l’In-
ferno sino al centro della Terra, nella geenna, si
confronta con l’orrore e il peccato per liberarsene distruggendoli, dopo averli conosciuti. Risale, faticosamente, sulla montagna del Purgatorio, dove conosce i peccati più lievi, per distruggerli dopo averli conosciuti. Infine, ormai
purificato, si eleva verso l’alto, verso il cielo, da
dove il suo sguardo potrà spaziare in una prospettiva universale. Ci dicono che Virgilio non
accompagna Dante nel Paradiso perché non è
cristiano, non è stato battezzato. Non è che il
Maestro abbandona Dante, perché costui è a
sua volta diventato Maestro e può avventurarsi
in quello spazio di esperienza conoscitiva, a lui in
precedenza preclusa? Dante non è più semplice
uomo, è qualcosa di più e di meno al contempo.
Mandel’štam non scrive questo, ma ci mette sulla
buona strada:
“Sono proprie della poesia di Dante tutte le forme di energia note alla scienza moderna. L’unità di luce, suono e materia costituisce la sua natura intrinseca. Leggere Dante è prima di tutto
un lavoro interminabile, che a misura dei nostri
successi ci allontana dalla meta. […] L’Inferno, e ancor di più il Purgatorio, celebrano la
camminata umana, la misura e il ritmo dei passi,
il piede e la sua forma. Del passo, congiunto alla
respirazione e saturo di pensiero, Dante fa un
criterio prosodico. Egli designa l’andare e venire ricorrendo a un gran numero di espressioni
multiformi e affascinanti.
In Dante, filosofia e poesia sono sempre in cammino, sempre in piedi. Anche la sosta è una varietà di movimento accumulato: la piattaforma
per una conversazione viene creata a prezzo di
sforzi da alpinista. Il piede metrico è inspirazione,
ed espirazione è il passo. Un passo che deduce,
vigila, sillogizza”7.
Mandel’štam sottolinea che il Dante che compie nell’Inferno e nel Purgatorio il viaggio in
discesa e quindi in salita (visivamente è la lettera “v”) è un uomo comune; non è affabile; spesso non sa come comportarsi; è spiritualmente
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inquieto, goffo e smarrito; non ha fiducia in se
stesso; è un uomo tormentato e ramingo che non
sa mettere in pratica la propria esperienza interiore. Questo drammatico imprimatur psicologico lo rende vicino e comprensibile a tutti; ma
altro è il Dante che inizia un viaggio del tutto
diverso: verso l’alto dei cieli. Nell’Inferno e in
parte anche nel Purgatorio domina il ritmo, l’udito, Dante è presentato intento a percepire i suoni, una intuizione perfetta: nel buio dell’oltretomba il vivente può essere guidato solo dal suono.
Nel Purgatorio c’è il primo spiraglio, la vista
comincia a divenire importante nel canto VIII,
proprio quando Dante definisce lo specifico viaggio dell’esule, del «pellegrino d’amore».
Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;
quand’io incominciai a render vano
l’udire e a mirare una de l’alme
surta, che l’ascoltar chiedea con mano
Il fulcro del pellegrino, dell’esule è l’Ulisse
dantesco, che si discosta dall’Odisseo omerico,
e che è stato in seguito il riferimento di poeti
quali Kavafis, Seferis, Saba, Brodskij e Walcott.
Perché l’Ulisse di Dante prende le mosse dal
XIV libro delle Metamorfosi di Ovidio, e ne scrive il seguito.
“Qui il genio di Dante, proseguendo la narrazione dal punto in cui Ovidio l’aveva interrotta, opera la trasformazione: il suo Ulisse non si diparte
da Circe per tornare, ma per andare oltre, al di
là delle colonne che segnano il confine del mare
nostrum, di ciò che è conoscibile, afferrabile dall’umana ragione, verso quell’ignoto oceano del
significato totale per cui il suo animo arde di un
«ardore» che nulla può frenare: «Ma misi me
per l’alto mare aperto / sol con un legno e
con quella compagna / picciola da la qual non
38
fui diserto».
Nella coscienza di Dante coesistono senza
escludersi il riconoscimento dei limiti posti alla
ragione dell’uomo e l’affermazione della strutturale e irriducibile aspirazione a una conoscenza del mistero.
Accettare il confine: tale è il distillato della saggezza pagana o mondana. Dante sottrae il suo
Ulisse a questa misura e ne fa perciò il simbolo
dell’umana grandezza. Folle non è l’uomo che
decide di onorare la sua vocazione a comprendere il senso del mondo: che Ulisse intraprenda
il viaggio è folle di una follia più sana d’ogni sanità, è l’umano intero che sfida la saggezza, la
misura. Ma vi è anche un’altra – fatale – follia:
riguarda il come del viaggio, i mezzi con cui Ulisse
presume di raggiunger l’infinito fine. È qui che
cade nella tentazione, nella pretesa. La barca
della ragione, con i suoi argomenti, è troppo piccola. Le sue forze non possono reggere una simile traversata. La follia non riguarda l’aver intrapreso il viaggio, ma l’aver preteso di “misurare” l’infinito con gli stessi mezzi con cui si
perimetra il finito.
Per Dante quel desiderio non si oppone a Dio,
ma è la strada maestra verso Dio. Anzi, Dio si
“dimostra” già nella profondità originale – infinita – di quel desiderio. L’«ardore» che muove
Ulisse è ciò che decide della statura dell’uomo,
è il suo impulso più vero. Ed è la stessa sete di
conoscere tutto, perfino il divino, che anima il
viaggio di Dante e che gli permette di concepire
la Commedia. Dante è il vero Ulisse: avverte in
sé quell’ardore che sospinge al rischio il suo eroe,
ma il suo «volo» non è più folle, non si avvale di
«remi», bensì di «ali», cioè del sostegno della
presenza stessa del divino incarnato”8.
Il peregrinare della conoscenza è del folle, che
comprende come l’infinito si misuri con un metro diverso da quello del finito, che va oltre la
ragione, che scende solo per risalire e raggiungere la visione dall’alto, che sa come questo significhi riconoscere la presenza del divino nel mondo.
Ed ecco che nella Divina Commedia, come
nella cattedrale gotica, il tempo viene recuperato
tramite la musica e il timbro, espressione di armonia9. La musica fornisce la corretta misura
del tempo, Euterpe e Urania uniscono i loro sforzi; il timbro si fa principio strutturale; piede metrico è inspirazione, espirazione è passo; questa è
l’armonia del viaggio dantesco, la “musica del
mondo”.
“Quando si legge Dante di slancio e con piena
convinzione, quando ci si trasferisce interamente nel campo attivo della materia poetica; quando si accompagnano e si misurano le proprie intonazioni con i richiami dei gruppi orchestrali e
tematici che nascono ad ogni istante sulla superficie scavata e agitata dei significati; quando
si cominciano a cogliere, attraverso l’opaco materiale cristallino del suono-forma, le screziature
insite in esso, cioè le connotazioni sonore e
semantiche attribuite ad esso da un’intelligenza
ormai non più poetica, ma geologica – allora il
lavoro puramente vocale, intuitivo e ritmico lascia il posto a una più potente attività coordinatrice di direzione, e sullo spazio che guida il suono prende il sopravvento, lacerandolo, l’egemonia della bacchetta del direttore d’orchestra, che
ha la meglio sulla voce, come una concezione
matematica più complessa supera la
tridimensionalità”10.
Dante si fa direttore d’orchestra, perché la musica del mondo fornisce da sempre tutti gli strumenti necessari, ma è necessario il direttore per
armonizzarli o, per meglio dire, per portare all’udito dell’uomo quell’armonia che esiste in
Natura. La poesia di Dante non è né descrittiva
né esplicativa, essa è musica in perenne trasformazione, dalla quale emergono oggetti e persone grazie allo slancio differenziatore che la pervade, mai neppure per un attimo identici a ciò
che erano. Da ciò emerge la sostanziale
immanenza di un tempo che è, e che solo l’umana sete di parametri scandisce in passato – presente – futuro; l’essere umano ha il terrore della
fine, non è paura bensì terrore, quello che l’uomo prova di fronte all’ignoto; al contempo, l’essere umano ha bisogno di farsi convinto che un
limite esiste. L’Iniziata, l’Iniziato nel loro cammino sono diretti anche verso la sconfitta di questo bisogno di certezze; verso la consapevolezza che il tempo è in quanto tale, che l’immagine
della freccia scagliata da un punto e diretta verso un punto non raffigura il tempo; verso l’accettazione che non esistono un al di qua e un al
di là, bensì l’armonico Tutto.
“La Divina Commedia non tanto sottrae tempo
al lettore, quanto piuttosto gliene fa dono, al pari
di una composizione musicale mentre viene eseguita.
Nel suo allungarsi, il poema si va allontanando
dalla propria fine, e la sua stessa fine sopraggiunge inaspettata, e suona come un inizio”11.
L’uomo è nella perfezione del moto circolare
divino; e non si dice niente di nuovo, sottolineando per l’ennesima volta che il lemma “stelle”
chiude tutte e tre le Cantiche.
Chi altri ha colto il distendersi del poema sulle
note di una composizione musicale, per la quale
le categorie di “inizio” e “fine” sono mera convenzione?
La forma della Divina Commedia è il risultato
della percezione della musica del mondo, dalla
quale Dante estrae l’essenza, alla quale erige
un monumento generato dall’interno del monumento, ad ogni parola della quale non collega un
rassicurante significato bell’e pronto, ad ogni
39
parola della quale «chiede di mutarsi in concordanza», la cui lingua gli serve a «tracciare la
circonferenza del tempo».
“Ogni parola è un fascio di significati, e un significato affiora da esso per irradiarsi in varie direzioni,
senza mai convergere in un solo punto ufficiale”12.
secondo i metodi dell’indagine sperimentale, non
come ad una narrazione sacra, dogmaticamente
inoppugnabile. In questo è gran parte non tanto
della sua modernità, un termine forse fuorviante
o limitativo per Dante, quanto la sua perenne
capacità di attualizzarsi.
Basta questa considerazione per indicare la via
della conoscenza massonica: un cammino perenne di ricerca, consapevoli che “il significato”
non esiste. La Divina Commedia è «un grandioso esperimento di Foucault», attuato con un
gran numero di pendoli, che si scavalcano e intersecano l’un l’altro, che creano uno spazio che
esiste solo per contenere le oscillazioni di questi
innumerevoli pendoli. Mandel’štam ammette che
solo “il” poeta, Dante, è riuscito in questo:
“Noi [gli altri poeti] descriviamo appunto ciò che
non si può descrivere, ossia il testo della natura
sospeso nell’immobilità, e abbiamo disimparato
a descrivere l’unica cosa che per la sua struttura si lasci rappresentare in termini poetici, ossia
gli slanci, le intenzioni e il moto oscillatorio che
tocca le sue massime ampiezze.
Tolomeo è rientrato dalla porta di servizio! ... Inutilmente fu messo al rogo Giordano Bruno! ...
Le nostre creazioni sono note a chiunque mentre ancora si trovano allo stato germinale; invece le similitudini dantesche, a molti membri, cariche di vele e arroventate di cinetica, serbano
tuttora l’incanto di ciò che non è mai stato detto
a nessuno”13. “Dante e i suoi contemporanei non
conoscevano il tempo geologico. Erano loro sconosciute le ore paleontologiche, le ore granulari,
granulose, stratificate. Essi giravano in tondo nel
calendario, dividevano le ventiquattr’ore in quadranti. Tuttavia il Medioevo non era collocato all’interno del sistema tolemaico, bensì ne era coperto”14.
Dante si avvicina, e avvicina ancora noi, alla
«cosmogonia biblica con le sue appendici cristiane» come a una tradizione da valorizzare
40
Note
Le traduzioni italiane riportano anche la variante
Discorso su Dante che, però, infrange e tradisce una
componente fondamentale dello scritto.
2
Osip Mandel’štam, Conversazione su Dante, Il
melangolo, Genova 1994, pp. 41-43.
3
Ivi, p. 152.
4
A. M. Ripellino, Note sulla prosa di Mandel’štam,
in O. E. Mandel’štam, La quarta prosa, Editori Riuniti, Roma 1982.
5
Cfr. Seamus Heaney, Su Osip e N. Mandel’štam,
“Almanacco dello Specchio”, n. 14 / 1993.
6
Osip Mandel’štam, Conversazione su Dante, cit.,
pp. 96-97.
7
Osip Mandel’štam, Conversazione su Dante, cit.,
pp. 50-51.
8
Carmine De Martino, Quell’ardore per l’infinito,
“Tracce”, n. 6 / 2010.
9
Dante esprime chiaramente la presenza della musica
nella poesia nel De vulgari eloquentia.
10
Osip Mandel’štam, Conversazione su Dante, cit.,
p. 109.
11
Osip Mandel’štam, Conversazione su Dante, cit., p. 65.
12
Ivi, p. 66.
13
Ivi, p. 131.
1
14
Ivi, p. 101.
Armonia e Bellezza
La musica come esperienza del sacro
Andrea Severi
L’ascolto di un brano musicale può suggerire,
anche in chi è solamente un fruitore di musica e
non un tecnico, un’idea di armonia e di bellezza.
Nel suo rapporto con l’essere umano, la musica
costituisce un’esperienza globale, totalizzante, in
quanto attiva su diversi livelli dell’essere.
La musica è capace, infatti, di suscitare in chi la
ascolta delle emozioni, dei sentimenti: parla quindi
alla nostra parte sensibile. Essa ha infatti il merito di riuscire a sorpassare i meccanismi della
logica ordinaria e di parlare ad una parte di noi
che nulla ha a che fare con il raziocinio, che è
perciò irrazionale e non lineare: una parte di noi
che, proprio per questo, ha tratti assai simili a
quelli dei meccanismi intuitivi.
Pur avendo poco in comune con la logica ordinaria, essa crea una logica organizzazione di suoni:
così facendo, entra inoltre “in risonanza” (quindi
comunica) con la struttura razionale umana.
Ma la musica ha anche una profonda natura simbolica. L’antropologo Alan P. Merriam ha
evidenziato che il simbolismo in musica opera su
quattro piani differenti:
- il piano costituito da segni e simboli nei testi
dei canti;
- quello del riflesso simbolico dei significati affettivi o culturali;
- quello del riflesso di altri comportamenti e valori culturali;
- quello del simbolismo profondo e universale.
Il primo piano è quello costituito dai “segni” presenti in un testo verbale di una musica cantata:
un testo può contenere infatti un messaggio specifico, come la frase “bussano alla porta” o “risplende la luce”. Il linguaggio è esso stesso un
meccanismo simbolico.
Il secondo piano è quello del valore affettivo o
culturale di una musica (ad esempio, il diverso
valore che un brano come “Finlandia” di Sibelius
assume per un finlandese piuttosto che per un
ascoltatore di diversa origine).
La musica può riflettere, in terzo luogo, dei comportamenti sociali o delle strutture culturali: questo è evidente nelle distinzioni, proprie di alcune
tradizioni, tra musiche per la danza e quelle per
la meditazione; vi possono essere musiche distintive di un clan o di una comunità religiosa.
Infine, l’arte dei suoni può esercitare una funzione simbolica profonda in quanto riflette aspetti
universali e fondamentali dell’essere umano.
Merriam ipotizza che attraverso lo studio della
musica come comportamento simbolico si possa approfondire una conoscenza dell’uomo e del
suo comportamento, in particolare dal punto di
vista psico-fisiologico.
La capacità simbolica della musica è ben sintetizzata da una celebre affermazione di Alessandro Manzoni secondo cui la musica “non esprime alcuna idea, e ne fa nascere a migliaja”.
41
Proprio l’impossibilità di rappresentare un’idea
o un oggetto (come avviene per la pittura o la
scultura) fa sì che nell’ambito musicale non sia
possibile istituire una corrispondenza immediata
(o almeno univoca) tra un suono significante e
una realtà significata. La musica, in altre parole,
poiché non può raffigurare degli specifici oggetti reali, rimanda a significati forzatamente “altri”: qualità, quest’ultima, che è la caratteristica
propria del simbolo. La musica, per così dire,
non può far a meno, per sua stessa natura, di
essere un simbolo.
Eppure, quando usiamo comunemente i termini
di bellezza e di armonia, in associazione ad un
fenomeno musicale, noi ci limitiamo per lo più
ad intenderli comedelle categorie vagamente
estetiche.
Proprio la complessità del fenomeno musicale
dovrebbe spingerci a considerare questi due termini nel loro valore originario, che aveva a che
fare, nelle concezioni antiche e tradizionali con
un ambito ontologico nel quale la musica era una
vera e propria esperienza del sacro.
Sappiamo che Armonia è termine prettamente
greco: presso i Greci, il suono, inteso come vibrazione primordiale, è la forza creatrice, l’energia che dà forma e vita alla materia. Essa costruisce nuovi mondi laddove prima c’era solo
tenebra e silenzio.
Questa forza creatrice attribuita al suono primordiale è comune a molti miti di creazione antichi; nel Rig-Veda, si afferma che gli dei crearono la luce e il mondo con i loro canti. Nella
Chandogya Upanishad il suono stesso genera
la manifestazione di dio.
42
Analogamente, nella cosmologia giavanese, il
creatore viene generato da un essere superiore
invisibile, che si manifesta solo attraverso il suono delle campane”.
Nei miti di creazione del Popol Vuh maya, gli
dèi crearono e distrussero esseri sempre differenti finché non diedero vita all’uomo, unica creatura ad avere il merito di riuscire a ricambiarli
con i propri canti di lode.
Gli esempi sono innumerevoli, provenienti da
culture e latitudini diverse: essi testimoniano
un’idea di vibrazione creatrice che oggi sembra
perfino confortata da alcune singolari ipotesi e
scoperte della scienza moderna, come la teoria
del Big Bang o la scoperta della radiazione
cosmica di fondo.
Il legame musicale tra uomini e divinità è evidente anche nell’invenzione della musica e degli
strumenti musicali miticamente attribuite agli dèi.
Fu infatti il dio egizio Thot, secondo Diodoro
Siculo, ad inventare
quell’arte sacra; e
fu Osiride a sfruttarla come strumento di civilizzazione del proprio
popolo.
Strumento inventato dalla dea Iside e
a lei sacro era il sistro. Questo era
uno strumento in legno o metallo il cui
suono era prodotto
dallo scuotimento di lamelle flottanti: nei riti isiaci veniva suonato con un ritmo di tre scosse con-
secutive ed accompagnava le processioni rituali, come quella descritta nell’ “Asino d’oro” di
Apuleio.
È importante sottolineare come questi strumenti
venissero realizzati dall’uomo ad imitazione di
quelli costruiti dagli dèi: in questa ottica, decade
la vecchia idea secondo la quale gli strumenti
nacquero ad imitazione della voce umana; essi
erano, semmai, elementi ulteriori di connessione
dell’uomo con Dio, al pari dell’arte musicale alla
quale contribuivano col loro suono.
A quanto si narra, proprio dalla sapienza egizia
Pitagora trasse gli insegnamenti che resero grande la propria scuola iniziatica: centrale, in essa,
è proprio la concezione di Armonia. Presso i
Pitagorici, infatti, il moto stesso dei pianeti creava delle melodie che s’intersecavano in una mirabile polifonia che, accordandosi al suono primigenio, costituivano l’Armonia universale.
Di questo concetto (che, detto per inciso, resterà vivo a lungo in tutto l’Occidente e che sarà
ripreso anche da Copernico) i Pitagorici sono
stati i primi a dettare leggi e relazioni.
Secondo la tradizione, Pitagora, usando il
monocordo, tramite l’osservazione sperimentale, aveva scoperto che i rapporti tra la lunghezza della corda vibrante di quello strumento
e delle sue frazioni erano esprimibili da rapporti numerici”.
Dato un suono fondamentale, dividendo la corda in due e facendone vibrare solo una metà (1/
2), si aveva un suono all’ottava superiore; facendone vibrare i 2/3 si aveva un suono alla quinta; mettendone in vibrazione i 3/4 si otteneva un
suono alla quarta.
Questi rapporti sono non soltanto dei rapporti
semplici ma anche i più semplici rapporti possibili: tali rapporti sono gli stessi che intercorrono
tra i numeri della Tetraktis, simbolo sacro per i
Pitagorici.
Dividendo la corda in base a numeri intericonsecutivi si ottenevano delle armoniose consonan-
ze: al contrario, due note scelte a caso, prodotte
contemporaneamente, davano per risultato un
suono sgradevole, dissonante.
I pitagorici si domandarono: se l’armonia musicale si poteva esprimere tramite numeri, perché
ciò non sarebbe dovuto accadere per l’universo
intero? Essi conclusero così che tutti gli elementi del cosmo dovevano le loro proprietà alla natura dei numeri.
L’universo, nella concezione pitagorica, appare
così un’entità pulsante, regolata da leggi perfette, in cui tutte le cose si rapportano alle altre in
modo armonico e dove l’Armonia delle Sfere è
l’armonia dell’anima, la sua musica.
Partendo dal numero come archetipo, attraverso lo studio del pentagono e del pentagramma
iscritto all’interno, i pitagorici trovarono la sezione aurea; la divina proporzione che, presente in
natura sarà fonte di ispirazione nell’arte e matrice per l’edificazione delle più importanti costruzioni sacre nel mondo.
Non è certo un caso che il ricorso alla sezione
aurea fosse il sistema segreto utilizzato da
43
Stradivari per disegnare le “F” sul piano armonico dei suoi violini, per ottenere dai propri strumenti l’inconfondibile suono.
Altra mirabile intuizione di Pitagora è l’idea che
l’ottava musicale sia espressione della relazione
esistente tra spirito e sostanza. Infatti per ottenere l’ottava superiore ad un suono originario si
divide una corda in due parti uguali; il suono prodotto, sebbene più acuto, resta allo stesso tempo
in stretta relazione con la nota più grave di partenza: tale fenomeno costituisce il simbolo tangibile della massima ermetica “ciò che è in Alto
è come ciò che è in Basso”.
Oggi se possiamo trovare risibili alcune ipotesi
più stravaganti dei pitagorici dobbiamo riconoscere che l‘impostazione di fondo della loro dottrina non è poi molto lontana da quella espressa
da Einstein con l’affermazione: “la matematica
non è che un mezzo per esprimere le leggi
che governano i fenomeni”.
In fondo, ancora nel 1600 Keplero credeva in
un Dio geometra, architetto supremo ma anche
musico, creatore dell’universo secondo un per44
fetto progetto matematico e precise regole musicali: in tal modo, l’astronomo, matematico e
musicista tedesco non faceva altro che riprendere e sviluppare il concetto pitagorico dell’armonia delle sfere. Nel suo trattato Harmonices
Mundi del 1619, struttura del sistema solare ed
accordi consonanti, così come moto orbitale dei
pianeti e musica erano facce diverse di un tutto
matematicamente ordinato.
Keplero cercò di stabilire specifiche corrispondenze tra leggi che governano il moto dei corpi
celesti e regole dell’armonia classica. Così se
da un lato, in astronomia, si adoperò a far corrispondere il moto e le distanze dei pianeti ai cinque poliedri regolari, dall’altro, in musica, stabilì
un parallelo tra intervalli consonanti e poligoni
regolari iscritti in una circonferenza. Con un approccio così estemporaneo, almeno per l’occhio
moderno, ottenne un grandissimo risultato scientifico, la sua terza legge, che pone in proporzione di sesquialtera (3:2) le potenze degli assi maggiori delle elissi planetarie e dei periodi orbitali.
Questo rapporto è il medesimo che caratterizza
l’intervallo musicale di quinta perfetta ed è quello che regge l’intero sistema musicale pitagorico:
allo stesso t empo, è una delle relazioni di tempo
più antiche ...
E forse non è un caso che proprio l’inserimento
del concetto di tempo nei rapporti tra figure geometriche e intervalli musicali fu l’idea che permise a Keplero di calcolare le distanze dal sole
dei pianeti e i tempi di percorrenza delle orbite.
Come vediamo, l’idea di Armonia diventa, in tali
concezioni, qualcosa di profondamente connesso con la natura delle cose: e la musica è l’arte
sacra che permette di svelare i nodi che legano
insieme l’intero Universo manifestato.
Fin dal mito, in Grecia l’armonia è connessa con
la bellezza: Armònia, figlia di Ares e Afrodite,
riceve come dono di nozze da Efesto una collana capace di dare eterna bellezza a chiunque la
indossi.
L’opera d’arte, in senso tradizionale, è un insieme di elementi che costituiscono la copia e la
riproduzione di un ordine immanente al creato:
l’ordine è l’insieme dei fattori che rende possibile l’esistenza stessa dell’oggetto. Per converso,
la bellezza dell’oggetto testimonia di come l’ordine vi si rifletta con maggiore o minore perfezione. È questa idea che fece esclamare a
Plotino: “Infelice è colui che non consegue il Bello,
il solo Bello. Ciascuno diventi bello e simile a
Dio, se intende contemplare e Dio e il Bello”.
È necessario qui precisare che la bellezza di cui
stiamo parlando niente ha a che fare con la concezione moderna del bello legata all’estetica ed
al gusto, quindi a valori profondamente soggettivi.
Nella filosofia platonica la riflessione sulla bellezza ha un ruolo centrale: la bellezza riposa su
un aspetto strutturale rappresentato dalla forma, che è l’essenza delle cose.
La forma è l’essenza di un oggetto in virtù del
fatto che testimonia la presenza di un’idea nell’oggetto stesso. In quanto tale, la forma istituisce una relazione tra l’oggetto e la sua radice
metafisica.
È degno di nota il fatto che questo tipo di relazioni sia esprimibile attraverso numeri e proporzioni, capaci di configurare una pluralità di enti
geometrici intelligibili, costruiti a partire da regole, “canoni”, il cui rispetto assicura il conseguimento della perfezione, della bellezza ideale.
La bellezza di una cosa esprime quindi la giusta
misura, l’esatta proporzione, la vera corrispondenza tra l’idea, rappresentata dal mondo degli
archetipi, e la sua raffigurazione terrena: e in ciò
risiede la sua virtù, intesa come la intendevano i
greci, ovvero come la perfetta attuazione dell’essenza di ogni cosa.
È solo allora che ogni cosa è propriamente giusta e perfetta. “la musica come componente essenziale della natura delle cose, prima ancora
che come pratica musicale”. Il mondo degli
archetipi trova una sua peculiare possibilità di
manifestazione nella realtà sensibile per il tramite delle forme la cui bellezza, unica tra le forme
intelligibili, è percepita non solo dalla vista fisica,
ma altresì dagli occhi dello spirito.
È grazie a questo tramite che l’intuizione guida
l’uomo dal molteplice verso l’Uno, permettendogli di risalire alla comprensione del Creato.
In questa riflessione filosofica, per Platone la
Bellezza emerge come uno “sfavillìo luminoso”,
come “la capacità che ha il soprasensibile di risplendere nel sensibile” e consente all’uomo di
sperimentare la Verità: “il Bello è lo splendore
del vero”.
Ecco quindi che ricercare la bellezza, cioè l’ordine, l’armonia e la proporzione permette all’uomo di ricongiungersi al principio Divino.
Quella luminosità cui Platone fa riferimento è
l’essenza della bellezza, e la collega al Logos,
alla vibrazione primordiale e quindi al SuonoLuce. In Platone la musica è intesa come un’arte veramente sacra: è fondamentale la sua distinzione tra una musica “reale”, condannata nella
“Repubblica” quando è apportatrice di distrazioni, di piaceri o di dolore, e una musica “ideale”, superiore, divina in quanto specchio dell’Armonia universale.
L’epoca in cui vive Platone è tuttavia un’epoca di trasformazioni
profonde della società
greca cui corrispondono profonde trasformazioni nell’ambito della
musica tradizionale: si
introducevano nuovi sistemi scalari e si andava progressivamente
abbandonando il cosid45
detto sistema dei nomoi.
Nell’accezione più ampia “nomos” significa “legge”, “modello” e in particolare definisce la composizione musicale antica, che è legge universale, perché ripropone il modello immutabile dell’armonia celeste. I nomoi erano un insieme di
leggi, ma anche di formule melodiche, tra le quali
si giocava tutta l’azione compositiva dei musicisti, almeno fino al IV secolo.
All’uso dei nomoi si abbinava poi l’utilizzo di
scale (modi) che, nella trattatistica, sono sempre costituite da 4 suoni disposti in senso discendente (cioè provenienti, simbolicamente, dall’alto, dal Principio), chiamati tetracordi che costituiscono, se accoppiati, scale di 7 o 8 suoni, le
cosiddette armonie.
A partire dal IV secolo, per opera di autori come
Timoteo di Mileto o dello stesso Euripide, si procede verso un abbandono graduale dei nomoi.
Parallelamente, si introducono scale sempre più
complesse, tali da incarnare il portato di passioni e di espressività delle tragedie euripidee,
che certo tradivano la concezione platonica di
musica “ideale”.
A causa della tardiva introduzione nel mondo
greco di sistemi di notazione in un’arte che, come
arte Tradizionale, era naturalmente trasmessa
per via orale, non ci restano oggi che poche testimonianze di tali musiche. Una delle più antiche, di un’epoca comunque posteriore alla rivoluzione del IV secolo, è l’inno al Sole di
Mesomede di Creta, poeta e compositore del I
secolo a.C.
Come si evince dalle concezioni fin qui presentate, in senso tradizionale la musica viene a riguardare aspetti dello Spirito e riferimenti ad una
conoscenza sacra, che la distinguono profondamente dalla musica così come viene comunemente intesa oggi, nei suoi aspetti più tecnici o
storici e nella sua funzione di piacevole
intrattenimento.
L’arte dei suoni, così come era intesa nei tempi
antichi da greci, egizi o cinesi, cioè una musica
“intellettuale” e “celeste”, era a ben vedere il
risultato di princìpii che nulla avevano a che fare
46
con la teoria o la pratica moderne della musica.
La musica era considerata strettamente connessa, come dice Fabre de Olivet, “a quel sublime
versante della scienza avente per oggetto la
contemplazione della natura e la conoscenza delle immutabili leggi dell’universo. Giunta
al più alto grado di perfezione tale scienza
portava una sorta di legame analogico tra il
sensibile e l’intelligibile diventando un mezzo di comunicazione tra i due mondi”. Insomma, l’arte musicale era essenzialmente speculativa e capace di ispirare agli uomini l’amore per
le virtù e spingerli alla pratica dei loro doveri.
Pensiamo agli insegnamenti di Confucio, il quale
considerava la musica come il sistema più sicuro per migliorare i costumi di un popolo, e pensava che l’indifferenza nei confronti di quest’arte
sarebbe stata il segno sicuro del decadimento
dell’impero.
Se intendiamo l’ambito sacro come un ambito,
separato e dedicato, nel quale si attua una
comunicazione tra la manifestazione e il Principio, è facile capire come la musica abbia un
ruolo essenziale nel favorire tale comunicazione. La musica è infatti una delle poche arti, assieme alla poesia e alla danza (arti che erano
comprese nel significato del termine greco
mousiké) che si sviluppa nel tempo. Meglio, essa
crea un tempo a sé stante, al pari della poesia
(con le sue strutture metriche) e la danza (con il
tempo dei suoi movimenti).
Le strutture metriche musicali tracciano e ricavano, nello scorrere del tempo “ordinario” (quello
quantitativo, cronologico), un tempo parallelo nel
quale si sviluppa il ritmo musicale. Il compositore (e l’esecutore) sceglie il tempo della propria
composizione, la “cadenza” del passo col quale
camminare: con questa scelta, egli automaticamente si pone al di fuori del tempo “ordinario”.
La musica ricava allora nel tempo “ordinario”
un tempo a sé stante, organizzandone la struttura. Allo stesso modo, un rito ricava ed organizza
un tempo “sacro”, fuori da quello dell’ordinarietà.
Parallelamente, come il rito consacra altresì uno
spazio, la musica implica un “riempimento” e,
quindi, una “appropriazione”, tramite il fenomeno sonoro, dello spazio acustico. Inoltre, lo rende con ciò “diverso” in quanto non più popolato
dai suoni (“rumori”) della quotidianità: anche considerando questo aspetto semplicemente sul piano fisico, si apprezzerà come nello spazio acustico si attui una trasformazione, un’alterazione
ad opera del fenomeno sonoro. L’onda sonora è
infatti un’entità fisica: propriamente, è un’oscillazione dotata di un proprio tempo (misurabile in
Hertz), che si propaga ad una certa velocità nello spazio. Muovendosi nello spazio essa di fatto
lo altera, invadendolo di sé.
In questo atto di “appropriazione” e di “trasformazione” di spazio e tempo attuata dal fenomeno sonoro, analogamente al rito (che per sua
essenza, in fondo, è anche sonoro), vale la pena
tornare ad esplorare una volta di più il significato del termine latino “sacer”: la sua radice
veicola l’idea di “ciò che appartiene al dio”, o
meglio “ciò che dall’uomo è destinato (o dedicato) al dio”. Tutto ciò sembra implicare una tensione dell’uomo verso il sovrumano proprio attraverso l’abbandono di modalità di esistenza
“ordinarie” per ricavare, “dedicare” (idea di consacrazione) ed organizzare un tempo e uno spazio differenti (sospendendo con ciò il tempo e lo
spazio “normali”), in cui poter attuare i meccanismi di comunicazione col divino.
In questo senso, la musica è l’arte che meglio
permette una simile comunicazione: la musica
ha una funzione profonda in quanto, riposando
sui concetti cardine di Armonia e Bellezza, permette l’esperienza del sacro trascendendo la dimensione ordinaria per proiettare l’individuo verso il divino.
Johann Sebastian Bach, è stato il compositore la
cui musica forse più di altre si associa all’idea comune di armonia e di bellezza, e che svolse la sua
attività costantemente nelle adiacenze del Sacro.
Un compositore che in tutta la sua esistenza ebbe
un indomito desiderio di ricerca e che, forse non
tutti lo sanno, aderì in tarda età ad una “Società
per corrispondenza di scienze musicali”, fondata nel 1738 tra gli altri da Lorenz Christoph Mizler,
il cui scopo era quello di studiare dal punto di
vista scientifico le diverse forme musicali e le
loro implicazioni con la matematica: i membri di
tale società dovevano essere musicisti esperti in
matematica e in filosofia, ed erano tenuti a presentare ogni anno un lavoro di carattere scientifico-musicale.
All’associazione aderirono alcuni dei più importanti compositori dell’epoca, tra i quali ricorderò
Georg Philipp Telemann, Georg Friedrich
Haendel e, come ventesimo ed ultimo membro,
anche Leopold Mozart, il padre di Wolfgang.
Se pure tale società non aveva all’apparenza un
carattere iniziatico, tuttavia Bach compose per
la propria ammissione un’opera che in qualche
modo ha in sé degli aspetti esoterici e testimonia
in ogni caso la concezione quasi pitagorica che il
suo autore aveva dell’arte musicale: si tratta del
triplo Canone enigmatico a sei voci, raffigurato
nel celebre ritratto di Haussmann che lo stesso
Bach regalò all’associazione di Mizler all’atto
della sua ammissione.
È un brano che rivela una sapienza profonda,
tale da mescolare assieme armonia e bellezza, e
che afferma una funzione fondamentale della
musica: una funzione per la quale quest’arte per
sua natura non può assolvere al ruolo di mero
diletto, bensì ad una operazione di costruzione
del Tempio dello Spirito attraverso la sua capacità di connessione col trascendente. In questo,
la musica si fa davvero esperienza del sacro.
47
La Massoneria
Scuola di silenzio, scuola di libertà
Antonio Allegretta
“Il sonno della
ragione genera
mostri”.
(F. Goya)
“In una riunione
di massa il pensiero è eliminato.
E siccome è proprio questo lo stato mentale che io voglio, perché fa della folla
una vera cassa armonica che vibra ai miei discorsi, io ordino a tutti di assistere alle riunioni”.
Così, Adolf Hitler.
Chi si occupa di ipnosi conosce una tecnica molto
semplice di induzione della trance, detta di “confusione”. Consiste, per l’appunto, nel chiedere
al soggetto di pensare a più cose contemporaneamente per poi suggerirgli, avendolo prima
stancato in questo modo, di focalizzarsi solo su
quanto sarebbe piacevole rilassarsi, iniziando a
concentrarsi unicamente sulla sensazione di rilassamento diffondersi in tutto il corpo.
Proprio così: il cervello non ama il sovraccarico,
la confusione, ed è portato a cercare la quiete
non appena possibile quando si trova in uno stato di tale stress.
Il genitore frastornato dai pianti del figliolino si
rende più disponibile ad accontentarlo; alla sera,
stanchi dopo una giornata di lavoro, recepiamo
più facilmente i messaggi pubblicitari in TV: entriamo in una condizione di acriticità tipica dello
stato ipnoide.
E gli esempi potrebbero continuare numerosi fino
ad arrivare alle ‘strategie della tensione’: basta
sovraccaricare, stressare, la mente di una collettività con notizie preoccupanti e paurose e per
un tempo sufficientemente lungo, parlare conti48
nuamente di sfascio, urlare … ed infine “proporre” il ‘Salvatore della Patria’: il gioco è fatto!
Non è difficile spiegarsi alla luce di quanto detto
sopra perché i regimi “urlano”. Gli slogan poi e
perfino lo humor offrono al cervello stanco, smarrito e affaticato, un’idea semplice, immediata e
perciò priva di sforzo, su cui può adagiarsi.
I dibattiti si spostano da luoghi di umanità, dalle
piazze, dai circoli e dalle sezioni di partito ai Social
network dove i “150 caratteri” limitano a priori
la possibilità di elaborazione di un pensiero complesso e dove gli slogan, le frasi fatte, i luoghi
comuni e le battute fanno breccia.
Ma quanto diversa e moderna appare invece la
Massoneria con i suoi metodi di educazione alla
libertà.
Nella civiltà del rumore, infatti, la Massoneria
educa al silenzio prima di tutto. È il silenzio del
Buddha, il silenzio delle Scuole Iniziatiche le cui
origini si perdono nella notte dei tempi e che consente di accedere alla dimensione dell’‘Osservatore Inosservato’, cioè dell’Io consapevole, il
centro di volontà – per dirla con Assagioli1 –
che si disidentifica dalle emozioni e dalle sensazioni, assumendo così padronanza sul corpo e
sulla mente.
È il tipo di silenzio che in tempi moderni viene
chiamato ‘mindfulness’ cioè pienezza della mente, e su cui tanto interesse riversano oggi le
neuroscienze e le psicoterapie. Tale pratica infatti, riduce lo stress, “scarica” il Sistema
Limbico, favorisce una benefica autoregolazione
del Sistema nervoso Simpatico e, così facendo,
“libera” la Corteccia Prefrontale – la sede del
‘Terzo Occhio’, della Saggezza – che è coinvolta nel pensiero complesso, nelle abilità astratte,
nel senso del giudizio, nella capacità di pianificazione e di moderazione della condotta sociale.
Tale silenzio è rappresentato dal filo a piombo: esso
per quanto possa oscillare, a causa di sollecitazioni, ritorna sempre a puntare al centro di gravità.
Così la Massoneria al neoiniziato, al grado di
Apprendista, “impone” il Silenzio nella “posizione del Faraone”. Lo educa cioè alla regalità, lo
inizia alla maestria nell’Arte Reale, da raggiungere mediante quel silenzio che gli consentirà
sempre di ritornare al centro del Sé nonostante
ogni “rumore” che provenga da se stesso o dal
mondo profano, raggiungendo così il dominio su
di sé e quella forma di dominio sul mondo che
non è controllo o possesso, ma libertà.
Ecco le prime indicazioni di operatività: si tratta
di un’operatività “dell’essere”, condizione necessaria e a priori dell’operatività “del fare”.
Il Compagno forte di quel silenzio dell’apprendistato, inizia timidamente a parlare. Il silenzio dell’osservazione imparziale si trasforma in quello della
contemplazione, nel silenzio ricettivo. Attinge alla
Bellezza, all’Armonia. Ed è tramite il silenzio appreso in precedenza che impara a guardare oltre
le apparenze, a vedere non con gli occhi ma con il
cuore, a distinguere il “sapore” delle cose e delle
azioni, ad “avere tatto”, ad ascoltare oltre le parole, a sentire oltre le sensazioni2.
Egli impara a rendere il suo parlare in sintonia
con la Bellezza contemplata, con una percezio-
49
ne più profonda della realtà e dell’Essere.
Finché da Maestro, il suo pensiero fattosi consapevole, libero dal piccolo io, scevro dalla
passionalità, sovrastante il dualismo e informato
dal silenzio contemplativo si esprime in un pensiero proiettivo, solare, creativo e fecondante3.
Un grande Maestro come Ivan Mosca insegnava per di più che il Fratello si esprimesse in sintonia
con la posizione occupata in Loggia, con le sue specifiche funzioni e quindi con il preciso stato psicologico e valoriale legato ai Metalli, alle Virtù, ai Pianeti, ai punti della Sefiroth, ecc.4.
Tutt’altro quindi che un banale esprimere la propria
opinione. Tutt’altro che un “giocare di fioretto” …
Ma un lavoro, appunto, alchemico di superamento di sé e di sublimazione dei metalli, di morte di
sé, e di vivificazione del Sé5 che produce un
pensiero divergente in una pluralità di vedute ma
non di opinioni.
È quanto insegna ad esempio – forse ispirandosi alla Tradizione? – Edward de Bono nel suo
“Sei Cappelli per Pensare” con cui propone di
pensare ad un problema di volta in volta da una
prospettiva emotiva diversa, a seconda che si
indossi un cappello bianco, rosso, nero, giallo,
verde o blu6.
Qui, dalle vette del pensiero e della contemplazione raggiunte dal Maestro, quanto siamo lontani dalle urla dei talk show, dai blog e dai social
network, dall’informazione pilotata e dagli slogan. Siamo lontani dalle ideologie, dai fanatismi
e dalle chiese che pretendono di possedere e di
amministrare la Verità.
Quanto siamo lontani, qui, dai tentativi di ipnosi di
massa e dal mito dell’ “evergreen and quick
thinker” che non prova mai fatica e pensa rapidamente.
Alla civiltà del lavoro continuo e senza sosta, alla
civiltà del caos acefalo, a quella delle droghe e del
doping, la Massoneria oppone il regolo di 24 pollici: il
ritmo, i tempi, i cicli, il lavoro e la ricreazione, il silenzio, la contemplazione ed il pensiero. È da qui che il
Massone ritorna nel mondo per ripristinare il
triangolo di Fratellanza, Uguaglianza e Libertà
che riconosce come l’elemento indeformabile e
50
fondante della geometria dell’Universo.
Ben consapevole della necessità di porsi con
attenzione costante accanto all’Atanor comprende in profondità il senso del famoso monito di
Francisco Goya: “Il sonno della ragione genera
mostri”.
Note
Cfr. “Esercizio di auto identificazione” in Roberto
Assagioli, L’Atto di volontà, Casa Editrice Astrolabio,
Roma, 1977, pp. 157-162. Roberto Assagioli (1888 1974), fu iniziato alla Libera Muratoria molto probabilmente nella loggia “Lucifero” di Firenze, di Rito
Simbolico. Restò in amichevole rapporto per tutta la
vita con Carl Gustav Jung con cui condivideva l’interesse per le culture orientali, i fenomeni paranormali,
l’alchimia e l’astrologia. Studiò il pensiero orientale
in genere e in particolare la tradizione spirituale indiana, nonché le discipline esoteriche, le varie forme di
spiritualità e misticismo. Insieme ad altri grandi psicologi suoi contemporanei come Milton Erikson, ispiratore della programmazione neurolinguistica, e
Abraham Maslow deve essere considerato a buon
diritto tra i fondatori della psicologia umanistica.
1
Irène Mainguy, Simbolica Massonica del Terzo
Millennio, Edizioni Mediterranee, 2013, p.234-237.
2
Francesco Brunelli, Principi e Metodi di Massoneria Operativa, Edizioni Bastogi, Foggia,1982, pp. 159172.
3
“Elevare templi alla virtù – Scavare prigioni al
vizio” in Massoneria – Simbologia e Rito: Un intervento postumo ma necessario di Ivan Mosca, Edizioni Luz, Latina, 2008, pp.236-251.
4
A. Allegretta, Massoneria e pensiero divergente,
L’Ipotenusa, n. 36 – primo trimestre 2014, p. 57-60.
5
Edward de Bono, Sei cappelli per pensare, BUR
Milano, 1997. Edward De Bono (Malta, 19 maggio
1933) è considerato uno degli studiosi di primo piano nel campo del pensiero creativo. È il creatore del
concetto di “pensiero laterale”, ormai entrato in uso
nel linguaggio comune e l’ideatore del Programma di
Pensiero CoRT per le scuole, che è il programma maggiormente utilizzato a livello internazionale per l’insegnamento delle abilità di pensiero. Il suo “Sei Cappelli per Pensare”, è stato immediatamente adottato
da società ed educatori di tutto il mondo.
6
Social Network e Massoneria
Federico Donati
Uno degli settori di maggiore dinamicità, da un
punto di vista sociologico, e che ha visto appassionarsi una serie indistinta di categorie umane
molto distanti fra di loro per estrazione, generazione e, non ultimo, livello socio-culturale, è stata l’analisi della nascita e degli effetti del fenomeno dei social network. Con tale locuzione si è
soliti individuare quei programmi – in inglese
software – che risultano in grado di mettere in
relazione persone conosciute fra di loro ed anche quelle che non si conoscono. Per l’effetto
della diffusione massiccia dei computer casalinghi si è così determinata una sostanziale mutazione delle dinamiche insite nelle relazioni umane, dinamica che si è spostata dai luoghi fisici ai
luoghi virtuali che si sono infatti, in tutto o in parte, sostituiti ai primi creando un mondo virtuale
che ha posto una serie infinita di domande sia
agli studiosi sia ai semplici utenti.
Queste domande hanno messo in crisi uno dei
più noti studi antropologici fondati su un numero,
chiamato “numero di Dumbar”, studi che hanno
avuto per decenni la pretesa di stabilire la grandezza massima della propria rete sociale che, si
affermava, poteva contare su un massimo di 150
persone. Tale paradigma, definito la regola dei
150, sembra oggi non più attendibile in quanto la
dimensione massima del proprio “villaggio” (in
termini più attuali meglio definibile come un
ecovillaggio) si è progressivamente ampliata
per l’effetto della maggiore facilità di accesso
alle distanze, agli studi, ed infine per l’effetto
della irruzione di massa dei c.d. social network.
Come ricordato dagli psicologi americani
Prochaska e Di Clemente, un soggetto può vincere la endemica resistenza al cambiamento solo
se il cambiamento rappresenta un’opportunità
significativa (dall’inglese affordance) e qui for-
se sta il segreto di tanto successo. Tale opportunità ha finito per modificare in maniera sostanziale i criteri di selezione e di accesso al “villaggio” dapprima caratterizzati da una sostanziale
prudenza fondata sulla fiducia, mentre adesso
disciplinati da una generica accettazione alle condizioni poste dal social network, e con la possibilità di creazione di un proprio profilo anche non
autentico per non dire anonimo, al fine di seguire una tendenza, una moda o anche semplicemente un interesse.
Già da questo primo sommario approccio non
vi è chi non veda come lontana sia la filosofia
che sottende all’ingresso nella nostra Istituzione fondata, all’opposto, sulla personale presentazione, sul discrimen della persona e sulla
conferma quotidiana, attraverso l’esercizio della
pratica dei rituali, delle peculiarità di ingresso.
L’adesione ad un social network se da un lato
comporta la possibilità di accedere a notizie
attualizzate sulle persone conosciute – a volte
non più frequentate – dall’altro comporta una
implicita denuncia che i meccanismi tradizionali di sociabilità non sembrano essere più sufficienti a fronte del nuovo mezzo di contatto
che offre, grazie ai continui aggiornamenti, orizzonti sempre più lontani. Tali principali caratteristiche dei social network si distanziano in
maniera siderale dal senso della nostra appartenenza alla Istituzione libero muratoria per
come ci viene tramandata dagli antichi doveri
che, seppur mai in corso di aggiornamento, continuano a rivelarsi come una stella polare nel
nostro modo di pensare e di affrontare la realtà
profana, che cerchiamo di migliorare per il bene
ed il progresso dell’umanità intera. Fra le tante
domande, l’utilizzo di tali software, così lontani
dal nostro modo di percepire il cambiamento,
51
ha determinato anche non pochi interrogativi in
tema di riservatezza dei dati e delle notizie pubblicati sui social network di sempre più frequente utilizzo e della loro ammissibilità nei procedimenti giudiziari.
È noto infatti che, per esempio, il social network
“Facebook” consente agli iscritti di creare una
propria pagina nella quale si possono inserire una
serie d’informazioni di carattere personale e professionale, e si possono pubblicare, immagini, filmati e altri contenuti multimediali. Anche se l’accesso a questi contenuti è regolato attraverso le
impostazioni sulla Privacy scelte dall’utente, la
Giurisprudenza che si va consolidando ritiene che
le informazioni e le fotografie pubblicate ad istanza degli utenti non siano assistite dalla segretezza che caratterizza invece quelle contenute nei
messaggi scambiati utilizzando il servizio di
messaggistica o di chat.
In tale ottica è opportuno saper cogliere la differenza fra le nozioni, e le discipline correlate, di
“pubblicazione” e di “corrispondenza”.
Infatti, solo queste ultime – messaggistica o chat
– possono essere assimilate a forme di corrispondenza privata, e ricevere la massima tutela
sotto il profilo della loro divulgazione, mentre
quelle pubblicate sul proprio profilo personale o
su un proprio gruppo chiuso, in quanto già di per
sé destinate ad essere conosciute da terzi, anche se rientranti nella cerchia delle “amicizie”
del social network, non possono ritenersi assistite da tale protezione. In altri termini, nel momento in cui si pubblicano informazioni e foto
sulla pagina dedicata al proprio profilo personale o sul proprio “gruppo chiuso”, implicitamente,
ma irrevocabilmente, si accetta il rischio che, le
stesse, possano essere portate a conoscenza
anche di terze persone non rientranti nell’ambito delle “amicizie” accettate dall’utente, il che le
rende, per il solo fatto della loro pubblicazione,
conoscibili da terzi ed utilizzabili anche in sede
giudiziaria.
Dopo l’entrata in vigore della legge sulla Privacy sono stati enucleati i concetti di libertà di
autodeterminazione nelle scelte di vita e di riser52
vatezza come non ingerenza di terzi nella sfera
personale. Con l’avvento dei social network si è
avuto uno svuotamento dell’originario concetto
di Privacy perché tali canali, attraverso “l’esposizione pubblica di sé”, consentono di esternare
le proprie convinzioni e di diffonderne i contenuti nel circolo primario delle proprie relazioni o
pubblicamente sul web.
Alcuni utenti hanno ritenuto di poter consentire
la pubblicazione di notizie riservate, ed oggetto
di riservata corrispondenza, attraverso la creazione dei “gruppi chiusi” con la possibilità di far
accedere alle pagine del gruppo solo una ristretta cerchia di persone selezionate. Tale ristretto
gruppo, tuttavia, non consente una sufficiente
tutela della riservatezza dei contenuti in quanto
non riesce a superare il dato della sostanziale
anonimato dei profili i cui dati anagrafici sono
conosciuti soltanto al sistema. E comunque l’elevato numero dei partecipanti comporta la astratta
accettazione che il contenuto dei messaggi possa essere anche “esternato” e quindi divulgato,
in barba alla riservatezza dovuta. Per quanto riguarda poi i “gruppi chiusi” creati da appartenenti al Grade Oriente d’Italia con la pretesa di
selezione degli appartenenti ai soli attivi e
quotizzanti, la possibilità di selezione concreta
appare vuota di contenuto pratico, laddove soltanto gli organi Istituzionali a ciò preposti sono in
grado di certificare l’appartenenza o meno di un
richiedente. Ogni altra pretesa di controllo, quindi,
appare certamente improbabile per non dire presuntuosa.
Superato, con evidenza, il concetto di “gruppo
chiuso” e considerato il fatto che le affermazioni ivi contenute possono essere oggetto di divulgazione a terzi (anche profani) occorre valutare se all’interno del nostro ordinamento
Iniziatico sia possibile la esternazione di contenuti propri e specifici relativi a fatti e/o circostanze relativi alla vita associativa.
È noto il quadro generale della tutela di diritti
fondamentali per come delineato nella Carta
costituzionale del 1948 per come enunciato
nell’art. 21 della Costituzione definito dalla Cor-
te Costituzionale come “pietra angolare” del
sistema democratico (Cfr. Corte Cost. 17 aprile
1969, n. 84) e, come autorevolmente affermato
da Martines, “la democraticità di un ordinamento è direttamente proporzionale al grado
in cui la libera manifestazione del pensiero
viene riconosciuta ed in concreto attuata ed
a nulla varrebbe assicurare le altre libertà”
Martines, 2007”. Tale principio, di diretta derivazione dalla polis greca, trova riconoscimento
anche all’articolo 6, paragrafo 1 del trattato sull’Unione europea (TUE) Il rispetto di detti principi comuni è una condizione di appartenenza
all’Unione, e gli articoli 7 TUE (introdotti dal trattato di Amsterdam, modificato poi a Nizza) e
309 TCE (trattato che istituisce la Comunità
europea) danno alle istituzioni gli strumenti atti a
garantire il rispetto dei valori comuni da parte di
ogni Stato membro.
Il diritto potrebbe essere esercitato nel suo aspetto di mera manifestazione del pensiero, ovvero,
trattandosi di social network, e organicamente
ripresa ut supra la nozione di “pubblicazione”,
potrebbe essere intenso e rivendicato come esercizio del diritto di cronaca. Tale ultimo diritto trova
dei precisi limiti che la Corte di Cassazione, con giurisprudenza pressoché univoca, (per tutte
Cassazione civile, sez. III, sentenza 08.05.2012
n. 690) ha descritto nella necessaria contemporanea sussistenza del criterio di veridicità del criterio
di continenza e del manifesto interesse pubblico.
È quindi fondamentale che la notizia pubblicata
sia vera e che sussista un interesse pubblico alla
conoscenza dei fatti.
Il diritto di cronaca e di critica, infatti, giustifica
intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di
una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede
la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione sia mantenuta nei giusti limiti della
più serena obiettività. Quanto all’aspetto di mera
manifestazione del pensiero esso non è tutelato
incondizionatamente e non garantisce secondo
quanto previsto dalla Costituzione una libertà il-
limitata della sua manifestazione. Per questo
motivo, davanti a questo diritto sono posti dei
limiti che derivano dalla tutela del “buon costume” o dall’esistenza di beni o interessi diversi
che sono allo stesso modo protetti e garantiti dalla
Costituzione, quale, primo fra tutti, il diritto alla
riservatezza.
In tale ambito tuttavia, quello della “riservatezza”, occorre ulteriormente approfondire la
tematica dei diritti disponibili e la loro possibile
compressione all’interno di un sistema iniziatico
e particolare come quello del Grande Oriente
d’Italia.
In primo luogo occorre precisare che il diritto
alla manifestazione del pensiero ricada nell’ambito dei diritti indisponibili ancorché in assenza di
un univoco criterio legislativo. Infatti, l’indisponibilità viene riscontrata maggiormente nell’ambito dei diritti della personalità, degli alimenti e
delle posizioni di status familiae, mentre la natura disponibile riguarda i diritti patrimoniali. La
ragione del trattamento riservato ai diritti della
personalità è collegato alla circostanza che questi diritti ineriscono inscindibilmente alla sfera
individuale di un soggetto da cui non possono
essere separati.
Ma se da un lato trattasi di diritto non disponibile, appare altrettanto chiaro che tale diritto possa essere in qualche modo comprimibile per l’effetto di patti di natura privatistica e che pertanto
l’indisponibile diritto di cui all’art. 21 della Costituzione repubblicana non possa sottrarsi appieno
all’evenienza di essere condizionato da manifestazioni di volontà, in senso lato, di natura
dispositiva. Data come acquisita la nozione della legittimità della compressione della libertà di
manifestazione del pensiero per effetto della
sussistenza a monte di patti di natura privatistica,
occorre calare tale concetto all’interno della nostra istituzione di carattere iniziatico per verificare se tale nozione sia applicabile in concreto.
Si rifletta sul fatto che il recipiendario prima di
essere iniziato dichiara nella promessa solenne
di osservare la Costituzione ed il regolamento
del Grande Oriente d’Italia fra cui soccorre a
53
pagina XVII del T.U. “Antichi doveri, Costituzione e Regolamento dell’Ordine” il capo VII,
in tema di Identità del Grande, secondo il quale
“I Lavori di Loggia sono di natura strettamente riservata, ma non segreta” ed inoltre lo
stesso si impegna, sul suo onore, “al silenzio su
tutti i particolari relativi alle prove che sto
per affrontare nei nostri rituali”.
Negli antichi doveri tale principio è canonizzato
laddove è scolpito che “Sarete cauti nelle vostre parole e nel vostro portamento affinché
l’estraneo più accorto non possa scoprire o
trovare quanto non è conveniente che apprenda; e talvolta dovrete sviare un discorso
e manipolarlo prudentemente per l’onore
della rispettabile Fratellanza”. Tale esplicitato
principio di riservatezza viene evocato al termine di ogni tornata rituale laddove il Venerabile
esorta i Fratelli, che gestualmente accettano, “a
mantenere il riserbo sui Lavori compiuti”.
Non pare dubbio che l’iniziato sia vincolato ad
un patto contrattuale – ma anche di onore – di
riservatezza che non solo viene sottoscritto all’atto della iniziazione con l’accettazione incondizionata dei principi tradizionali della libera
muratoria, ma viene rafforzato e confermato
ad ogni tornata rituale mediante l’esortazione,
implicitamente accolta, del Venerabile a non rivelare in alcun modo il contenuto della camera
rituale.
Quanto all’oggetto di tale patto di riservatezza,
essa, a sommesso parere dell’estensore, non
potrà soltanto comprendere il mero aspetto rituale ma anche altri aspetti quali, per esempio,
l’identità dei fratelli e la loro riconoscibilità, nonché tutti gli argomenti che, tradizionalmente, sono
affidati in via esclusiva alla camera di mezzo,
vero cuore pulsante dell’Ordine.
Questa ricostruzione pare armonica anche con
la simbologia della iniziazione laddove il
recipiendario nell’affidare al maestro esperto
tutti i metalli, rinuncia all’utilizzo di tutti gli strumenti tipici del mondo profano, per affidarsi soltanto agli strumenti tipici della realtà iniziatica,
con una compressione che in sede di iniziazione
54
appare una elevazione di carattere etico. L’iniziato abbandona gli strumenti metallici e si affida, insieme agli altri fratelli e con la forza
dell’eggregore, soltanto agli strumenti simbolici, gli unici che consentono di “scavare oscure
e profonde prigioni al vizio” e quindi di “lavorare per il progresso dell’umanità”.
Il rivendicare, come spesso è stato fatto da molti Fratelli, l’utilizzo dei metalli pare improprio e
comunque testimonia come non sufficientemente
compiuto il viaggio di istruzione del Libero Muratore. Ritornando ad un piano associativo risulta, pertanto, non conferente ogni dibattito in merito
alla presunta illegittimità della compressione in
danno di un appartenente alla associazione non
riconosciuta Grande Oriente d’Italia nell’esercizio di tutti i diritti costituzionalmente garantiti.
Fra questi la manifestazione del pensiero e la
tutela giurisdizionale, in quanto comunque questi
diritti trovano una esplicita limitazione nel patto
contrattuale di riservatezza che incombe, per
come rafforzato, su ogni appartenente alla associazione medesima.
Gli accesi confronti degli ultimi anni in tema di
esercizio dei diritti costituzionalmente garantiti,
sono sempre risultati privi, per non dire monchi,
di tale imprescindibile premessa che si trova –
purtroppo – del tutto inesplorata a monte delle
varie argomentazioni e dissertazioni. Tale ricordata limitazione contrattuale, di per sé legittima,
trova la sua ragione nel mantenimento e rafforzamento della identità iniziatica del Grande
Oriente d’Italia, con una soluzione che trova ragionevolezza e legittimazione soltanto nel tentativo di consegnare ad equità il conflitto da due
diritti soggettivi che, in un caso concreto entrano in conflitto tra loro, al fine della loro
ponderazione, contemperazione e coordinamento. Il bilanciamento tra diritti o principi confliggenti
è una tecnica di argomentazione (o di decisione)
usuale in sede giurisprudenziale, e che di recente è venuta prepotentemente alla ribalta del dibattito dogmatico e teorico-giuridico. Non è pertanto esagerato osservare che nella problematica
del bilanciamento tra diritti o principi si saldano i
due filoni più vivaci del dibattito teorico-giuridico contemporaneo: quello sul percorso logicogiuridico, e quello sulle identità fondamentali.
Conseguentemente, nel modestissimo tentativo
di contemperare e ponderare la dinamica fra
esercizio compresso (consensualmente) della libertà di espressione e obbligo parimenti contrattuale alla riservatezza, l’estensore, consapevole
di affidare al dibattito Istituzionale questo scritto, intende proporre, in mera linea di principio
dei canoni di comportamento di utilizzo dei social
network, che dovrebbe soddisfare il tentativo di
equilibrio fra diritti soggettivi contrapposti.
I canoni minimi ai quali un Libero Muratore dovrebbe pertanto attenersi nell’esercizio del diritto di libera manifestazione del pensiero, ma nel
rispetto del vincolo di riservatezza, potrebbero
essere individuati nella astrattezza della comunicazione, nella necessità e pertinenza del fatto
o della notizia, ed infine nell’interesse Istituzionale alla divulgazione. I canoni di valutazione
dei presupposti dovranno certamente ispirarsi
alla migliore tradizione libero muratoria, tradizione certamente più evoluta di quella per così
dire profana e/o popolare vista la funzione di
didattica umanitaria che l’Istituzione dichiara
di professare.
Quanto alla astrattezza della comunicazione essa
consente di individuare come violato il principio
di riservatezza ogni qualvolta il Libero Muratore
faccia riferimento a circostanze di tempo, luogo
e persone, facilmente indentificate e/o
identificabili utilizzando la perizia e conoscenza
media non tanto della società profana quanto del
maestro Libero Muratore mediamente a conoscenza dei fatti in oggetto. Quanto a necessità e
pertinenza del fatto o della notizia, essa consente di affidarsi al canone della veridicità e della
pertinenza dei fatti che il Libero Muratore ritiene di dover esplicitare, ritenendo del tutto ultronei
e quindi esorbitanti dal contesto tutti i fatti che,
come una vulgata popolare, potrebbero essere
inopportunamente consegnati a terzi ed evitando così che “un estraneo più accorto non possa scoprire o trovare quanto non è conve-
niente che apprenda”. Pemane la necessità
che ogni atto del Libero Muratore si ispiri ad
interessi superiori dell’Istituzione Massonica,
laddove vi è sempre da chiedersi se le finalità
che con la divulgazione ci si prefigge di ottenere
siano da considerarsi degradati rispetto al superiore interesse dell’Istituzione che si propone
sempre come vessillifera di principi etici superiori, ma che a volte, per l’effetto di parole e
comportamenti di alcuni dei propri appartenenti
pare ridotta ad rango di associazione profana.
Pare corretto conclusivamente argomentare che
il mancato rispetto di tali prerequisiti nell’accesso al social network, così come anche per esempio ed a maggior ragione, nell’indiscriminata pubblicazione di fotografie aventi ad oggetto Fratelli
anche con insegne rituali, costituisca, quindi,
conclamata violazione del patto di riservatezza
che, come abbiamo sopra identificato, risulta
indubitabilmente facente parte dei patti contrattuali parasociali cui il Libero Muratore deve integrale rispetto.
Diverse sono le conseguenze ipotizzabili sul piano civilistico-associativo e sul piano massonicoiniziatico.
Sotto il profilo meramente civilistico tale patto
di riservatezza pare avere le caratteristiche proprie di un patto totalitario parasociale nel quale
tutti gli associati convengono su patti aggiunti
al corpus normativo dell’associazione concepito come un contratto di durata fra i soci, avente ad oggetto la collaborazione fra più soggetti
per le gestione in comune di una certa attività.
Tali patti non parrebbero in alcun modo modificativi, impeditivi o estintivi, del contratto principale, quanto piuttosto patti meramente integrativi che i soci hanno inteso, nella loro totalità stipulare fra di loro.
Anche in una associazione non riconosciuta
come il Grande Oriente d’Italia, è possibile
evidenziare, accanto al corpus normativo della
Costituzione e del Regolamento dell’Ordine, anche l’esistenza di ulteriori patti che assumono,
quando stipulati da tutti i soci, il carattere di vere
e proprio “controscritture”, come tali tendenzial55
mente parte integrante del contratto base, e che
quindi potrebbero direttamente integrare o modificare le regole relative allo svolgimento dell’attività sociale e all’esercizio dei diritti dei soci.
Conseguentemente, aderendo a tale
impostazione, il mancato rispetto del patto
parasociale di riservatezza ha come primo effetto il principio dell’ inadimplenti non est
adimplendum (all’inadempiente non è dovuto
l’adempimento) tale per cui non è scontato che,
in presenza di una reiterata violazione, l’associazione sia ancora tenuta alla erogazione dei servizi
sociali, ovvero in caso di violazione avente le caratteristiche del “grave inadempimento” determinare la risoluzione del rapporto associativo.
Sotto il profilo meramente massonico pare chiaro che la violazione del patto di riservatezza determini automaticamente quella violazione di cui
all’art. 15 della Costituzione dell’Ordine secondo la quale costituisce colpa massonica “l’inosservanza dei Princìpi della Massoneria, e
delle norme della Costituzione e del Regolamento dell’Ordine” con la conseguente possibilità di deposito di idonea tavola d’accusa nei
confronti del responsabile. Starà poi agli organi
giudiziari preposti riconoscere la tipicità della
fattispecie e la necessità di graduazione della
sanzione in presenza di un valutazione della gravità della condotta.
Non vi è dubbio che l’innovazione che i social
network hanno portato nella nostra vita da determinato una evidente soluzione di continuità col
passato, sulle relazioni che si instaurano fra le
persone e quindi anche fra i Fratelli ed i profani,
ma il sostanziale e necessario riferimento alla tradizione iniziatica che implica l’appartenenza alla
libera muratoria impone una eccezionale cautela
nel loro utilizzo ogni qual volta oggetto di comunicazione siano atti, persone o fatti inerenti al lavoro tipicamente muratorio, per tale dovendosi qualificare sia quello iniziatico sia quello amministrativo necessario alla sussistenza del primo.
In tale accezione le piattaforme sociali si presentano come puro strumento di vita profana e
come tale idonea a determinare un miglioramento
56
di interazione con altri esseri umani ma non certo un accessorio o uno strumento di miglioramento del lavoro iniziatico che deve continuare
a vedere come proprio epicentro il lavoro di loggia e, segnatamente, le dinamiche relative ai lavori in camera di mezzo.
Quando nel 1960 lo psicologo J.C.R. Licklider
presentava un articolo dal titolo “La simbiosi tra
uomo e computer”, egli vedeva nel computer il
futuro dell’uomo nel senso di un’estensione delle proprie capacità mentali e così è stato, ma
non smetteremo mai di pensare che nessun
processore sarà in grado di elaborare o calcolare quel segreto iniziatico che riamane l’unico
presidio di autenticità e sopravvivenza del nostro Ordine.
Bibliografia
Belli E., Social Network, FerrariSinibaldi, Milano,
2011.
Massarotto M., Social Network. Costruire e comunicare identità in rete, Apogeo Editore, Milano, 2011.
Riva G., I social network, Il mulino, Bologna, 2010.
Sul comportamento in Loggia
Leopoldo Gori
I liberi muratori si ritrovano ciclicamente in Loggia perché questo è un passaggio ineludibile del
loro itinerario verso la Luce.
Migliorarsii, quindi. Ecco l’importantissimo motivo che esige un particolare comportamento in
Loggia. Sia ben chiaro, le nostre tradizioni
massoniche ci indicano un modus operandi speciale, un metodo di lavoro che non ha riscontro
nel mondo profano, che è stato acquisito dai Fratelli, i quali – se hanno la bontà di tenere
I’Iniziazione fra mente e cuore – non possono
non convenire che quella cerimonia ha dato il
via a una conversione di vita. I simboli, poi, costituiscono un linguaggio comune universale che
può aprire la via alla Conoscenza. Ma la Sacralità
del Tempio, già acquisita con l’apertura dei Lavori e la conseguente posizione del quadro di
Loggia, si completa con tre cose, che vanno oltre
la pur preziosa bellezza di qualsiasi ingresso rituale, e cioè: il silenzio assoluto e quindi la non
interruzione del Fratello cui il Maestro Venerabile
ha concesso la parola; la tolleranza, riferita anche al massimo rispetto delle idee diverse dei Fratelli; l’amorevole disposizione interiore, pronta cioè a chiudere le porte a qualsiasi senso di
risentimento verso iniziati che ci sembra possano
aver avuto comportamenti poco fraterni.
Con l’assoluto silenzio, la calma e la serenità
dovrebbero essere le custodi del rispetto della
sacralità del Maestro Venerabile che, quando occupa lo scranno, è sovrastato solo dal GADU
ed è il riferimento dei Fratelli quando si alzano
all’ordine. È nel silenzio assoluto che il Tempio
diviene un luogo ideale per lo spirito, permettendo ai Fratelli il rinnovamento interiore.
La Tolleranza, ora intesa non nel significato più
vasto del termine, ma limitata al comportamento
in Loggia, ha’ importanza fondamentale, special-
mente nell’ambito degli interventi dopo che un
Fratello ha tracciato una Tavola. Spesso si sente dire: “Mi complimento per la bellissima tavola
di tale fratello”; oppure: “Come ha detto il fratello altro, con il quale concordo e che stimo tanto anche nel mondo profano ...”; e a volte: “Questa tavola non mi dice granché, non capisco cosa
c’entri ...”. Ebbene, sono tutte espressioni che
un iniziato non si può permettere, sono
esternazioni che possono rompere l’armonia
della Catena d’Unione, perché il troppo elogio
verso l’opera di qualcuno può far apparire vana
quella di un altro, e viceversa. In sostanza, occorre evitare un linguaggio che smuova la suscettibilità altrui, ricordandosi sempre che al posto del giudizio va posto il dettato dell’Iniziazione:
“Non fare agli altri quello che non vorresti fosse
fatto a te”.
Eccoci, infine, alla terza cosa: l’amorevole disposizione interiore. Forse la più difficile da attuare, se non si riesce a porre i principi al di
sopra delle personalità. Molto spesso i cuori dei
Fratelli sono turbati da richieste di aiuto non potute soddisfare, o da incomprensioni durante i
rapporti professionali nella vita profana. Ebbene, in questi casi non c’è altra strada che entrare
in Loggia pensando così: “Fratello, occorrerà un
chiarimento con il Maestro Venerabile, ma intanto continuo a volerti bene perché come te sono
stato consacrato Fratello Libero Muratore”.
È dopo questi tre scalini che la ritualità non è più
un dovere ma un sottile profondo piacere. È a
questo punto che il comportamento in Loggia
(dall’ingresso rituale nel Tempio alla composta
posizione detta “del faraone” fra le Colonne o al
modo di porsi all’Ordine) si amalgama con la
Spiritualità e produce una crescita al di là di qualsiasi somma algebrica.
57
Storia della Massoneria
Claude Henry Amédée Chambion (1804-1886)
Un massone al servizio della democrazia nella Firenze capitale d’Italia
Guglielmo Adilardi
La biografia di Henry Chambion1 ci consente di
mettere a fuoco un settore del nostro Risorgimento molto trascurato dalla storiografia nostrana, fino al 19762, in cui si cominciò a sottolineare
l’incidenza della Massoneria nel contesto democratico e laico del nostro Risorgimento.
Enrico Chambion
La casa di Chambion è già segnalata nel 184952, da delatori e testimoni nei processi per lesa
maestà istituiti all’indomani della Restaurazione
leopoldina, quale centrale democratica e repubblicana in cui gravitavano gli uomini del Risorgimento pratese Jacopo Martellini, precettore fra
gli altri di Piero Cironi, Antonio Martini, Ermolao
Rubieri …
Probabilmente il medico, in contatto con la Massoneria della Francia repubblicana e le logge
livornesi, anche sotto la Restaurazione toscana
del 1849-59 non cessò di frequentare i Fratelli
fiorentini, livornesi, pistoiesi … che furono con
lui, grande esperto di lavori latomici, coloro che
risvegliarono la famosa loggia Concordia in Firenze nel 15 giugno 18613.
58
Grazie al suo cosmopolitismo europeo la sua casa
fu anche uno snodo centrale di cospirazione internazionale. Ne abbiamo contezza quando uno
sparuto, ma agguerrito gruppo di Ungheresi si
trasferisce in Italia per perorare, con ogni mezzo, aiuti per la loro nazione, la quale desiderava,
quanto l’Italia, liberarsi dall’oppressore austriaco. Il Regno di Sardegna faceva ben sperare gli
Ungarici, in quanto era stato uno degli Stati europei che alla metà dell’Ottocento aveva combattuto in Crimea, a fianco della Francia di Napoleone III, per rintuzzare le mire espansionistiche della Russia nel Mediterraneo e soprattutto
per accreditarsi al tavolo della pace di Parigi4.
La Massoneria piemontese può essere agli occhi degli Ungheresi un buon veicolo per il proprio Risorgimento, infatti Ludovico Frapolli, amico
intimo di molti politici piemontesi, iniziato il 10
dicembre 1862 alla loggia Dante Alighieri di
Torino, nel 1863 riceve Kossuth, Pulszky, Klapka,
e l’anno dopo, divenuto Venerabile, fonda con
questi il Grande Oriente Ungarico.
Nel 1863 Pulszky si trasferisce a Firenze, orgoglioso della sua sistemazione a villa Petrovitz,
dove pare avesse soggiornato Lutero nel suo
viaggio a Roma, continua un lavoro cospirativo
con Frapolli. Nel luglio dello stesso anno, quando stava per aprirsi la III Assemblea massonica
in Firenze, comunicò che “… aveva contattato
il dott. Pierazzoli, padre della massoneria
toscana, dal quale era stato messo in rapporto con Enrico Chambion, un fratello molto attivo, istruito, l’anima della massoneria a
Firenze, che gli era piaciuto assai. Annunciò
un incontro a casa di questi prima della Costituente massonica e raccomandò che vi re-
cassero diversi Fratelli e soprattutto il rappresentante della loggia Progresso di Torino
Antonio Mordini”5.
Gli Ungheresi, presenti come i Russi nelle fila
garibaldine, avevano eletto in Firenze capitale,
in Palazzo Pazzi, nell’appartamento del barone
Usedom, un Fratello molto attivo, plenipotenziario
del Governo provvisorio ungherese presieduto
dal Fratello Komàromy, la loro sede politica.
Spesso il patrizio insieme al barone Malaret, ministro di Francia, erano ricevuti dal ministro degli esteri Visconti Venosta a Palazzo Vecchio, il
quale Ministro scriveva a La Marmora, partito
per la III guerra d’Indipendenza e lasciata la
presidenza del Consiglio al governo Rattazzi:
“Forse la loro insurrezione salverà il nostro
paese. Tu devi fare in modo di sapere se il
Governo prussiano ha continuato a fornire
agli Ungheresi i mezzi per fare la rivoluzione
…”. Il Palazzo Pazzi diverrà di lì a breve la sede
della loggia Universo, un’eccezione nella massoneria del tempo come vedremo. Nonostante
gli sforzi di Frapolli nell’unificare le sparse membra della Massoneria, divenuto nel frattempo Primo Gran Sorvegliante, sia con l’impegno diuturno
sia con l’ingente capitale immesso per la gestione dell’organismo in fieri, la situazione del Grande Oriente Italiano era disastrosa; la descrive
bene lo stesso Frapolli nel 1867 a Giuseppe
Mazzoni:
“Ho trovato l’Ordine massonico per molti lati
in condizioni di atonia penosa, le Logge per
la maggior parte riunite di rado, alcune
dormienti per cattiva amministrazione, più
sovente per mala direzione e a causa di un
proselitismo senza discernimento, oberate da
debiti ed ingombre di fratelli inutili e di iniziati indegni”. I rimedi che proponeva erano
quelli di sempre:
“La Loggia sia scevra da ogni elemento poco
stimabile, che le sue finanze siano floride.
Nel caso di una Loggia nuova sarà facile
scegliere poche persone veramente rispettabili per i loro sentimenti umanitari, per l’istruzione, ma soprattutto per specchiata onestà”.
Lo stesso Chambion nel 1868, già Venerabile
della loggia Concordia, nello scrivere a Frapolli
si lamentava:
“Noi siamo divorati da una malattia di languore che potrebbe diventare anche mortale
se si prolunga, tutto ciò che posso promettervi nella mia qualità di proto-archiatra (Venerabile, n.d.A.) della compagnia è sì non risparmiarmi”.
Giuseppe Mazzoni
In luglio dopo aver depositato il maglietto nelle
mani del suo successore: “Non voglio che mi
prendiate come uccello del malaugurio, per
la Massoneria italiana è un po’ come tutto
quello che è qui, naviga in cattive acque.
Tutto è stato mal costruito, cosicché non fate
in tempo a tappare un buco che la barca fa
acqua da un’altra parte”.
In questa situazione penosa il Grande Oriente
Italiano dovette, nella circostanza nella quale
Firenze era divenuta la capitale del Regno, predisporre una loggia che accogliesse i Fratelli
59
Onorevoli, Gran commis di Stato, burocrati, banchieri, magistrati, alti Ufficiali dell’esercito, ecc.
in modo acconcio.
Allora Frapolli pensò bene di istituire in camera
caritatis la loggia Universo, la quale appunto
indicava l’universalità dei loro associati, alcuni
stranieri come il barone Usedom, che accolse la
loggia nei suoi appartamenti di Palazzo Pazzi, ed
i suoi patrioti ungheresi, i russi come Bakunin e
consorti, senza comunicare preventivamente alle
logge del GOI la costituzione di tale loggia particolare, ma semplicemente ad elevazione avvenuta delle colonne dandone notizia nel bollettino
ufficiale della Massoneria.
Chambion, che aveva sempre lottato per la regolarità e uniformità della massoneria sia al momento della costituzione della loggia Concordia, sia nella costituzione della loggia Progresso sociale nel 1863, della quale fu il primo Venerabile, ebbe alla notizia della costituita loggia
Universo uno straniamento e prontamente scrisse al Frapolli:
“Per poco che siate al corrente dei costumi
massonici, non potete ignorare che la Universo li ha violati tutti. Quando è stata installata si dovevano invitare le Logge della
Vallata per farsi riconoscere. D’altro canto
Voi siete il Venerabile di questa Loggia e come
Gran maestro dell’ordine non potete essere
Venerabile di nessuna Loggia. Quanto ai suoi
lavori, converrete che essa non lavorerà mai
massonicamente. Voi siete uomini politici e
non massoni”.
Firmarono la bolla di fondazione: Asproni, Cannella, Curzio, Giuseppe De Luca, Facci, Frapolli,
Gavarrone, Mantese, Mordini, Mussi, Pelagalli,
Pianciani, Plutino, Giacomo Rattazzi, Regnoli,
Romeo, Sacchi, Toggio, Vaglieco, … poco dopo
la sua creazione 12 membri su 19 erano deputati.
D’altronde Frapolli prese tale decisione seguendo piuttosto che la regolarità massonica, una
soluzione pragmatica: come avrebbe potuto far
transitare tali personaggi di spicco nelle litigiose
logge del GOI, spesso costituite per elevare il
popolo alla sua piena coscienza di cittadino, ma
60
non ancora completamente levigato all’arte Reale? Inoltre, elemento di non secondaria importanza, con quale Rito far lavorare gli onusti Fratelli, i quali provenivano da Orienti diversi e spesso in “conflitto fraterno” proprio a cagione della
frammentazione rituale della Massoneria dell’epoca?
D’altronde le logge che furono nel Settecento
ricettacolo dell’antica aristocrazia, già con il
Napoleone “di tutti i Riti”, conservavano soltanto poche entità dell’onusta nobiltà avendo la
Massoneria immesso la nuova nobiltà napoleonica e l’alta borghesia. Le logge di Frapolli e
Mazzoni avevano visto l’ingresso di operai, artigiani, intellettuali, poiché anche la società, di cui
la Massoneria è una carta assorbente, si era democratizzata; in parte questa immissione di ceto
medio basso era strumentale, come lo furono
tutte quelle associazioni artigiane, operaie che
erano etero dirette sempre dai soliti personaggi
politici di spicco, i quali si attendevano da tali
associati la loro promozione non soltanto sociale
e ma anche economica affinché il suffragio universale – motivo ossessivo dei Democratici –
desse la vittoria alla minoranza democratica,
considerato il voto per censo dell’epoca.
Ludovico Frapolli, Gran Maestro del GOI, dopo
le rimostranze di Chambion passò il maglietto
della loggia Universo al deputato Giuseppe
Mazzoni, già ministro di Giustizia e Grazia e Affari Ecclesiastici del Gran Ducato Toscano. Tale
loggia, ricordiamolo, fu costituita in Firenze a
Palazzo Pazzi il 27 luglio 1867, in cui gravitarono
da subito elementi politici di spicco quali Agostino
Depretis6, il sacerdote Giorgio Asproni7, Giovanni
Nicotera8, Luigi Pianciani9, Riccardo Sineo10,
Giuseppe Mussi11, il conte Maurizio de Sonnaz12,
aiutante di campo del Re, F. Stigniani, il cav. Luigi
Claire … Si riunivano non più nella vecchia sede
di Via della Vigna Nuova al numero civico 19,
ma nella nuova e prestigiosa sede del “ Palazzo
Pazzi”con ingresso da via del Proconsolo e
un’uscita secondaria in Borgo degli Albizi; dopo
essere passati dalla sala o “corridoio dei passi
perduti” entravano nella sala ove sul “tavolo
verde” concertavano le mosse politiche. Ambedue le parole passi perduti e tavolo verde sono
divenuti archetipi, l’uno del Transatlantico in
Montecitorio, l’altro di Palazzo Chigi, ove ancora il Primo ministro ed i suoi ministri si riuniscono intorno ad un tavolo verde per concertare
l’azione di Governo. I Democratici, a far data
dalla rivoluzione parlamentare del 1876, condussero la Sinistra storica, con Agostino Depretis
primo ministro, alla maggioranza del Regno, sotto l’egida del Gran maestro Giuseppe Mazzoni.
giustizia d’essere ben persuasi che fin dalla
fondazione di questa rispettabile Loggia
(Concordia) sono sempre stato un Massone
scrupoloso nell’adempimento dei doveri che
c’impone la nostra istituzione. Eglino possono essere bene persuasi che d’ora innanzi
nel mondo profano continuerò e colle azioni
e colla parola a propagare le nostre salutari
dottrine” 13.
Consigliere comunale di Sesto Fiorentino dal 1865
al 1869 promosse in loco , lavori pubblici, servizi sanitari per gli indigenti, mantenimento delle
strade. Promosse l’Associazione nazionale degli asili rurali per l’infanzia creando a Castello il
primo asilo rurale nel 1862 su indicazione della
stessa loggia Concordia che ne acquistò le azioni,
aprì con l’aiuto del fratello Giuseppe Civinini e
Ottavio Gigli le scuole serali per tentare di rimediare alla piaga dell’analfabetismo. Nel 1870 lo
troviamo fra i fondatori del libero pensiero di Firenze capitale con Luigi Stefanoni, Alessandro
Herzen … Avverso all’insegnamento religioso
nelle scuole, favorevole ai funerali civili, contrario alla pena di morte fu anche un precursore
contro il maltrattamento degli animali domestici,
fondatore del tempio crematorio di Trespiano fu
il 21° ad esservi cremato la mattina del 14 aprile
1886.
Note
Ludovico Frapolli
Soltanto più tardi la sede di Palazzo Pazzi divenne sede della Massoneria “generalista”.
Chambion ebbe incarichi di levatura nazionale
nel Grande Oriente d’Italia: membro effettivo
nel 1864 fu nominato Grande Esperto, Gran Bibliotecario e poi Gran Cerimoniere, il che gli consentì di partecipare alla governance della Massoneria nazionale fino al 1874 quando lasciò la
sua Loggia e gli incarichi nazionali per ragioni di
salute. Scriveva ai Fratelli nella lettera di dimissioni: “Spero che i miei Fratelli mi rendano la
Il Fondo Chambion (1886-1986). A cura di Sara Pollastri e Laura Lici, Stampa Nazionale di Firenze, 1986.
Enrico Chambion. Vicende storiche di un personaggio dell’Ottocento e del suo lascito al Comune di
Sesto Fiorentino. A cura di Sara Pollastri con una
prefazione di Sergio Goretti: Cultura, laicità e politica di Enrico Chambion, Aska Edizioni, Firenze, 2014.
1
Aldo A. Mola, Storia della Massoneria italiana
dalle origini ai nostri giorni, Bompiani, Milano, 1976.
2
Gildo Valeggia, Storia della Loggia massonica
fiorentina Concordia (1861-1911), Anastatica,
Arnoldo Forni, ED. Bologna,1982. Tale storico, che
investigò gli archivi prima dello scempio del fasci3
61
smo ipotizzò una continuazione di lavori latomici di
questa Loggia anche sotto la Restaurazione
leopoldina (1849-59). Il 15 aprile del 1861 i fondatori
della Concordia furono: Raffaele Ascoli, Alessandro
Vais, Leone Provenzal, del Supremo Capitolo all’Oriente di Livorno, dott. Pasquale Pierazzoli, Icilio
Provenzal, Neri Fortini, dott. Emilio Chambion, dott.
Ettore Perozzi, avv. Vittorio De Rossi, ing. M. Conti,
Valeriano Carmecchia, tutti fratelli dell’una o dell’altra Loggia che furono quindi i primi fondatori della
Concordia.
Il congresso di pace per la Crimea si riunì a Parigi
dal 25 febbraio al 16 aprile 1856 e stabilì le clausole
per l’autonomia di Moldavia e Valacchia che, liberate
dal protettorato russo rimanevano formalmente nell’Impero Ottomano al quale venne anche assicurata
l’integrità territoriale. Il trattato che ne scaturì dispose la smilitarizzazione del Mar Nero e la cessione da
parte della Russia della zona della foce del Danubio a
favore della Moldavia. Durante il congresso il Primo
ministro del Regno di Sardegna, Cavour, ottenne che
per la prima volta in una sede internazionale si ponesse
la questione italiana, avviando quel processo che porterà alla Seconda guerra d’Indipendenza.
4
Luigi Polo Friz, La Massoneria italiana nel decennio
post Unitario, Franco Angeli –Storia, Milano, 1998.
5
Agostino Depretis (1813-1887). Fin da adolescente
discepolo di Mazzini e affiliato alla Giovine Italia, prese parte attiva ai moti mazziniani, tanto da rischiare la
cattura da parte degli Austriaci in occasione di un
tentativo di far pervenire armi agli insorti di Milano.
Eletto deputato nel 1848, aderì al gruppo della Sinistra Storica e fondò il giornale Il Diritto, ma non rivestì cariche ufficiali fino a quando fu nominato governatore di Brescia nel 1859. Nel 1860 si recò in missione in Sicilia per cercare di mediare fra le posizioni di
Cavour, che spingeva per l’immediata annessione
dell’isola al Regno d’Italia, e quella di Garibaldi, che
invece voleva rimandare il plebiscito di ratifica fino a
dopo la progettata liberazione di Napoli e Roma. Pur
riuscendo a farsi nominare da Garibaldi dittatore protempore della Sicilia, non riuscì tuttavia a concludere
l’accordo. Dopo aver accettato il dicastero dei Lavori
Pubblici nel Governo Rattazzi I del 1862, fece ancora
da intermediario con Garibaldi nell’organizzazione
della disastrosa spedizione di Aspromonte. Quattro
anni più tardi, allo scoppio delle ostilità con l’Austria, entrò nel Governo Ricasoli I come Ministro del6
62
la Marina. Nel 1873, alla morte di Rattazzi, Depretis,
ormai capo della Sinistra, preparò l’avvento al potere
del suo partito, che avvenne nel 1876 quando fu chiamato a formare il primo governo di sinistra del nuovo
Regno d’Italia. Durante questo governo fu varata la
Legge Coppino (1877), che rendeva gratuita e obbligatoria la scuola elementare.
Nacque a Gorofai – ora rione di Bitti ma fino al 1881
paese a sé stante – nel 1808, figlio di Giorgio e di
Rosalia Demurtas. Rimasto orfano di padre, fu mantenuto agli studi dal canonico Melchiorre Dore, suo
zio. Laureatosi in giurisprudenza pur avendo da giovanissimo abbracciato la vita ecclesiastica per volontà dello zio. Divenne canonico penitenziere di
Nuoro, dove insegnò appunto teologia morale. La
vivacità dell’ingegno lo spinse a condurre una vita
piena e movimentata, mentre emergevano le sue tendenze democratiche e repubblicane. Si presentò candidato alla I legislatura, ma la sua elezione fu annullata per incompatibilità con la carica di canonico. Svestito l’abito talare nel 1849 per seguire questa sua
passione politica, divenne uomo di punta della rappresentanza sarda del parlamento subalpino e della
Camera del Regno d’Italia per ben 27 anni, schierato
nelle file della sinistra. Iscritto alla loggia Universo di
Firenze.
7
Aderì alla Giovine Italia, combatté a Napoli nel
maggio 1848 e quindi insieme a Garibaldi durante
la Repubblica Romana nel 1849. Dopo la caduta di
Roma si rifugiò in Piemonte, dove organizzò la fallita spedizione di Sapri con Carlo Pisacane nel 1857.
Nicotera, gravemente ferito e arrestato, fu portato
in catene a Salerno, dove venne processato e condannato a morte. La pena fu tramutata in ergastolo solo per l’intervento del governo inglese che
guardava con crescente preoccupazione la furia
repressiva di Ferdinando II. Prigioniero a Favignana, fu liberato nel 1860 per l’intervento di Garibaldi. Inviato per conto di questi in Toscana, formò
un corpo di volontari per tentare di invadere lo
Stato Pontificio, tuttavia esso fu costretto al disarmo e allo scioglimento da Ricasoli e Cavour.
Nel 1862 fu al fianco di Garibaldi sull’Aspromonte
e quindi, nel 1866, a capo di un corpo di volontari
contro l’Austria, il 6° reggimento volontari. L’anno seguente entrò in territorio pontificio da sud
ma la sconfitta di Garibaldi a Mentana pose fine
all’operazione. Fin dal 1860 aveva anche intrapreso un’attività politica, nei primi dieci anni della
8
quale fu su posizioni di estrema opposizione; dal
1870 iniziò tuttavia ad appoggiare le riforme militari di Ricotti-Magnani. Con l’arrivo al governo
della Sinistra Storica, nel 1876, divenne ministro
dell’Interno nel primo governo Depretis, incarico
che esercitò con particolare fermezza. Fu costretto alle dimissioni nel dicembre 1877; formò quindi
la “pentarchia”, con Crispi, Cairoli, Zanardelli, e
Baccarini, in opposizione a Depretis.
Pianigiani Luigi, conte, Roma (1810-1890).
Confaloniere di Spoleto nel 1847 chiese a Pio IX la
concessione della Costituzione. Partecipò alla prima guerra d’Indipendenza nel 1848, nell’anno successivo fu membro della Costituente Romana, votò
la decadenza del papato e la costituzione della Repubblica. Caduta questa esulò in Francia. Fu amico del Mazzini, di Garibaldi e del Mazzoni di Prato
condividendone l’esilio in Parigi. Iniziato nel 1867
alla Loggia Universo con Roma liberata (1870) ne
fu il primo sindaco. Eletto deputato nel 1865 fece
sempre parte della Sinistra storica.
9
Riccardo Sineo (1805-1876). Prese parte attiva ai
moti del 1821, poi si laureò in giurisprudenza
all’ateneo torinese e fu eletto membro del consiglio comunale di Torino. Nel 1848 ebbe l’incarico
con altri, fra cui Balbo e Cavour, di redigere una
nuova legge elettorale. Eletto deputato a Saluzzo
portò alla Camera le nuove istanze liberali. Fece
parte di vari ministeri e si oppose a Cavour per la
spedizione in Crimea. Infine fu senatore nel 1873.
10
11
Nato da una famiglia borghese di Milano, si laureò in giurisprudenza all’Università di Pavia, come
alunno del Collegio Ghisleri, entrando a far parte
dell’universo politico appena terminati gli studi,
aderendo alla corrente di pensiero della sinistra
storica. Appena ventottenne, venne eletto sindaco dalla cittadinanza di Corbetta ove il Mussi aveva preso residenza stabile con la propria famiglia
(nella stessa villa che poi, attraverso sua nipote
Carlotta Borsani, passerà allo scrittore Carlo Dossi), rimanendo in carica dal 1864 al 1868 e venendo
nuovamente rieletto a tale carica dal 1879 sino al
1886. Dopo essere entrato in stretti rapporti con
Francesco Crispi e Giuseppe Zanardelli, venne
nominato deputato nel partito radicale e nel 1892
venne nominato Vice-Presidente della Camera dei
Deputati del Regno d’Italia, rimanendo in carica sino
al 1894, sotto la presidenza di camera dello stesso
Zanardelli, nella XVIII Legislatura. Il 18 dicembre 1899
venne eletto Sindaco di Milano, rimanendo in carica
sino al 16 dicembre 1903. Il 21 novembre 1901 venne
nominato senatore del Regno d’Italia. Divenne primo Presidente, a Milano, dell’A.N.C.I. (Associazione Nazionale Comuni Italiani).
Ettore de Sonnaz (1787-1867) generale sabaudo
La prima espressione della sua attitudine militare
si ebbe – dopo le Cinque giornate di Milano e la
fuga del maresciallo Josef Radetzky in direzione
del Quadrilatero – già all’inizio della prima guerra
d’indipendenza, allorché si dice avesse suggerito
un audace piano d’azione in occasione del Consiglio di Guerra del 4 aprile 1848, in totale contrasto
con la prudenza che ispirava invece le mosse dello
Stato Maggiore piemontese. La sua idea era cioè
di «avanzare lungo il Po, aggirare la fortezza di
Mantova, penetrare nel Veneto, collegandosi coi
pontifici e facendo di Venezia la propria base di
operazioni». Militare di carriera, fu nominato luogotenente nel 1813 e capitano nel 1814 (nell’esercito napoleonico). Nell’esercito sabaudo fu creato maggiore (1821), luogotenente colonnello
(1828), colonello (1831), maggiore generale (1834)
e luogotenente generale dal 1842 al 1848. Nella
prima guerra d‘indipendenza fu Governatore e comandante generale della Divisione militare di
Novara dal 9 febbraio 1848 al 19 agosto 1848. Fu
Ministro della guerra e della marina dal 16 dicembre 1848 al 2 febbraio 1849 e fece parte sia della
deputazione per recare al sovrano la risposta al
discorso della Corona nel 1849 sia di quella per
ricevere a Genova la salma del re Carlo Alberto,
sempre nel 1849. Nominato Commissario straordinario per la Savoia dal 24 febbraio 1849, fu poi
membro di svariate commissioni (per l’esame della
legge sul reclutamento militare dal 29 dicembre
1853, per l’esame del progetto di legge sul Codice penale militare dal 21 gennaio 1856, per l’esame del progetto di legge per il trasferimento della
marina militare da Genova a La Spezia dal 26 maggio 1857, per l’esame del progetto di legge sulle
servitù militari dal 7 aprile 1858). Fu anche Inviato straordinario presso l’imperatore di Russia il
24 luglio 1862.
12
Sergio Goretti. Prefazione in: Enrico Chambion.
Vicende storiche di un personaggio dell’Ottocento e del suo lascito al Comune di Sesto Fiorentino, Aska, Firenze, 2014.
13
63
Storia delle Logge della Toscana
La Loggia “Nuova Luce dell’Elba”
n. 152 all’Oriente di Portoferraio
Nino Provenzali
Le prime origini dell’esistenza di una Loggia
Massonica elbana, come si legge in un rapporto
della polizia di Portoferraio del 14 luglio 1771,
sembrano riferirsi ad un’associazione priva di
carattere ideologico ed esoterico, anzi ad una
specie di congrega di gaudenti, si menziona infatti “una compagnia di liberi muratori composta
da 15 o 20 persone fra paesani e militari” che
“si fanno un’occupazione di aggregare nella loro
setta i forestieri facoltosi, che qui capitano, ai
quali cavano di sotto denaro, il quale deve essere impiegato in un mangiare ….”.
L’elemento forse più interessante è che tale primordiale loggia aveva per Venerabile un umile
frate francescano, fra Carlo da Rosina, presenza questa che rientra in un quadro più ampio e
storicamente verificato, in quanto nei primi anni
di diffusione dell’ideale massonico furono proprio loro, i frati francescani, che con il peregrinare
da un convento all’altro si fecero messaggeri di
quell’idea di fratellanza, uguaglianza e libertà, intesa soprattutto come liberazione delle cose terrene,
secondo le idee che il loro fondatore, il poverello
d’Assisi aveva così ben esternato.
Mentre si perdono presto le tracce della prima
nostra Loggia, a causa presumibilmente di provvedimenti repressivi dell’allora governo
granducale, nuove notizie si desumono tramite
lo storico Sandro Foresi il quale, pur non citando
la fonte, dichiara che “la Loggia Massonica di
Portoferraio fu fondata nel 1788 dall’elbano
Vincent Lauri”, sebbene sia probabile che questa costituisca la continuazione della prima Loggia e non una fondata ex novo. Ciò che qui preme sottolineare è che le ragioni di un così precoce attecchimento dell’ideale massonico sul ter64
ritorio elbano sono da ricercare nel fatto che, essendo Portoferraio il secondo porto del Granducato
toscano e conseguentemente importante presidio
militare, nonché sede di consolati e presidi stranieri, esso si prestava molto bene al recepimento delle idee che a quel tempo si stavano diffondendo in
Europa, spinte dal vento di cambiamento della Rivoluzione Francese, che rimase in seguito ancora
vivo in Italia quando già in Francia cominciava a
dare segni d’involuzione.
È in quest’ultimo contesto che appare fondamentale la figura di Pierre Joseph Briot (considerato il fondatore della Carboneria Italiana) il
più alto funzionario civile all’Isola d’Elba del 1800,
quando cioè all’Elba tornarono, dopo un primo
sfortunato approccio (nel 1797) i francesi; il Briot,
già paladino della politica estera francese che
voleva la nostra terra unita e repubblicana, rimane all’Isola fino al 1806.
Tornando alla nostra Loggia, non abbiamo ancora una ricca documentazione, ad eccezione
dell’ultimo periodo, fino alla chiusura.
Analizzando i verbali, pur incompleti, si risale al
nome “Les amis de L’honeur francais” e ai suoi
MM.VV., tra i quali, oltre al Briot, troviamo personaggi, considerati dopo il 1830 patrioti e liberali, in prima fila nella lotta per l’unificazione
dell’Italia, e dopo il 1861, alla guida delle varie
società di mutuo soccorso di cui si riempì l’Isola
d’Elba, il cui fine principale sarà l’aiuto reciproco e la solidarietà tra gli operai.
In generale comunque una costante nella realtà
massonica elbana è la presenza di famiglie colte, esponenti della borghesia locale, nelle quali
l’appartenenza alla Istituzione si trasmetteva quasi per discendenza tra i personaggi più noti è da
citare anche il capitano Sigisbert Hugo, padre dello scrittore Victor, in quegli anni di guarnigione a
Portoferraio, segretario della Loggia nel 1804.
Mentre è da presupporre che si lavorò molto dal
punto di vista prettamente ideologico ed esoterico
– i verbali spesso parlano di fratellanza ed uguaglianza e molto poco di vicende politiche – è indubbio che a partire dal 1814, col vacillare del
trono napoleonico (rispetto al quale la nostra
Loggia godé sempre di una certa autonomia)
comincia per i massoni Italiani un brutto periodo: le Logge vengono prese di mira, poiché raccolgono elementi devoti al regime Francese.
Con la restaurazione e la riunificazione dell‘Elba al
Granducato di Toscana (trattato di Vienna del 1815)
non si hanno più notizie almeno fino all’Unità d’Italia e si può, a ragione, presumere che i massoni
siano confluiti nella Carboneria e in genere nella
clandestinità del progetto risorgimentale. Quei massoni rimasero senza dubbio fedeli ai principi di progresso sociale e politico che, nonostante tutto, erano sopravvissuti nel regime Napoleonico che, a
sua volta, li aveva ereditati dalla Rivoluzione Francese. Tanto è vero che tra i più autorevoli esponenti si trovano i Manganaro, i più accaniti oppositori all’Elba del Granduca, e i Pezzella, dalla cui
famiglia uscì uno dei massimi organizzatori della
Giovine Italia in Toscana; addirittura la presenza
all’Elba di Briot e di un primo nucleo carbonaro
fanno apparire Portoferraio come la possibile fonte della Carboneria Italiana.
Il periodo storico seguente risulta di transizione
fra il decadimento dell’attività massonica all’Isola
e la sua ripresa dopo l’Unità d’Italia.
Così, mentre molti sono i nomi dei cittadini presenti nei rapporti di polizia in merito ad attività
patriottiche carbonare appartenenti alle più disparate categorie sociali (professionisti, artigiani, intellettuali, tagliaboschi, laici e preti) ed unite
tutte dallo spirito sovversivo verso il Regime
Granducale, non si riesce a reperire alcuna
notizia in merito ad attività massoniche organizzate nel lungo periodo che precede e comprende le guerre d’Indipendenza.
Intanto in seno alla piccola e media borghesia
sorgono gruppi di elementi “democratici” che
propugnano l’urgenza di riforme sociali, l’allargamento del suffragio e la necessità di combattere l’Austria.
I nuclei attivi vengono costituiti, oltre che a
Portoferraio, a Marciana Marina, dove, “uomini
di mare”, hanno assorbito le nuove idee liberali
nei contatti avuti con i democratici del contenente durante i loro viaggi.
Dopo il 1861, con l’integrazione dell’isola al neonato e unificato Regno d’Italia, la situazione elbana
si presenta molto diversa da quella dagli altri territori del continente. L’Elba è in preda ad un rapido
peggioramento delle condizioni socio-economiche,
si vengono inoltre a perdere, in nome dell’unificazione amministrativa e tributaria, tutti quei benefici
e quelle franchigie che il governo toscano aveva
eccezionalmente concesso agli elbani per alleviare il disagio economico sopravvenuto alla cessazione della dominazione francese.
In questa situazione di estremo degrado socioculturale ed economico, i custodi degli antichi
tesori della tradizione, degli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza, diventano protagonisti attivi della vita pubblica e promotori del recupero
sociale dell’isola.
Nasce nel 1864 la rivista periodica “La Patria
Libera” diretta da Cesare Cestari, il cui scopo
dichiarato è quello di “risvegliare lo spirito
d’associazione e di diffondere morale e civile istruzione”, promuovendo lo sviluppo delle
Società di Mutuo Soccorso, che in quel tempo
vanno costituendosi ovunque.
Il giornale esprime palesemente simpatia verso la
Massoneria ed i liberi pensatori di quel periodo.
Si legge in un articolo del 1865, che “sorgono
numerosissime logge massoniche e associazioni di liberi pensatori ove confluiscono
garibaldini, mazziniani, radicali, ex liberali
delusi dalla troppo cauta politica verso il
papato …”.
La battaglia combattuta da Cestari, ed insieme
con lui da Cesare Hutre per la diffusione dell’istruzione tra le classi meno colte, l’istituzione
di scuole serali e domenicali, la difesa della dif65
fusione del libero pensiero e la spinta all’aggregazione dei cittadini, porta alla costituzione delle
Società di Mutuo Soccorso in vari paesi dell’Elba.
La prima di queste è istituita a Portoferraio il 27
novembre 1864 fra gli artigiani, ad opera di un
comitato promotore che annovera molti adepti
certi della Massoneria Elbana: Hutre, Cestari,
Mibelli, Manganaro.
A Rio nell’Elba di lì a poco il 7 maggio 1865 si
costituisce la locale SMS che prende il nome di
“Fratellanza Artigiana”.
Dopo il 1870 all’Elba è tutto un fiorire di associazioni di MS, vere e proprie strutture profane
a proiezione di ideali massonici, i cui nomi la dicono lunga sull’atmosfera che si respirava all’interno di esse: nel 1877 a Rio nell’Elba è inaugurata una seconda SMS, laica, denominata
“Umanità e Progresso”, la cui nascita solleva
nel paese il risentimento dei clericali. A Capoliveri sorge la Società “Pensiero e Azione” dichiaratamente anticlericale e mazziniana, mentre a Portolongone (attualmente Porto Azzurro)
si costituisce la “Fratellanza Operaia”.
Con il tempo l’operatività delle Società di Mutuo
Soccorso va via via riducendosi fino ad assumere funzione meramente assistenziale e celebrativa, avendo esaurito il compito educativo e di
elevazione sociale che ne aveva stimolato e favorito la crescita.
L’importanza di queste prime e corpose forme
di aggregazione popolare è indiscutibile: con la
loro costituzione e sviluppo sia patrimoniale sia
66
operativo, viene gettato il seme per la nascita
delle organizzazioni iniziatiche di libero pensiero
che daranno poi origine alla Logge Massoniche,
di cui però non si trova traccia certa fino alla
caduta di Roma.
Questo ci fa intuire, tra l’altro, in mezzo a quali
difficoltà dovevano aver operato fino ad allora i
massoni attivi e presenti, ma nascosti, isolati e
sparsi a mo’ di diaspora nei variegati contesti
socio-economici dell’Isola d’Elba.
Ma è altresì confortante che il nostro giudizio
sul ruolo svolto dal fenomeno delle SMS, sia
suffragato da una testimonianza ufficiale: l’adesione di una Loggia Massonica Elbana denominata “Luce del Tirreno”, alla inaugurazione della
lapide dedicata a Giuseppe Garibaldi, che nel
1897 si celebrò a Cavo in occasione di una riunione di tutte le rappresentanze delle società
operaie dell’Elba e di Piombino.
Alla fine del XIX secolo, i tempi per la costituzione all’Isola di Logge Massoniche sono a questo punto maturi; è sicuro che è attiva da qualche tempo a Porto Azzurro una Loggia che sembra aver dato impulso alla costituzione di altre
Officine sull’Isola: la “Luce del Tirreno”.
Di certo ormai la Massoneria Elbana si avvia ad
essere ben organizzata e vitale, tanto che è rappresentata da ben tre Logge; la “Luce dell’Elba”
Or. di Portoferraio fondata nel 1885 e sciolta nel
1910; la “Nuova Luce dell’Elba” Or. di
Portoferraio fondata nel 1920 e la “Vittorio
Veneto” Or. di Porto Azzurro anch’essa fondata nel 1920.
Le Logge ebbero una presenza attiva nella società dell’epoca partecipando con elargizioni sia
ai danneggiati per calamità naturali sia per la
costruzione di strutture come ospedali ed altiforni.
Negli anni a venire e precisamente dal 1920 al
1966 la Massoneria nell’Isola è rappresentata
da due sole Logge: la “Luce dell’Elba” e la
“Vittorio Veneto”, che successivamente si fonderanno dando vita nel 1967 alla “Nuova Luce
dell’Elba” n. 152 all’Or. di Portoferraio, che è
la Loggia che rappresenta attualmente la massoneria del G.O.I. dell’isola.
Massoni Toscani
Francesco Bartolozzi
Firenze 1727- Lisbona 1815
Luciano Rossi
Francesco
Bartolozzi
nacque a Firenze il 25
settembre
1724
da
Gaetano, un
rinomato
orafo fiorentino che gestiva una
bottega sul
Ponte Vecchio, e da
Maddalena Pieri. Bartolozzi acquisì una notevole fama fin da giovane, quando all’età di 8
anni iniziò ad incidere nel rame col bulino le opere
di Stefano Della Bella, un incisore fiorentino del
1600. La sua prima opera, un’effigie di Sant’Antonio, realizzata ad appena dieci anni, mise
in evidenza le sue straordinarie capacità. Ammesso all’Accademia di Belle Arti di Firenze
studiò disegno e pittura sotto la guida del pittore
Ignazio Hugford, poi si perfezionò nell’uso del
bulino e nella pratica dell’acquaforte; in questo
periodo strinse amicizia con Giovan Battista
Cipriani, il pittore fiorentino del quale in seguito
tradusse molte opere in incisioni. Nel 1748 si
trasferì a Venezia nella bottega di Giuseppe
Wagner ed in questa calcografia, tra le più importanti d’Europa e frequentata dai maggiori
acquafortisti veneti, perfezionò la sua tecnica
ed ampliò le sue conoscenze pratiche e teoriche, in particolare sull’uso congiunto dell’acqua-
forte e del bulino. Presso questa scuola
Bartolozzi rimase per sei anni, poi nel 1754 il
suo stesso maestro lo incoraggiò a metter su
bottega per conto proprio; ebbe così inizio una
attività tipografica riuscitissima1. I rapporti con
Giuseppe Wagner rimasero sempre più che affettuosi tanto che quando Bartolozzi si sposò con
Lucia Ferri, figlia del medico veneziano Francesco Domenico, lo stesso Wagner gli fece da
testimone. Negli anni successivi la sua fama si
andò sempre più diffondendo, le sue stampe furono sempre più ricercate e nel 1860 monsignor
Bottari lo chiamò a Roma alla Calcografia
Camerale, un laboratorio poligrafico istituito nel
1738 da papa Clemente XII, per assicurarsi la
sua collaborazione nella edizione delle “Vite” del
Vasari. Fra le incisioni romane eseguite dall’artista si ricordano anche quelle dagli affreschi
del Domenichino a Grottaferrata ed il “Ritratto
di Domenico Lazzaroni”. Tra gli artisti dell’epoca Bartolozzi era sicuramente unico per la sua
conoscenza dell’anatomia e questa sua cultura
anatomica, associata alla passione per l’antico,
gli permise di divenire un maestro nel rappresentare la bellezza di espressione, movimento e
forma. Potremmo dire che Bartolozzi fu l’inventore della tecnica dell’incisione, o
quantomeno un perfezionatore della tecnica già
utilizzata da Zancon, noto per la serie di stampe
delle più celebri pitture di Verona e per quelle
delle opere inedite dei più celebri pittori italiani,
tecnica che Bartolozzi elevò al ruolo di forma
artistica2. Il suo soggiorno romano però fu breve perché nel 1764 conobbe Dalton, il bibliote67
cario di re Giorgio III, e fu invitato a recarsi a
Londra quale incisore reale. La moglie ed il figlio si rifiutarono di seguirlo e Bartolozzi fu accompagnato da uno dei suoi allievi migliori conosciuto come “Zanetto intagliatore”. A Londra
incontrò l’amico di studi giovanili Giovan Battista Cipriani che si era trasferito in Inghilterra
già dal 1755, e qui Bartolozzi continuò ad incidere i disegni del Guercino, oggi conservati nella collezione reale di Windsor, ed iniziò a sperimentare la tecnica del “crayon”, da poco introdotta dalla Francia, della quale divenne padrone
assoluto, e si impose a tutta Londra con un successo rapido ed unanime; ad un anno di distanza dal suo arrivo a Londra fu chiamato a far
parte della Incorporated Society of Artists ed i
maggiori pittori presero a contenderselo per la
riproduzione delle loro opere. La sua produzione di questo periodo fu dedicata principalmente
alle figure umane e le sue incisioni abbondano
di bellezze dolci, tenere ed aggraziate nella forma; ovunque si ritrovano delicate ombreggiature
e forme mai ritrovate fino ad allora nei lavori
d’incisione. Nel 1769, con altri tre artisti associati alla Loggia Massonica “Lodge of Nine
Muses”, fu uno dei fondatori della Royal
Academy ed organizzò una scuola dove operarono più di 50 artisti tra aiutanti ed allievi, che lo
definirono il “dio del disegno”.
Nel 1774 lo raggiunse a Londra il figlio Gaetano
Stefano, il quale, per operazioni finanziare errate, un matrimonio ed attività commerciali fallimentari, fu causa di problemi economici gravi
per Bartolozzi. Tra il 1792 e 1800 incise 87 disegni di Hans Holbein il Giovane, e durante la sua
carriera fu autore di circa duemilacinquecento
incisioni, tra originali e riproduzioni. Nel 1801,
travolto dalla crisi finanziaria legata alla sua incredibile generosità ed ai disordini del figlio
Gaetano, lasciò all’improvviso Londra, sordo alle
insistenze di quanti volevano trattenerlo ed aiutarlo, e si trasferì a Lisbona chiamato da Giovanni VII principe reggente del Portogallo, dove
assunse la carica di direttore della Scuola di Incisione presso l’Accademia di Lisbona.
68
Il 2 marzo 1815, a 87 anni di età, stava lavorando intorno al San Girolamo del Correggio, quando chinò il capo sul rame e morì. Due domestici
avidi e senza scrupoli lo spogliarono di tutto e ne
gettarono il cadavere nella fossa comune di Santa Isabella.
Francesco Bartolozzi fu iniziato alla Libera
Muratoria nel 1777 nella “Loge of the Nine
Muses” n. 235 all’Oriente di Londra; nel 1784
incise il frontespizio del “Book of Costitution” di
James Anderson nel quale si raffigura una allegoria massonica: la Verità, con il suo specchio
che riflette la luce illuminando l’interno della
Freemason,s Hall accompagnata dalle tre Virtù
Teologali: Fede, Speranza e Carità. Sotto di loro
il Genio della Massoneria con la torcia accesa.
Note
G. Longhi, La Calcografia, Milano 1830-31, pp. 203212.
2
F. Hermanin, L’incisione italiana del Settecento,
in Il Settecento italiano, I, Milano-Roma, 1932, p. 17
1
Documenti e testi antichi a cura di
Cristiano Bartolena
Robert Ambelain
Les survivances initiatiques. Le Martinisme
contemporain et ses véritables origines.
Edition Les Cahiers du Destins, Paris, 1948.
Sarebbe abbastanza singolare se un giorno, il
Papa, rivolgendosi ai fedeli che gremiscono Piazza San Pietro facesse pubblica ammissione di
essere ateo o quantomeno scettico nei confronti
della Rivelazione e della Fede.
e Robert Ambelain, ma è certo che all’epoca,
anno 1948, la pubblicazione lasciò esterrefatti e
increduli molti membri dell’Ordine Martinista.
D’altra parte, on line, su internet, esiste una
pletora di siti che trattano del Martinismo, della sua storia e dei suoi scopi, certamente con
una competenza superiore alla nostra, ma è
altrettanto vero che nell’immenso repertorio
bibliografico sull’argomento, manca la citazione del modesto libretto in questione.
Non sappiamo se si tratti di semplice e quindi
innocente trascuratezza, forse la questione risulta scabrosa, infatti in mancanza di una
filiazione diretta, gli Ordini Martinisti attuali e
sono innumerevoli, vedrebbero messa in seria
discussione la loro stessa storica esistenza.
Qualcuno potrebbe obbiettare che il nostro libretto è raro, introvabile, noi abbiamo sottomano l’originale, ma la ristampa del medesimo è
recente, reperibile addirittura in versione digitale, on line, esiste inoltre in commercio una versione in italiano pubblicata da una casa editrice
di “nicchia”
Brevi note su Saint-Martin tratte dal libro di
Jean Marc Vivenza, titolo “Qui Suis-je? SaintMartin”, Edito da Pardes, 2003. Note riportate
in ultima pagina di copertina.
Questa ovviamente è pura fantasia. Non altrettanto fantastico è il messaggio che Robert
Ambelain già Gran Maestro del Martinismo in
Francia, lascia trapelare dal suo libretto, e cioè
che il Martinismo non ha una reale filiazione da
Louis-Claude de Saint-Martin. Ci si perdoni il
troppo laico e forse blasfemo paragone tra il Papa
“Louis Claude de Saint-Martin (1743 Amboise
– 1803 Aunay), è stato certamente un grande
esponente di quella corrente di pensiero definita
come “Illuminismo”, mistico e teosofico profondamente cristiano, che si contrapponeva al materialismo e al razionalismo dell’epoca. Tutta la
sua opera, profonda e penetrante è un costante
e permanente invito alla conoscenza delle cose
divine, alla scoperta delle leggi segrete della vita
e dello spirito, alla contemplazione delle verità
trascendenti che reggono i fenomeni visibili e
invisibili. Se l’uomo è una realtà decaduta nel
mondo della materia e della fisicità, questi può lo
stesso risalire, attraverso la preghiera e la contemplazione dello stato divino, edenico dal quale
proviene; questo processo viene definito Reintegrazione”.
69
Nobili propositi dunque, riservati ovviamente
ad una élite di predestinati, questa operatività
non coinvolgeva certo le classi diseredate e i
contadini francesi sfruttati dal Clero e dalla
Nobiltà latifondista. Il contesto storico nel
quale opera Saint-Martin vede grandi trasformazioni sociali ed economiche, dagli
Enciclopedisti, dal processo di alfabetizzazione,
superiore in Francia rispetto agli altri paesi europei, fino alla Rivoluzione Francese.
La Via di Saint-Martin ci sembra molto astratta rispetto ad un contesto storico che operava
nel sociale, nel quotidiano con le sue esigenze
reali e non virtuali.
Rileviamo per correttezza che Saint Martin
difese la Rivoluzione Francese come giusta
punizione nei confronti di un sistema che giustificava la miseria e l’ingiustizia, e d’altra
parte lui stesso a Rivoluzione affermata, in
quanto aristocratico, dovette poi nascondersi
per evitare processo e ghigliottina.
Comunque Saint-Martin massone e seguace
di Martinez De Pasqually, abbandonò sia la
Massoneria sia il martinezismo, sorta di via
iniziatica pregna di cabalismo e di preghiere,
per seguire una sua traiettoria di pensiero, che
sarà ripresa e modificata nel 1891 da Papus,
al secolo Gerard Encausse.
Se Saint-Martin chiamava se stesso il Filosofo Incognito, è necessario aggiungere che veramente incognita e piena d’ombre è la storia
del Martinismo.
Dal 1803 anno della morte di Saint-Martin al
1891, anno fatidico in cui viene riscoperto il
Martinismo, intercorre quasi un secolo. Aggiungiamo che nel 1891, viene data al
Martinismo una struttura massonica in quattro gradi che prima non esisteva. Ci sembra
quindi che l’intelligenza di Ambelain sia stata
quella di verificare con un lavoro testimoniato, la differenza storica e filosofica che intercorre tra il reale e l’inventato in materia di
filiazione e trasmissione iniziatica.
Le biografie fondamentali su Saint-Martin indicano la presenza di una ristretta cerchia di
amici, dove venivano trattati argomenti di eso70
terismo e mistica, ma senza iniziazioni, rituali
o gradi di perfezionamento. Poche e qualificate testimonianze stanno a dimostrarlo: “La
mia setta è la Provvidenza; i miei proseliti
io stesso; il mio Culto è la Giustizia” vedi
Portrait n. 488, pag. 68 e inoltre vedi
R.Amadou: L.C. de Saint-Martin, pag. 50.
I francesi come tutti ben sanno sono amanti
della buona tavola e il Martinismo, per nascere o rinascere, non poteva trovare sede
migliore che un ottimo ristorante di Parigi.
Così descrive l’evento Robert Ambelain a pag.
150 del suo libro: Le Martinisme. Histoire et
Doctrine, Editions Niclaus, Paris 1946:
“A quest’epoca (1888) il dottor Encausse
(Papus), Augustin Chaboseau, bibliotecario del
museo Guimet, Jean Moreas e Charles
Maurras, quest’ultimo futuro direttore
dell’Action Française, pranzavano insieme
ogni martedì, in un piccolo ristorante della “rive
gauche” della Senna. Si parlava di tutto e di
tutti e fu così, per puro caso, che nel corso
della conversazione, Papus e Chaboseau scoprirono di avere ambedue una filiazione regolare che risaliva a Louis Claude De SaintMartin. Fu allora, dopo questa rivelazione, che
Papus si decise a fondare un Ordine esoterico
con il nome di Ordine Martinista”.
Un’altra conferma di questo singolare evento
proviene dal Dr. Philippe Encausse, figlio e
successore di Gerard Encausse (Papus) nell’Ordine Martinista, con una ulteriore precisazione molto importante e cioè che
Chaboseau e Papus si scambiarono reciprocamente le loro iniziazioni subito dopo la loro
conversazione.
Questa doppia iniziazione avvenne nel 1888.
Vedi: Philippe Encausse, Sciences occultes
– Papus Sa Vie, Son Œuvre, Editions OCIA.
1949, pag. 58.
Ma perché questo reciproco scambio di
iniziazioni? Probabilmente perché in ambedue
casi non sussisteva una certezza assoluta sulla regolarità della linea di trasmissione pervenuta da Saint-Martin.
Non ha quindi torto Robert Ambelain nel suo
libro pamphlet quando denuncia la presenza
di molte testimonianze orali non suffragate da
documenti scritti.
Probabilmente l’opera di Papus è stata quella
di conferire una struttura di tipo massonico,
con rituali, gradi e cerimonie ad una forma
pensiero che in origine era completamente
destrutturata, priva di cerimonie, con una trasmissione orale avente per oggetto la conoscenza filosofica di Dio e dell’Universo. Vedi
op. citata Philippe Encausse, pag.72.
Concludiamo affermando che, al di là dell’autentico e dell’inventato, Papus fu il geniale
creatore di un sistema che perdura tutt’oggi a
livello mondiale. Anche il Martinismo italiano
discende infatti da Papus.
Rileviamo peraltro che oggi il Martinismo è
un vasto e pittoresco arcipelago di ordini che
rivendicano importanti primogeniture, con contenuti dottrinali di vario sapore, una sorta di
Casbah dell’esoterismo dove sussistono cabalisti, kremmerziani, cristiani devoti, mistici,
visionari, vescovi gnostici e cosi via. Tutto
questo è reperibile su Internet, enorme supermercato dell’esoterismo dove niente è a denominazione di origine controllata. In mezzo a
tanta confusione è doveroso ricordare che
esistono anche ordini legittimi e regolari che
hanno avuto esponenti di notevole valore come
Gastone Ventura, Gaspare Cannizzo e Francesco Brunelli.
Note bibliografiche
Sulla vita e le opere di Saint-Martin vedi:
Arthur Edward Waite. The unknown philosopher.
Rudolf Steiner Publications, New York, 1970.
Ad. Franck, La Philosophie Mystique en
France, Germer Bailliere Edit., Paris, 1866.
M.J.Matter, Saint-Martin le Philosophe
Inconnu, Didier edit., Paris, 1862.
E. Caro, Essai sur la vie et la doctrine de
Saint-Martin, Edit. Hachette, Paris, 1852.
Nicole Jacques-Lefèvre, L.Claude de Saint
Martin le Philosophe Inconnu, Edit. Dervy.
2003, Paris.
Jean Marc Vivenza, Qui suis-je? Saint-Martin Edit. Pardès, Puiseau, 2003.
Robert Amadou, Louis Claude de Saint-Martin
et le Martinisme, Edit. du Griffon d’Or, Paris, 1946.
In tutte le opere riportate e consultate non vi
è traccia di organizzazioni strutturate in gradi,
con cerimonie o iniziazioni, al più risulta testimoniata l’esistenza di un circolo ristretto di
amici di Saint-Martin dediti allo studio delle
sue opere, ma il tutto sempre in termini assai
vaghi ed incerti.
Sulla vita e le opere di Gerard Encausse
(Papus) vedi:
Dr. Philippe Encausse figlio, Sciences
Occultes, Papus sa vie, son œuvre, Edit.
OCIA, Paris, 1949.
Marie-Sophie André, Christophe Beaufils.
Papus Biographie, Edit. Berg International,
Paris, 1995.
Sulla storia del Martinismo vedi:
Robert Ambelain. Le Martinisme Histoire et
Doctrine, Edit. Niclaus, Paris, 1946.
Jean-Luis de Biasi. Le Martinisme. Les
Serviteurs Inconnus du Christianisme, Edit.
Sepp, Paris, 1997.
Curiosità:
Papus, nomen mysticum, adottato da Gerard
Encausse è un’entità o genio tratto dal Nuctemeron di Apollonio di Tyana. L’entità in oggetto
presiede all’arte della medicina e della farmacopea in generale.
71
Recensioni e segnalazioni bibliografiche
a cura di Matteo Ranalli
Antonio Panaino, La luce sorge da Oriente. Nuove prospettive etiche della Massoneria, Mimesis, 2013
Il presente volume contiene alcuni brevi scritti
su tematiche inerenti al dibattito contemporaneo
sulla libera muratoria. Queste riflessioni vertono
sul rapporto tra Massoneria e religioni, sulla tradizione liberomuratoria, sul
concetto di relativismo, sull’esoterismo, nonché
su problematiche
storiche. Negli
ultimi anni vi
sono stati dei tentavi di portare all’attenzione dei
massoni e, in generale, della società civile il dibattito sull’etica
massonica. Bisogna dire che nel corso dei secoli la libera muratoria ha dimostrato, di fatto, di
avere indirizzi etici precisi, che vertono sostanzialmente su un miglioramento delle condizioni
dell’uomo; condizioni economiche, sociali, spirituali, etc. Questo volume è utile perché permette ampi spunti di riflessione. Molto interessante
è lo scritto intitolato “Ma siamo davvero relativisti?”. Da sempre si accusa la libera muratoria di
relativismo, utilizzato in chiave antireligiosa. L’A.
con chiarezza e sinteticità riesce a fare un quadro preciso di questa falsa attribuzione. “La Libera Muratoria non ha una sua filosofia [...] i
Massoni [non] si ispirano ad un “sistema” di
pensiero chiuso, omogeneo e ben determinato,
tale da farne una setta. Così come la Massoneria non è una religione, giacché non propone
verità salvifiche, sacramenti o rivelazioni segrete, ma solo strumenti ermeneutici, di perfezionamento dell’individuo [...]”. Infatti tanto nella ri72
tualità quanto nelle discussioni il libero muratore
non viene mai “indottrinato”, ma gli vengono forniti tutti gli elementi per poter fare esercizio della sua coscienza critica e quindi giungere ad una
sua personale idea, in un processo che non ha
termine, poiché non giunge ad un dogma. Si può
dire che la Libera Muratoria ritiene di poter migliorare la società attraverso il miglioramento
individuale degli individui che la compongono. È
per tali motivi che essa ha da sempre rappresentato una via dell’uomo e per l’uomo. Per
quanto riguarda gli articoli di carattere esoterico
si segnala “Riflessioni intorno ai concetti di rito
e ritualità” e “Tempo, mito, storia e fine della
storia nell’escatologia zoroastriana”, in quanto
L’A., esperto di Zoroastrismo, Manicheismo e
Cristianesimo in Iran e Asia Centrale, fornisce
interessanti rimandi e precise indicazioni di carattere esoterico, storico e filologico, tratte da
testi avestici e sanscriti, ancora troppo poco conosciuti in Italia.
“Federico II, il Sufismo e La Massoneria.
Con un’ampia raccolta di saggi di Gabriele
Mandel”, a cura di Nazzareno Venturi,
Tipheret, 2013
Il presente volumetto raccoglie alcuni saggi di
Gabriele Mandel (Bologna, 1924 – Milano, 2010).
Egli fu khalyfa, vicario generale per l’Italia, della confraternita
sufi Jerrahi Halveti con sede secolare ad Istanbul. In Italia ha
fondato nella
tekke di Milano e
di Genova. Lungo tutta la sua
vita si impegnò
alla pubblicazione di scritti sul
sufismo e sull’Islam; a lui si
deve una recen-
te traduzione commentata del Corano e del
Mathnawì, poema mistico, di Rûmî. “ Le vie sono
diverse, la meta è unica. Non sai che molte vie
conducono a una sola meta? La meta non appartiene né alla miscredenza né alla fede; lì
non sussiste contraddizione alcuna. Quando la
gente vi giunge, le dispute e le controversie che
sorsero durante il cammino si appianano; e chi
si diceva l’un l’altro durante la strada “tu sei un
empio” dimentica allora il litigio, poiché la meta
è unica.” Negli scritti del Mandel la figura di
Rûmî (1207-1273), uno dei più grandi mistici dell’umanità, ricorre molto spesso ed assume una
importanza centrale per la comprensione dell’etica sufica. Da sempre il sufismo ha affascinato
l’interesse dei cultori dell’esoterismo e della metafisica. Molto interessante è il Capitolo II “Massoneria e Sufismo. Sufi e Massoni: la Luce esoterica”. A conclusione dello stesso, il Mandel
scrive: “Il materialismo storico ha mostrato le
sue grandi incongruenze; la civiltà dei consumi
ha prodotto mostri di violenza e ci ha portato a
uno stato a uno stato fallimentare di degrado etico ed ecologico. Alle soglie del XXI sec. una
delle cose necessarie alla salvezza di tutta l’umanità è la comprensione e l’accettazione dei valori etici basati sulla tolleranza, la fratellanza universale, la comprensione e l’accettazione dei
valori delle varie e più disparate civiltà, patrimonio comune di tutti. Ecco perché tra Sufismo e
Massoneria vi sono stati nei tempi passati e ancor oggi vi sono numerosi punti di contatto”. A
fare da sfondo al libro una gradevolissima introduzione su “Federico II e il sufismo”, a cura
di Nazzareno Venturi. Per il Venturi, Federico II è riuscito lì dove molti hanno fallito e
continuano a farlo, ovvero nel superamento
dei pregiudizi e dei condizionamenti da parte
di chi cerca la verità, in modo sereno. La Sicilia e Federico II, il più musulmano dei re
cattolici, il più cattolico dei re musulmani, nella Storia hanno rappresentato un anello di congiunzione tra l’Islam e il Cristianesimo. Punto
di partenza di culture diverse dalle quali la città (e la civiltà) può evolvere.
Mariano L. Bianca, Le colonne del tempio.
Principi e Dottrina della Massoneria,
Atanòr, 2014
La presente Opera rappresenta a tutti gli effetti
un originale, preciso e moderno tentativo di sistematizzazione organica dell’Esoterismo e della
Massoneria, che, nel corso della sua storia ed in
particolar modo in
epoca moderna, ha
assimilato concezioni e idee esoteriche
proprie di concezioni quali quella gnostica, ermetica, cabalistica, rosacrociana e magica, oltre ad essere influenzata dal pensiero filosofico in particolare metafisico, in specie neoplatonico, e
da quello socio-politico, come il liberismo. Parimenti essa ha formulato nel corso dei tempi originali concezioni e principi, divenuti un vero e
proprio sistema esoterico concettuale ed etico
espresso in una grande varietà di simboli, rituali e
riti. Una riflessione profonda ed intellettualmente
valida su esoterismo e Massoneria, scaturita anche dai molti anni di ricerca e di studio dell’A.
L’A. sottolinea la sua precisa intenzione di
evidenziare ed esaminare alcuni aspetti centrali
e fondativi della Massoneria, attribuendogli una
forma sistematica e dando risalto al modo in cui
sono correlati tra loro e fondati sulle concezioni
esoteriche speculative.
Per l’A. il pensiero massonico è caratterizzato
in modo fondamentale da una concezione
esoterico-iniziatica relativa al sacro, al divino, al
fondamento, all’essenza e al senso del mondo,
al simbolismo e alle diverse vie iniziatiche di perfezionamento e da un’ etica massonica con i suoi
valori, la concezione dell’uomo e della società.
L’A. mette in luce come il pensiero massonico
risulti inscindibile dalla sua dimensione esoterica
e dalle sue concezioni metafisiche, e quindi le
73
concezioni antropologiche, etiche, sociali e politiche derivano dalla dimensione esoterica,
attingendo in essa il loro fondamento. Esso, pur
essendo soggetto ad un dinamismo, risulta mantenere un’inalterata struttura concettuale e rituale che può essere interpretata diversamente
secondo le differenti condizioni socio-culturali.
Il primo capitolo, intitolato “LA DIMENSIONE
ESOTERICA”, è dedicato all’esame della dimensione esoterica e delle sue concezioni sul
sacro, il divino, il cosmo e l’uomo; inoltre sono
presenti una dettagliatissima disamina del
V.I.T.R.I.O.L., del potere delle chiavi e della
tabula smaragdina. Nel secondo capitolo
“L’INIZIAZIONE E L’INIZIATO” si analizza
la nozione centrale della dimensione esoterica:
l’iniziazione e la condizione dell’iniziato. Il terzo
capitolo “ORIGINE, RADICI E DOTTRINA
DELLA MASSONERIA” tratta della natura
della Massoneria, la sua origine in età moderna
e i suoi stretti legami con la dimensione esoterica
e con alcune istituzioni o concezioni esoteriche
del passato quali gli antichi misteri e l’ermetismo;
nel seguito, sarà presentata in modo sistematico
la Dottrina massonica nelle sue diverse
articolazioni.
Nel quarto capitolo “SIMBOLISMO, TEMPIO,
RITUALITÀ” si approfondiscono alcuni significati dei simboli del Tempio Massonico e dei riti
che si svolgono al suo interno, tra cui il valore
simbolico delle due colonne, del Cavaliere
Kadosh e dell’abbattimento delle colonne del
Tempio e sulla rilevanza di Prometeo ed Ermete
nei lavori muratori. L’ultimo capitolo “MASSONERIA, ETICA E SOCIETÀ”, verte sui principi dell’etica massonica e della dottrina sociale
della Massoneria.
Fin dall’inizio l’A. identifica il sacro con il sovrannaturale, quella dimensione del sovraumano
che può essere trascendente o immanente rispetto all’uomo e al mondo (il naturale). Sacro
è ciò che è considerato come portatore di un
valore supremo rispetto a ogni altro valore. Il
sacro è l’insieme dei valori supremi di cui
ognuno di essi è supremo rispetto a una classe
74
di valori accettati in una data cultura.
Quindi il sacro/divino è, da un lato, la dimensione del sovrannaturale, del sovraumano,
del divino, trascendente o immanente rispetto all’uomo e alla natura e, dall’altro, l’insieme dei valori supremi propri di una cultura o considerati come universali.
Una distinzione fondamentale consiste nel dividere il sacro-divino ed il sacro-valoriale o
mondano i cui valori supremi, riferiti all’uomo
e al mondo, prescindono dalla dimensione divina, anche se non la escludono.
Il divino, proprio delle diverse religioni, è una
particolare forma di sacro in cui è presente
un’esplicita dottrina teologica, una forma
socializzata (templi, sacerdoti, ecc.), una liturgia, una forma di credenza e soprattutto la concezione di uno o più esseri trascendenti (anche
nella forma dell’immanenza panteistica).
L’A. definisce la dimensione esoterica come
una prospettiva metafisica sul reale formata
da nozioni e concetti utili per osservare e interpretare il mondo (il cosmo) e derivare pratiche o
arti (riti e rituali). A tal riguardo egli giunge ad
una utile ed importante distinzione tra esoterista
ed esoterico; il primo è colui che studia le dottrine esoteriche, sia nel loro aspetto speculativo
sia in quello pratico, e analizza i loro contenuti,
ma non le considera come strumenti operativi
né partecipa alle ritualità, anche se può usarle
come strumento per regolare la sua prassi nel
mondo. L’esoterico, invece, è colui che fa propri i contenuti speculativi di una dottrina esoterica,
li usa come guida delle sue pratiche esoteriche
(riti e rituali), perseguendo un cammino esistenziale fondato sui principi fondamentali
dell’esoterismo (il reticolo esoterico).
Nelle dottrine esoteriche il divino (sacro-divino
o sacro-teologico), diversamente indicato per
esempio come Noûs, Intelligenza Suprema, Dio,
Uno, Luce, Grande Architetto, Potenza o Energia Suprema, non possiede una forma pienamente definita, ma per molti versi è ‘ineffabile’ o
‘indefinibile’,anche se a esso si possono attribuire diversi caratteri.
“Il divino esoterico è ciò cui ogni ente tende,
nel senso anche di un ricongiungimento simbolico, con ciò che è fondamento ed origine di ogni
cosa; esso è un polo di attrazione verso cui tende l’intera realtà perciò può essere indicato anche come luce che rischiara o luce che attira
[...] L’ineffabilità del divino in senso simbolico
non risiede in una sua mancata possibilità di esprimersi alla coscienza umana, ma è intrinseca alla
sua essenza e alle possibilità che l’uomo possiede di poterlo concepire in tutti i suoi aspetti [...]
Da qui, l’identificazione ermetica e gnostica del
divino con il tutto e con l’Uno di cui il molteplice
non si separa, ma è una sua manifestazione (o
emanazione nel senso indicato dal filosofo
Plotino)”.
La Dottrina della Massoneria, diversamente
da quelle religiose, non ha un fondamento
trascendente, ma è il risultato dell’attività
della mente dell’uomo e dello sviluppo delle
differenti culture.
Sono le diverse dottrine esoteriche a condividere la ricerca dell’origine/fondamento, dell’essenza e del senso dell’essere (o reale); pur ognuna
di esse prediligendo particolari aspetti. Ciò porta
alle varie forme di esoterismo. Nella Massoneria le concezioni speculative e le pratiche giungono a coinvolgere il mondo sociale e culturale;
i relativi perfezionamenti conoscitivi, psichici ed
etici sono parimenti rivolti al singolo Sé e all’intera umanità: il bene individuale non è solo fine a
se stesso, altresì diviene uno strumento utile per
contribuire al bene comune. Ciò viene esplicitato
chiaramente in alcuni rituali: “lavorare per il bene
e il progresso dell’umanità”; da qui, l’impegno
etico, sociale, culturale e solidaristico che è sempre stato rilevante nelle attività della Massoneria rivolte alla società. Proprio il Cap. 5 “MASSONERIA, ETICA E SOCIETÀ” è dedicato
all’etica e alla dottrina sociale della Massoneria.
L’A. si sofferma in modo approfondito sulle virtù etiche, sui principi etici della Massoneria, sulla dottrina sociale della Massoneria e sul futuro
dell’uomo e della Massoneria.
La prospettiva dell’attività massonica è rivolta
al raggiungimento del bene dell’affiliato, ovvero
del suo perfezionamento psichico/etico, dell’ampliamento della sua gnosi, fino a giungere al bene
dell’intera comunità iniziatica e dell’intera famiglia umana.
La Massoneria possiede dunque una sua precisa dottrina sociale comprendendo essa concetti
come quelli di homo faber, tolleranza, libertà,
democrazia, bene comune, fratellanza universale, diritti umani, solidarietà.
Il bene individuale, il proprio perfezionamento,
serve a se stessi e al bene comune e operare
per il bene comune incrementa il bene individuale. Il Corpus massonico (Antichi Doveri,
Landmarks, Costituzioni e tutti gli altri documenti
fondazionali della Massoneria) indicano che non
si può appartenere alla Massoneria se non si è
liberi e di buoni costumi, ovvero se non si seguono i principi etici in ogni momento della vita. “La
vita del massone si svolge sempre su un piano
etico per cui il suo comportamento e il suo pensiero si pongono entro l’ambito dell’etica. La via
etica è un percorso che segna la vita di ogni
massone con riferimento a se stesso (il rispetto
etico della sua persona), ai suoi fratelli, al suo
prossimo (il rispetto etico di ogni uomo) e al suo
comportamento nel mondo”. L’A. contraddistingue l’etica massonica in dieci principi fondamentali: 1) fratellanza tra gli uomini e raggiungimento del bene individuale e comune; 2) libertà individuale e sociale; 3) rispetto del mondo naturale
e della vita, della vita umana e della dignità di
ogni uomo; 4) promozione dell’individuo e delle
sue potenzialità; 5) miglioramento delle condizioni materiali, esistenziali, psichiche (o spirituali) e culturali di ogni uomo; 6) eguaglianza e diversità tra gli uomini; 7) accettazione dell’altro e
dialogo tra gli uomini; 8) tolleranza e rispetto delle
diverse concezioni e opinioni; 9) altruismo, compassione e solidarietà; 10) pace tra gli uomini e
tra le società.
Secondo l’A. l’interesse sociale della Massoneria Speculativa è derivato dalle condizioni storiche in cui si sono formati gli affiliati alla Massoneria Operativa (e successivamente a quella
75
Speculativa); si pensi al Rinascimento in Italia
ed al liberismo anglosassone. Si diffusero in
Europa diverse concezioni sociali e politiche che
divennero il fondamento della società moderna
e post moderna e che erano sostenute, anche da
diversi indirizzi esoterici, anteriori alla nascita
della Massoneria Speculativa. Ad esempio è innegabile che l’ermetismo ed il pensiero Rosa
Croce abbiano influenzato gli ambienti culturali
dai quali scaturì la Massoneria moderna.
Tuttavia l’A. fa notare che la dottrina sociale
della Massoneria non ha un carattere sistematico, per due ragioni: “la prima risiede nel fatto
che non vi è stato alcun autore massone (tralasciando in parte Fichte) che si sia dedicato a
rendere sistematico il complesso di idee della
Massoneria riferite alla società; la seconda è per
così dire costitutiva: essendo la Massoneria
un’istituzione che si pone primariamente scopi
esoterico-iniziatici, la sua attenzione sistematica
si è rivolta a questi elaborando la dottrina
esoterica, i riti e i rituali.
Se si rivolge l’attenzione alla Massoneria allo
scopo di evidenziare una dottrina sociale, ci si
trova di fronte a un ampio numero di concetti,
nozioni, valori e ideali che si rapportano al sociale ma non costituiscono di per sé una dottrina
nel senso stretto e sistematico del termine; il termine dottrina è inteso, come già indicato, unicamente come insieme di valori, principi e concezioni fondative che sono accettate dai massoni,
ma non sono considerate tutte come definitive
bensì passibili di cambiamento”.
Morris L. Ghezzi, Il processo al conte di
Cagliostro. La vita di Giuseppe Balsamo
raccontata da Giovanni Barberi (1790),
Mimesis, 2013
Morris L. Ghezzi riporta alle stampe il resoconto del processo inquisitoriale al Conte di Cagliostro, redatto nel 1790 dal Monsignor Giovanni
Barberi (1748-1821), fiscale Generale del Santo
Uffizio, che nel processo ricoprì il ruolo di Segretario della Congregazione giudicante. Que76
sto documento è ad oggi l’unico disponibile per
valutare gli avvenimenti giudiziari romani dell’epoca, soffermandosi però in modo più ampio
solo sulla vita e le gesta dell’imputato, nonché
sui caratteri salienti propri della Libera Muratoria e dell’operatività delle sue Logge, che sui
veri e propri riscontri processuali (erano scarsi
oppure sono stati volutamente celati?). Il resoconto è preceduto da uno scritto
del curatore, intitolato “Esoterismo, Rivoluzione
e repressione politico-religiosa: il
caso Cagliostro”.
Già in passato
Gastone Ventura
intitolò un suo
scritto “Cagliostro, un uomo del
suo tempo”. È
evidente che
un’analisi su Cagliostro (alcuni reputano perfino
che Giuseppe Balsamo e Cagliostro fossero due
persone differenti) è utile per constatare ed arrivare a dare un giudizio di natura storica sui
tempi bui dell’Inquisizione. Per l’A. quello di
Cagliostro fu un esempio di processo condotto
direttamente dall’Inquisizione pontificia, come
espressione della natura puramente politica dell’attività giudiziaria rivolta contro soggetti imputati per reati d’associazione e di idee. Infatti l’A.
esprime fin dalle prime battute un concetto molto preciso: “il processo giudiziario altro non è
che uno strumento di controllo sociale [...] è lo
strumento principe di questo dominio occulto e
mistificato attraverso i concetti di legittimità e di
legalità. Infatti, il processo manifesta all’apparenza di una attività giudiziaria puramente applicativa del diritto, dando vita, invece, attraverso
l’opera interpretativa dei giudici, ad una vera e
propria produzione normativa sottratta al controllo dei meccanismi di rappresentanza politica,
salvo il caso di giudici popolari o elettivi [...]. I
provvedimenti giudiziari ed, in particolare, le sentenze non sono espressione né della legge in
astratto, né di una presunta volontà generale
condivisa in concreto, ma solamente della volontà particolare del giudice che li ha prodotti ed
emessi. È facile in questa prospettiva osservare
la mera natura politica e di dominio sociale dell’attività giudiziaria”. Secondo il Ghezzi il tornare a Roma, avendo per altro previsto l’imminente Rivoluzione Francese, fu da parte di Cagliostro, ricercatore spirituale profondo e libero,
un tentativo (per certi versi simile a quello di
Giordano Bruno) di trovare un dialogo con il
Pontefice. In definitiva quale fu il senso da parte della Chiesa Cattolica Romana di condannare a morte un libero muratore (e pensatore) come
Cagliostro. Dov’era la loro pericolosità, se non
nelle ricerca individuale della verità che egli compiva? Il libero pensiero non nega il mistero,
cerca solo d’illuminarlo alla luce prevalentemente della ragione non della fede.
J.M. Ragon, Iniziazioni Antiche e Moderne. Introduzione, traduzione e note di
Matteo Ranalli, Atanòr, 2014
Nel 1813 e nel 1838, presso la Loggia dei Trinosofi
all’Oriente di Parigi, J. M. Ragon tenne un «Corso
filosofico e interpretativo sulle iniziazioni antiche e
moderne». L’O. è la trascrizione delle lezioni, edita
a Parigi nel 1841.
Penetrare a fondo nei misteri antichi è un’idea
molto ardua. Per
rendersi conto dell’impossibilità d’una
completa comprensione delle allegorie
tradizionali, basti
pensare ovviamente alle difficoltà della trasmissione orale; come scrisse
Fichte
nella
Philosophie der
Maurerei «La no-
stra ipotesi che una catena ininterrotta di cultura
segreta accanto alla pubblica sia discesa giù dall’antichità fino ai nostri tempi, deve aver avuto fondamento, in quanto si dovette cercare la dottrina
segreta, non già nei libri, ma in una tradizione orale
che ancora perdura». Qualsiasi studio sul simbolismo ricade in quello del gran libro della Natura,
che nei suoi processi fenomenologici, ci offre un’infinità di simboli. Tutta l’antichità ha usato il simbolo
per trasmettere le verità più alte e, procedendo per
analogia, lo studio delle civiltà antiche deve necessariamente contemplare lo studio del simbolismo.
L’antichità ci rivela popoli diversi, uniti sotto simboli, riti e cerimonie pressoché identici.
Ne Il mito dell’eterno ritorno l’Eliade scrive che
«le concezioni metafisiche del mondo arcaico non
sono state sempre formulate in un linguaggio teorico, ma il simbolo, il mito, il rito esprimono, su piani
diversi e con i mezzi che sono loro propri, un complesso sistema di affermazioni coerenti sulla realtà
ultima delle cose. È essenziale perciò comprendere il senso profondo di tutti questi simboli, miti e riti
per riuscire a tradurli nel nostro linguaggio usuale
[…] È inutile cercare nelle lingue arcaiche i termini così laboriosamente creati dalle grandi tradizioni
filosofiche [...] Ma se mancano i termini, vi è la
cosa: soltanto, essa è « detta » — cioè rivelata in
maniera coerente — da simboli e miti». Da notare
che perfino la scienza moderna essenzialmente traduce un fenomeno naturale in una legge fisica.
Associa ad una classe di particolari eventi una legge matematica, ovvero simbolica (formula deriva
da forma); elaborando vari modelli che, nella loro
graduale complessità, cercano di avvicinarsi alla
realtà fenomenica.
Lo studio del Ragon tenta, non solo di rintracciare la fonte originaria dei misteri dell’antichità
e di quel fuoco sacro, l’iniziazione, giunta fino ai
nostri giorni, ma anche di individuare nella Massoneria una vera e propria soluzione di continuità
iniziatica tra mondo antico e mondo moderno, almeno per quanto concerne la Tradizione Occidentale. D’altro canto se è vero che i misteri sono
stati sopraffatti dalle religioni monoteiste, allo
stesso tempo l’iniziazione è sopravvissuta, di
77
certo non senza difficoltà, fino ai nostri giorni.
Nelle sue trattazioni il Ragon mostra perfettamente l’origine solare delle simbologie massoniche. Il
tempio massonico si fonda nello stesso giorno in
cui il Sole entra nel primo segno zodiacale di Primavera. La sua volta è azzurra, come il cielo
stellato. Nel tempio si entra da Occidente, la luce
si trova ad Oriente, punto in cui sorge quella luce,
verso cui l’uomo volge sempre lo sguardo. I Maestri si trovano a Sud; l’Apprendista si trova a Nord,
la parte più scura. Sapienza e forza sostengono la
Natura e la Loggia, proprio come l’ordine e l’armonia ne sono ornamento e bellezza. Il gabinetto
di riflessione ha lo stesso orientamento del tempio massonico. L’Ariete si trova a Oriente, sotto
cui si trova il gallo (cresta, bargigli, pettorina e zampe rossi, piumaggio bianco e nero), posato su una
banderuola con la scritta «Vigilanza e Perseveranza» (in bianco); ancor più giù è posto il simbolo
del Fuoco (triangolo equilatero con vertice rivolto
verso l’alto, in rosso). Ai lati del gallo vi è la scritta
«se tu perseveri sarai purificato dagli elementi,
verrai fuori dall’abisso delle tenebre, vedrai la luce».
Il Gallo rappresenta il dio Mercurio, consacrato ad
Apollo, dio del Sole. Nella tradizione alchemica
nero, rosso e bianco, ovvero nigredo, rubedo,
albedo, rappresentano la trasmutazione del piombo in oro; allo stesso modo il Gallo con l’Ariete sul
capo annuncia l’avvento della luce iniziatica.
L’A. scrive che, nell’intera simbologia antica, si
può intravedere, sotto forme diverse, la stessa idea
riproposta. In tutto il mondo un dio, un essere superiore o un uomo straordinario ha compiuto l’esperienza della morte, per iniziare subito dopo una vita
gloriosa. Dovunque il ricordo di un grande e funesto avvenimento, di un crimine o di un misfatto,
getta i popoli nel dolore e nell’afflizione, cui subito
segue il giubilo più vivo.
Lo stesso Reghini, pur criticando un’interpretazione esclusivamente naturalistica delle allegorie
massoniche, scrive ne Le Parole Sacre e di Passo: « Tradizione massonica, similitudine delle cerimonie, analisi filologica, cabalistica e filosofica delle
parole sacre, tutto concorda dunque ad indicare
come il vero senso delle cerimonie iniziatiche
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massoniche, quella del terzo grado in ispecie, stia
nella conquista dell’immortalità attraverso la morte e la resurrezione. Nelle cerimonie iniziatiche
antiche vi è sempre un Dio che muore od è ucciso,
per poi risorgere a vita immortale; così accade di
Osiride, Dioniso, Attis, Mitra …». Hiram è il Sole.
Metaforicamente per l’iniziato la conoscenza dell’anno equivale a quella del bene e del male; egli
può apprezzare e conoscere tutto ciò che la natura
predispone ed attua nel corso della rivoluzione annuale; egli conosce Dio.
Nella Bhagavadgîtâ ritroviamo: «Adesso, o
Bharata, ti parlerò del sentiero attraversando il
quale, al momento della morte, gli yogi ottengono
la libertà; e anche del sentiero in cui vi è rinascita.
Il fuoco, la luce, il giorno, la quindicina ascendente
del mese lunare, i sei mesi in cui il corso del Sole è
al Nord – seguendo questo sentiero al momento
della morte, i conoscitori di Dio (Brahman) vanno
a Dio. Il fumo, la notte, la quindicina discendente
del mese lunare, i sei mesi in cui il corso del Sole è
al Sud – chi segue questo sentiero ottiene solo la
luce lunare e poi torna sulla terra. Queste due vie
per uscire dal mondo sono considerate eterne. La
via della luce porta alla liberazione, la via delle tenebre alla rinascita» Bhagavadgîtâ, VIII, 23-26.
Nel Tantrasâra di Abhinavagupta i dodici mesi, le
dodici vocali principali, le dodici costellazioni
zodiacali possono essere meditate come espressione dei dodici momenti della coscienza.
Nella celebrazione degli antichi misteri lo Ierofante
pronunciava nel finale le tre parole: Konx, om,
pax. Il solstizio d’inverno viene consacrato al destino (konx); il solstizio d’estate alla provvidenza
(om), mentre l’equinozio di primavera alla volontà
dell’uomo (pax). Gli antichi hanno assegnato al
punto equinoziale, che il Sole tocca due volte nel
corso dell’anno, e che pare a volte avvicinarsi al
nostro orizzonte e talvolta allontanarsi, tale
simbologia. Due furono le feste solenni consacrate alla volontà dell’uomo: un equinozio per la sua
esaltazione, l’altro, quello d’autunno per riflettere
dentro di sé. L’equinozio di primavera simboleggia
l’ascensione della Volontà ed il suo movimento
verso la Provvidenza, e la festa porta il nome del
suo principale attributo, ovvero la libertà, e di conseguenza reca il nome della Pasqua, pax. L’equinozio d’autunno rappresenta la degenerazione della
volontà ed il suo movimento verso il destino; comincia con la gioia per le contingenze favorevoli
della provvidenza, ma finisce con il dolore che
genera questo movimento di regressione.
Per i Fenici Tham è il simbolo della perfezione
perduta e poi ritrovata ed Adone è il bellissimo
re dilaniato da una belva feroce e poi resuscitato
dai morti.
Per i Greci ed i Romani vi era Bacco, Sole d’autunno, che dopo aver contornato il mondo della
sua presenza, cade nella trappola tesa dai Titani, e
viene fatto a pezzi da loro. Gli Etruschi celebravano Janus (derivante dal sanscrito yana, via, e dal
latino ianua, porta), colui che ha due volti, proprio
come la volontà dell’uomo, spodestato da Saturno,
che domina il tropico del Capricorno. Dall’equinozio di autunno all’equinozio di primavera, ovvero
dalle costellazioni del Sagittario a quelle dell’Ariete, il regno della materia esce dalle tenebre, il calore dal freddo, la terra che era desolata per l’assenza del suo bene (il Sole, il Cristo, la coscienza, la
scienza). L’Alma Mater diviene la Mater Dolorosa. Nel Capricorno il moto ascendente del Sole
sulla sua eclittica fa celebrare la festa del Natale
della Luce: il Cristo, il Sole, ovvero la luce che
ritorna. Nella solennità della Pasqua o Resurrezione del Cristo il simbolo dell’Ariete campeggia nell’agnello, simbolo del Salvatore, perché il Sole risorga e con la sua luce trionfante salvi la terra:
Ahrimane è vinto. Dal Sagittario, ovvero dall’assenza del Sole sulla terra, l’iniziato comincia il suo
ciclo di preparazione. Egli si prepara durante il profondo inverno, scopre la sua luce e la fortifica. La
sparizione della luce nel mondo delle tenebre,
condizione cosmica per la sua resurrezione, è
il simbolo di ciò che con gloria perenne rinasce, oltre quel morire, oltre quel combattere e
quel consumarsi, che è l’esistenza dell’uomo
terrestre. Il solstizio d’estate, segno del Cancro,
corrisponde alla «porta degli uomini», quello d’inverno, segno del Capricorno, è la porta degli dèi.
Nella Praœna-upanicad ai due solstizi si associa
la teoria del doppio destino post mortem. Per chi
ha soltanto agito bene è prevista una migliore rinascita, senza però uscire dal ciclo samsarico. Invece coloro i quali percorrono la via verso Nord e,
attraverso lo yoga, trascendono la vita ordinaria,
non rinascono più; con la morte pongono fine al
ciclo delle rinascite. Questa lettura rappresenta
realmente il cammino iniziatico dell’uomo, posto
inizialmente nella caverna, che si fa Dio, dopo aver
scoperto la sua Luce interiore, uscendo attraverso
la porta degli Dei. Solo chi avrà in sé la forza
proveniente dalla luce interiore potrà non essere
accecato dalla forza della luce solare all’uscita della
caverna, prigione dell’anima e dello spirito. La nascita del Cristo avviene a mezzanotte del solstizio
d’inverno, duplice corrispondenza della porta degli
dèi. Il Sole è analogico nel suo corso alla vita del
Cristo ed alla elevazione delle anime. Il ciclo annuale si divide in due metà: il cammino d’ascensione del Sole verso Nord, ovvero dal solstizio d’inverno al solstizio d’estate ed il cammino discendente del Sole verso Sud, che va dal solstizio d’estate al solstizio d’inverno. Altresì esiste una chiara
corrispondenza dei punti cardinali con le stagioni:
solstizio d’inverno coincide con il Nord, l’equinozio
di primavera con l’Est, il solstizio d’estate con il
Sud e l’equinozio d’autunno con l’Ovest. La Tabula Smaragdina recita che «ciò che è in alto è
come quello che è in basso». Il Cammino del
Sole appartiene all’ordine celeste, mentre la successione delle stagioni ad un ordine terrestre e quindi,
per analogia, i due cammini dovranno essere in un
rapporto di tipo inverso: a Nord, che è il punto più
alto, corrisponde il solstizio d’inverno, incipit della
fase ascendente e punto più basso nella successione delle stagioni. Estendendo la legge della corrispondenza al simbolismo spaziale e quindi ai punti cardinali vediamo come al solstizio d’inverno
corrisponde il Nord dell’anno, al solstizio d’estate il
Sud, all’equinozio di primavera l’Est, all’equinozio
d’autunno l’Ovest. La suddivisione quaternaria è
propria di ogni ciclicità; allo stesso modo potrà quindi
applicarsi alla ciclicità giornaliera: Mezzanotte (inverno, Nord); Mezzogiorno (estate, Sud); Mattino
(primavera, Est, nascita del Sole); Sera (autunno,
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Ovest e tramonto del Sole). È per questo che sovente si trova negli scritti tradizionali l’inciso «gli
iniziati contemplano il Sole di mezzanotte». Nella
sapienza tradizionale d’estremo Oriente l’alternanza
armonica Luce-Oscurità è alla base dei due principi complementari dello Yang e dello Yin. Tuttavia i Misteri avevano altresì delle finalità sociali.
Essi servivano al superamento dell’ignoranza dei
popoli, al miglioramento dei loro costumi ed a fondare un governo basato su principi validi. Per il
Ragon i misteri furono originariamente istituiti da
parte dei legislatori ed, in Europa, è alla Massoneria che si deve la nascita della civiltà ed è il suo
progresso ad aver delineato la differenza tra la
Massoneria attuale e le iniziazioni antiche. I saggi
che tramandarono i misteri d’Egitto in Asia, in Grecia ed in Bretagna, erano tutti re oppure legislatori.
Lo stesso Fichte scrive: «Ciò che vuole l’uomo
saggio e virtuoso, ciò che è il suo scopo, è lo scopo
finale dell’umanità. L’unico scopo dell’esistenza
umana sulla terra non è né cielo né inferno, ma
solo l’umanità, che quaggiù portiamo in noi, e la
sua massima possibile perfezione. Diversamente
da questo nulla conosciamo: e ciò che noi chiamiamo divino, diabolico, bestiale, null’altro è che umano» J. G. Fichte, Lo scopo dei saggi è lo scopo
finale dell’umanità, in Philosophie der Maurerei. Pur considerando valida l’identità tra iniziazione massonica ed antica, il Ragon ammette le difficoltà interne all’Ordine, provocate da modificazioni, frutto di particolari contingenze ed anche di circostanze politiche. D’altronde – si chiede l’autore
– quale istituzione umana è immune a quelle vicissitudini, cui tutto in natura è soggetto? La Massoneria ha dovuto subire la sorte comune ad ogni
opera umana. Anche il Guénon ha sostenuto che
la causa della crisi del mondo moderno risiedesse
quasi esclusivamente in un perduto contatto con la
realtà metafisica; nell’essersi perduto quel corpus di principi di valori e di insegnamenti.
Nel mondo antico l’iniziazione coincideva con il
conseguente ingresso da parte dell’uomo nella società. La rinascita iniziatica era prima di tutto una
rigenerazione di se stessi; un regressus ad uterum,
che però non comportava una damnatio memoriae
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della prima nascita. Del pari la Massoneria è una
istituzione esoterica, che può certamente anche
impegnarsi nel mondo. Tuttavia la Libera Muratoria
non può permettersi di smarrire la propria dimensione esoterica; infatti, come giustamente ebbe a
dire E. Gloton, «senza simboli, la Libera Muratoria
sarebbe un’associazione come le altre e non avrebbe potuto sopravvivere alle rivoluzione dei secoli
passati. Senza simboli, essa diventerebbe un’associazione del libero pensiero, del mutuo soccorso,
un club politico. I nostri Riti, la nostra Tradizione, i
nostri Simboli rimandano a quei profondi insegnamenti, che hanno formato generazioni di pensatori,
di filosofi, di saggi che hanno contribuito ad indirizzare l’umanità verso il progresso». La questione è
assolutamente umana. La Massoneria d’altronde, prim’ancora di templi, rituali, cerimonie, è fatta
di uomini, anzi di iniziati. Non possiamo rinnegare
che, in Europa, è soprattutto alla Massoneria che
si deve la nascita della civiltà, ma è il suo progresso, nel corso del tempo, ad aver delineato la differenza tra la Massoneria attuale e le iniziazioni antiche. È nel solco di questa prospettiva che l’interesse per le opere del passato dev’essere sempre
tenuto in grande considerazione. Non ci interessa
e non gioverebbe una mera contemplazione di tipo
passatista, ma da un’analisi profonda e rigorosa
del passato si può fissare, scrutare e dirigere una
nuova luce. D’altronde, come fa giustamente
notare M. Bianca, intraprendere un percorso
iniziatico entro un Corpus Canonico Accettato
significa «non solo accettarlo ed attenersi ad esso,
ma renderlo attivo in modo che da esso scaturiscano le indicazioni per proseguire il cammino in
riferimento alla propria condizione e al proprio stato d’avanzamento». Infine l’opera del Ragon, di
certo non immune da critiche, è importante non
solo per il suo contenuto ed il suo valore storico,
ma anche perché essa contiene l’esposizione di
un metodo di ricerca al tempo stesso esoterico,
massonico e tradizionale. Il Ragon procede per
analogia. Quando questa viene a mancare, la
materia che si osserva diviene scoria da abbandonare. La Tradizione non cambia mai.
Sigillum veritatis simplicitas est.