NeoMaltese Maltese Narrazioni non molla. Anzi, decide di alzare il tiro. Dopo adeguata pausa di riflessione indispensabile per individuare un nuovo profilo editoriale e trovare un solido sostegno finanziario, rieccolo. Nata sul finire degli anni Ottanta questa rivista è stata una vetrina per i giovani che avevano difficile accesso a un mercato editoriale particolarmente chiuso e sulla difensiva. Maltese non era l’unica rivista di questo tipo, segno della necessità di un’iniziativa che rappresentasse da un lato uno sbocco per i nuovi scrittori e dall’altro uno stimolo per gli editori. Si può dire senza timore di smentita che in questi anni Maltese Narrazioni ha assolto pienamente e con ottimi risultati il suo compito: missione compiuta, dunque. Ora i tempi sono cambiati. Il mercato editoriale è sicuramente più aperto e ampio: ogni giorno nascono piccole case editrici curiose, aggressive e di qualità, che svolgono direttamente il ruolo assunto in precedenza dalle riviste. Gli stessi grandi editori hanno meno pregiudizi di un tempo nei confronti degli esordienti. Per chi ha talento, dunque, pubblicare è indiscutibilmente più facile: nella gran parte dei casi un nuovo autore non deve più passare attraverso una rivista per promuovere le sue prove letterarie. Quello che manca, invece, è una “tribuna” dove anche gli scrittori più noti possano esprimere la loro opinione su temi letterari e di attualità, uno spazio che possa ospitare scritti che non hanno ancora fatto parte di un volume o anticipazioni di romanzi d’imminente uscita. È per tutte queste ragioni che la rivista andava rinnovata. Si è deciso dunque di aprirla agli scrittori già affermati. Come? Attraverso la formula dell’invito. Maltese Narrazioni decide un tema e lo propone a una serie di autori conosciuti. È questo il caso di MaltExpo, il prossimo numero, che avrà, anche graficamente, le caratteristiche di una nuova Esposizione universale e conterrà le “invenzioni” per il nuovo millennio raccontate dagli scrittori che hanno deciso di accettare l’invito a partecipare alla grande fiera. Le adesioni sono numerose e si può già anticipare che ci saranno molti nomi interessanti. Naturalmente il Maltese continuerà ad andare a caccia di talenti: una rivista è viva se sa rischiare e lanciare nuove proposte. Il presente numero, Romance, va letto come una sorta di passaggio di testimone tra il vecchio e il nuovo Maltese. Vi si possono trovare, infatti, scrittori noti, ma anche autori (ancora) inediti scelti dalla redazione; si possono leggere prove di narrativa pura, ma anche interventi di non-fiction, articoli, commenti, saggi brevi. Infine una notizia importante. La rivista, che sarà quadrimestrale, ha trovato un editore ed è stata registrata in tribunale. La casa editrice è la Eig, che nel 2002 ha pubblicato Collezione da Tiffany, antologia che raccoglie i migliori racconti del Maltese. Il rinnovamento della formula editoriale, il reperimento di nuove energie in redazione (ora c’è un direttore responsabile, un nuovo redattore si è unito al gruppo e uno vecchio lo ha lasciato), nonché il sostegno decisivo dell’editore sono novità che dovrebbero fare piacere ai lettori, soprattutto a quelli che sono stati vicini al Maltese nei momenti difficili. Se il Maltese potrà evolversi diventando uno spazio di confronto aperto tra le idee, un luogo di conversazione ideale dove narrativa e saggistica, reportage e fumetto potranno incontrarsi superando preclusioni e vecchie gerarchie di genere, è anche grazie a loro. La (Neo) Redazione “ZOLLE” IL NUOVO ROMANZO DI MARCO DRAGO. DA APRILE IN TUTTE LE LIBRERIE. Feltrinelli Marco Drago ECCELLENZA Marco Drago è nato nel 1967. Ha pubblicato tre libri per Feltrinelli (L’Amico del Pazzo, Domenica Sera e il recente Zolle) e uno per minimum fax (Cronace da chissà dove). Insieme al regista Gaetano Cappa forma l’Istituto Barlumen, factory artistica multimediale che produce programmi radiofonici (Razione K su RadioTre), favole sonore, radiodrammi, spot pubblicitari, grafica, fumetti. L’affare si era fatto interessante quando era sbucata fuori la donna. Prima era una scommessa che mi sentivo di avere già perso. Ero fuori forma, sette chili di troppo, fumavo quindici sigarette al giorno, potevo farmi male facilmente a causa della vacanza di un anno e mezzo che mi ero preso dopo le due stagioni di C2 in Abruzzo. Non lo so se abbiate idea di quello che significa, per il corpo umano, giocare a calcio. È qualcosa di terribilmente complicato. Avevo trentasei anni, dei quali quindici da professionista, due in C2 e uno e mezzo in vacanza. Quell’anno e mezzo di vacanza, come in un brutto sogno, aveva scassato quanto di buono (o perlomeno di efficace) erano riusciti a fare i precedenti diciassette da calciatore. E che calciatore. Non sto raccontando balle. Che calciatore. Al Torneo di Viareggio, quando ero nella primavera del Toro, c’era Johann Cruijff che forse era lì con l’Ajax, forse era lì a fare il commentatore o l’osservatore. Non lo so. So soltanto che disse alla stampa italiana che il migliore di tutto il torneo ero stato io. Johann Cruijff. Io avevo sedici anni e mezzo. Poi che io fossi il migliore lo hanno detto in tanti, allenatori del Milan, della Nazionale, di squadre straniere. Ho giocato bene solo i primi anni, diciamo la verità. Alla lunga credo che si sia messa di mezzo la mia natura di testa di cazzo e anche una certa evoluzione del gioco del calcio. Io giocavo ala, ma poi al Milan era pieno di star, erano gli anni novanta, mi hanno spostato di ruolo una volta e per un anno mi hanno messo in mezzo al campo, che non c’era spazio per fare le mie discese, i miei scatti, le mie progresioni. Un anno di merda e poi altri due, sempre di merda. Dopo, via, in provincia. A 27 anni ero abbastanza finito. Qualche bella stagione in provincia verso i 30 e poi ho smesso, pur continuando. Ho tirato i remi in barca e facevo il minimo, a volte partivo dalla panca, ma il mio nome era ancora un nome e alla fine giocavo quasi sempre, pur avendone poca voglia. Ecco, quando ho smesso sono stato meglio, anche se non avevo idea di cosa potessi fare. Ero single da sempre, non avevo nessuna famiglia a cui chiedere o dare, non avevo mai imparato a fare niente (sono nato in periferia a Torino e i miei amici rubavano le autoradio), avevo qualche lira, tante me le ero bruciate con gli investimenti del cazzo e 5 con le stravaganze tipo macchine, barche, cavalli. Però, cazzo, stavo meglio. Dopo tanti anni, gli allenamenti, i compagni, gli allenatori, i preparatori, i ritiri, sono cose che ti fanno girare le palle. Il mio amico Baggio, che è buddista, non si è mai lamentato una volta. Lo conosco bene e posso garantire che la sua grande forza è che non si lamenta mai. Io invece sono il contrario. Se fossi sempre stato sincero con me stesso, avrei cominciato a lamentarmi appena nato e non avrei ancora smesso. Infatti, a 36 anni Baggio giocava ancora in serie A nonostante dovesse allenarsi il triplo degli altri anche solo per camminare – visto il disastro del suo ginocchio – mentre io ero finito a giocare nella Pro Castelnuovo, in Eccellenza. Ma Roby è un buddista. Io un mancato tossico torinese. Le cose sono andate così: a novembre mi chiama un vecchio compagno del Toro che si era trasferito a vivere dalle parti di Alessandria. Anche lui aveva smesso, ma solo da sei mesi, e l’ultimo anno l’aveva fatto in B. Mi chiama e mi propone di andare a giocare con lui in una squadra di Eccellenza, di un paesino lì vicino. “Eccellenza?”, faccio io. “Eh...” “Armando. In Eccellenza ci rovinano...” “Cosa c’è da rovinare?” “Le gambe, i legamenti, tutto. Rischiamo di rimanere paralizzati!” “Ma dai, in un’ora ci sei. Tre allenamenti alla settimana e poi la partita la domenica. Come ai vecchi tempi.” “Pagano?” “Duemila e cinque al mese, spese extra.” “Madonna. Sono trentamila all’anno.” “In C2 quanto ti davano?” “Ero caro.” “Quanto?” “Centocinquanta all’anno.” “Cazzo.” “Eh...” “A me in B molti meno.” “Ma eri nella tua squadra del cuore...” “Ah sì... peccato che è anche la tua...” “Sì, ma non sono stato tanto scemo da chiudere la carriera lì.” “Invece la chiuderai nella Pro-Castelnuovo.” “Mi sa di sì.” Quando siamo arrivati noi due, il campionato era già iniziato da un po’, ed eravamo penultimi. La squadra era una squadra di dilettanti. Qualcuno discreto, la maggior parte negati. Noi eravamo finiti su tutti i giornali locali e alla prima partita che abbiamo giocato l’incasso era stato 6 di settemila euro. Quasi tre mesi del sottoscritto pagati in una botta. Nello spogliatoio eravamo trattati con un entusiasmo e una cordialità che facevano piacere. L’allenatore era un meridionale scrupoloso, sempre con la lavagnetta. Ogni giovedì sera arrivava il presidente, che era tifoso del Toro e faceva tremare i muri quando parlava. I compagni erano contenti di allenarsi e giocare con noi. Gli allenamenti erano duri. Pieno inverno. Nebbia, pioggia, neve. Sempre presente. Alla sesta settimana, però, mi sono fatto prendere dalla pigrizia e, con una scusa, ho saltato una settimana di allenamenti. La domenica mi presento per giocare, gioco e faccio schifo. Sbaglio anche un rigore al novantaduesimo. Come nel Milan. Solo che giocavo contro l’Atletico Sezzadio. È stato allora che è arrivata Tiziana. In effetti fino ad allora, non so come, le donne locali non le avevamo mai incrociate. Armando era sposato e va bene, ma io no. E per uno come me, beccare in provincia dovrebbe essere una cosa facilissima. Invece per i primi tempi ero stato davvero un monaco. Che le lezioni di buddismo di Roby Baggio stessero per dare i loro frutti? Tiziana mi si è presentata dopo un allenamento convinta che fossi Coco, il terzino dell’Inter. Dopo l’allenamento, in un locale di Alessandria con Armando e altri due compagni, sono riuscito a convincere Tiziana che non ero Coco e che avevo almeno dieci anni in più di Coco. Anche lei, a occhio e croce, aveva dieci anni in più della Arcuri, e dunque andavamo bene. Era sposata. Ma era una di quelle sposate di provincia che conosco bene. Hanno il gippone, le carte di credito, e una grande propensione alla rêverie erotica. Rêverie erotica non so esattamente che cosa voglia dire, ma lo diceva sempre Pessotto in nazionale e visto che Pessotto è un intellettuale, lo dico anche io. Insomma, alla fantasia erotica. In breve: la mia vita è cambiata. Prima parcheggiavo la Porsche a Castelnuovo in mezzo alle Punto e alle Fiesta dei compagni, facevo allenamento nel fango, sputavo i polmoni asfaltati, mi facevo dare calci durante la partitella da qualche elettricista, provavo le punizioni, facevo la doccia, salutavo tutti e me ne andavo. E già allora poteva sembrare un reality show. Da quando è arrivata Tiziana, il reality ha preso una piega sentimentale che forse non era prevista. Alla fine ho affittato un appartamento fighissimo ad Alessandria. Anzi “in Alessandria”, come dicevano lì, con la erre moscia. E dunque arrivavo con la Porsche ma non da Torino. Da Alessandria. Tredici chilometri in pianura. Arrivavo e sorridevo a tutti, dicevo cazzate col medico e il massaggiatore, parlavo dei Mondiali del ’94, il mio ultimo grande momento, mi lasciavo andare e imitavo Sacchi che si aggira in trance per l’hotel la vigilia della finale, insomma facevo quello che davvero tutti si aspettavano da me. In allenamento facevo il figo e tutti si fermavano 7 a bocca aperta a guardarmi. Che controllo. Che palleggio. Che tiro. Lo diceva, Johann Cruiff. Dopo la doccia tornavo in Alessandria. E alle nove e mezza arrivava lei e facevamo i fidanzatini. Tiziana aveva la mia età, un fisico che non mi ricordo di aver mai visto niente del genere, un viso un po’ volgare ma in fondo è così che mi piacciono, era sposata con Gagliardi quello della Tecnobagno, uno ricco che la tradiva, due figli, il gippone, le carte di credito e una propensione alla rêverie erotica. Solo che il nostro, ben presto, si è trasformato in vero amore. In lei e con lei ritrovavo una pace e una serenità che avevo perso da quando le cose avevano cominciato a girare bene con il pallone. Quando il Milan mi ha preso per quella cifra pazzesca, io ho fatto un salto di qualità che, se avessi saputo, avrei evitato volentieri di fare. È cambiato tutto. La gente che dovevo frequentare, le abitudini, i discorsi. Mi piaceva, ma dentro di me sentivo il fortissimo desiderio di tornare bambino in mezzo ai miei nove amici siciliani nella periferia di quella Torino anni settanta che è esistita fino a ieri e che adesso non c’è più. Nel Milan mi si è bruciato quel poco di verità che avevo dentro e ci ho messo anni a guarire. Per guarire c’è voluta Tiziana, che come me ha la terza media e che come me ha ripetuto la prima nello stesso anno (il 1981) e che come me non ha mai avuto fretta di diventare grande e che come me ama sua nonna materna come e più di se stessa e che come me è una tipa semplice anche se, come me, ama vestirsi e acconciarsi in modi un po’ appariscenti. Con lei è bello perché non devo stare zitto e sforzarmi di aver voglia di andare al party di Lucio Dalla. Non invidio Coco, con la Arcuri. O con chi esce adesso Coco, non lo so. Non lo invidio: dover stare dietro a tutto quello, giocare e in più sempre infortunato. Il Milan è l’inferno. È la squadra del diavolo. È vero. Lo dice il simbolo. Lo dice chiaro e tondo. A Castelnuovo se ne sono accorti in un mese e mezzo, sei domeniche di gol e spettacolo (18 punti in 6 gare, non ci credeva nessuno). Si sono accorti che ero ancora un campione e che avevo una relazione con la moglie di Gagliardi quello della Tecnobagno. Ero nascosto a fumare la terza sigaretta prima dell’allenamento – il fatto è che una la fumo in macchina, una la fumo appena arrivo davanti a tutti, allenatore compreso e una la fumo di nascosto: sono tre sigarette, poco da fare... tre sigarette che potrebbero essere una o zero e invece sono tre. Ero nascosto a fumare una Marlboro in una specie di pianerottolo cieco con tre porte che danno a tre locali diversi del palazzetto dello sport. Qualcuno stava spostando degli scatoloni dietro una delle porte e sentivo che parlavano. Parlavano di gente che non conoscevo, discorsi 8 da provincia, io fumavo e intanto pensavo alle scarpette nuove che si era comprato Armando. Aveva comprato delle scarpette che erano firmate da Billy Costacurta e stavo pensando che Billy aveva forse tre anni più di me e che giocava a calcio mille volte peggio di me e che era titolare nel Milan in Champions League mentre io fumavo di nascosto al palazzetto dello sport di Castelnuovo in provincia di Alessandria. Poi uno dei due che spostavano gli scatoloni ha detto la parola “Tiziana”. Poi ha detto le parole “il nostro numero undici”. E allora ho tenuto il fiato e ho pregato che non si allontanassero proprio. “Lei va sempre a casa sua. Gagliardi lo saprà già?” “Oh, quello! Non ha tempo di pensare alla moglie: ha due o tre storielle per conto suo.” “Meno male. Abbiamo vinto sei partite e quello si è messo a giocare davvero... se è merito della prugna di Tiziana, lasciamo che ne mangi finché vuole.” Sono entrato nel magazzino di colpo, urlando: “Ripeti quello che hai detto della prugna che ti ammazzo, ripetilo!” Erano due che vedevo sempre lì, forse stipendiati della società, operai, magazzinieri, che ne so. “No, scusa. Scusa. Si dicono cazzate mentre si lavora!” Di colpo mi sono sentito strano. Non ero più arrabbiato. Anzi, che cosa me ne fregava di tutte le chiacchiere? Però ormai avevo fatto la mezza scenata, così ho continuato senza convinzione a fare la parte. “Perché devo sentire certe cose alle mie spalle? Vengo qui a dare una mano a ‘sta squadra del cazzo, avete visto anche voi che una mano ve la sto dando... e che mano! E voi non avete niente da dire a parte ‘la prugna di Tiziana’?” “Sono voci. Io non vi ho mai visti insieme... sono solo voci... io non ne so niente e non dirò più niente...” Il più vecchio dei due, sui sessanta, aveva una parlantina fastidiosa e non la smetteva di scusarsi. “Sono voci. E io vi posso dire che sono voci vere. Io amo Tiziana e lei ama me. E adesso?” “Beh, sono cose vostre, io cosa c’entro? Fate bene, anzi, la gente che si ama deve stare insieme e ci mancherebbe pure. Vero o no, Tonino?” “Eh. Per forza.” “Bene. Chiuso il discorso. Non se ne parla più. Chiaro?” Quando gliel’ho detto, Tiziana è impazzita. Ha urlato nel cuscino per un tempo che mi è sembrato troppo. Ha cominciato a dire parolacce pazzesche e a girare per casa come una indemoniata. Il diavolo era in lei come è nel Milan e in Costacurta. Io cercavo di calmarla, ma lei di colpo ce l’aveva con me: “La fai facile, tu, che sei famoso e quando ti stufi prendi e torni a Torino! Io rimango qua con ‘sti barotti a fare la figura della ricca porcona!” 9 “Ma io ti amo. Lascia Gagliardi quello della Tecnobagno e mettiti con me.” “Ma cosa dici? Ho due figli!” “Lo so.” “E allora non se ne parla nemmeno.” “Ma perché?” “Come perché?” “Perché?” “Ma sei scemo?” Mi ha fatto male. Mi fanno male quando mi danno dello scemo. Non capisco il perché ma quando mi si dà dello scemo soffro davvero dentro. Sanguino. “Tiziana. Ascolta. Io ti amo. E anche tu ami me. Me l’hai detto tante volte.” “Ascolta tu. Io... oh dio... ma com’è possib... cioè. Io... io sono sposata.” “Con Gagliardi quello della Tecnobagno.” “Con Gagliardi quello della Tecnobagno, bravo... e Gagliardi quello della Tecnobagno è il padre dei miei due maschietti, Guido e Pietro.” “Sì, ma Gagliardi quello della Tecnobagno è anche l’amante di tre femminucce, di cui non ho i nomi ma fa lo stesso...” “Queste sono cose... oh dio... dio, dio, dio!” “Ma cosa c’è?” “C’è che c’è un equivoco!” “Un equivoco?” “Un equivoco!” “Ma come un equivoco?” “Io e te: un equivoco.” Io avevo capito abbastanza bene che cosa stava succedendo. Abbastanza bene. Ma non volevo crederci. A me era sembrato che Gagliardi quello della Tecnobagno non fosse in cima ai pensieri di Tiziana. “Va beh. Il padre dei tuoi figli. Però esiste il divorzio. Io prendo te e i figli e finito il contratto vi porto a Torino!” “I bambini vanno a scuola... hanno gli amici, il papà e i nonni qua... non possiamo farlo. Non fantasticare!” “Ma io ti amo!” “L’hai già detto trenta volte e io non te l’ho ancora detto nemmeno una! Ma vuoi accettare la realtà?” “E quale sarebbe questa realtà?” “Che non sono innamorata di te e che la nostra storia finisce stasera!” Costacurta è come quel tipo del film che il ritratto invecchiava e lui rimaneva giovane. 10 Ad aprile Castelnuovo sembrava un altro paese. Le giornate tiepide invitavano a fermarsi a chiacchierare con qualche compagno, o con l’allenatore, che aveva sempre la faccia preoccupata e non osava mai dirmi quello che dovevo fare secondo lui. Armando aveva fatto vacanza per tutto marzo per via del mal di schiena e per un mese avevo dovuto tirare la carretta da solo. Al posto di Armando era arrivato in prestito un argentino, Moreno Salvarani, ex serie A al suo paese, ventisei anni, faceva l’insegnante di spagnolo in una scuola privata di Ovada e si era sposato a Genova, insomma per un po’ avrebbe giocato con noi. Bene, mi ero detto. Ex serie A argentina lui, ex serie A italiana io... lui dieci anni in meno di me... in Eccellenza dovrebbe bastare... pensavo quelle cose lì, semplici, chiare e piene di buon senso. Con Salvarani abbiamo fatto due punti in cinque partite, anzi quattro, perché la quinta l’ha giocata Armando non ancora guarito ed è stato il secondo punto (due a due con gol mio nel primo tempo). Il resto tutte batoste. Salvarani non correva, non gliene fregava niente. Dopo un mese volevamo ammazzarlo. Lui faceva l’offeso, diceva sempre: “Voi siete in pregiuissio”. Lo chiamavamo “Pregiuissio”. Aveva i capelli neri neri, era alto e ben messo, ma non correva, aveva qualche problema che ci aveva tenuto nascosto. Proveniva da una squadra di Genova, che ce l’aveva prestato senza fare problemi. “Io ho giocato con Burdisso, cosa credete?”, diceva sempre. “Pregiuissio ha giocato con Burdissio!”, rispondevamo noi. E lui si offendeva. Quando Armando aveva ripreso il suo posto, Salvarani aveva fatto un po’ di panchina, tipo due partite. L’aveva presa malissimo. Poi il mister l’aveva fatto giocare sulla sinistra, dietro di me, con Armando sulla destra. In quella partita si è decisa la sorte di Moreno Salvarani. Al decimo del primo tempo, dopo il tackle di un centrocampista di Mortara, tackle maschio ma non cattivo, Moreno prese il pallone, gli sputò sopra e lo pulì sulla divisa dell’arbitro, che lo stava ammonendo per simulazione. Espulsione, scena isterica nello spogliatoio, muri del palazzetto tremanti quando il presidente decise di rimandarlo a Genova. Moreno Salvarani. Durante la breve parentesi di Salvarani era successo che Gagliardi quello della Tecnobagno si era inguaiato con una ragazza della cooperativa che si occupava delle pulizie nella sua esposizione di cessi. A Castelnuovo si era saputo subito, a me l’aveva detto Renzo Piano, che non è l’architetto, ma un centrale legnoso che ha qualche mese meno di me ma che non fuma e che alla fine gioca abbastanza bene. 11 “Cos’è successo? Si lasciano?”, avevo chiesto io, fregandomene di far vedere a Renzo Piano che non vedevo l’ora. “Sembra che lei l’abbia cacciato. Vuole tenersi la villa, le macchine, i bambini: tutto.” Con Armando in squadra avevamo ripreso a vincere. Eravamo ottavi. Salvi, senza ambizioni di promozione, ma tranquilli. Missione compiuta, in campo. Restava aperta la missione del cuore, quella che mia madre ha sempre chiamato: “La questione delle femmine”. La questione delle femmine doveva evolvere verso un lieto fine. Avevo appena parcheggiato la Porsche nel garage sotterraneo in Alessandria. Ero ancora sotto che facevo un po’ di prove con l’apriportiera, a volte mi incanto e apro, chiudo, apro, chiudo, apro, chiudo, anche per mezz’ora. Mentre facevo questa cosa da autistico (notare l’ironia che mi si affina man mano che mi allontano nel tempo dall’esperienza-Milan), mi sono sentito osservato. Mi sono voltato di scatto e ho visto Tiziana, bellissima, sensuale. Ho sentito il cuore battere come quando Roby stava per tirare il rigore a Pasadena nel ’94. Ma che dico. Come quando sapevo che c’era Johann Cruijff in tribuna, a Viareggio, che mi stava guardando e ho segnato due gol e sono uscito al trentesimo della ripresa per il calcio di un terzino del Dukla Praga. Ma no, di più. Di più. “Sono qui per te. Ho capito di aver sbagliato. Io ti amo. Tu mi ami?” “Certo che ti amo. Amo te e i tuoi bambini, Guido e Pietro...” “Allora li vado a prendere. Sono sul gippone. Li vado a prendere così conoscono il loro nuovo papà”. E quando ha detto così, “il loro nuovo papà”, mi sono sentito il ragazzo che sono. Ho trentasei anni. Magari vent’anni fa giocavo meglio a pallone, ma adesso posso fare il padre, il marito, l’uomo. E ho solo trentasei anni. Mentre aspettavo la mia nuova famiglia, lì, nel garage sotterraneo, mi sono acceso una sigaretta. Ho fatto tre tiri uno dietro l’altro, ho calcolato quante giornate mancavano alla fine del campionato, ho rivisto in un flash San Siro, il diavolo, Costacurta e poi lo stadio di Castelnuovo. Ho buttato la cicca a metà, ho messo in bocca un chewing gum, ho aperto e chiuso, aperto e chiuso, aperto e chiuso la portiera della macchina con il mio bel comando a distanza, mi sono guardato intorno e mi sono incamminato verso la rampa. Ho girato l’angolo e, mentre mi prendevo in faccia il primo pugno da Gagliardi, quello della Tecnobagno, ho capito di amare davvero Tiziana e tutto il suo piccolo e complicato mondo. 12 Cristiano De Majo LA STORIA VERA DI UNA VERA STORIA D’AMORE Cristiano De Majo è nato a Napoli nel 1975. Ha pubblicato racconti su Blue, ellittico, FaM e Maltese Narrazioni. Un suo intervento è incluso nell’antologia Teoria e tecnica dell’Artista di Merda (Valter Casini Editore). Un suo racconto è pubblicato sull’antologia Best Off, di minimum fax. Tra le altre cose, soffre di teledipendenza. Il display sul cruscotto segnava trentacinque gradi all’esterno. Un caldo bestiale, nonostante fossero le otto di sera. Nell’abitacolo andava meglio: ventiquattro, grazie all’aria condizionata. Uscì dall’autostrada e imboccò la S-80. I lampioni erano spenti. Il buio era rischiarato solo vagamente dagli anabbaglianti della macchina e dalle luci lontane del polo industriale. Attraversò l’ultimo tratto della spianata di terra grigia muovendo a memoria le mani sul volante e pensando a ciò che lo stava aspettando: a Clara nella sua tuta grigia coi capelli legati, alle pale del ventilatore in movimento nel soggiorno, alla televisione accesa ad alto volume, alle pentole di acciaio lucido sui fornelli. A un certo punto, anche se non ricordava esattamente quando, quelle immagini avevano iniziato a opprimerlo. Erano sempre le stesse da troppo tempo e lui aveva una disperata voglia di vederne delle altre. Aveva voglia di deragliare, di rivoluzionare la sua vita, di vedere un altro film, uno diverso a sera magari. Dopo mesi costellati da riflessioni infinite e infiniti sensi di colpa, aveva finalmente deciso di parlarne con lei. Era successo la sera prima. Aveva cercato le parole giuste, né troppo dure, né troppo dolci, e aveva provato a vuotare il sacco, a liberarsi di quel peso insopportabile. Ma non erano state le parole giuste. Clara sembrava non aver capito. “Ne abbiamo passate tante, passeremo anche questa”, gli aveva detto. Non si rese conto di niente fino a quando non superò l’ultima curva. Solo allora la sua attenzione si spostò dai profili delle immense strutture industriali al piazzale di ghiaia che stava davanti alla loro villetta prefabbricata. Fu in quel preciso momento che le fiamme lo abbagliarono. Sul piazzale c’era un rogo. Era come se un grosso tronco d’albero stesse bruciando. Avvicinandosi si accorse che quella cosa si muoveva, aveva delle gambe, seguiva traiettorie illogiche nel tentativo, così pareva, di salvarsi. Uno spettacolo spaventoso, con le fiamme che si spargevano ovunque lasciando scie violacee nel cielo notturno. 15 Come prima cosa pensò a uno sconosciuto, a qualche squilibrato che, aveva deciso di darsi fuoco lì, chissà perché proprio sul loro piazzale di ghiaia. Clara prese forma nei suoi pensieri solo qualche istante dopo, quando la sagoma avvolta dal fuoco divenne in qualche misura riconoscibile. Inchiodò e si proiettò fuori dalla macchina a pochi metri di distanza dalla torcia che continuava a dimenarsi. Avanzò fino a quando riconobbe le scarpe da ginnastica e il lembo grigio di tuta appiccicato alla caviglia, allora sentì le gambe cedere e barcollò in avanti per qualche passo. Riuscì a rimanere in piedi però. Non poteva permettersi di perdere la testa. Doveva solo pensare a cosa fare e a come farlo. Si sfilò la camicia, l’arrotolò e cercò di tamponare l’avanzata del fuoco. Poi, quando la stoffa si ridusse in brandelli bruciacchiati, corse in casa e si lanciò sull’armadio alla ricerca di una coperta. Trovò un vecchio plaid di lana pesante nello scaffale dei panni invernali. Lo afferrò e si precipitò fuori. Si chinò su di lei e l’avvolse con delicatezza nella coperta, intravedendo squarci di carne annerita e liquefatta. Poi, non appena gli sembrò che l’incendio fosse definitivamente spento, aprì lo sportello di dietro della macchina e depositò il fagotto sui sedili posteriori. L’abitacolo si riempì di una puzza fortissima di carne bruciata, come se qualcuno avesse deciso di farsi un barbecue in macchina, coi finestrini chiusi. Durante tutto il tragitto fino al pronto soccorso non pensò a nulla. Eppure, avrebbe avuto parecchie cose a cui pensare. Alle cause dell’incendio, per esempio, a cosa aveva scatenato le fiamme. O alla faccia che lei aveva fatto la sera prima quando lui, dopo cena, le aveva detto che sentiva che le cose tra loro due stavano cambiando. Alla telefonata che era arrivata sul suo cellulare poco prima, la telefonata in cui lei gli aveva chiesto tra quanto tempo sarebbe tornato. O ancora alla pelle di Clara, a quella pelle che ora sembrava cera grinzosa. Invece, nei suoi pensieri non esisteva futuro, né passato. Viveva solo nel presente, nell’abitacolo della sua macchina, ipnotizzato dalle strisce tratteggiate della corsia d’emergenza, con la luce dei lampioni che si rifletteva sul parabrezza in un’unica lunghissima scia che sembrava una fiamma. In quel presente Clara non si lamentava. Era semplicemente un oggetto inanimato depositato sui sedili di dietro. In ospedale non faceva caldo. Era come se il caldo di quella calda giornata fosse stato annientato in modo definitivo. Iniziò, addirittura, ad avvertire dei lievi brividi lungo la schiena, anche se non capiva se fosse a causa dell’aria condizionata o perché non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine della pelle di Clara corrosa dalle fiamme. 16 Qualcuno del personale lo fece sedere in una sala d’aspetto. C’era altra gente seduta, ma per lui non faceva differenza. Gli sembravano tutti privi d’espressione, sagome di cartone messe lì per completare la scena. Dopo qualche ora, si avvicinò un uomo in camice bianco, un tizio con barba, occhiali e una faccia gentile. “È fuori pericolo…”, gli disse a bassa voce, ma a lui la notizia non fece effetto. Era come narcotizzato. Gli sembrava di non poter provare nessuna emozione. Più tardi, un’infermiera lo accompagnò in un’altra sala d’aspetto. Su una targhetta all’entrata c’era scritto GRANDI USTIONATI. Nei giorni che seguirono passò molto tempo in quella sala d’aspetto, praticamente quasi tutto il tempo possibile. Con quelli dell’ufficio non aveva fatto nessuna previsione, forse non sarebbe tornato più, aveva detto nel corso della penosa conversazione con il capo dell’Ufficio Personale. E così era rimasto in quella sala d’aspetto. Seduto. Anche perché l’ultima cosa che avrebbe desiderato era tornare a casa. Immaginava che lì il tempo si fosse fermato alla notte dell’incendio. La televisione accesa, il cibo incrostato nelle pentole, le pale del ventilatore che continuavano a muoversi sul soffitto. E non avrebbe sopportato niente di tutto quello. Fu dopo qualche giorno che cominciò a riacquistare un po’ di lucidità. Allora le cose che lo circondavano ritornarono a fuoco: le facce della gente seduta nella sala d’aspetto, le facce dei medici e degli infermieri, il ficus con le foglie verdi a forma di cuore all’ingresso del reparto, le scritte lampeggianti sulla macchinetta del caffè, la finestra con vista sul parcheggio, un manifesto del XX Congresso Europeo di Dermatologia. Sul conto di Clara non trapelava ancora nessuna notizia. Lui sapeva solo che era fuori pericolo, che non sarebbe morta. Per quanto riguardava il resto, il silenzio più assoluto. Lo facevano entrare nella sua stanza due volte al giorno. Lei era una mummia, completamente rivestita di bende a parte bocca e occhi. Era attaccata a certe macchine. Sembrava morta. Tutte le volte rimaneva fermo in piedi a due metri dal suo corpo. Aveva paura persino di accostarsi al letto e manteneva scrupolosamente una sua distanza di sicurezza. Fu in quei giorni che il futuro si avvicinò sottoforma di ipotesi, previsioni, speranze. Fu allora che incominciò a pensare alle responsabilità di cui era stato investito. Tutte quelle responsabilità gli facevano rimpiangere la sua vita di prima, la stessa vita di cui aveva deciso di disfarsi. Nonostante non le avesse mai considerate tali, si rendeva conto di quanto fossero state ampie le sue possibilità di scelta, prima. “Prima”, continuava a ripetere tra sé e sé con un filo di voce. 17 Prima di quella notte l’avrebbe lasciata, ma ora? Ora che Clara non era più Clara ma un corpo sfigurato avvolto in decine di metri di garza? Certo, il pensiero di liberarsi di lei, di lasciarla lì, di fuggire in un’altra città, in un altro mondo, l’idea di svanire per sempre cioè, lo faceva sentire leggero e vivo. Ma, al tempo stesso, sapeva di non avere il coraggio per una scelta simile. Ci voleva coraggio, molto più coraggio di quello che aveva avuto la sera prima dell’incendio, quando aveva deciso di parlarle. Qualche giorno dopo, il primario del reparto, quello con la barba, gli occhiali e la faccia gentile, si sedette accanto a lui, nella sala d’aspetto. Senza preamboli e con una voce molto seria, gli disse che Clara non avrebbe più recuperato la parola. “Come se le corde vocali si fossero squagliate…”, gli disse. Gli disse anche che, considerata l’estensione dell’ustione, qualsiasi intervento di chirurgia plastica era da escludere. “Per il momento…”, aggiunse, ma a lui sembrò un’aggiunta alla quale non dare importanza. Gli disse poi che per il resto non c’erano altri problemi, la vista e l’udito non erano stati danneggiati, gli organi interni erano intatti, i capelli e le unghie sarebbero ricresciuti. “Per fortuna…”, disse prima di congedarsi con una stretta di mano fin troppo energica. Quando Clara fu dimessa, era trascorso esattamente un mese dalla notte dell’incendio. A lui non sembrava un mese, ma non avrebbe saputo dire quanto. Clara era una mummia e non poteva muoversi. Sarebbe stato lui a occuparsi di lei, l’avrebbe riportata in ospedale dopo una settimana per cambiare la medicazione, e poi la settimana successiva, e quella dopo ancora. Sarebbe diventato la sua unica possibilità. Anzi, lo era già diventato a partire dal momento in cui gli infermieri lo avevano lasciato solo con lei. La sollevò in braccio dalla barella e la sistemò sui sedili posteriori della macchina. Poi, per tutto il tempo, guidò cercando di sopprimere l’ansia che gli stava esplodendo dentro. Aveva la pancia gonfia, le mani sudate, e la sensazione che la sua vita stesse per decidersi in modo definitivo. Se fosse tornato a casa con lei, sarebbe stato per sempre, pensava. Aveva sistemato lo specchietto retrovisore in modo da poterla controllare e, dal riflesso del vetro, l’immagine di quella mummia si moltiplicava in decine d’immagini proiettate nel futuro: la mummia sul divano di fronte alla televisione accesa, la mummia stesa sul loro letto, la mummia nella vasca da bagno, vuota. Decise che era il momento di fermarsi all’altezza del ponte di ferro, quando iniziò a intravedere le luci del polo industriale. Mancavano appena due chilometri alla deviazione. 18 Nell’ultimo tratto di ponte, rallentò fino a fermarsi del tutto e cercò di accostarsi il più possibile al guardrail. Guardò nello specchietto: Clara aveva ancora gli occhi chiusi. Aprì lo sportello e scese dalla macchina senza fare rumore. Poi si avvicinò alla ringhiera, si sporse in avanti e guardò verso il basso, verso il fiume prosciugato, verso i rottami dei macchinari che le industrie accumulavano da anni in quella terra di nessuno. Pensò. Passò in rassegna tutte le possibilità che aveva a disposizione. Le famose possibilità di scelta. L’avrebbe lasciata lì, nella macchina, per ricominciare daccapo. Oppure l’avrebbe presa in braccio e insieme si sarebbero lanciati dal ponte, nel vuoto eterno. O ancora, avrebbe lanciato solo lei, quell’oggetto inerte, e sarebbe tornato a casa e avrebbe continuato a vivere come se non fosse successo niente. Rimase chissà quanto tempo con lo sguardo fisso sulle pieghe di ferro arrugginito. Poi fu illuminato da un lampo che gli parve di riconoscere come qualcosa di estremamente intimo sotterrato da qualche parte nella sua coscienza. L’amava, ecco qual era la verità. Perché stava cercando ostinatamente di fuggire da quell’idea? Il pensiero di qualsiasi altra scelta che non fosse quella di tornare a casa insieme a lei lo faceva stare male, lo faceva sudare, gli faceva sentire quelle fitte lancinanti nel petto, allora perché non fare ciò che con tutta evidenza il suo corpo gli stava suggerendo? No, si disse, non era mancanza di coraggio quella, la sua incapacità di scegliere una qualsiasi delle ipotesi che aveva passato in rassegna non poteva essere che un segno del suo amore per lei. Da quel momento in poi le avrebbe dedicato tutto il suo tempo, e non sarebbe stata una scelta di ripiego, l’ennesimo compromesso. Si convinse che bastava volerlo e le cose sarebbero cambiate e tutto quello che c’era stato prima di allora sarebbe stato cancellato. Non era mancanza di coraggio, ma la sua scelta, la scelta che aveva deciso di prendere. Una nuova vita li stava aspettando. Varcarono la soglia di casa come una coppia di sposi. Lui la teneva in braccio e continuava a guardare i suoi occhi chiusi. Ora l’ansia era svanita. Si sentiva sereno, in pace con se stesso. In un certo senso si sentiva in colpa per le cose che aveva pensato, ma era sicuro che quella macchia sarebbe stata cancellata prestissimo, gli sarebbe bastato qualche giorno per farsi perdonare da Clara, forse solo qualche ora. La depositò sul divano e andò a spegnere la televisione e il ventilatore. Diede un’occhiata in giro. Accostò l’anta dell’armadio da cui la notte dell’incendio aveva preso la coperta. Poi riprese Clara in braccio e la portò fino alla camera da letto. Con la massima cura l’adagiò sul materasso e per un attimo rimase fermo a due passi da lei. Gli parve di sentire qualcosa, forse un lamento, 19 ma vedendola così, completamente spenta, pensò che doveva esserselo immaginato. Allora si tranquillizzò, andò in bagno, si spogliò e indossò il pigiama. Quindi la raggiunse di nuovo, elettrizzato come chi sta per infilarsi nel letto di un amante appena conosciuto. Si addormentò dopo poco, incantato dal suo corpo bendato e con l’odore di pomata cicatrizzante nelle narici. Clara aprì gli occhi solo dopo che lui prese sonno. Non fu sorpresa di vederlo accanto a lei, Clara conosceva bene suo marito, ma quello fu il momento in cui ebbe la certezza che il loro amore non avrebbe più incontrato ostacoli, che, cioè, sarebbe stato per sempre. Così, quando richiuse gli occhi, sulla pelle tirata del suo volto prese forma una specie di smorfia, una smorfia che in realtà era un sorriso. Quella sarebbe stata la loro prima notte d’amore. W W W . VA R K J O V I C H . C O M 20 Nicola Lagioia PICCOLO DIARIO CINESE Nicola Lagioia (Bari, 1973), ha collaborato con diverse case editrici, lavorato come ghost-writer, scritto sceneggiature. Per minimum fax ha pubblicato nel 2001 il suo primo romanzo, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi). Nel 2004, per Einaudi, è uscito il romanzo Occidente per principianti. Attualmente dirige Nichel, la collana di narrativa ialiana di minimum fax, collabora con la rivista Accattone, scopre talenti, scrive reportage e organizza traslochi. Che cosa avrei dovuto preferire, alle tre scopate e mezzo di questo autunno del 2004, quando con la Banca Commerciale Italiana filiale di Roma Nomentana sto sotto di millecinquecento euro, quando il ridicolo compenso per un articolo pubblicato da due anni mi si comunica verrà probabilmente corrisposto oggi, sicuramente domani, dopodomani vediamo, dopodomani l’altro l’addetta al commerciale è già in vacanza, un’onda anomala di calore ci schiaccia da est come da ovest mentre le caffetterie del mio quartiere sfornano solo orrendi sfilatini di cartone infarciti di marmellata? Dovrei pensare che una mondina, curva sul tramonto, i polpacci immersi nel fiele della risaia, questo sorriso analfabeta, giù i calzoni, giù le mutandine, avrebbe potuto svoltarmi le ultime settimane più e meglio delle fluenti, laminate creaturine universitarie (o peggio ancora, laureate in lettere moderne con una tesi su Georg Trakl) che mi sono capitate dentro casa, tra le gambe, sui ginocchi tra una revisione di bozze e un avviso di mancato pagamento forniture telefoniche recapitatomi dall’Onorata Società Telecom? Dovrei rimpiangere l’amore ai tempi della Democrazia Cristiana, del delitto d’onore, dell’oratorio, delle Topolino amaranto? Marina, ad esempio, risponde ai telefoni di una famosa casa editrice romana. Tra appuntamenti da annullare e traduttori da cinque euro a cartella da postdatare di qualche mese trova il tempo per occuparsi anche di me. Il suo intento, in circa un anno di telefonate senza alcun esito, mi sembra miseramente chiaro. Non farsi fottere dal sottoscritto, bensì arrivare a farsi fottere dopo che il sottoscritto abbia imbastito, con sufficiente verosimiglianza, un qualche tipo di corteggiamento. Così, tre settimane fa Marina, instancabile e puntuale come sempre, telefona per chiedermi “che fai stasera”. Io non le oppongo il solito “ho da lavorare” (una dedizione al lavoro, la mia, abituata a vivere unicamente tra gli estremi di questa linea telefonica) ma un sobrio, onesto e vagamente edulcorato “avrei bisogno di scopare con qualcuno” che, in teoria, mi dico, dovrebbe produrre l’effetto di allontanare per sempre questa ragazza dalle mie orbite o, al contrario, precipitarla nelle mie braccia 23 finalmente sprovvista della sua pantagruelica giostra di formalismi amorosi. Marina non si scompone. Pronuncia schiettamente: “Molto bene”. Poi dice: “Passo da casa tua alle otto meno venti”. “Benissimo”, penso, “ho sempre sottovalutato questa ragazza”. E così, aspettandola per circa due ore, decido di non rimettere in ordine i 40 mq del mio seminterrato su via Caserta, di non sostituire gli asciugamani nel bagno, di non verificare nemmeno la presenza dei preservativi nel comodino della camera da letto. Questa trascuratezza, mi dico, dovrebbe servire a scongiurare ulteriormente le possibilità di un sex in vitro di cui le ragazze come lei rischiano di essere portatrici sane. Sospetto anche che questi miei scrupoli possano fare pericolosamente il pelo a un distante ma sempre parallelo feticismo. Quando il campanello suona: Marina. Mi sono ripromesso di baciarla, spogliarla, metterla nuda sul divano senza dire una parola, senza nemmeno salutarla. Ma la sclerosi del suo sorriso, l’inossidabile forza del suo teatrino ambulante hanno ragione in pochi istanti della mia utopica e balbuziente macchina per il ripristino di un sesso privo di scenografie. È come se la parola “scopare”, proferita al telefono con beckettiana sobrietà alle 17,30, abbia innescato l’iter di un amor cortese bucherellato come una groviera che ci trascina prima al cinema (ha controllato la pagina degli spettacoli, c’è un “delizioso Truffaut” al Quattro Fontane), poi al ristorante cinese (dove sui primi ravioli al vapore è chiaro, i ruoli si invertono definitivamente: io l’ho invitata a cena: il conto è una faccenda che riguarda me), quindi, alle 00,30, appesantiti dal fritto e dalla nota birra Tsingtao, nuovamente a casa mia. Qui, dopo un brevissimo giro esplorativo, si siede sul divano, naturalmente vestita, e aspetta che, tra una chiacchiera e l’altra, la mia mano inauguri un estenuante movimento lungo il bordo esterno della spalliera che arrivi a carezzarle entro dieci minuti la zona neutra dello sterno. In modo che Marina (riciclati due o tre argomenti di conversazione) con simulata meraviglia proferisca non tanto al discreto manipolatore delle sue ossa quanto a un pubblico invisibile: “che stai facendo?” (come se al telefono le avessi parlato di cinema, politica e birre cinesi), e accolga il mio misurato sconcerto tra le sue cosce come una piacevole ed inimmaginabile sorpresa. Pretende insomma che una normale serata tra amici sconfini nel prodigioso continente del sesso in virtù di una forza irresistibile e rigorosamente imprevista. Questa pretesa ingombra non soltanto il post-coito, ma il durante e, retroattivamente, ogni casella rimasta libera del pre-. Così, riaccompagnatola a casa, ho la precisa sensazione di non aver scopato affatto. E dire che ho sempre preferito Bene a Strehler. Dovrei rimpiangere l’amore ai tempi dell’Assemblea Costituente, del Piano Marshall, di don Sturzo, di Comencini, Elia Kazan e Alida Valli? Mio padre, un piacente maresciallo dei carabinieri, nel 1954, suonata 24 la squilla dei trentacinque, si presentò a casa dei suoi futuri suoceri e, levatosi il cappello d’ordinanza, avanzò la sua proposta con la stessa meticolosità con la quale redigeva verbali e attraversava le navate delle chiese la domenica mattina. Dieci anni prima mio nonno era riuscito a esistere quasi contemporaneamente come fascista, repubblichino e liberale della prim’ora – una mano per sintonizzarsi su Radio Londra, l’altra a tastare il polso della morente linea gotica. Credeva dunque fermamente alle barzellette sui carabinieri e sapeva benissimo come, solo ad avere tra le mani il compratore giusto, fosse possibile fare passare il cavallo zoppo per un destriero da concorso di bellezza. Fece passare il proprio sospiro di sollievo come una dolorosissima concessione. Mio padre finse di credergli. Iniziò una debilitante situazione di rodaggio fatta di pranzi domenicali, parenti in visita dall’Argentina, passeggiate lungo il corso dei due futuri sposi seguiti a ruota dall’immancabile cugina collaborazionista, aggiustamenti millimetrici della dote – ma dieci millimetri fanno un centimetro, cinquanta centimetri sono già mezzo metro e questa cosa mio nonno non l’aveva prevista. Fino a quando anche mia madre, un incidente sulla lunga via pentecostale che, in fin dei conti, tra le altre cose, avrebbe portato anche a me, mia madre, una mazza di scopa senza pretese già pericolosamente in odore di nubilato perpetuo, fu interrogata formalmente sul da farsi. La poverina, circondata dal conclave dei parenti, avvampò tutta, strinse le gambe e non trovò altro da proferire che un magro ma tenace: “cosa ne posso sapere io… così, su due piedi… su due piedi… su due piedi… su due piedi…”, ripetendo l’adagio per almeno un quarto d’ora, per il crescente nervosismo di mio nonno, sempre pronto ad arginare gli imprevisti famigliari con una piena di bestemmie a denti stretti che faceva un solo fascio di Stalin, del papa e di De Gasperi. Fu comunque proprio su due piedi che mio padre la prese, per dirla tutta, tre settimane prima del matrimonio, al termine di uno sfiancante lunedì di Pasquetta che avrebbe lasciato i parenti a sonnecchiare sulle sedie e lui, il mio futuro genitore maschio, in erezione da colomba e vino bianco, e lei, la mamma, nella sua lunga figura ulteriormente stirata nel cucinino alla ricerca di una caffettiera dichiarata smarrita da numerose festività. Nel corso di quell’amplesso (e di infiniti altri che, contemporaneamente, si sviluppavano in ogni angolo della nostra penisola, da sud a nord, da Lampedusa a Cuneo) si realizzava come il nostro Paese fosse ancora una meravigliosa copertura temporaneamente appaltata alla Rai, al Vaticano, alla Dc e ai sindacati nella quale, lui dietro di lei, lei ricevendo da tergo quest’imprevisto sacramento riconosceva come strumento del proprio buonumore un cazzo progressivamente meno gallonato (da maresciallo maggiore a sergente, ad appuntato, a militare di leva) fino a ritrovarsi finalmente tra le gambe l’homo sapiens senza nessun orpello storico o istituzionale che i propri venti centimetri scarsi di 25 virilità. Una meravigliosa copertura, dicevamo, l’Italia di quel tempo, a prova di Cia e Kgb ma non degli assolati pomeriggi di Pasquetta in cui crollavano, uno dopo l’altro, come immensi tendoni sospesi sul niente, gli ingombranti vessilli della Guerra Fredda, della ricostruzione, del risorgimento e della resistenza, delle falci, dei martelli, (perfino di Salò), per rivelare un uomo e una donna alle prese con se stessi. Un’indolente uscita dalla Storia, quest’ultima, che però già si ricomponeva nel giro di cinque minuti, quando per esempio mia madre, conquistata una certa confidenza e inerpicandosi maldestramente su una china maliziosetta decisamente troppo seventies in tempi di neorealismo e bianco e nero, sussurrava dolcemente nell’orecchio di mio padre: “Sì, va bene, ma adesso inculami”. W W W . VA R K J O V I C H . C O M 26 Davide L. Malesi STORIA D’AMORE DEBOLE E D’AMORE AMARO Davide L. Malesi ha pubblicato racconti, brevi saggi e inchieste giornalistiche su Origine, FaM - Frenulo a Mano, Inchiostro, Inciquid. Collabora stabilmente con la redazione di Medicine Show (www.medicine-show.net), la rivista musicale più cialtronesca del mondo. Ha un blog (licenziamentodelpoeta.splinder.com). Rania sapeva solo che le serviva il pezzo di carta firmato. Anzi, i pezzi di carta. Tre. Quei due le dissero: non c’è problema. Sorridevano. Troppo. Parlavano in francese. Veramente, uno parlava, l’altro stava zitto. Indossavano completi di lino, eleganti. Estivi. Quello che parlava aveva i baffetti, che ce li aveva pure quello che non li voleva in Francia, l’impiegato. Quello che stava nell’ufficio con le pareti scrostate di vernice vecchia, ocra pallido. Le sedie scomode, di plastica. Fuori dalla finestra, Marsiglia. Che è un porto sul Mediterraneo. Con i moli e le navi, e gente che va e che viene. Dentro la stanza, l’impiegato. Ma Rania non lo sapeva, che aveva i baffetti pure l’impiegato, perché lei era rimasta a casa con Assam, e c’era andato Farid, a parlare. E quello aveva detto: ci spiace ma non ci è consentito ammettere la vostra richiesta d’asilo. Purtroppo abbiamo molte richieste. Voi non siete perseguitati politici. Né lei né sua moglie siete impegnati politicamente o iscritti a un partito. Non siete alle dipendenze di una compagnia francese. L’impiegato parlava francese, che Farid lo capiva perché c’era abituato. E anche Rania. Prima, a Abadan c’erano un sacco di francesi. Per via dei cantieri della Compagnie Internationale Nauticale et Océanique. I cantieri navali più grandi del Medio Oriente. Pieni di francesi. E il porto era pieno di navi petroliere francesi, che imbarcavano il petrolio della raffineria dove c’erano tecnici francesi, e tutti i francesi di notte si riversavano nel centro della città a riempire le mescite, i bistrò, i locali da ballo, i casinò, i night club, tutti con nomi francesi, come i nomi di quei due tizi vestiti di lino. Quello che parlava aveva i baffetti, come l’impiegato di Marsiglia. Disse che l’avrebbero anche pagata, e si trattava semplicemente di spogliarsi e far vedere il culo. Lei andò. Non disse niente a Farid, che forse capì qualcosa, anzi sicuramente. 29 Vide la macchina blu che la venne a prendere, e fece finta di niente. Che poteva fare? Stavano in un prefabbricato. Made in Germany. Il campo di transito puzzava di piscio di gatto, ed era pieno di gente disperata. Respinti. In attesa di una revisione della loro richiesta. Farid la vide solo avviarsi verso la porta, bella, imperiosa. I capelli, neri. Indossava vecchi jeans lisi e una maglietta scollata, e sandali. Vestiva abitualmente così, e le donne musulmane osservanti del campo, lì a Bodrum, la evitavano e sparlavano di lei. Farid le chiese solo: dove vai?, dove vai, Rania?, e Rania rispose solo: quando torno avrò i permessi, e Farid avrebbe certo detto qualcosa, ma in quel momento entrò nella stanza Assam e disse: mamma, dove vai???, perché aveva visto che Rania aveva una borsa leggera da viaggio. E Rania guardò Farid con due occhi che dicevano: portala via, ti prego, e Farid prese per mano Assam, che adesso ha otto anni. Qualche tempo fa, Assam giocava con gli altri bambini. Alla sua età, si usa. Assam giocava nel cortile del palazzo, a Marsiglia. Era abituata a giocare ai giardinetti vicino al mercato, ad Abadan. Ma in quattro e quattr’otto ha imparato a giocare nel cortile del palazzo, a Marsiglia. Assam ha otto anni e le Domande Preferite. Ché quando hai otto anni, vivi in un mondo di domande. Devi chiedere le cose, perché molte non sai come procurartele. Oppure c’è il caso che non puoi fare tutto quello che vuoi. Decidono i grandi, perciò devi chiedere ai grandi. Se hai fame, chiedi ai grandi. Di solito a mamma e papà, o agli zii, o ai nonni, perché mamma e papà ti hanno detto di non accettare cose dagli sconosciuti. Se non hai voglia di andare a scuola, chiedi a mamma, o a papà: posso stare a casa?, e non è una buona domanda perché di solito dicono: no. Ma tu chiedi lo stesso. Se hai paura, di notte, chiedi a mamma, o a papà: posso venire nel lettone???, posso???, e a volte puoi. Ma a volte: no. Quando sei bambino hai le Domande Preferite, che sono quelle a cui non ti dicono quasi mai: no. Quelle a cui in genere ti dicono: sì. La Domanda Preferita dei bambini viziati coi genitori pieni di soldi di solito è: me lo compri?, col dito che indica un giocattolo nella vetrina di un negozio. La domanda preferita di Assam fino a qualche tempo fa era: vuoi giocare con me? La faceva agli altri bambini, nel cortile del palazzo. A Marsiglia. Che è un porto sul Mediterraneo. Con i moli e le navi, e gente che va e che viene. Assam è venuta, con la pioggia. Pioveva sul porto quando sbarcarono dalla nave, la prima volta, Assam e Farid e Rania. Ad Abadan, non c’era più posto, il posto di Farid era in un club col nome francese, pieno di francesi, un posto da pianista. A sentirlo venivano tecnici delle società petroliere francesi, o uomini d’affari, perché ad Abadan si facevano affari, dove c’è il petrolio si fanno affari, e il locale era pieno di ragazze, non francesi 30 però, ragazze iraniane con gli occhi bistrati e le calze di seta, e i vestiti scollati, e i francesi le invitavano a ballare e le chiamavano tutte: chérie, ché i nomi iraniani se li scordavano sempre o li pronunciavano male. Sopra, c’erano stanze dove i francesi scopavano con le ragazze con gli occhi bistrati, che si toglievano le calze di seta, e i vestiti scollati, e restavano nude, come poi Rania, sulla barca. A Bodrum, al porticciolo turistico, erano arrivati lì su una macchina blu notte con l’autista e i due tizi vestiti di lino, bei completi estivi, i francesi, che una volta a bordo le dissero nuovamente che lei doveva starsene sul tavolo e basta, a ballare. Invece lo skipper li portò al largo e c’era uno, forse un pachistano, con una telecamera e una bandana, e tre ciccioni turchi che quando uno dei francesi, quello coi baffetti, disse che lei era carne fresca, una buona moglie musulmana che aveva conosciuto solo il cazzo del marito, non una delle solite puttane, e lo disse con un tono di apprezzamento, come quando si parla di un cavallo che ha dei bei denti, allora i turchi si eccitarono di brutto e vollero per forza farselo prendere in bocca, e a lei serviva il pezzo di carta firmato, chiaro, perché era per via del pezzo di carta che li avevano sbattuti fuori da Marsiglia, la prima volta. L’impiegato, quello di Marsiglia, non aveva messo la firma, o il timbro, o tutt’e due – quello che serviva insomma – sul pezzo di carta. L’impiegato aveva detto a Farid: non posso accordarle lo status di rifugiato. Né a lei, né a sua moglie. Né a sua figlia. E Farid aveva chiesto: perché???, ché gli veniva da piangere, ma non voleva però la voce gli si spezzava lo stesso, e quello di rimando: è tutto scritto qui, nella Convenzione di Ginevra. Lei può essere accolto in Francia se è un rifugiato. Ma lei non lo è. Prese un libro che teneva aperto a una certa pagina e lesse: È RIFUGIATO COLUI CHE, TEMENDO A RAGIONE D’ESSERE PERSEGUITATO PER MOTIVI DI RAZZA, RELIGIONE, NAZIONALITÀ, APPARTENENZA AD UN CERTO GRUPPO SOCIALE, O PER LE SUE OPINIONI POLITICHE... che Farid non aveva, né aveva mai avuto. A parte che odiava i fanatici religiosi. Questa era una cosa che non aveva capito: pareva che tutta Abadan li odiasse, peggio del fumo negli occhi, però adesso stavano al potere. Strano. Comunque. A lui piaceva suonare il piano. Non ci vedeva niente di male. Ma il nuovo governo aveva chiuso il club. Effettivamente, era un posto che nessun musulmano osservante avrebbe frequentato. E infatti, i clienti erano tutti francesi. Ma la direzione era severissima, e le regole venivano fatte rispettare da buttafuori piuttosto energici: i clienti, in sala, potevano ballare e bere con le ragazze, tutto il resto avveniva nelle stanze sopra il locale, i clienti non dovevano neanche provare a baciare le ragazze in pubblico, assolutamente, quello era un locale decente. I clienti erano avvertiti all’ingresso, ché in un Paese 31 musulmano è lecito aspettarsi un minimo di decoro. Chi non ci sta, si trovi fuori, continuò l’impiegato, mi sta seguendo? ...SI TROVI PAESE DI CUI È CITTADINO E NON POSSA, VIA DI QUESTO TIMORE... QUESTE COSE, DAL FUORI, PER VIA DI O NON VOGLIA, PER che succedesse qualcosa a Rania. O peggio, che le portassero via Assam. Il club, lo avevano chiuso. Le autorità islamiche di Abadan, dopo la Rivoluzione khomeinista, avevano chiuso tutti i bistrò, i locali da ballo, i casinò, i night club dai nomi francesi. Era il 1979. La musica, ad eccezione di quella classica o religiosa, fu messa fuori legge, spingendo persino gli esecutori di musica persiana tradizionale a eseguirla di nascosto o all’estero. I musicisti venivano messi sottosorveglianza dalla polizia religiosa. Se qualcuno protestava, lo arrestavano. Metodicamente, i magistrati del nuovo governo cominciarono a indagare nel passato di quanti avevano lavorato nei jazz club di Abadan, trovando sempre qualcosa di deprecabile agli occhi della morale islamica. Storie di droghe, alcolici, fornicazione, adulterio – vere o presunte, non importava – e qualunque infrazione della legge coranica erano tutti validi motivi di arresto, e i genitori si vedevano portar via i figli. Anche le famiglie dei musicisti colpiti da una sentenza di un tribunale religioso – la fatwa – correvano seri pericoli, tra cui quello di essere linciati dai fanatici, che adesso avevano mano libera nello sfogare la propria violenza, in quelle parole, c’era violenza nelle parole dell’uomo. E paura. Disse alla moglie: nostro figlio non deve più giocarci, con quella lì – parlava di Assam – e lo disse perché tutti nel palazzo sapevano che Farid era andato a parlare con l’impiegato, quello coi baffetti, e l’impiegato aveva detto che Farid e Rania e Assam dovevano ritornare in Turchia. Erano passati dalla Turchia per venire in Francia. Erano scappati da Abadan, perché lui, Farid, non poteva permettere che accadesse nulla a Rania. O che le portassero via Assam. Lei non glielo avrebbe mai perdonato. Già il lavoro di lui al club non le piaceva troppo. Rania era molto occidentalizzata, aveva studiato all’estero, e – come altre ragazze della sua età – fino a prima della Rivoluzione, aveva sfidato le convenzioni mostrandosi liberamente in pubblico senza il velo. Ma l’ambiente del club dove suonava Farid, non le piaceva – anche se non c’era mai stata, con quel che aveva sentito dire ce n’era d’avanzo – e Farid non poteva permettere che il governo le togliesse Assam per via di quel lavoro. Questo, Farid avrebbe voluto spiegare all’impiegato francese coi baffetti, che continuava a leggere ad alta voce, come una litania, 32 ...NON POSSA, O NON VOGLIA, PER VIA DI QUESTO TIMORE, AVVALERSI DELLA PROTEZIONE DI QUESTO; È RIFUGIATO ANCHE COLUI CHE, NON AVENDO UNA CITTADINANZA E TROVANDOSI FUORI DAL PAESE IN CUI AVEVA LA RESIDENZA ABITUALE, NON POSSA O NON VOGLIA TORNARVI PER IL TIMORE DI CUI SOPRA. Questo dice l’articolo 1, capisce? Farid capiva il francese e annuì, ma non riusciva a intendere perché la Francia non potesse accoglierli. Credeva che l’Europa li avrebbe salvati. E in effetti, una volta l’Europa era diversa: prima di tutti quei rifugiati, quando i profughi politici erano pochi, e non davano ancora fastidio. L’Europa era ospitale – non perché fosse buona, ma perché aveva il complesso di colpa. L’Europa, si diceva, dava asilo a quelli che fuggivano, amava i fuggiaschi. Ma era un amore debole. Farid aveva caricato in macchina Rania e Assam, ed erano rimbalzati fino al confine con la Turchia, ché ad Assam piace far rimbalzare la palla, ma le piace di più se c’è qualcuno a cui lanciare la palla che poi gliela rilancia, un altro bambino come lei, possibilmente, i grandi non vanno bene per quello, Assam è diventata grande abbastanza da sapere che si annoiano a giocare a palla. A Marsiglia, Assam stava in un brutto palazzone di cemento armato che ha otto piani con i panni stesi ad asciugare ai balconi e le donne in pantofole e grembiule che li stendono e sono donne che hanno pelli colorate: dal bianco al caffelatte e un po’ tutte le sfumature scure: quelle pelli colorate migliorano l’estetica del palazzone ma resta un brutto palazzone che però ha un cortile con un po’ di verde e i viali col ghiaietto, e Assam correva nei viali col ghiaietto. Ma a volte il ghiaietto s’infila nelle scarpe, e lì fa male. Così Assam era obbligata a fermarsi per togliere i sassetti. Si sedeva per terra, slacciava la scarpa, la toglieva, la scuoteva per levare i sassetti. Poi doveva rimettersi la scarpa, e allora si ricordava di non saper allacciarsi le scarpe da sola. Di solito si faceva aiutare da un bambino più grande che si chiama Samy. Ma i genitori di Samy a un certo punto gli hanno detto che lui non doveva più parlare con Assam, né giocare con lei, che non stava bene. Samy ha provato a dire qualcosa e il padre l’ha fatto star zitto con uno schiaffo. Come se il padre di Samy temesse di essere contaminato dalla sfortuna capitata a Farid e Rania e Assam. Anche Samy e i suoi genitori erano profughi iraniani, come molti di quelli che stavano nel brutto palazzone, e in Iran se la polizia religiosa o una spia dei khomeinisti ti vedevano anche solo parlare con qualcuno che stava per cadere in disgrazia, rischiavi di brutto. Perciò il padre di Samy ha paura, perché tutti hanno saputo che Farid e Rania e Assam devono ritornare in Turchia, nel campo di transito che raccoglie tutti quelli che sono arrivati in Francia dalla Turchia e poi li hanno rispediti indietro, salvo i perseguitati politici o i dipendenti delle aziende francesi. L’impiegato coi baffetti ha detto a Farid che, poiché lui e Assam e Rania sono passati dalla Turchia, devono rivolgere la 33 richiesta di immigrazione all’Ufficio Stranieri dell’ambasciata francese in Turchia, richiesta di immigrazione, però, non di asilo. E Farid ha gridato: perché, perché non posso avere asilo? Perché non ho lo status di rifugiato? La mia famiglia era in pericolo! Non potevamo restare ad Abadan! E l’impiegato di Marsiglia ha risposto: certo, ad Abadan non potevate restare, ma voi eravate in pericolo laggiù, non in Turchia. In Turchia, non correvate alcun rischio. Quando al palazzone si è saputo che l’impiegato coi baffetti aveva detto questo a Farid, un muro di silenzio ha circondato lui e Rania e Assam. Nessuno ha più voluto parlare con loro. Avevano paura, come Rania mentre lo succhiava ai tre ciccioni turchi mentre l’altro, quello con la telecamera, rideva come un pazzo. Rania l’aveva fatto solo col marito, fino ad allora. I turchi erano molto eccitati e temeva che le facessero male. Vollero scoparla, tutti, anche i francesi e quello con la bandana, a cui piaceva strizzarle i capezzoli e farla gridare, mentre gli altri sghignazzavano. Ma Rania aveva bisogno del pezzo di carta con le firme e i timbri. Da Marsiglia, lei e Farid e Assam, erano rimbalzati in Turchia: scaricati nel porto di Bodrum. Agenti della polizia turca li avevano scortati al campo di transito. Avevano sessanta giorni di tempo per ottenere legalmente l’ingresso in Francia, presentando una richiesta alla delegazione a Bodrum dell’ambasciata francese di Ankara: altrimenti li avrebbero rimpatriati in Iran, definitivamente, e ovviamente laggiù sarebbe accaduto loro qualcosa di terribile, c’erano voci di intere famiglie lapidate o uccise in altri modi spaventosi. La prima richiesta fu respinta. Ci dispiace, ma non avete i requisiti necessari eccetera. Presentarono una revisione della richiesta. Ci vorrà tempo, disse l’impiegata della delegazione francese, e i giorni intanto passavano. Ma Rania sapeva che c’era una vecchia lì al campo, una specie di mezzana, che poteva dar loro una mano, purché lei facesse un certo servizio, sicuro. Così andò dalla vecchia, una ruffiana turca di settant’anni tutta ingioiellata a cui mancavano tre dita della mano sinistra, e quella combinò un incontro con un tizio coi baffetti dell’ambasciata francese, che le disse che si poteva trovare il modo di fornire dei visti a lei e a tutta la sua famiglia, Rania doveva solo andare su una barca, ballare e far vedere il culo. Il resto, non le torna in mente, forse non vuole. Le hanno fatto bere del vino, e lei non è abituata – da brava moglie musulmana – e forse nel vino le avevano messo qualcosa, così che non ricorda granché, solo qualche spezzone di immagine, e la mattina dopo in una doccia con un’emorragia rettale e i capelli sporchi di sperma. Era sullo yacht, e sul tavolo della cabina c’era del succo d’arancia e una brioche glassata, e della frutta. Sotto una curva della caraffa di succo d’arancia, il pallido e rassicurante verde vomito dei soldi. E i documenti che le servivano, firmati e timbrati. Almeno, avevano rispettato l’accordo. Rania prende 34 un taxi e torna da Farid, che quando la vede inizia a dire una parola. Ma lei lo mette zitto: qualunque schifo possa sentire tu, quello che sento io è cento volte tanto, dice. Lei ha l’innocenza attribuitale dal martirio, lei può dimenticarsi di tutto in questo momento, così gli ordina di tacere. E di baciarla, perché vuole sentire addosso le labbra di Farid. La bambina dorme, dice lui, prima di smarrirsi nella bocca di Rania, la bambina non riusciva a dormire stanotte, dice Farid, è rimasta in piedi finché non è crollata, ora dorme. Bene, dice Rania, visto che la bimba dorme, portami in camera, adesso, e fai l’amore con me. Farid fa l’amore con lei, ovviamente: un amore amaro, silenzioso e dolente. Anche mentre lo fanno, Rania continua a ripetere: fai l’amore con me, che forse un giorno anche Assam lo dirà a qualcuno, a un uomo: fai l’amore con me. Assam vive in Francia, con Rania e Farid, a Marsiglia, che è un porto sul Mediterraneo. Con i moli e le navi, e gente che va e che viene. Per adesso, non chiede cose del genere. Ha anche smesso di chiedere ad altri bambini di giocare con lei, dopo che Samy non le ha più allacciato le scarpe, perché il padre di Samy – poco prima che la rispedissero in Turchia – gli ha detto che non deve giocare con lei. Quando sono sbarcati in Francia, per la seconda volta, avevano tutte le carte a posto, coi timbri e le firme. Assam non gioca più. 35 Piersandro Pallavicini Per anni e anni il genere cosiddetto “rosa” è stato odiato e aborrito. E per forza: vi corrispondevano le melense sciocchezze romantiche a base di sesso non detto e sentimento sbrodolato delle collezioni Harmony, o delle Liala, o delle (appena più sopportabili) Brunella Gasperini. Stucchevolezza e moralismo rendevano il genere insopportabile. L’iconografia di copertina rispondeva di conseguenza: ritratti iperrealistici da Domenica del Corriere con giovani donne munite di sguardo sofferente e semmai abbracciate – pur vestitissime – a giovani uomini virilmente baffuti, magari in uniforme, e anch’essi con ombre miste di estasi e malinconia ad attraversargli lo sguardo. Da quelle copertine, dallo loro grafica dimessa e intrisa di un reale ordinario e pieno di retorica, si era avvisati: tenetevi lontano, oppure sappiate che state per sporcarvi di caramello, e sappiate che i vostri occhi si inumidiranno in un fiat, e un groppo vi salirà in gola. Già iconograficamente, dunque, il romanticismo stucchevole era eletto a genere. 36 Shag: A proposed Calypso Party IL VOLTO DEL NUOVO ROSA Guardate la copertina di I love shopping (Sophie Kinsella, in Italia edito da Mondadori). E guardate pure quelle dei sequel I love shopping in New York, e in bianco, e con mia sorella: la grafica è lontana dal realismo, parte piuttosto dal fumetto, o dalla sua versione animata. I colori sono piatti e vivi (vivaci ma morbidi, come diresti della texture di un cachemire) e le forme stilizzate, ed emana un senso di soavità, di lusso, di spensieratezza, di allegria, e – sia pur in modo sottile e sotterraneo – la flessuosità delle figure ha un che di sexy. Bene, I love shopping è uno dei capostipiti del nuovo rosa. Certamente va citato insieme al solito Diario di Bridget Jones (e sequel), per dire dell’area in cui questo “nuovo genere” si muove, e poi si può portare ad esempio una piccola costellazione di romanzi, come quelli di India Knight, o quelli di John O’Farrell… Ma la Kinsella con i suoi amati shopping fa scuola: per contenuto e iconografia. Il nuovo rosa, a differenza del vecchio, anche nella narrazione è adorabile: diminuisce il peso del sentimento e innalza quello della spensieratezza, della bellezza, della carineria e della “stupidineria”, in parte anche quello del lusso, senz’altro quello della “coolness”, senz’altro quello del pop. Per tornare alla faccia con cui questo new pink si presenta, alle copertine: I love shopping è un caso isolato? Se si getta un’occhiata panoramica agli scaffali che, in libreria, raccolgono (pur sotto le denominazioni più bizzarre: la più assurda, vista, è “libri per donne”) i testi appartenenti in varia misura al nuovo rosa, ci si accorge che una grafica come quella vista sulle copertine della Kinsella è in realtà, per questo genere, marchio di fabbrica, o meglio ancora dichiarazione d’intenti, di stile, e per dirla grossa di “poetica”. Proviamo, di questa ricetta grafica, a cercare non il gusto che si prova ad assaggiarla, ma gli ingredienti: c’è dentro qualcosa di tipicamente british, poi qualcosa che evoca l’illustrazione anni sessanta e cinquanta, dettagli che richiamano a generici “tempi andati ed eleganti”, poi qualcosa che indica comfort e calore (lo spropositato uso di dolcevita stilizzati, può essere?), qualcosa che indica giovinezza, benessere fisico, una certa componente di allegria (anche solo i colori…), una certa componente di alcoolicità, e nelle forme, qualcosa che richiama le curve futuribili dei cartoon alla Pronipoti, e cioè la bellezza e la sicurezza della tecnica e del design. Insomma: qualcosa che inizia a generare nel lettore tranquilla allegria e piacere prima ancora che il testo sia iniziato – così come, sui vecchi Harmony, sopracciglia corrugate e volti emaciati generavano subito struggimento e malinconia. Bene, se avete una certa abitudine con i superstore musicali, vi sarete accorti che questa è la grafica che caratterizza molte copertine di musica Lounge. In particolare, guardate cosa disegna Shag, considerato il graphic-guru della Lounge: guardate 37 i suoi libri illustrati (sono guide per la preparazione di cocktail, o per la riuscita perfetta di un Bachelor Party), i suoi flyer, o – restando appunto alla musica – i lavori fatti per Ursula1000. Morbidezza, eleganza sexy, flessuosità, fifities e seventies, pronipoti e pantere rosa… Ma non è certo un caso: per la musica, il genere Lounge rappresenta esattamente il rosa. Musica nostalgica di ciò che di cool e pop e modaiolo sono stati gli anni ’50 e ’60, musica che si nutre di frivolezza, di soavità, di leggerezza e di eleganza, musica che predispone l’animo al divertimento sofisticato, musica sexy ma spiritosa. A quell’impatto grafico, all’uso degli stessi ingredienti – e alla generazione dunque dello stesso “gusto” all’assaggio visivo – corrisponde un contenuto che ha le medesime carattersitiche del rosa narrativo. Questo porta con sé un’interessante possibile considerazione: la stessa ricetta grafica è stata cucinata altrove, in altri tempi, in altri luoghi e per altre pietanze? Ed è stata servita sempre con le stesse intenzioni, e cioè quelle di invogliare/predisporre l’utente alla fruizione di un prodotto leggero, soave frivolo etc? Se tracce di quella grafica si trovano sulle copertine di musica jazz anni ’60… se, anche, tracce si possono vedere su periodici d’intrattenimento familiare con pretesa di “eleganza” (si va dalle illustrazioni de La Cucina Italiana ai Quesiti con La Susi dentro alla Settimana Enigmistica)… se sono riscontrabili nel leggendario cartoon di apertura del film in cui Sellers disputava a Niven un diamante chiamato Pantera Rosa… una grafica al 100% pink e lounge la si trova su libri che – almeno in Italia – si pubblicavano negli anni ’50 e ’60: erano quelli di Carlo Manzoni e quelli di P.G. Wodehouse. Libri comici e non rosa? Comici sì, ma non era solo questioni di risate. Di nuovo, l’iconografia corrispondeva al contenuto. Manzoni, Wodehouse: entrambi faranno anche ridere, ma sono la soavità, la stupindineria, la spensieratezza, l’ambientazione stralunata e lussuosa, il sesso non esplicito ma presente tra le righe a rendere questi due autori irresistibili… e dunque totalmente rosa. Bene: Wodehouse e Manzoni, nella loro produzione, in parte precedono e in parte sono contemporanei a Liala o alla Gasperini, e di sicuro vengono prima di qualsiasi Harmony o Danielle Steel. Ecco allora un dato interessante: il “nuovo rosa” probabilmente nuovo non lo è affatto. Semplicemente è un “altro rosa”. Tornato a galla dopo decenni di polpettoni romantici che l’hanno nascosto, monopolizzando il genere e facendo diventare l’allegra etichetta pink un’infamante insulto che fa pensare ai fotoromanzi. 38 Roberto Rivetti I CINQUANTA SECONDI PSICHEDELICI DI NICOLA DI BARI Roberto Rivetti Nato nel 1965. Fa parte della redazione di Maltese Narrazioni dal 1991. Vive ad Acqui dove lavora come enotecnico. Fa freddo. In questa casa fa freddo. Perché è vecchia. È isolata da tutto, è una casa di campagna. Perché è piena di spifferi, sibili taglienti che arrivano dove sei più sensibile. Perché sotto il pavimento c’è una stanza vuota e da sotto il freddo attraverso i piedi arriva dappertutto. Fa freddo soprattutto perché il riscaldamento costa e l’inverno è lungo. Basta muoversi però, fare qualcosa. O resistere. O avvicinarsi alla manopola del termostato e girarla un po’. Sembra quasi di sentire in lontananza il Floum della fiamma della caldaia, vedere l’esplosione di colore rosso-azzurrognolo. In pochi secondi inizia il gocciolio dei termosifoni da sfiatare, mi sento come se stesse cambiando la mia vita e posso iniziare a preparare la cena per Marina, che sta per arrivare. E la prima cosa da fare è accendere lo stereo, cercare un cd, alzare il volume tanto da coprire il rumore dell’acqua che scorre nel lavandino dove devo ancora lavare i piatti di una settimana. Mentre lavo i piatti inizio a pensare, ai pesci in frigo da pulire e mettere in forno, e a Marina, che starà preparandosi a uscire dal lavoro, a salire sul bus e poi sul treno, a viaggiare mettendoci un’ora e mezza per meno di sessanta chilometri, ad arrivare in stazione passando dai primi giorni di primavera di Genova agli ultimi d’inverno di Acqui girando il volante gelato della sua macchina ferma in stazione dalla mattina. In definitiva sono partito per tempo, ho almeno tre ore per fare tutto, dare una scopata in terra e una pulita in bagno, lavare i piatti e infornare il pesce. Apro l’acqua calda, metto il detersivo. Il cd scelto per questa operazione è Otis Redding: Dictionary of Soul. Inizio dalle posate e i bicchieri. Immergo i piatti. Sono arrivato all’esplosione di Try a little tenderness, nel momento in cui cambia velocità quando suona il telefono. 41 Le caselle che stavo mentalmente riempiendo tremolano. Le maniche che avevo tirato su finiscono immerse tra le bolle di sapone. Bestemmiando cerco di pulirmi con uno strofinaccio, asciugandomi le mani. Sì? Sono Marco. Babbucchione! Allora? Stavo facendo qualche lavoro in casa, stasera viene Marina. Marrrinna? Mollala. Era ora che ti decidessi. Quarda che era lei a doversi decidere. Be’, se viene a cena a casa tua una decisione l’ha presa, mica viene per poi andarsene o lasciare in sospeso qualcosa. È per quello che sto pulendo. Era ora che dessi una pulita, soprattutto in bagno. Sì, beh, dimmi tutto. Sono venuto a trovare la fidanzata ma vuole studiare per un po’, e siccome non ho niente da fare posso venire da te? Una mezzora, non di più. Un ora al massimo. Avete litigato. È una domanda? Avete litigato? Questa è una domanda. Guarda che io e la mia fidanzata mica passiamo il tempo a litigare. La tua fidanzata mi odia. Non è vero. Pensa che io abbia una cattiva influenza su di te. Non è vero. Pensa che parli male di lei Non è vero. Pensa che io e te parliamo male di lei, insieme, e la prendiamo in giro. Ti dico di no. Secondo me ha una cattiva influenza su di te, invece. Non è vero. Vabbè, ne parliamo quando arrivi, ma fai presto che poi ho da fare. Ti do una mano anch’io. Così ci metto il doppio. Però la mia fidanzata un po’ di ragione ce l’ha. In cosa? A odiarti. 42 A questo punto nei fumetti apparirebbe una nuvoletta sopra di me con una fila di pallini tra la mia testa e la nuvola, con dentro scritto… NO. Non hai tempo. Devi pulire. Devi lavare. Devi cucinare. No Ti aspetto allora. Sbrigati. Finisco di lavare i piatti prima che arrivi il babbucchione e tolgo Otis dal lettore prima che mi venga contestato. L’abbaiare del cane anticipa il ronzio del campanello. Apro il cancello e esco sul terrazzo a controllare che Ciccio non si mangi Marco giù in cortile. Ha appena comprato una Renault Laguna station wagon, macchina che ormai hanno solo più i muratori marocchini e i campagnoli che guidano con il cappello in testa, poi gli apro la porta. Entra e senza nemmeno salutarmi si siede sul divano, prende una rivista e inizia a sbriciolare il fumo per farsi una canna. Hai un biglietto da visita? Guarda che ci conosciamo da un po’. Mi serve per il filtro. Gli cerco un biglietto da visita prima che mi strappi la copertina di qualche fumetto o di qualche cd cartonato. Anche un biglietto del treno va bene. Ma se saranno dieci anni che non prendo un treno. Gli do un biglietto da visita che mi ha lasciato in casa uno che era una via di mezzo tra un testimone di geova e un ex-tossico diventato rieducatore in una comunità di recupero. Lo guarda attentamente, forse pensa all’influenza spirituale che potrebbe avere sul trombone, poi ne strappa una strisciolina e l’arrotola. Metti un po’ di musica? Ti faccio sentire una cosa. No, dai, metti un bel disco. Preparo il solito disco che tutte le volte mi tocca ascoltare con Marco, quello che preferisce per entrare nel suo magico mondo. Inizia a crescere la voce lontana e appena la chitarra inizia il suo alternarsi, mentre la voce si arrocchisce e la batteria scandisce il suo ritmo, sul divano si allarga un sorriso beato. 1988. Bei tempi. Sembrava il punto di partenza di un’esplosione musicale e invece in pochi mesi, flop. Si sono sciolti e nessuno è più riuscito a raggiungere le stesse cime, l’equilibrio tra i riff di chitarra e i vocalizzi estremi. 43 Bè, dai, i dischi di Morrisey non sono male. Vabbé…però gli Smiths… Se penso che all’epoca ero affascinato dalle chitarre di Johnny Marr pensando che fosse un fenomeno, perfetto costruttore di strutture taglienti e lucenti come brillanti. E invece le uniche cose decenti le ha fatte l’altro. Marco mi guarda come se fossi io quello che stava fumando. Ha lo sguardo interrogativo solito di quando non trova un posacenere e la cenere della sigaretta si allunga pericolosamente iniziando a piegare verso il pavimento. Gli passo il posacenere e ci svuota la mano con cui ha arginato l’emergenza, poi si pulisce su un cuscino. Sono un po’ teso per l’appuntamento, non ci sono più abituato. Perché, prima ci eri abituato? Non fare lo stronzo, dai. Comunque se si è invitata a cena a casa tua è perché ha deciso di concludere. Dici? Anche perché se aspettava te… Più che stare in silenzio non posso. Hai già pensato alla musica da mettere? Qualcosa troverò li in mezzo. Certo che dischi ce ne sono. Quanti saranno? Boh, un migliaio, forse millecinque. La musica è importante, cerca di non esagerare come al solito. Sam Cooke? Troppo vecchio. E troppo esplicito. Marvin Gaye… o forse Tim Buckley. Ma dai su, qualcosa di più moderno. Terence Trent D’Arby? Fine Young Cannibals? Non hai il fisico, dovresti ballare ed è meglio di no, almeno all’inizio. Non hai qualche cd italiano, canzoni d’amore… Tenco? Ma un disco di qualcuno vivo non ce l’hai? Battiato? Troppo cerebrale. Oh, non so proprio cosa cercare, e poi nemmeno credo sia così importante. Sono già teso, continuo a non fare i lavori che dovrei fare e tu non mi sei di nessun aiuto. Suona il telefonino di Marco. Da come risponde è la sua fidanzata. Finisce di fumare la canna mentre risponde e sbuffa fumo da un lato, 44 nelle pause, cercando di non farle capire che sta fumando. Conclude con un “Sì, dai, adesso arrivo. No, è importante. Va bene, va bene. Arrivo”. Fa gli ultimi due tiri e spegne la cicca. Vuota il posacenere nel sacchetto della spazzatura e scrolla il sacco per far scendere le prove del suo reato. Forse in macchina ho qualcosa per te, l’ho preso in autogrill mentre tornavo da Milano. Torna dopo aver fatto abbaiare il cane con un cd in mano. Lo guardo come se fosse appestato, lui e il cd. I grandi successi originali di Nicola di Bari. Doppio cd. Ascoltalo, io vado. E, mi raccomando, concentrato. Riprendo i miei lavori di casa in cui non ho avuto collaborazione, pulisco il bagno e la camera, cambio le lenzuola. Il tempo vola, comunque e in un attimo arriva l’ora fatidica, mi telefona che è quasi in stazione e mi preparo ad infornare il pesce. Mentre cresce l’ansia mi ricordo del cd. Guardo i titoli, beh, molte canzoni dai titoli le conosco, mi ricordano quando da piccolo le sentivo in macchina con i miei genitori sulla strada per il mare. Vedo che ci sono ben sei cover di Tenco, vuol dire che alla fine i suoi gusti non sono così male. Decido di ascoltarlo. Il bello è che è facilissimo capire come finiscono le frasi, rime semplici o forse classici fissati nella memoria. Già l’inizio è fulminante, Vagabondo. Ascolto altre canzoni. Arrivo alla quinta, Un uomo molte cose non le sa, titolo profetico, evidentemente. Inizia lentamente, con un organo da chiesa, poi la voce tremolante accompagnata dalle chitarre acustiche. Continua a cantare tristemente in un crescendo accompagnato dall’orchestra assumendo quasi significati religiosi, poi si ferma. Dopo un minuto e quarantotto deflagra la psichedelia più estrema per una cinquantina di inestimabili secondi. Una folgorazione. Estremo. Poi ritorna al tema e conclude …un uomo molte cose non le sa/le inventa ma è diversa la realtà/ma io che spero sempre son sicuro che/ che dietro a quei ricordi il sole c’è/ il sole c’é. Il cane abbaia. Abbasso la musica. Suona il campanello Apro il cancello, esco sul terrazzo ad accogliere Marina e a guardare che il cane non la assalga. Vedo che socializzano, il che è abbastanza 45 strano visto che è la prima volta che la vede, sono un po’ invidioso delle coccole che si prende Ciccio. Prima di aprire la portami mi tolgo il grembiule da cucina. Apro. Non faccio in tempo a parlare, mi guarda dritto negli occhi, poi mi abbraccia forte e mi bacia. Nicola canta Così ti amo (To love somebody). W W W . VA R K J O V I C H . C O M 46 Simone Marcuzzi IL BAMBÙ DEL VENERDÌ MATTINA Simone Marcuzzi è nato nel 1981 a Pordenone. Dal 2000 è iscritto alla Facoltà di Ingegneria Meccanica dell’Università di Padova. Collabora con le riviste on line Ellittico (www.ellittico.org) e FaM – Frenulo a Mano (www.famlibri.it). È tra i curatori dello spazio Ombelicale all’interno di www.pordenonelegge.it. È lunedì: Annarita ricalca perfettamente l’immagine della Vergine Maria che mi costruivo ogni sera da piccolo, quando prima del sonno recitavo con diligenza due Padre Nostro e due Ave Maria. Bionda, pelle da neonata, aura protettrice screziata di lavanda. Mi sporgo a copiare i suoi appunti, un’informazione di seconda mano, dal professore a lei, da lei a me. Per avvicinarmi senza sospetto sfrutto la scusa-Matteo, che mi siede davanti col suo metro e novantotto oscurandomi l’intera lavagna. Cerco di rubarle di volta in volta un dettaglio microscopico, rilevante nella sua purezza: l’onda perfetta delle guance tra orecchie e naso; un piccolo neo alla base del collo – scorto durante una calcolata sistemazione del colletto; l’odore della traspirazione cutanea nelle ore successive all’educazione fisica (timo, garofani e mandorli in fiore). – Posso? – Certo, fai pure. Un attimo che finisco la frase. – Grazie. Controllo disinteressato qualche parola sparsa tra le righe, più che altro ne ammiro la calligrafia, rotolante, aggraziata. Mi raddrizzo sul posto, come se di colpo fosse cessato l’alito di vento che mi piegava di lato, scrivo un paio di frasi (diverse da quelle lette) in una via di mezzo di corsivo e stampatello, a tratti la spio con la coda dell’occhio, a tratti fisso malinconico la trama della camicia di Matteo. Quando suona la campana non cerco di seguirla e intavolare una discussione appassionata, non ne sarei capace. Le ragazze hanno i loro argomenti, e pur conoscendoli non possiedo idee mie a riguardo. Niente teorie rivoluzionarie su cosmetici e real-tv, niente contributi scientifici su alta moda e musica giovanile, nessuna capacità di sciorinare intrepide battute allusive o velatamente sfacciate. Mi accodo al gruppo, la sento ridere alzando la bocca al cielo, vedo i fianchi flottare a destra e sinistra e le mani mimare ogni affermazione, quasi ad aumentarne la portata, allargarne il campo di validità, ma sono estraneo, chiuso in un’area protetta tutta mia. Salgo in corriera, lei è su un’altra. Le do l’ultimo saluto a distanza (un 49 bacio ottocentesco sulla guancia destra con leggera strizzata della pelle di un fianco), poi mi richiudo nella più totale desolazione esistenziale. Estraggo dallo zaino il foglio accartocciato che Annarita ha compilato oggi nell’ora di italiano, lo apro, studio con attenzione i soliti, spietati, paralleli CompagnoDiClasse - AnimaleEsotico. Le vittime sono casuali, ci sono passati già tutti un paio di volte, tranne me, che sono compagno di banco e involontario (ma in qualche misura orgoglioso) complice. Di solito scrive durante le interrogazioni, in piccolo, su un foglio piegato in otto se non sedici parti: scruta tutt’attorno mangiucchiando un’estremità della penna, le palpebre a mezza altezza, nel tentativo di concentrare la capacità visiva a un’area d’azione ridotta e quindi più potente e penetrante, fino all’improvviso guizzo, la veloce stesura di fitte righe dense di particolari (epidermidi squamate, pronunce feline, volti scimmieschi, sederi pachidermici) e una ridacchiata compiacente durante la rilettura. Poi arriva il mio turno: mi passa il foglio furtiva e ansiosa. Lo leggo e, indipendentemente da quello che effettivamente penso, le scrivo le parole più belle e lodevoli che mi vengono in mente per sottolinearne l’acume e lo spirito d’osservazione. Questa è l’unica forma di lettera d’amore che mi sono finora permesso di scriverle, un commento entusiastico e partecipe ai suoi infantili giochetti. Chissà che ruolo avrei io nel suo zoo personale, penso richiudendo il foglietto e arroccandomi alla meglio nel mio sedile, le ginocchia puntate sullo schienale davanti al mio, non è mai stata così sfacciata da rivelarmelo, sarebbe abusare troppo, ance per una persona innocua come me. Lo posso ben immaginare, in ogni caso: il panda, è chiaro. Indifferente di fronte all’estinzione della mia specie, seduto in quella goffa posa che ricorda un bebé impacciato, a occuparmi con vaga precisione di uno spuntino a base di croccante bambù. Ogni mia azione fa parte di un meticoloso rituale, quasi sacerdotale, di normalità. Ciò che teorizzo nell’ombra è l’eliminazione della Sorpresa come salvaguardia dell’essere. Come posso abbattere queste difficoltà e trovare il coraggio di dichiararmi? Come posso superare gli annosi problemi di trapasso generazionale e presa di coscienza della realtà? Annarita ha un difetto, ed è questo che la rende diversa dalla Vergine Maria. Più che un difetto io lo recepisco, lo vivo, come un incubo, che si ripropone ogni venerdì mattina puntuale come la corriera da Azzano Decimo, dove vive. Dal lunedì al giovedì, la baraonda di sensazioni che Annarita mi procura si infittisce, diventa un frutto quasi palpabile, solido. Lo sento sbocciare nel petto, maturare poco a poco, distendere le proprie radici lungo il corpo come un secondo sistema nervoso, conferirmi nuova forza e sostegno. Comodo nel mio pigiama da detenuto a righe bianche e blu 50 mi aggrappo al cuscino, lo accarezzo, lo esploro da cima a fondo, variando l’intensità del tocco (da dure pressioni da metalmeccanico a dolci carezze da pianista), mi esercito in baci appassionati dosando salivazione e penetrazione della lingua. Nelle notti del giovedì mi permetto addirittura di sognare: all’improvviso, l’inerte ammasso di piume foderato acquisisce un metabolismo proprio, sviluppa arti, fianchi, capacità motorie, e infine ricambia i miei baci impacciati (non serve nemmeno che mi concentri sulla respirazione e il senso di rotazione, tutto è spontaneo, perfetto!). Poi, impietoso, arriva il venerdì, mai una sorpresa nel matematico incedere della settimana. Solitamente siedo in classe, gli occhi fissi verso l’esterno (un paesaggio reso opaco e inespressivo dalle macchie irregolari sui vetri), senza il coraggio di controllare il suo arrivo: fingo di interessarmi alle dinamiche del giardino, in totale quattro pioppi buttati là a fare ombra al parcheggio dei professori. Improvvisamente (uno spavento gelido anche se calcolato; forse, gelido perché calcolato), il tonfo dello zaino in terra, lo stridore della sedia tirata indietro e il saluto acuto. Mi giro chinato verso il basso, le pupille a seguire gli spigoli dei banchi e i tetri aloni del pavimento, per controllare l’unico particolare rilevante, prima di incrociarne lo sguardo: ed eccolo, diligente come un chierichetto alle prime funzioni, lo sciagurato completo giacca e pantalone color verde pisello in fibra sintetica. Il completo giacca e pantalone color verde pisello in fibra sintetica (bisogna sempre chiamarlo per intero, ho stabilito fin dal primo incontro. Dire solo completo in fibra sintetica, o completo giacca e pantalone, o completo verde pisello, sarebbe limitante e scorretto. Le cose vanno chiamate con il loro nome, soprattutto se terribili) mi fa compagnia anche al sabato, ma è il venerdì il giorno della rivelazione. Il sabato è una conseguenza. È impensabile che Annarita indossi il completo giacca e pantalone color verde pisello in fibra sintetica al venerdì e poi al sabato se ne venga fuori con un paio di jeans slavati e una discinta t-shirt da cui si affaccia curioso un occhietto ombelicale. Tutte le fantasie accumulate in quattro giorni e messe a fuoco in una scintillante notte di eccessi si sono regolarmente polverizzate in un acido ritorno alla realtà, ottenuto con una sciocca rotazione della testa (così discreta!, così rispettosa!) simile al gesto di un bimbo che segue interessato la corsa delle auto da un ponte sopraelevato. È giovedì. Non riesco a stare tranquillo. Non ho raccolto nessun nuovo dettaglio, negli ultimi due giorni, se possibile la mia intraprendenza è ulteriormente diminuita. Sono tormentato dal presagio del completo giacca e pantalone color verde pisello in fibra sintetica. 51 – Scusami ancora, cosa ha detto? – Ah, leggi pure, non so da dove ti manca. – Grazie, grazie tante. Usciamo. Tiene lo zaino su un’unica spalla, è molto allegra. La osservo da dietro, provo a isolare il rumore della ghiaia che sposta con i leggeri passi da danzatrice in mezzo allo spostamento globale di ghiaia, come a cercare un suono più armonioso, delicato. Salgo in corriera, la saluto telepaticamente e infine mi chiudo in me stesso, nella consueta, perfetta, liturgia di pandità programmatica. La tecnologia è l’ancora di salvezza degli imbecilli, bisogna dire le cose come stanno. Chi mai si affiderebbe a una conoscenza on-line potendo vagliare dal vero la materia prima? Chi mai si abbandonerebbe alle moine telematiche se potesse annusare e saggiare carne e fiato? Perché mettere alla prova capacità interpretative e critiche con messaggi folti di x, k, punti di domanda ed esclamativi, senza apostrofi e accenti quando si potrebbe dar sfoggio di eloquenza e tatto, cavalleria e sorrisi? Insomma, la tecnologia è la mia ancora di salvezza. Senza di lei, sarei perduto. È grazie a questa stupida presa di coscienza, che mi si rivolta nel cervello come una rivelazione biblica, che ho il coraggio, sotto le coperte, di rivolgermi nuovamente alla Vergine Maria. Rispetto a dodici anni fa non tengo più le mani giunte, polpastrello contro polpastrello, ma impugno deciso un cellulare, cerco una simbiosi coi tasti di plastica. Sono tutto nello schermo arancione, ogni altra superficie solida in camera (scrivania, armadio, scaffale) è ridotta a sfondo indistinto, panorama. Mi dichiaro ad Annarita in trentacinque minuti di esplosioni sinaptiche, 112 caratteri di incessante lavorio di corteccia (parole scritte per intero, con apici ecc.), specificando di non rispondere subito ma invitandola a indossare qualcosa di diverso al mattino seguente (il venerdì) come (eventuale) risposta affermativa. Schiaccio INVIA, e mentre la bustina ondeggia sullo schermo sento il cuore stantuffare colpi fitti e poderosi. Vuole far sentire nitidamente la propria voce, superando il groviglio di ossa e muscoli del petto, quasi a sottolineare il mio comportamento fuori dalla regola. Cosa significa questa nuova intraprendenza? Questa sfacciataggine da ragazzaccio? Almeno impara a inghiottire il fumo, prima! Batte e ribatte, come un allarme interno che segnala la presenza di un virus. Spengo luce, cellulare e palpebre, cerco di rilassarmi, ma il respiro mi esce come un rantolo neanche avessi corso una gara di mezzofondo. Quello che continua a riapparirmi davanti agli occhi (a nulla vale il tentativo di serrarli con più decisione, l’immagine è situata a un livello di 52 coscienza superiore, non ha a che fare con la sfera sensoriale) è l’apparizione di Annarita nel primo venerdì mattina di mezza stagione. Potrei elencare ogni minima sfumatura (l’occupazione di ciascuno dei miei compagni presenti in aula, il perfetto limite dell’ombra dei pioppi sul prato, la percentuale di umidità nell’aria) del momento preciso in cui Annarita spalancò la porta con un movimento troppo secco (quasi a togliersi subito il pensiero di un fatto grave, insostenibile) e esibì il completo giacca e pantalone color verde pisello in fibra sintetica. Quella mattina Annarita si districò abilmente tra gli spigoli dei banchi, sinuosa come un pianta grassa un po’ patita, e mi salutò con un imbarazzo appena velato da un sorriso interrogativo. I capelli (una folta chioma bionda che solitamente chiama a sé la vista e la riempie generosamente in un abbaglio dorato) spuntavano come propaggini marginali, detriti insignificanti del frutto prematuro che la infagottava e stringeva, e andavano a occupargli il cranio, avvolgendolo senza cura come una parrucca clownesca troppo economica; le labbra (chiavistello che nasconde immensi tesori, unica parte emersa, visibile, di un mondo sotterraneo che ambivo di esplorare da molte, languide notti) parevano cipolle in mezzo ad aiuole di petunie, oggetti fuori posto, del colore e della forma sbagliati; i fianchi (magica curva, tondeggiante come una o a inizio parola, piena e feconda) mi costrinsero a elaborare paragoni con ammassi incongrui di rifiuti fuori dai cassonetti, botti di aceto imbrattate di polvere, macellai sudati che affettano costate di maiale. Riassumendo, quella mattina di marzo Annarita apparve ai miei occhi (ora sbarrati, incapaci di tornare a una posa naturale, umana) mal ritratta e mal colorata, come un disegno di una bambina di cinque anni che sperimenta le gioie dell’assurdo rendendo più spaventoso possibile un misero foglio bianco. Nella notte le ghiandole sudoripare si arrovellano e accaniscono attorno a quel ricordo gastrico, costringendomi a sonnellini di mezzora e innalzando la mia temperatura interna in una sorta di stupida febbre da attesa sentimentale. Niente sogni, nonostante sia giovedì: solo incubi verde pisello. Cosa succederebbe se un panda, sistemato in una zona specifica di un parco in cui le guardie forestali gli fanno regolarmente trovare cibo e in cui viene scaltramente spinto a dedicare attenzioni carnali a una simile femmina – attenzioni che lui offre sornione a una piccola selva di bambù, figuriamoci –, si rendesse conto del pericolo estinzione, e dovesse all’improvviso rispondere alla primordiale pulsione di sopravvivenza della specie e riattivare i suoi comatosi coglioni? Non ci voglio neanche pensare, sarebbe una storia troppo triste. 53 Durante la mattina recito la solita parte: mi lavo i denti senza passarmi il filo interdentale, piscio due volte, non parlo in auto coi miei ma auguro loro buona giornata prima di uscire. Entro in aula cercando di figurarmi in testa (solo per trovare un’occupazione pratica e non avere spazio intellettivo per altri pensieri) a un’ipotetica posa riproduttiva del panda. Si montano come cani? Spargono il seme a casaccio come pesci? Si strusciano avidamente come vermi? Fanno un po’ tutto questo, come umani? Matteo è impegnato in una fulminea copiatura degli esercizi di inglese: con gli occhi fissa il quaderno di Silvio, con la mano destra traccia un’unica linea curva senza interruzioni, sul suo. L’ordine è un lusso che non ci possiamo permettere, vuol dire. Sara interroga Marco per un sondaggio del giornalino scolastico, Noi Del Quarto Anno, come vedo ha titolato la sequenza di stupidaggini che espone con orgoglio (consigli per migliorare l’orario? Gara di torte a fine anno? Miss e Mister Istituto? Nuovi distributori automatici?). Qualcun altro disegna alla lavagna un paesaggio lunare con il professore di matematica che pianta la bandiera del Nepal, facendo stridere di tanto in tanto i gessetti. Altri discorrono delle partite di Coppa UEFA, altri ancora spostano banchi e sedie alla ricerca di disposizioni più furbe. Rumori e brusii abituali, quotidiani, che stamattina non riesco però a controllare, ignorare. Mi esplodono in testa, sono incapace di attribuirgli la giusta dignità, li carico eccessivamente di significato. Più cerco di isolarmi nella mia tana a osservare i pioppi (che formano un quadrilatero con lati e angoli tutti diversi), più i ricettori disobbediscono e catturano informazioni riproponendole tre volte più intense al cervello, in un frastuono lisergico. Controllo l’ora. La corriera è in ritardo. Siedo inquieto, tengo un tempo forsennato con il piede destra, con le mani batto fuori tempo sulle cosce. Di colpo, ultima cosa che mi sarei aspettato dal mio organismo in un momento del genere, sento le gambe muoversi, comandate non più dal sistema nervoso centrale (incapace di gestire una mole eccessiva di input), ma dall’organo pulsante che da piccolo insegnano essere grande come il pugno, e che ora lavora all’impazzata. Sono in piedi (mi vedo in piedi. Sono uno spettatore delle mie stesse azioni: tutte involontarie, tutte inattese), aggiro Sara con uno slancio secco che la ammutolisce e irrita, e mi avvento verso la porta, aperta ad angolo acuto. Esco nel lungo corridoio, semideserto, e proseguo, senza controllo, verso l’ingresso principale. Rinuncio definitivamente alla normalità, al bambù del venerdì mattina, e questo mi sconforta ed eccita in ugual misura. Cosa può significare? Ogni dettaglio di quotidianità è sommerso in una brodaglia di esasperazione e attesa. 54 Le pareti mi appaiono a folate, come i vagoni di un intercity in piena corsa, i colori sfilacciati e intrecciati come in una pessima imitazione di quadro impressionista. Il respiro mi esce a piccoli fiotti bilici, la pelle è avvolta in una gelatina di sudore, uno strato semifreddo di esalazione corporea, i piedi continuano a rincorrersi seguendo un percorso vagamente rettilineo. – Sarebbe fattibile una sfilata in costume o è troppo? Se è fattibile, però, i maschi devono sfilare in mutande, voglio dire, niente boxer. Qui i professori li lascerei stare, siete d’accordo? – mi sembra di udire dall’aula, ma non ne sono sicuro, forse è un’eco stereofonica che mi rimbomba nella testa. Punto sfacciato la soglia a vetri, seguito da quattro ombre a croce sul pavimento, incurante dei richiami dei bidelli che mi ricordano l’ora tarda e l’imminente inizio delle lezioni, guidato da una volontà superiore. E finalmente scorgo Annarita entrare, in testa al gruppo di ragazzi della sua corriera, sfocata, liquida nelle lacrime che mi riempiono le orbite, sorridente e divertita, in una cascata di colori caldi e ribollenti, nella calma oceanica del primo mattino. Sento le ginocchia sgretolarsi e gli occhi perdere ogni residua capacità percettiva, smantellati senza pietà dal cuore che stantuffa nel mio petto. Un attimo prima di perdere i sensi e sbattere con violenza il cranio al suolo (senza la possibilità di decifrare l’affettuoso labiale di Annarita), ho il tempo di avvertire tutte le sensazioni, i tormenti e le impressioni, tutti i sogni più dolci e le aspettative mai dichiarate: convergono in un unico punto, si avvinghiano e si fondono in quell’unica verità, eterogenea e onnicomprensiva, che chiamiamo insiemisticamente Amore. W W W . VA R K J O V I C H . C O M 55 Massimo Novelli LE PAROLE DEL CALIFFO All’inizio ci furono altre canzoni, motivi non memorabili se volete, che però funzionavano, eccome se funzionavano. A risentirle adesso, è chiaro, fanno un po’ ridere. E di qualcuna ricordo soltanto il titolo, per esempio quel Richiamo d’amore dei Bisonti (almeno, credo fossero loro) che si poteva gettonare nei jukebox dei caffè di provincia e faceva sempre il suo bravo colpo se accompagnata dagli occhi stucchevoli quanto wafer mignon e da una sigaretta tipo Turmac, Astor, Hb, Winston, Muratti, anche Marlboro da dieci, offerta con un gesto in teoria calmo e sicuro. Ma quello era appunto l’inizio, erano baci larghi e leggeri che alla fine sapevano sempre di pomata contro l’acne oppure di improbabili profumi della fanciulla che stingevano caramella, liquirizia, fiati di coca-cola, fumo freddo e odore delle poltrone del cinema Doria (a Torino). Comunque era un inizio lento, proprio nel senso che di quelle canzonette interessava la capacità di ammorbidire la ragazzetta per circa due minuti o due minuti e mezzo, permettendoti, oltre alla limonata necessaria e all’abbraccio a singhiozzo, un gioco mica male di mani sulla schiena di lei e, a volte, l’audace toccata in punti maggiormente desiderati. Quell’inizio, in seguito, lo abbiamo perduto. Io l’ho perso all’improvviso, doveva essere il 1969 o tutt’al più il 1970. Incombevano rivoluzioni che non sarebbero mai venute e libretti rossi con eskimi orribili col senno di poi, e comitati di base, Internazionali e Figli dell’officina, urlate di gruppo e di corsa nelle strade inneggianti a “casa, scuola, fabbrica e quartiere, la nostra lotta è per il potere”, con amplessi e cose più serie, fisicamente, imprigionati fra vestitini indiani e gonne a fiori lunghe quanto la quaresima. E’ stato allora che ho scoperto il trucco del Califfo, mentre il tempo passava e la canzone sovversiva serviva ormai a niente per cuccare le belle che intanto avevano smesso il flo- reale e s’erano ritrovate a vestire come Dio comanda. Non si parlava ancora di riflusso e di nuove vecchie fesserie, però una sera, forse in un piano bar sui Navigli in cui ero entrato con i primi soldi guadagnati scrivendo palle sui giornali di fotoromanzi, vidi un ex capoccia del movimento studentesco (o cosa diavolo era) domandare al pianista, uno sottile, quasi cartavetrato, di suonargli una roba di un tale. Quello cominciò, la musica uscì di velluto e le parole scritte da quel tizio, quel Califano detto il Califfo, centrarono al cuore e soprattutto altrove la bionda matura che accompagnava il ganzo con un’aria annoiata. Lei allora cambiò faccia, gli sorrise, si fece zuccherosa e addirittura fatale come nei film americani. Immaginatevi il resto. Da quel giorno cambiai colonna sonora e rimasi fedele al trucco del Califfo, a quel suo sapere incatenare qualsiasi donna (io dico qualsiasi, facciamo una scommessa?) facendole credere che quel tale brano sia stato scritto appositamente per lei e per una determinata situazione di una sera o di una notte. Non c’era più l’adolescenza saporosa di acne e di mentina, non si cercava più il mare sotto il selciato della città, ma restavano le brune, le rosse, le platinate, le lentigginose e le maschiette, le vogliose e le riottose. Quelle non mancavano, per fortuna, e quindi bisognava attrezzarsi. La scoperta delle musiche del Califfo fu la scoperta dell’unica reale memoria condivisa dalle donne d’ogni età e condizione. Le canzoni del romanaccio con i ray-ban scuri, che aveva giusta fama di duro e di seduttore della madonna, che non disdegnava la frequentazione della mala e di altre scarsamente virtuose attrattive notturne, mi regalarono una certezza in un mondo frammentato d’incertezze: con lui, con le sue musiche finite e le sue solitudini, i suoi 57 ultimi amici che vanno via e le sue autostrade delle vacanze, non sbagliavi neppure una volta. E dico, per capirci, che grazie ai suoi pezzi, alla voce roca da cantante confidenziale che ha fumato mille sigarette come il vecchio Fred Buscaglione, non erravi nelle sere in cui riuscivi a portarti a casa una signora o una signorina sensibili a quello stormir di foglie. Di esempi, di fatti da raccontare, ce ne sarebbero tanti. E così di casistiche da analizzare: intendo la volta che feci ascoltare E la chiamano estate (“questa estate senza te...”) a una severa donna di legge, che, complice un whisky e un’atmosfera da cielo dei bar, mi giurò che d’ora in poi avrebbe assolto tutti gli imputati che sarebbero comparsi dinnanzi a lei; e parlo della mora intellettuale che, dopo avere sentito per tre volte di fila Me ‘nnamoro de te (“sei l’urtima rimasta devi esse’ quella giusta...”), nel farsi slacciare l’estremo bottone, mi soffiò che il Califfo era il solo autentico poeta dell’amore interclassista, amore amore insomma, del Novecento. Per non tacere delle giovanotte, persino straniere, che si sono fatte amare e hanno amato in slanci puri di tenerezza sulle note strappacuore, e straripetute dal mio stereo, della Malinconia. E delle madame e madamine che, all’ennesimo fruscio della Musica è finita, hanno scordato il marito, l’amante, i figli e il maestro di tennis. Così il Califfo è diventato una parte integrante della mia esistenza di amatore distratto e di avventuriero timido, un refrain costante, un mezzo per essere e per fingere, per aspirare di nuovo al profumo del mare che si può non sentire più, capita, “perché non torni qui, vicino a me”. Con lui, i suoi occhiali, le sue catene d’oro da eterno ragazzo di borgata, ho passato la famosa linea d’ombra, che separerebbe la gioventù dalla maturità, e ho bruciato le navi ideologiche alle mie spalle, comprensive del libretto di Mao e delle canzoni dei Bisonti (ammesso che fossero loro). Ma ho anche compreso che se con il Califfo realizzi invariabilmente ciò che ti sei proposto di realizzare, naturalmente se si tratta di donne e se sei capace di miscelare i suoi pezzi al momento topico (che è un arte, ragazzi miei), è perché nella sue musiche, nei suoi testi di esemplare banale semplicità, riesci a ritrovare delle intermittenze del cuore. Altro che Proust! Queste sono quelle sensazioni, quei ricordi, quei profumi, quei magoni, quelle felicità o quelle tristezze brevi, che tu e le tue compagne, occasionali o più durature, di una notte o di una settimana oppure di una vita, ti portavi e si portavano dentro magari senza saperlo o riconoscerlo. Siano essi l’odore ancestrale delle poltrone del cinema Doria (sempre a Torino) e della pomata rosacea contro l’acne, l’ombra della figliola che ti lasciò impietrito nell’atrio della stazione di Brignole e il seno dolce di Gea S. in un mattino già caldo del gusto pesante di Palermo, quando dalla Vucciria filtravano le cantilene dei venditori e al Cassero Morto stracciava l’aria la sirena di una volante della polizia. Il fatto è, come dice lui, che “me ‘nnamoro de te se non che vita è/ io qui sto rilassato e chi se move/ fori fa’ pure freddo e come piove...”. Il fatto è che l’abbiamo sempre chiamata estate, sebbene a volte non fosse il caso di farlo, “ricordando sempre te”. E che, dopotutto, non abbiamo cessato di cercare un’altra Gea S., un’altra C. un’altra F., nel giorno in cui ci siamo sposati e abbiamo fatto dei figli. Non mi resta altro, d’altronde, se non questo trucco. Provatelo pure voi, dopo mi dite. • 58 Andrea Tullio Canobbio LE STREGHE Andrea Tullio Canobbio è nato ad Acqui Terme, in provincia di Alessandria, nel 1975. Attualmente è dottorando di ricerca in Modelli, Linguaggi e Tradizioni nella Cultura Occidentale presso l’Istituto Universitario di Studi Superiori (IUSS) - Ferrara 1391. Vive a Ferrara, in un collegio fuori le mura, attorniato da giovani sudamericane. È appena entrato nella redazione di Maltese Narrazioni. Le streghe è il suo primo racconto. In frazione Corvarello, tra Mornara e Fortalto Pavese, il ragionier Bergonzi aveva acquistato, nel 2001, una villetta su due piani, composta di giardino privato, camino a legna, due camere da letto, balcone di proprietà, possibilità box auto, inserita nella migliore zona panoramica del paese. L’ambizione di Bergonzi, venditore di sanitari e arredi bagno, era di ritirarsi, un giorno, nella villetta per trasformare il giardino in un orto dove coltivare pomodori, zucchine, melanzane e, avendo il gusto dell’esotismo, anche meloni e angurie. A due anni dall’acquisto, però, il giardino era ancora intatto e l’abitazione del tutto disabitata. Del tutto? No, non del tutto. Chi si fosse trovato, nel grigiore dell’alba di Pasqua 2003, davanti al cancello, avrebbe visto che una finestra del primo piano era aperta e avrebbe sentito un ronzio terrificante trapassargli i nervi come la lama di un coltello. In piedi su una sedia, intorno al tavolo della cucina, Alice, la figlia del ragioniere, usava un tritatutto moulinex con la grazia di un operaio al comando di un martello pneumatico. Era una bambinetta pallida e ossuta, con le gambe magre; sotto il caschetto di capelli neri si distinguevano gli occhietti cinesi, il muso simpatico e le labbra carnose. Indossava una maglietta rossa con un gatto e la scritta Dark Kitty, della linea Emily la Stramba, coperta da schizzi d’acqua e frammenti di funghi. A un certo punto, il tritatutto si fermò. Alice gli diede qualche manata per farlo ripartire, ma non ottenne niente. Controllò la spina, ma era attaccata. – Merda, la corrente! Alice buttò un occhio all’orologio sospeso all’ingresso della cucina. Non aveva molto tempo. Doveva finire di sbriciolare i funghi e metterli in infusione con il tè prima dell’arrivo di Paolo. Andò fuori, superò il cancello e si fermò davanti a un armadietto di metallo. Il ragioniere lo teneva sempre aperto. Alice fece scattare il contatore: la corrente rifluì nei i fili e, dalla finestra della cucina, il tritatutto mandò un ronzio d’approvazione. Alice tornò indietro veloce come un fulmine, ma andò a sbattere contro la porta blindata della villetta. L’aveva chiusa uscendo, per abitudine. All’esterno era liscia, senza maniglia, e Alice non aveva in tasca la chiave per riaprirla. 61 Si guardò intorno febbrilmente: non c’erano altre porte e la finestra della cucina aveva inferriate troppo strette; la porta finestra sul balcone, in compenso, era aperta. Per raggiungerla, bisognava arrampicarsi. Alice andò sul retro e prese la scala a pioli verde. Era molto pesante. Mentre la trascinava, pensò che se non fosse stato per Stefania Buttiglione non sarebbe stata costretta a fare quella faticaccia. La colpa, in realtà, era di tutte e due. Alice si era vantata con la babysitter dell’ordine on-line sul sito di Emily la Stramba. L’ordine era inevitabile: in condizioni normali, i suoi genitori non le avrebbero comprato quei vestiti. Alice non aveva il permesso di usare il computer del ragioniere, ma l’aveva fatto lo stesso e Stefania Buttiglione aveva fatto la spia. I suoi genitori, per punirla, l’avevano esiliata a Corvarello. Le sue giornate trascorrevano in una monotonia severa, interrotta dalle visite della madre che le portava da mangiare. Con un ultimo sforzo, Alice sollevò la scala e l’appoggiò al balcone. Attese qualche minuto per riprendere fiato e cominciò ad arrampicarsi. Tutto era iniziato il 3 dicembre. Era un giorno infausto per Alice. Sua madre aveva riempito la casa di mandarini e le aveva ordinato di mangiarli per tenere lontana l’influenza. Alice odiava i mandarini, perché avevano un odore appiccicoso. Al solo toccare la buccia, le venivano le convulsioni. Mentre girava intorno al tavolo, attenta alla prossima mossa dei mandarini, sua madre aprì la porta e le presentò la nuova babysitter. Alice la guardò da capo a piedi. Stefania Buttiglione era piccola e rotonda come una matrioska; aveva grandi occhi da cartone animato giapponese e un sorriso che ad Alice era sembrato fin dall’inizio un po’ appiccicoso, come l’odore dei mandarini. Ripensando alla gentilezza di Stefania, rabbrividì. Poi entrò in casa e scese in cucina dove il tritatutto, lasciato a se stesso, aveva polverizzato i funghi. – Perfetto! Ora, non restava che mettere su il tè. Il passaggio a livello ai confini di Mornara era chiuso da un bel po’. Paolo attendeva nervosamente il passaggio del treno, picchiettando con le dita il volante della Fiat Panda 1000 color kaki. Il paesaggio ai bordi della strada principale offriva un insolito spettacolo a occhi abituati al disordine della città. Poche abitazioni, dai muri grigi e umidi. Qua e là, contadini in abiti vecchi e logori, con gli occhi incattiviti dalle ultime intemperie. Gonfio come un frate gaudente, Paolo aveva un volto circolare da neonato, con un alone di peli e radi capelli biondicci; gli occhi da pazzo, chiari e ipnotici, erano cerchiati da occhialini lucenti. Indossava i jeans nuovi e la T-shirt mimetica aderente, made in USA, che sua madre tentava di buttargli via da anni. Avrebbe voluto essere in un altro posto, ma i “negrieri”, come li chiamava lui, erano tornati a opprimere la sua fidanzata. 62 I “negrieri” erano i Bergonzi. Erano arrivati ad aprile inoltrato senza trovare la sostituta, cioè una poveraccia che si fosse accontentata dei cinque euro l’ora (minimo sindacale delle babysitter in nero) che erano riusciti a rifilare a Stefania. Il giorno di Pasqua, dovevano andare a prendere la figlia nella casa di campagna a Corvarello. Ma il padre, che l’aveva già portata là, si rifiutava categoricamente di tornare a prenderla e la madre, troppo occupata a cucinare, aveva telefonato a Stefania. La ragazza aveva riappeso il telefono con un’espressione molto infastidita, ma già guarnita da uno strato di rimorso. Si era seduta sul divano, vicino a Paolo, che si godeva il dvd di Full Metal Jacket. Conosceva a memoria quel film e, quando usciva con gli amici, replicava alla perfezione le battute dei personaggi per dare l’impressione di essere un tipo divertente. Anche in quel momento, con il volume a zero, doppiava il sergente Hartman (Chi è quel lurido stronzo comunista checca pompinaro, che ha firmato la sua condanna a morte? Ah, non è nessuno, eh? Sarà stata la fatina buona del cazzo eccetera), ma si era interrotto all’improvviso, sentendo il peso di Stefania e del suo senso di colpa. – Chi era? – aveva detto, premendo stop sul telecomando. – Fabrizia Bergonzi. Alice è in campagna e nessuno vuole andarla a prendere. – E l’hanno chiesto a te? Che stronzi! – Infatti. Non è che ci andresti tu? Sai che io non la posso vedere. – Ma allora perché vuoi fare questo piacere ai Bergonzi? Ti pagano, almeno? – Ma no, però, sai, Fabrizia è amica di mia madre. E così, in nome dell’antica alleanza tra i Bergonzi e i Buttiglione, Paolo si trovava ad ascoltare il rimbombo lento e ritmato di un treno, ai confini di Mornara. Il sordo brontolio crebbe fino a diventare un suono ininterrotto. Quando si alzarono le sbarre, Paolo riaccese il motore e continuò verso Corvarello, oltre la sagoma spettrale del dancing che si stagliava nel cielo grigio di aprile. Aveva visto Alice solo due o tre volte, ma la conosceva bene per aver ascoltato i dettagliatissimi rapporti di Stefania. Nei mesi invernali, la bambina era stata normalmente petulante e isterica, ma con la primavera aveva subito un cambiamento. Stefania, ormai, aveva scelto la sua fazione: le piaceva Giuliano e sorrideva soltanto a lui. Con Alice, si comportava come aveva visto fare a Fabrizia: volto terreo, sguardi seri, aria di sufficienza, monosillabi (Alice, no. Alice, scendi. Alice, smettila), mentre a Giuliano toccavano tutta la luce dei suoi occhi e la dolcezza stomachevole dei suoi sorrisi, anche se mangiava come un porco e imbrattava costosi pannolini. L’equilibrio si era rotto quando Alice, dopo aver visto Paolo per la prima volta, le aveva chiesto a bruciapelo: – Come va con il tuo ragazzo? Ci scopi? 63 Da quel momento, Stefania aveva dovuto respingere le domande importune della bambina, che voleva tutti i particolari della sua vita sessuale e usciva in mutande sul balcone della casa di Mornara per dare il benvenuto a un attonito Paolo. Alla fine, le aveva tagliato tutti i rifornimenti sentimentali. Aveva continuato per un po’ a fare la babysitter al solo Giuliano, ma poi aveva mollato il lavoro. La sua inattività aveva avuto ripercussioni sulle certezze di Paolo, che se l’era trovata tutti i giorni tra i coglioni e aveva cominciato a non pensarla così perfetta. La settimana prima di Pasqua, parlando con l’amico Mauro, si era lasciato scappare: – Stefania due anni fa era dolcissima, ma ora è gelosa di mia madre e vuole che andiamo a vivere insieme. Alice versava il tè in una tazza, lasciando la polvere di funghi nel setaccio. Quando sentì il rumore della Panda, buttò il colino nel bidoncino della spazzatura, spinse il tritatutto dentro la credenza, si pulì alla bell’e meglio e andò a infilarsi un gonnellino nero. Perché aveva scelto Paolo come sua vittima? Forse perché, a differenza di suo padre, che opprimeva sua madre in ogni aspetto della sua vita, Paolo si lasciava tiranneggiare da Stefania Buttiglione. Ecco il lasciapassare di Alice: un uomo debole, che le facesse guadagnare la libertà, non solo dalla villetta di Corvarello, ma forse anche dalla casa di Mornara, dal dominio dei suoi genitori. Naturalmente, Alice non era sicura che Paolo si lasciasse sedurre; per non correre rischi, gli avrebbe tolto ogni possibilità di rifiutare. L’ispirazione le era venuta dal capitolo Bevi strambo del Libro (segreto) degli Strambamenti di Emily. L’azione della piccola eroina iconoclasta si snodava, come sempre, in due atti, ciascuno dei quali riempiva una paginata del capitolo. Nella paginata del primo atto, su sfondo nero, Emily stringeva un alambicco pieno di liquido rosso dove galleggiavano diversi ingredienti, tra i quali due o tre funghetti. La dicitura era: “Emily non disseta gli ospiti...”. Per scoprire il finale, bisognava girare il foglio. Nella paginata successiva, su sfondo rosso, l’ospite di Emily, un bambino con la goccia al naso, giaceva riverso sul tavolo; a terra, c’era un bicchiere da cocktail dal quale usciva il liquido con i frammenti di fungo. Emily, in primo piano, sorrideva malignamente. La dicitura era: “...li mette KO!”. La stragegia, quindi, era “mettere KO” Paolo. Dove trovare i funghi? Alice aveva un cugino laureato in scienze forestali, Luciano Lazzarini. Aveva lavorato in Sicilia tutta l’estate per una ditta di prodotti erboristici smaccatamente new age; il suo capo gli aveva trovato un letto in una villa in costruzione. Il lavoro non era il massimo e la villa era piena di topi; dopo giorni passati ad ascoltare il loro sinistro squittio, Luciano li aveva avvelenati tutti e poi se n’era tornato a Mornara. Durante un pranzo di famiglia a casa Lazzarini, Alice era penetrata nella cameretta di Luciano e, frugando nei cassetti, aveva sequestrato un sacchetto di 64 plastica trasparente pieno di funghetti psilocybe semilanceata. A Corvarello, li aveva usati per preparare un beverone micidiale, seguendo una ricetta concepita nelle lunghe notti trascorse sul balcone, in ascolto. Era un’abitudine che aveva preso all’inizio dell’esilio. A volte, sentiva solo gli abbai dei cani e altri rumori indistinti che la facevano un po’ ridere, un po’ cantare, un po’ piangere. A volte, specialmente con l’arrivo del sonno e del freddo ai piedi, le sembrava di essere in trance e di non sentire proprio niente, ma comunque un niente rumoroso. Il sole aveva bucato l’incertezza del cielo con il suo benefico tepore. La Panda kaki sfrecciava verso Mornara. O meglio, ondeggiava. Alice guardava a destra e a sinistra. A destra, presto o tardi, sarebbe apparsa la stradina che avrebbe portato la Panda fino al luogo propizio alla seduzione di Paolo. A sinistra c’era Paolo, che aveva già il fiato grosso. Imbrigliato da una sensazione di estremo calore, si sentiva sprofondare nel sedile e la strada gli sembrava sempre più offuscata. Aveva sbevazzato senza troppe cerimonie il tè oleoso offertogli da Alice, una vera brodaglia per maiali, e ora ne pagava le conseguenze. – Non mi sento troppo bene – disse, con uno sguardo impotente da bestia torturata. – Mi dispiace, perché non ti fermi un attimo? Più avanti c’è uno spiazzo. – Dove? Paolo aveva perso il senso dell’orientamento. Alice si accorse che stava per superare la stradina sulla destra, così afferrò il volante e lo girò con malagrazia. Paolo protestò debolmente, ma si lasciò guidare fino allo spiazzo. Qui, molto prima della nascita di Alice, un’amministrazione comunale ammalata di titanismo aveva fatto costruire un gazebo ottagonale in cemento armato. Alice spinse il piede di Paolo sul freno e la Panda kaki si fermò sotto il gazebo. Era il momento di fare sesso. Alice aveva accumulato un’ampia documentazione sull’argomento. Le era proibito collegarsi da quando Stefania aveva fatto la spia sull’ordine on-line, ma aveva saputo attendere il momento giusto. Il padre era al lavoro e la madre aveva portato Giuliano dal pediatra. Alice, con un magistrale colpo di mouse, era penetrata nel paradiso degli hentai (www.hentaiheaven.com) e aveva visionato tutto il visionabile. In particolare, una foto dove una bambina urlante, aureolata di peni in erezione, era sorpresa da una pioggia di sperma e un filmato dove una ragazza indonesiana riusciva a inghiottire con la vagina un paracarro cilindrico con testa tonda a cupola, tipo “panettone”. Alice si era scollegata e aveva iniziato a meditare. Nella maggior parte dei filmati, per fortuna, le doti da contorsionista non erano così importanti. Si trattava di infilare ripetutamente un pene in un ano o in una vagina. Alice concluse che il sesso era fondamentalmente un incrocio pene-ano, ma avrebbe provato entrambe le cose, per sicurezza. 65 Alice inspirò profondamente, abbassò la cerniera di Paolo e fece per impadronirsi del suo pene. Che delusione! Aveva sottovalutato gli effetti della psilocybe semilanceata. La mente di Paolo, ormai, fluttuava al di fuori del tempo e dello spazio: cosa gliene importava del corpo? Infatti, il pene sembrava piccolo e molle. Per ribaltare la situazione, Alice consumò le mani e la bocca. Dopo qualche minuto, era abbastanza dritto e duro per puntarlo verso l’ano. Alice iniziò a spingere, ma per quanto si sforzasse il pene premeva troppo a destra o troppo a sinistra; probabilmente, avrebbe continuato così all’infinito, se non avesse ottenuto la collaborazione di Paolo, che giaceva immobile contro il sedile, respirando affannosamente. Aveva una vaga consapevolezza di quello che succedeva, ma non riusciva a muovere un muscolo. E aveva una sete del diavolo. – Acqua, ti prego, acqua! Alice sbuffò, poi pensò di accontentarlo: forse avrebbe migliorato la risposta del pene. Si guardò intorno. Nella tasca della portiera c’era una bottiglietta di plastica, ma era vuota. Un rigagnolo scorreva davanti al gazebo. Alice uscì dalla macchina e corse alla riva, ma l’acqua era limacciosa, probabilmente non potabile, così andò a esplorare l’edificio. Sul retro, erano stati costruiti ben sei wc, ma non c’era nemmeno un lavandino. Finalmente, Alice vide che i wc erano disposti a fianco di una fonte che gettava un’acqua solforosa. Riempì la bottiglietta, avvitò il tappo e tornò in macchina. Paolo, senza parlare, accettò la bottiglietta, svitò il tappo e trangugiò il contenuto. Sembrava rinfrancato. Alice decise di approfittarne, si sedette sopra di lui, aprì le gambe più che poteva e si lasciò cadere. Il pene entrò, in un colpo solo. Alice sentì prima un bruciore insopportabile, poi un dolore così forte da togliere il fiato, ma continuò ad assecondare i movimenti di Paolo, anche se faceva un male cane. Il sesso finì quando Paolo, che fino a quel momento si era comportato bene, fu scosso da un tremito. Un urlo bestiale gli uscì dalla bocca, come la schiuma da una pentola in ebollizione. Alice sentì un umido sospetto intorno all’ano e un odore nauseante sotto le narici. Dovette riconoscere di non aver provato il minimo piacere, ma, dopotutto, quello era il sesso e non era il caso di fare gli schizzinosi. In realtà, il gazebo non rappresentava solo uno spreco di finanziamenti statali, ma segnalava la posizione dell’Acqua Matta, una fonte dotata di terribili e fulminee proprietà purganti. I numerosi wc erano lì per rimediare ai potenti attacchi di sciolta dei bevitori. Paolo non aveva potuto raggiungerli e, incastrato tra il sedile e il sedere di Alice, si era abbandonato all’amore e alla dissenteria. 66 In un giorno caldo di giugno, Alice uscì con Giuliano. – Perché pagare una babysitter? – aveva chiesto a sua madre, – Io posso fare le stesse cose, ma chiedo la metà. Era stato l’inizio della loro riappacificazione. Mentre spingeva il passeggino del fratello sul viale davanti alla stazione, vide arrivare la poetessa. Era inconfondibile, piccola e aggraziata; aveva un gran naso e i denti da coniglio, ma li portava bene. Indossava uno straordinario abitino turchese e un cappello a larghe falde dello stesso colore. Alice l’aveva vista per la prima volta in un marzo lontano, su quello stesso viale, macchiato di pozzanghere. Stefania guidava con cautela il passeggino di Giuliano e lei saltellava due metri più avanti nel suo piumino nero, girando su se stessa per far volteggiare la gonna rossa. Aveva alzato gli occhi verso i palazzoni, sbiancati dal sole malaticcio. La poetessa era sul balcone, gettata nella sedia a sdraio; nuda, con un paio di eleganti occhiali neri sul nasone e un libro spalancato sopra il pube, tentava di abbronzarsi. Stefania aveva riso con disprezzo e aveva detto ad Alice che i ferrovieri, dalla stazione, guardavano in alto per vedere il corpo senza veli della poetessa e sghignazzare tra loro. Alice si era illuminata. – Che bello! Lo farò anch’io. Si era messa a sventagliare la gonna e l’aveva alzata fino al mento per mostrare le gambe bianche e magre. – Alice, smettila! Subito! Ma le parole di Stefania, come sempre, erano in ritardo. Il disgusto della babysitter per la poetessa aveva insospettito Alice. – Vuoi vedere, – aveva pensato, – che l’essere nudi c’entra qualcosa con il sesso? La poetessa, in quel giorno di giugno, guardò Alice e Alice si sentì pari a lei. – Buongiorno! – Buongiorno! Prima che passasse oltre, Alice spiò la copertina del libro che teneva sotto braccio. Era Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. Continuando a spingere il passeggino, Alice pensò che in tredici anni di vita non aveva letto niente a parte Emily la Stramba. Forse era ora di leggere qualcos’altro. 67 Per abbonarti al Maltese invia questo coupon in fotocopia al fax 0144 313892 o per posta a Impressioni Grafiche, via Carlo Marx, 10 - 15011 Acqui Terme (AL), o via e-mail all’indirizzo maltese.edizioni@libero.it DESIDERO REGALARE L’ABBONAMENTO N a MALTESE NARRAZIONI per tre numeri al costo di € 20 - insieme al primo numero riceverò in omaggio il libro COLLEZIONE DA TIFFANY I miei dati Cognome.............................................. Nome.................................................... Via ........................................................................................n.°........................ Cap..................Città .............................................................Prov. ................... Tel............................................ e-mail: ........................................ L’abbonamento regalo è per Cognome.............................................. Nome.................................................... Via ........................................................................................n.°........................ Cap..................Città .............................................................Prov. ................... Tel............................................ e-mail: ........................................ Allego copia del bollettino di versamento postale (con specificata la causale: abbonamento MALTESENARRAZIONI) da intestare a: IMPRESSIONI GRAFICHE – C.C. POSTALE N.° 19702141 Informativa e consenso: Informativa e consenso ex art. 13 e 23 d.lgs.196/03 la informiamo che i suoi dati personali saranno da noi trattati manualmente e con mezzi informatici per finalità di: a) gestione organizzativa delle consegne a domicilio del prodotto da lei richiesto; b) attività promozionali e invio di materiale informativo su nuove iniziative Editrice Impressioni Grafiche-Maltese narrazioni. I dati non saranno diffusi. Infine le ricordiamo che per maggiori informazioni o richieste specifiche ex art.7 (cancellazione, blocco, aggiornamento, rettifica, integrazione dei dati od opposizione al trattamento) potrà rivolgersi al responsabile del trattamento scrivendo a Impressioni Grafiche, via Carlo Marx 10 – 15011 Acqui Terme (AL) Do il consenso al trattamento e alla comunicazione per le finalità di cui al punto b) SÌ N NO N FOTOCOPIA E SPEDISCI PER ABBONARTI A DESIDERO ABBONARMI N M A LT E S E N A R R A Z I O N I CARTOLINA DI ABBONAMENTO Paola Ferzuche CONTEMPLAZIONE Paola Ferzuche ha 42 anni, è nata nelle Puglie e vive a Milano. È andata così che ci siamo baciati: io ero immalinconita, o nervosa, o solo incazzata... davvero non mi ricordo. Ricordo però che mi sentivo tanto di aver ragione. Quando senti di aver ragione ti sembra di poter pretendere un risarcimento, e quella volta il risarcimento è passato sul povero Michele, sulla sua calvizie di bancario solerte, sulla sua indecorosa camicia nera pitturata con la Coloreria, sulla cravatta dell’Oviesse. Ma una fa i conti e prende quello che può permettersi. In fondo sono solo quella che si sta guardando nello specchio dopo aver tolto le lenti a contatto e inforcato due fondi di alambicco, quella che ci sono i peli sotto il mento da verificare, quella che il giro vita fa le pieghe, quella che la mattina non ha voglia di farsi la doccia e si spruzza di deodorante per dare almeno l’idea, quella che le si è consumato il tacco sui lastroni ma le altre scarpe sono strette e chi se le porta ai piedi tutto il giorno? Con Michele ero io che abbassavo il prezzo. Sapevo di andare sul sicuro. Perché se uno ti telefona tutti i giorni per il caffè e per il pranzo; e se uno mentre gli parli sembra che non capisca e annuisca solo per compiacerti; e se tu gli stai parlando di nulla perché di altro non sai se capirebbe e lui sembra proprio che... ti contempli: esatto, non è forse il termine più giusto? Ti contempla con una faccia da fesso. Beh, allora è chiaro che pensi: ma questo mi vuole scopare? E la grande sorpresa è che lui no, non ti vuole scopare, lui vuole solo restare a contemplarti. Michele era sposato e io no. Poi era uno che credeva nei valori. Quando uno crede nei valori, la moglie è un valore. E io mi sono accorta che se mi trovo di fronte alla mano sul cuore del “ho fatto delle scelte e le devo rispettare” mi viene quella voglia di smontargli il giocattolo. È come se mi pizzicasse l’orgoglio di dimostrargli che 71 la sua mogliettina non è niente di speciale; mi sono già chiesta che cosa mai me ne importi alla fine. È più forte di me, è una specie di riflesso automatico: quando me ne accorgo è già partito. E allora un residuo interiore di saggezza osserva impotente quel mio fare intellettuale (vuoi mettere sapere chi è Musil o che cosa sia un frattale? questo riesce di solito a sbalordire il ceto medio); quel mio fare la vittima che avrebbe un mondo da condividere se solo qualcuno la stesse ad ascoltare; e, soprattutto, il capolavoro: quel mio fare la disinibita/ vergine, quella strana alternanza di cameratismo divertito e rossori a comando. In genere viene un’immagine abbastanza stuzzicante. In genere funziona. Giuro, non lo faccio apposta. È un’altra me che fa così. Quando vorrei riprendere il controllo mi ha già preso completamente la mano. Quella volta che ho baciato Michele erano almeno un paio d’anni che mi contemplava. Una sera di agosto eravamo anche andati a cenare insieme al selfservice. Mi ricordo l’insalata di mais, le palline gialle che sapevano di acqua fredda e viscida; poi il vestito che avevo, di cotone leggero, nero, corto, con degli svolazzi: era di bassa qualità e forse un po’ sbiadito dal sole, ma io ero appena tornata dal mare ed ero veramente al massimo del luccicore di pelle biscottata. Dopo il self-service avevamo vagato un po’ per il centro e poi mi aveva accompagnato nel mio bilocale in affitto, con la 127 rossa di sua moglie. Lei era al mare per qualche giorno ancora. Il mio bilocale era proprio un buco triste, soprattutto per quel linoleum incollato e tutto a bolle d’aria qua e là, e i mobili vecchi. Però era sempre un bilocale vuoto una sera d’agosto e io ero sola e avevo l’abbronzatura che si sprecava e presto avrebbe cominciato a sfogliarsi: oh, insomma, sto cercando solo la scusa del perché gli dissi vieni su e lui rispose, contemplandomi e con una voce innaturale: magari un’altra volta. E io pensai: sei proprio un pirla, te e i tuoi valori. Poi pensai: da uno a dieci quanto ho fatto la figura della puttana? Poi pensai: che strategia adottare per rimediare? Poi pensai: vai al diavolo. Baciarlo sul momento non è stato spiacevole, anzi lui ci ha messo un certo trasporto e io ho sentito l’inizio, quella specie di calore diffuso che una sente all’inizio, quando tutto comincia da un bacio fatto d’impegno e allora ci sono delle ottime probabilità che finisca nel modo giusto e liscio e quasi automatico, senza sforzi o finzioni necessarie a concludere. 72 Solo che eravamo in un’ansa di corridoio dell’ufficio e, per quanto fosse un’ansa solitaria e polverosa, il rischio era elevatissimo. Si può aggiungere che il rischio, mescolato a quel ribollire umido che cominciava a salirmi su per la testa, mi dava una voglia forte di lasciare andare tutto fino in fondo. Poi ho aperto gli occhi. E Michele non è bello. Non è bello visto a distanza regolamentare. Come può diventarlo visto con i pori della pelle ingranditi e gli occhi chiusi troppo a palla e l’espressione ebete di chi sta baciando una statua sul piedistallo dei sogni? Idioti, i suoi sogni. Se solo avesse immaginato che, mentre lui sentiva sotto le labbra finalmente le mie (la parte migliore del mio viso) invece che la federa sgualcita contro la quale si sarà strusciato pensandomi di sera, e forse era felice per un istante, ecco era esattamente quello l’istante in cui invece io trovavo lui unto e insulso e mi dicevo: perché lo bacio? Perché mi tocca baciare questo normale e non uno sublime? E capivo che la vita sentimentale è solo un intreccio scomposto di meschinità reciproche. Dopo la trasgressione inutile di quel bacio le cose andavano raddrizzate. Per esempio potevo comunicargli la finzione perfida dell’affanno del sentimento dirompente che si scontrava (oh il senso di colpa!) con la mia virginità morale. Lo so che sarebbe stato più pulito e addirittura più semplice dire: va bene, ci siamo baciati, a me giravano le palle e cercavo un po’ di stordimento e tu eri lì e dovevo solo allungare la mano; ma io mi sono pentita perché non ho nei tuoi confronti alcun sentimento d’amore, solo un senso di dolciastra gratitudine per il solletico garbato che la tua devozione fa alla mia voglia continua di autoaffermazione. Attento, è un equilibrio precario: se la tua contemplazione diverrà oltremodo leccosa, io comincerò a infastidirmi e prima o poi non potrò fare a meno di attaccarmi all’invenzione di un altro inesistente amore, per umiliarti e liberarmi di te. Invece non lo potevo dire, perché a quel punto io stessa cominciavo a farmi schifo e allora bisognava ricostruirsi una dignità davanti allo specchio. E quale dignità migliore di una donna che rinuncia a un amore romantico e devoto per rispetto dei valori? Sì, questa è la versione ufficiale che gli spiegai con voce emozionata, questo è il perché di come andarono le cose dopo il bacio. 73 Per anni poi amici. Qualunque cosa questa parola voglia dire. Sospetto in realtà voglia dire niente. Io ho fatto cose in questi anni, per esempio matrimonio e figli. Ogni tanto andavo a controllare. Chiamavo Michele al caffè e saggiavo, annusavo l’aria per sentire se il piedistallo era ancora al suo posto. Bastavano poche parole. Bastava un lieve scivolare della punta del mio dito indice lungo la sua guancia (sempre più rotonda e vuota con gli anni), in un passaggio d’ascensore furtivo, per riappropriarmi della mia vanità: la contemplazione inutile era lì, tutta ancora intera. Ci fu anche di nuovo una settimana per caso di agosto da soli in città. E una lunga telefonata di un paio d’ore, mentre lui riscaldava un precotto in busta e io approfittavo dell’assenza degli altri per buttare non vista giocattoli rotti e vecchie intoccabili riviste. Con il cordless puoi continuare a fare e intanto parlare. Al telefono non vedi, ti dimentichi che è il solito Michele riscaldato. Puoi quasi immaginare occhi e braccia a tuo piacimento. E mi piacque proprio tanto sdolcinare cazzate e dirgli che insomma, dopo tanti anni, e dai, se per una volta, solo per una volta, e chi l’avrebbe saputo, ci sarebbe rimasto un ricordo, una volta sola. Mi venne bene, il tono giusto di quella che si stava lanciando in una trasgressione vergognosa travolta nella sua virtù da un affetto duraturo e profondo. Non rispose alla provocazione. Parlò di pensieri e di cose che avrebbe voluto dirmi negli anni passati e che aveva sempre tenuto per sé, come un dolce tesoro; parlò di legami ideali che durano una vita; descrisse il piedistallo, ancora tutto nella sua bianca e sola idiozia. Adesso non lo vedo più. Siamo stati entrambi trasferiti in nuovi uffici ai lati opposti della città. Conosciamo il numero di telefono l’uno dell’altro, ma a che serve chiamarsi? Voglio dire, che tanto lui, quando parla, non parla con me, parla con quell’altra, quella brava, quella che gli si incastra bene fra i tasselli dei sogni. Io nel frattempo una volta ho scopato per noia con uno più vecchio di me di quindici anni, di un’altra città, incontrato per caso per lavoro. Era uno così triste! Sono abbastanza pentita di averlo fatto. 74 Riccardo De Gennaro L’ESTATE DEL ’65 Riccardo De Gennaro Nato a Torino nel 1957, laureato in Economia. Ha lavorato come giornalista dall’84 all’89 al Sole-24 Ore e dall’89 alla fine del 2004 al quotidiano La Repubblica, prima nella redazione di Torino poi in quella di Roma. Ora è un free-lance. Nel 2002 ha pubblicato il romanzo I giorni della lumaca, edito da Casagrande. Collabora alla rivista di scienze umane Aperture. Vive a Roma. È stato quando Billie-boy ha detto quella frase storica, “quale piscio di cane di luce è mai questa”, che noi ci siamo voltati verso l’Adriatico e abbiamo visto per la prima volta la luna color verde marcio. Intorno era buio, la spiaggia era nera, la schiuma bianca delle onde lampeggiava come un neon guasto. Billie-boy rise in modo sguaiato: una luna verde era in grado di incidere la tavolozza della sua immaginazione quanto l’atto di aprire un barattolo di pelati. Era il più vecchio di noi sei e se la tirava. Ragazzi, io sono come il destino, diceva, cinico e baro. Mentre pronunciava queste parole con quella sua voce da diciannovenne – un terzo adulta, due adolescente – si passava il dorso della mano sotto il naso come se sniffasse. Quella sera mi ero accorto che Bounty strofinava il suo costume da bagno e tutto quello che c’era dentro sulla sedia del Dolly beach come se non ce la facesse più. Dava realmente l’impressione di uno che non vede l’ora di correre a casa, nascondere la testa sotto le lenzuola e mettersi a guaire. Dovete sapere che tre giorni prima aveva fatto la sua comparsa in spiaggia una certa Peakly, incantevole creatura, una specie di inviata del Signore. Posso giurarvi che se in quello stesso momento qualcuno avesse portato in spiaggia una voliera e liberato un centinaio di canarini colorati di rosso e di blu noi non ce ne saremmo accorti. Purtroppo un paio di quegli inutili pennuti cinguettanti aveva scelto il cuore di Bounty per farci il nido. Avevamo ancora gli occhi puntati sulla luna più bizzarra mai apparsa da quelle parti quando rintoccarono le due. Ad eccezione di Bounty nessuno aveva voglia di tornare a casa. La Coca Cola era terminata e noi eravamo passati alla gazzosa, che è un po’ come declassare una sbronza scendendo dallo scotch al bourbon. Purtroppo il Dolly beach non serviva alcolici, ma era l’unico posto che teneva aperto fino alle quattro del mattino e Sonny era un amico. Stanley si puliva le unghie con la forchetta e continuava a tirare fuori muco, sabbia e altra porcheria di cui aveva fatto scorta durante la giornata. I gemelli, Jack e Nick, sferravano micidiali colpi d’indice a 77 una mollica di pane sulla tovaglia di carta. Erano veramente gemelli, ma sembravano due estranei. Uno si credeva Omar Sivori, l’altro John Charles. Nick imitava Sivori, magro, scaltro, la mano destra dribblava la sinistra. Jack era grande e grosso, il gigante buono. Sivori era a fine carriera, Charles era tornato in Galles, ma Jack non aveva ancora trovato uno che potesse sostituirlo nella bacheca del suo cuore. Come ogni notte, quando venivano le due, Jack propose “un piccolo torneo a calciobalilla”. Non sapeva che la sera prima Stanley aveva fissato un pezzo di legno sotto le gambe del campo da gioco in modo da farlo pendere a favore degli ometti blu. “Per me ci sto – rispose pronto il gemello – dobbiamo smaltire quel quintale di pizza con i peperoni”. Billie-boy fece di sì con la testa, Stanley si unì ai tre. Io mi proposi come arbitro, Bounty rimase seduto ad osservare le zanzare che testardamente andavano a morire nella trappola blu elettrico. “Bene, uno contro l’altro, semifinali e finale”, disse Nick. “Siamo in quattro, cristo – ribatté come sempre incazzato Billie-boy – le regole le detto io: due contro due, tutto alla vola, niente ganci”. Nick abbassò le orecchie, ma prese Stanley con sé e impugnò con aria di sfida le manopole della difesa blu. “Vai, muovi quei mutilatini, bestia”, urlava Billie-boy a Jack, che faticava a spingere avanti la pallina. “Copri la mediana, dio cane – cristonava ancora – non vedi che sono sempre qua davanti?”. A quell’ora il calciobalilla del Dolly beach era forse l’unica cosa animata nel giro di cento chilometri. Nick faceva goal dalla difesa come se ci fosse un tunnel sotterraneo che portava dritto nella porta avversaria. La prima partita finì otto a due per la coppia Nick-Stanley. La seconda dieci a zero, cappotto. La terza – giocata da un Jack paonazzo per la batosta e i ripetuti insulti di Billie-boy – terminò sei a tre, perché dopo un micidiale tackle una pallina andò a finire tra le sdraio accatastate contro la staccionata di bambù e nessuno riuscì più a trovarla. Charles era disperato: tre sconfitte al calcetto in una sera erano un’umiliazione senza precedenti, più di una bocciatura a scuola. Dopo aver infilato le ultime 20 lire, Jack tirò la manopola nera schiumante di rabbia, prese un pugno di biglie e le scagliò nella sabbia: il gigante buono era impazzito. “Teste di cazzo, non siete altro che teste di cazzo – disse – ora andate a raccoglierle voi”. Il tapino scappò via tra le lacrime e per tre giorni non scese in spiaggia. Chiesero a me di sostituirlo alle manopole, ma in quel momento fui colto da uno sbadiglio più esplicito di un no. Nel frattempo, Bounty era scomparso. Salutato Sonny, ce ne andammo a dormire. Mentre mi avviavo verso casa cercai la luna verde con la coda dell’occhio. Nella retina avevo soltanto il volto distrutto di Jack. Che Stanley fosse un porco non era una novità, ma che arrivasse a prendere la mano di Polly per infilarsela nel costume non ce lo sarem78 mo mai aspettato. Non fu una buona giustificazione da parte sua dire “che c’è di male, Polly assomiglia a Jerry Lewis fatto donna”. Bounty si arrabbiò di brutto, pareva quasi che avessero insultato la “sua” Peakly. Prese Stanley per il collo e gli disse queste parole: “Pezzo di coglione, impara a comportarti con le donne, altrimenti ti rompo la schiena”. Con gli occhi fuori dalle orbite, Stanley balbettò che non era il caso di prendersela in quel modo: “Cristo, se non ci divertiamo adesso...”. Bounty lasciò la presa. Sul collo di Stanley si disegnarono tre righe rosse. Polly era fuggita piangendo dalla sua amica. Era laggiù sotto un ombrellone, prendeva il sole ed era bella e aveva la pelle liscia come il sapone quando è umido. Polly si inginocchiò disperata di fianco alla sua sdraio. Lo sguardo di Peakly abbracciò tutti noi con la commiserazione dei giusti e Bounty diventò rosso come se fosse lui il colpevole. “Bastardo – gridò a Stanley – bastardo”. Stanley fremette, ma non reagì. L’unità della banda era la prima regola. Quello che passò per la sua testa non era difficile immaginarlo e non mi sarei sorpreso se avesse nuovamente provocato Bounty dicendogli che se fosse stata Peakly non si sarebbe accontentato della mano. Sapete, Stanley era così, si credeva Jean Paul Belmondo in “A bout de souffle”. Era un sabato quando Jack si ripresentò in spiaggia. Billie-boy lo vide per primo e sghignazzò: “Ragazzi, ecce stronzo”. Una raffica organizzata di palline del calcetto, quelle che avevamo raccolto nella sabbia davanti al Dolly beach, raggiunse il gigante buono in pieno petto. “Voglio una rivincita”, disse lamentoso. Ma noi avevamo altro cui pensare. Stanley osservava con preoccupante interesse due bambine che giocavano con i secchielli, una aveva le trecce bionde, l’altra una cuffia. Bounty guardava come un cieco verso l’angelica Peakly: diceva che, all’alba, l’aveva vista camminare sulle onde. Nick scrutava il cielo in cerca di aeroplani pubblicitari e ogni tanto se ne usciva con domande del tipo: “Perché io sono io e voi siete voi? Che ne direste di scambiarci le nostre vite?”. Oppure: “Dove saremo, questo stesso giorno, alla stessa ora, l’estate del ‘75?”. Billie-boy aveva le idee chiare: “Nick, se davvero vuoi saperlo, ficcati un dito in culo, succhiatelo e poi vedi da che parte tira il vento. Se viene da Mosca significa che tra dieci anni scoprirai di essere un fallito”. “E se viene da New York?”, chiese quel fesso di Nick. “Allora è meglio che non ti chini”, rispose Billie. Nessuno osò replicare che l’America è l’America. L’estate del ‘65 fu una piacevole estate, forse l’ultima. Non ne vennero altre così. Per la verità, un’estate – una qualunque della nostra adolescenza – non la si dimentica facilmente. Ricordo, ad esempio, una notte 79 bellissima. La luna non era né verde, né rossa. Più semplicemente non c’era. Avevamo giocato a calcetto per quattro ore di fila, Jack si era preso la rivincita: qualcuno doveva avergli detto del trucco del legnetto. Aveva eliminato uno per uno, nell’ordine, il sottoscritto, il gemello, Stanley e Billie-boy. Bounty era certamente nel suo letto a piangere, oppure sulla panchina dell’olmo davanti alla casa di Peakly. Oh, Peakly, Peakly. Bella stronza. Povero Bounty. Per conto mio, io non avevo problemi, mi aspettava il quinto anno del liceo, quello dove si studia soltanto l’ultimo mese. Io, d’altronde, avevo letto tutto quello che c’era da leggere, compreso l’Ulisse di Joyce, di cui non avevo capito una parola. Amavo la Nausea di Sartre, non perdevo un film di Godard, ascoltavo i 45 giri di Gainsbourg, che mio padre mi portava da Grenoble. Adoravo la Francia, al punto che un giorno proposi agli amici di ripudiare gli Stati Uniti e di darci soprannomi francesi. La proposta fu bocciata, ma non sarebbe stato più bello che Peakly si chiamasse Nicolette? Quell’anno non sapevo ancora che cosa avrei fatto dopo il liceo e non avevo neppure voglia di pensarci. Non mi sentivo una vocazione addosso, prova ne sia che oggi, adulto, realizzato, una bella moglie, un figlio quindicenne tra i primi della classe, non posso dire che il mio lavoro di ingegnere mi convinca fino in fondo. Comunque: una sera, con la mente libera, me ne tornavo a casa per la scorciatoia. Il mare non era lontano dalla nostra casa: c’era un sentierino a gomito che attraversava un campo di ortiche e poi, dopo la curva, costeggiava la massicciata della ferrovia. Era lì che le nostre madri, dopo le notti di pioggia, andavano a cercare funghi e lumachine. Dunque, me ne tornavo tutto solo per quel sentiero quando cominciai a vedere delle candele accese. Sembrava di essere al cimitero: le fiammelle erano a portata di mano, ma quando pareva che fosse sufficiente allungare un braccio per sentirne il calore, scomparivano come miraggi. Fu in quel momento che mi apparve l’immagine di Peakly. Aveva ragione Bounty. Era bellissima. Mi accorsi con grande sorpresa che non avevo mai provato prima le sensazioni che la sua vista suscitò in me. Era soltanto l’immagine di Peakly o era Peakly in carne e ossa? I suoi capelli erano neri, lisci e morbidi, divisi in due da una riga nel mezzo. Gli occhi erano a mandorla, l’iride aveva il colore delle olive siciliane. Il volto era duro come la porcellana, ma sembrava che contenesse un fuoco vivo. Peakly mi guardava con quel suo sguardo diritto, secco, profondo, nello stesso tempo sereno e severo. Era uno sguardo morale, al quale era impossibile sfuggire. Io mi sentivo come trafitto, paralizzato. Ero immobile, non riuscivo a proseguire. Credevo di trovarmi dentro un incantesimo. Fu soltanto quando l’immagine scomparve, che a poco a poco ritrovai i miei movimenti. Che cosa era successo? Vi giuro, non avevo fumato, non toccavo alcool. Le candele, il suo volto acceso, c’era qualcosa di sacro in tutto questo. Ebbi paura. 80 A quel tempo non sapevamo che cosa fosse la depressione. Quella vera, intendo. Però la noia eravamo stati tra i più lesti a conoscerla. Passavamo le nostre giornate al Dolly beach, un gelato, un paio di barzellette maiale, una partita a calcetto, la focaccia calda. Mai che ci fosse una pollastrella con noi. Erano tutte con quei bastardi del circolo del tennis. E noi non ci guardavano proprio. Piccole smorfiose! Sapete che cosa facemmo? Decidemmo di consolarci con le gambe delle gemelle Kessler. Grazie a una colletta in spiaggia acquistammo una tv e la piazzammo là in alto, sopra il bancone del bar. La prima sera Sonny offrì Cynar a tutti i presenti, Stanley ruttò un paio di volte e tutti risero. Quelli del tennis schiumavano di rabbia. Passavano con finta noncuranza davanti alla finestra del Dolly per vedere che cosa stesse accadendo. Era chiaro che la nostra mossa li aveva spiazzati. Durò poco. Due giorni dopo avevano una tivù anche loro, molto più grande e costosa. Riuscirono a riacciuffare le due stronzette vanitose che si erano venute a sedere in un angolo del Dolly e alle quali noi non avevamo osato rivolgere la parola. Una serata comica, quella: Bounty continuava a sbirciare fuori della vetrata per vedere se per caso spuntava Peakly, i gemelli attaccati al calcetto urlavano goal, e goal di nuovo, minchia, per contestare la svolta modernista, Billie-boy era intento a russare dopo i primi cinque minuti di telegiornale. Neppure il culo di Brigitte Bardot dentro i pantaloni neri si concesse prima di abbassare le palpebre. Il locale era affollato come non lo era mai stato, c’erano decine di persone che non avevamo mai visto, di spiagge anche lontane, gente che naturalmente non aveva scucito una lira per la tivù. Il dato positivo fu bevettero tutti come delle spugne fino ad avere lo stomaco gonfio, cosicché – prima di spegnere le luci – Sonny ci diede una parte dell’incasso per coprire le spese della scatola luminosa. Volete sapere se Peakly si fece vedere? No, quella sera non venne. Tutto sommato, i programmi televisivi non sono un granché e le gemelle Kessler non vanno mai a tempo. Una delle canzoni più belle di Serge Gaisnbourg è “Les amours perdues”. Gli amori perduti, dice, non si ritrovano più. Mentre l’ascoltavo pensavo a Peakly con la nostalgia del presente. Io, io non le avevo proprio detto nulla. Se ci eravamo scambiati un saluto una volta era molto. Stavo dalla parte di Bounty, io. Ero della banda. Ci sono delle regole da rispettare. Il fatto è che l’immagine di Peakly tra i lumini accesi continuava a tormentarmi. La sentivo sulla pelle, come un tatuaggio. Colpa di quel suo sguardo maledetto che l’aveva impressa a caldo. Non ce la facevo a liberarmene, mi sentivo impotente, umiliato peraltro dalla 81 consapevolezza che in quello stesso e preciso momento lei non era alle prese con ansie analoghe alle mie. Brutto affare. Gli amori perduti non si ritrovano più. Ero impaurito, forse più impaurito che innamorato. Diciamo che avevo paura di innamorarmi, poiché in questo caso sarei stato suo prigioniero per sempre – sì, per sempre – e sentivo che non avrei avuto possibilità alcuna di sottrarmi al suo potere: nè con una dichiarazione, nè con la sconfessione. E poi c’era Bounty, che soffriva come un cane. Maledizione. Non potevo scoprirmi. Ridevo, d’un riso da demente, al solo pensiero che Peakly potesse ricambiare il mio amore. Perché è più assurdo essere amati che amare. Erano già le quattro del mattino e non riuscivo a dormire. Volevo tornare in città. Volevo il mio liceo, i miei professori, i miei libri, la mia sicurezza familiare. Quanto avrei desiderato che le vacanze non fossero mai state inventate. Cercavo nella voce roca di Gainsbourg un suggerimento, speravo che a un certo punto smettesse di cantare e mi dicesse: “Che cazzo stai facendo? Le donne bisogna prenderle a ceffoni e sbatterle giù dalle scale quando ci siamo stufati”. Se avesse potuto ascoltare i miei pensieri Peakly si sarebbe fatta una delle sue risate sado-cristalline. Immaginavo i suoi alluci abbronzati che spuntavano dal bordo della sdraio e che sembravano due caramelle Elah. Mi addormentai senza rendermene conto, la mano giù dal letto, la bocca aperta contro il cuscino in attesa di un bacio. Così come gli amori, anche i baci perduti non si ritrovano più. Bounty doveva essersi accorto che anch’io ero innamorato di Peakly. Era seduto di fianco a me al cinema in un tardo pomeriggio. Proiettavano un film di Antonioni, non so più se “La Notte” o “Deserto Rosso”. Non importa. Bounty notò che ero distratto. Di solito non accade. Guardavo le teste degli spettatori davanti a me e ogni tanto mi voltavo. Che cosa c’ero andato a fare? Gli unici della banda che si erano ficcati dentro quella sala eravamo io e lui. Gli altri erano al bar, non so più che cosa dessero alla televisione, forse “Non è mai troppo tardi” con il maestro Manzi. Mentre il film era fermo sull’ingresso di una fabbrica, Bounty si è voltato verso di me e mi ha domandato: “Che cos’hai?”. Che cosa si risponde in questi casi? “Niente”, si risponde, “niente”. Ma sarebbe meglio tacere. Perché non appena hai detto “niente”, ti accorgi che hai detto più di quanto avresti dovuto. “Chi è?”, ha chiesto Bounty. Vedete? Ci vuole poco perché la montagna frani. “Lasciami in pace, voglio guardare il film”, ho detto con un gesto di stizza. Bounty non replicò. Io dissi “scusa”. Era ridicolo che fossimo entrambi seduti nella sala buia di un cinema per poter sognare in pace una ragazza, la stessa. Forse tutti gli 82 uomini presenti erano venuti per quello. Puttana d’una Peakly, faceva strage di cuori con la facilità con la quale io potrei rastrellare le foglie secche in giardino. Vidi il suo volto sullo schermo, poi sulle pareti del cinema, mi guardava dal soffitto, mi perseguitava maliziosa con gli occhi della maschera. Io non so se Bounty vivesse le medesime sensazioni. Ma è chiaro che qualcuno doveva aver fatto una magìa con i nostri cuori di pezza. Peakly ci dominava con la sua assenza, una catena ci legava e ci portava da lei. Aveva 15 anni, si muoveva con una spontaneità bambina e una sicurezza adulta. Noi, invece, non sapevamo ancora nulla della vita. Fuori del cinema era buio. Più buio che dentro. Io e Bounty abbiamo fatto finta di essere in un film. Lui ripeteva battute orecchiate da chissà quale attore, Mastroianni forse. Io continuavo a ripetere: “Non guardare in macchina, non guardare in macchina. Se fai così lo capiscono che è tutto uno scherzo”. Sembravo impazzito. No, lo ero. Non volevo che il film terminasse, avrebbe significato dimenticare Peakly per sempre. La banda era a pezzi. Secondo me, la colpa era della televisione. Niente più tornei a calciobalilla, né partite a briscola. Billie-boy ci mandava a quel paese in continuazione, “vaffanculo, vaffanculo”. Non gli andava bene niente. I due gemelli erano dovuti partire, c’era uno zio che stava morendo. Quanto a Stanley, io non lo reggevo più: aveva cominciato a frequentare un altro giro, gente più adulta, di cui non volevo sapere nulla. Fatti suoi. Sebbene fosse soltanto il 21 agosto, mi sembrava che l’estate avesse già fatto bancarotta. Ricordo bene quel 21 agosto perché la sera accadde un fatto singolare. Mi trovavo sul lungomare. Erano le sette, l’ora in cui la spiaggia si è svuotata, ma sul passeggio non c’è ancora nessuno. C’erano però decine di gabbiani a caccia di cibo. A un certo punto uno di essi è planato davanti a me e si è messo a saltellare come se mi invitasse a seguirlo. Io gli andavo dietro, non avevo alcuna intenzione di tornare a casa per la cena. Abbiamo saltellato insieme per alcune centinaia di metri, poi – improvvisamente – l’ho sentito parlare. “Attento, attento – ha detto – di tutto questo non resterà nulla”. Non abbiate paura, al contrario delle apparenze non tutti i gabbiani sono sani di cervello. “Tu ti credi unico e inalterabile, ma domani sarai un altro uomo e poi ancora un altro uomo e poi ancora un altro. Una vita contiene molte vite, non credere”. Dopodichè si levò in volo. Che cosa voleva dirmi? Per molto tempo me lo sono chiesto. Lo sapevo da me che l’estate – l’estate del ‘65 – era finita. Decisi di tornare a casa. Il gabbiano era ormai lontano, non riuscivo più a distinguerlo dagli altri. Non ne sono sicuro, ma forse fu proprio quella notte che mi spuntò un’ombra di peli sul petto. 83 “I have seen the Future!” Maltese Narrazioni volume XXXV MALTEXPO UNIVERSALE Donne e uomini, il cui sguardo sicuro si profonda nella nascente aurora di un tempo nuovo, orsù, ACCORRETE ad apporre le vostre tessere d’ingegno e immaginazione su quel vasto e scintillante mosaico che chiamiamo FUTURO! A SETTEMBRE IN LIBRERIA Laura Salvai ALTA QUOTA Laura Salvai del 1962, lavora da vent’anni nell’editoria torinese come redattrice e traduttrice. Ha tradotto per Einaudi un saggio sull’Olocausto, Uomini comuni di Christopher Browning. Scrive di libri e di viaggi sulla rivista Il Mappamondo. La stagione era quasi alla fine; il tempo si era guastato e grosse nuvole nere incombevano ogni mattina sul pianoro, appese ai fianchi delle montagne come pennacchi di fumo. Pioveva spesso e il vento urlava come un dannato nelle fessure delle finestre. Dai sentieri dei laghi non scendevano più gruppi di escursionisti curvi sotto il peso di zaini enormi. I merenderos con il tavolino da picnic e l’anguria nel baule se ne stavano a casa all’asciutto. Il ristorante era quasi sempre vuoto. Passavo le giornate a pulire la cucina o a preparare pentolate di minestrone che nessuno avrebbe mangiato. Sentivo l’acqua scrosciare con un fragore da grandine sul tetto di pietra. Era un giorno di metà agosto e sembrava già autunno. Guardai il paesaggio oltre i vetri rigati di pioggia: il Monviso era completamente coperto. Sbadigliai. “Vado a stirare i tovaglioli” dissi a Sergio. Lui fece “Cosa?” senza sollevare la testa. Seduto davanti a un quaderno, contava e ricontava gli incassi perduti a causa del maltempo. “Vado di là a stirare” ripetei più forte. In una stanza stretta e male illuminata dietro il bar c’era un mucchio di biancheria da tavola che aspettava un colpo di ferro. Non che la prospettiva mi allettasse, ma tanto per fare qualcosa. Sergio mi fissò per un attimo come uno che si è appena svegliato. “No, ho bisogno di te qui” disse. “Stasera ho ospiti importanti. Non te l’ho detto?” “No”. “E le trote salmonate?” “Salmonate?” Avevo il frigo pieno di trote normali, già sviscerate e pulite, pronte per la friggitrice. In tre mesi di lavoro non avevo mai cucinato altri tipi di pesce. Sergio si alzò in piedi gettando occhiate negli angoli. “Ma sì, le ho comprate apposta stamattina”. “Io non le ho viste”. “Aspetta”. Uscì in cortile sotto il diluvio, tirandosi sulla testa il cappuccio del pile. Rientrò poco dopo e mi porse un pacchetto marroncino. 87 “Erano in macchina” disse sollevato. Aprii l’involto appiccicaticcio: dentro c’erano tre grosse trote con la pancia rosa. “Come le devo preparare?” “Al vapore. Stai attenta, voglio fare bella figura”. Aggrottai la fronte. Potevo cucinare alla buona per trecento persone, ma la richiesta di accontentare pochi ospiti scelti mi preoccupava. Sergio continuò: “E poi direi spaghetti al pesto scolati al dente. Niente roba precotta, mi raccomando; fa schifo. Abbiamo qualcosa di antipasto?” “Sì. Peperoni in salsa verde”. “Va bene. Dolci?” “Qualche crème caramel”. “Sono vecchi?” “Di ieri”. “Allora siamo a posto. Fai un’insalata di contorno. Si cena alle otto”. “Non mi hai detto quanti sono”. “Con me, quattro. E mettiti un grembiule pulito”. La cena fu un disastro. Sergio piombava continuamente in cucina per accertarsi che tutto procedesse alla perfezione e io finii per agitarmi. Scolai gli spaghetti troppo presto; più che al dente, erano croccanti. La nuova cameriera, venuta apposta per la serata, mi guardava di traverso. Le trote salmonate erano troppo cotte. Mentre cercavo di sistemarle sul vassoio, una (la più bella) mi cadde e si spappolò sul pavimento con un tonfo. Sergio, che entrava in quel momento, mi trovò immobile con la schiumaiola in mano a contemplare lo sfacelo. “Che hai fatto?” sibilò, per non farsi sentire dagli ospiti. Con una rapidità che mi stupì, si chinò e raccolse i pezzi dispersi della trota. Accorpandoli intorno alla lisca ricompose il pesce sul vassoio come se fosse un puzzle. A me che lo guardavo impalata disse: “Su, prendi un po’ di maionese”. Poi il vassoio fu portato in sala e non ne seppi più nulla. Tirai un sospiro di sollievo: i crème caramel erano già pronti, bastava sformarli dagli stampini di alluminio. Per me la cena era finita. Corrada, la lavapiatti, trafficava nel lavandino con un gran cozzare di stoviglie per farmi intendere che per quei quattro avventori avevo sporcato fin troppe pentole. Non ci feci caso e cominciai a riordinare la cucina. Volevo godermi il momento di calma che segue la baraonda del servizio. Io e il Lisoform: l’unico idillio della giornata. Lavorai in santa pace per circa mezz’ora pensando ai fatti miei. Verso le dieci, mentre mi preparavo a lavare il pavimento, la porta della cucina si spalancò ed entrarono tre uomini di mezza età accompagnati da Sergio. Per educazione spinsi il secchio sotto il tavolo. Si radunarono tutti davanti alla parete opposta, vicino alla finestra che dava sul Monviso. Dai discorsi che seguirono capii che il mio datore di 88 lavoro voleva ampliare il locale in quel punto, e per farlo aveva bisogno dell’approvazione dei tre che aveva invitato a cena. Erano, in ordine di importanza: il sindaco del comune vicino, l’assessore all’edilizia, un geometra (o architetto) chiamato per la consulenza tecnica. Parlavano tutti insieme tracciando nell’aria gesti ampi e solenni, come se quel muro dovessero spostarlo seduta stante. Li osservavo a braccia conserte, dimentica di tutto, appoggiata al manico dello spazzolone. Notai che il geometra, o quello che era, lanciava frequenti e prolungate occhiate al culo di Corrada, esposto in bella vista mentre la sua proprietaria era china sull’acquaio. La conversazione giunse a un punto morto. L’edificio era di particolare pregio storico? C’era un vincolo paesaggistico? Nessuno dei tre lo sapeva. Gli uomini, d’un tratto sfaccendati, presero a ciondolare intorno alla stufa. Il geometra afferrò Sergio per il gomito: “Non mi fai conoscere le tue ragazze? Sono venuto apposta, in paese non si parla d’altro”. Sergio presentò Corrada, che era la più vicina. Lei si girò appena, biascicò un saluto e tornò alle sue stoviglie. Aveva un bel culo ma un pessimo carattere. “E questa è la tua cuoca universitaria?” Sobbalzai vedendo che indicava me. Sergio rise. “Sì. Se vuoi mandarle il conto del dentista, per via degli spaghetti”. L’uomo scosse la testa: “Avanti, non scherzare. Presentaci come si deve”. Sergio parlò con voce cerimoniosa: “Anna, ti presento l’architetto Ermes Peano. Lei è Anna Morra, studentessa al primo anno di...” “Lettere” completai. “È un grande piacere conoscerti” fece l’architetto stringendomi la mano. Subito mi accorsi che non aveva niente in comune con gli altri due bacucchi del municipio. Era vitale e il suo sguardo era pieno di curiosità, e giovane. Gli sorrisi. Lui mi strizzò l’occhio: “Quanti anni hai, tesoro? Venti?” “Diciannove” dissi. “Sei proprio una bimba. Mi dai un bacio?” Scoppiai a ridere e con un gesto repentino afferrai lo spazzolone: “Andate via tutti” dissi. “Devo lavare il pavimento”. La sera dopo l’architetto ritornò. Comparve al’improvviso mentre sistemavo gli avanzi della cena in frigorifero. Il tempo era migliorato, avevamo avuto una comitiva di alpinisti francesi. La stufa a gasolio era accesa e c’era un caldo infernale. Chiesi “Che ci fai in questa bolgia?” E lui: “Non posso stare senza vedervi, streghette. Siete troppo carine”. Se ne stava lì tra i vapori unti con addosso una camicia azzurra perfettamente stirata. 89 Fece molte domande sul nostro lavoro, alle quali risposi solo io. Corrada rimaneva rintanata nel suo angolo, ingrugnata e ostile. Così Ermes prese a venire ogni sera. Sentivo il rimbombo della sua voce nello stretto corridoio che collegava la cucina alla sala e subito dopo lui compariva nello spazio vuoto davanti al bancone. Muovendosi tra mucchi di piatti sporchi e resti di cibo dall’odore nauseante, l’architetto ci intratteneva. Raccontava di avventure in montagna, di storie di contrabbando, di bellissime borgate alpine abbandonate che avrebbe voluto ristrutturare. A volte accendeva la radio e ballava per noi un boogie o un twist. Aveva un fisico agile, da ragazzo. Lo osservavo sbrigando le mie faccende e il tempo passava in fretta, senza peso. Cominciai a chiedermi se venisse per me o per Corrada. Provavo una fitta di gelosia nel pensare che ci avrebbe gradite entrambe, una per volta o anche tutte e due insieme. La mia collega però non lo filava. Passandomi accanto, sussurrava con voce sprezzante: “Mandalo via. È uno scemo”. Non diceva proprio scemo. Usava un termine dialettale molto efficace: falabrac. Di notte, prima di addormentarmi, fantasticavo di torride scene di sesso che avevo visto solo al cinema. Non avevo alcuna esperienza diretta e a diciannove anni mi vergognavo di ammetterlo. Mia madre, donna molto cattolica, mi aveva inculcato una serie di rigidi divieti che non vedevo l’ora di infrangere. Ma non volevo farlo con un coetaneo maldestro: aspettavo l’occasione buona per trasgredire alla grande. Una sera, dopo aver bevuto con me un paio di grappe nel bar pieno di alpinisti, Ermes infilò una mano sotto la mia giacca bianca da cuoco. La tenne solo un attimo, ma fu abbastanza. Lo guardai con un sorriso complice, da ninfetta cresciuta e parecchio scafata. Non volevo che mi considerasse una pivella. Mezz’ora dopo, in cucina, sentii cigolare la porta che dava sul cortile. Una voce sussurrò il mio nome: “Anna!” Guardai, ma non vidi nessuno. “Chi è?” chiesi. Ermes comparve nella fascia di luce e mi fece un cenno impaziente con la mano: “Vieni fuori”. “Non posso” dissi. “Devo finire qui”. Stavo pulendo l’affettatrice. “Lascia stare. Lo farai più tardi”. “Ma poi Sergio si arrabbia con me…” Entrò, mi afferrò per il polso. “Avanti, non fare la brava bambina. Tanto so che non lo sei”. Mi tolsi il grembiule e lo seguii fuori, nella notte gelida dei duemila metri. Appena fummo al buio mi spinse contro il muro e cominciò a baciarmi furiosamente. Sentivo il suo corpo contro il mio, le sue dita calde sotto i vestiti. Era come cadere in un abisso. Soffiandomi le parole all’orecchio Ermes disse: “Vieni con me, andiamo in macchina”. 90 Capii che cosa voleva e scossi il capo: “No”. Mi tirò a sé, sorrise. Non credeva che dicessi sul serio. “Su, come no…”. Lo allontanai con un gesto brusco, puntai i piedi a terra. “Non voglio farlo in macchina”. Mi guardò incredulo: “Perché? Non ti piace?” “Mi piace, sì” mentii. “Ma è la prima volta con te. Voglio farlo a letto”. “Ma dove?” “A casa tua. Domani sera”. “Non arrivo fino a domani. Senti in che stato sono”. Pigiò il mio palmo sulla patta dei suoi pantaloni. Rabbrividii di desiderio, ma non cedetti. Liberai la mano e scappai in cucina. Sulla porta mi voltai: “Alle undici, davanti alle casermette. Ti aspetto”. Ermes aveva telefonato per dirmi che mi portava fuori a cena. Frugai fra i miei vestiti cercando qualcosa da mettermi. Puzzavano tutti di cucina. Scovai un paio di pantaloni di velluto a coste color tortora e un dolcevita nero che non avevo ancora usato. Alle undici scesi alle casermette diroccate all’inizio del pianoro. Non volevo che Sergio o Corrada ci vedessero andar via insieme. Nel cielo nitido dell’alta quota le stelle brillavano vicine e molto più numerose di quanto ricordassi. Ermes era già lì. Quando mi vide accese il motore e partimmo. Parlò in continuazione mentre scendevamo verso il paese lungo la strada stretta tutta a curve. Io ero silenziosa; avevo un po’ di paura. Al ristorante non mangiai quasi nulla e bevvi moltissimo. Quando uscimmo ero sbronza. Ermes mi portò a casa sorreggendomi per la vita. Nella mia confusione alcolica vidi un appartamento tutto bianco pieno di mobili da esposizione; le pareti, i pavimenti, le lampade, i divani erano immacolati e perfetti, come se nessuno li avesse mai usati. Ermes mi guidò in una camera al fondo del corridoio. Mi lasciai cadere sul letto e lo trascinai giù con me, slacciandogli la cintura con mani impazienti. Nel dormiveglia del mattino sentivo le dita di Ermes che mi sfioravano la pelle. Aprii gli occhi con una fatica immensa. “Che ore sono?” “Le sei”. Lo abbracciai, intrecciando le mie gambe con le sue. “Non voglio andare” dissi. “Ho ancora sonno”. “A che ora cominci in cucina?” “Alle sette”. “Devi prepararti. Farai tardi”. Obbedii. Alzandomi dal letto mi accorsi che sul lenzuolo bianco c’erano alcune gocce di sangue. Le vide anche Ermes. “Hai le tue cose?” domandò. “No”. Mi fissò senza capire: “E queste macchie?” 91 “Indovina” dissi, e mi diressi verso il bagno. Balzò in piedi, nudo, e mi afferrò per le spalle: “Vuoi dire che era la prima volta… in assoluto?” “Sì”. “E l’hai fatto con me?” “Sì!” “Streghetta bugiarda! E io che credevo...” “Ci sei cascato, eh?” Mi accarezzò il viso con il dorso della mano. “Ma bimba mia, dovevi dirmelo. Sarei stato meno brutale”. “Non sei stato affatto brutale” Fuori era una bellissima giornata. Il sole ancora basso illuminava le montagne davanti a noi, mentre la macchina si arrampicava sui tornanti. Cercavo di imprimermi nella memoria i nomi che Ermes elencava, indicandomi le cime una a una. Più di tutto mi piaceva fare l’amore nelle stanze polverose sopra il ristorante, dove non dormiva quasi mai nessuno. I vecchi mobili di legno scuro creavano un’atmosfera intima, piena di ombre e di mistero. Aspettavo il momento buono per svignarmela con Ermes su per le scale, mentre Sergio era impegnato a preparare un caffè dopo l‘altro al bar. Tirchio com’era, sarebbe stato capace di farci pagare la camera. A metà settembre piovve per cinque giorni di fila; la stagione era finita. Cominciammo a ritirare le coperte nei sacchetti con la naftalina e a mettere via le pentole più grandi, che ormai non ci servivano più. Poi fu il turno delle stoviglie e un lunedì mattina ci chiudemmo la porta alle spalle. Vista da lontano, la sagoma grigia del ristorante sembrava già un luogo abbandonato. Sergio mi accompagnò in macchina alla fermata degli autobus. Abbracciai Corrada, che tornava a casa con un parente taciturno che non mi fu presentato. Guardai il paesaggio che cambiava con il diminuire dell’altitudine: dai pendii spogli disseminati di rocce alle foreste di larici, dai boschi di castagni ai campi di mais della pianura agricola. Mi accorsi che la distesa regolare della campagna mi deprimeva. Era monotona, piatta, senza vigore. Mia madre si insospettì vedendomi tornare senza zaino. Mi venne dietro in camera da letto e rimase a guardarmi mentre io, in piedi davanti all’armadio, cacciavo mucchi di abiti pesanti nel borsone. “Che fai?” domandò cautamente. Risposi senza voltarmi: “Sono venuta solo a prendere i vestiti. Torno subito in montagna”. “Torni… dove?” Avevo cercato a lungo di evitare quella spiegazione, ma ormai non po92 tevo più rimandare. Volevo andarmene al più presto. Presi fiato e dissi con calma: “Ho conosciuto un uomo. Vado a stare da lui”. Mia madre sussultò: “Un uomo?” Parlò con voce spezzata, come se avesse ricevuto un colpo in pieno petto. La sua reazione mi addolorò. Cercai di tranquillizzarla. “Mamma, è un’ottima persona, non devi preoccuparti. Mi vuole bene”. Dal suo sguardo capii che mi odiava. “Sei pazza” disse. “Ma no, è simpatico”. “Simpatico!” urlò lei, con un sarcasmo amaro e disperato. “E sentiamo, quanti anni ha?” “Quarantotto”. La vidi impallidire. Il mio amante aveva esattamente la sua età. Mi si parò davanti, alta e minacciosa. “Tu non vai da nessuna parte. Non ti permetterò di buttare via la tua vita così, per un capriccio. Cosa credi, di poter fare ciò che vuoi?” Non risposi. Conoscevo bene tutti i suoi argomenti. Irritata dal mio silenzio proseguì con violenza: “Non sai che tutto questo è immorale? Devo proprio vederti finire come una donnaccia? Non è così che ti ho educato. Ci sono delle regole”. Sbottai: “Me ne infischio delle tue regole. Io voglio vivere”. Sollevò una mano di scatto. Stava per darmi una sberla, ma si trattenne; sapeva che sarebbe stato peggio. Cercò di contenersi, cambiò tono: “Ragiona, per favore. Non hai pensato ai tuoi studi, alla tua vita? …Sei giovane, te ne pentirai amaramente”. “Non me ne importa un fico” dissi, afferrando il manico del borsone. La lasciai in cima alle scale in preda a una furia muta, il viso impietrito e ostile. Se avesse pianto mi avrebbe reso tutto più difficile. Ma non pianse; era troppo arrabbiata. La vita con Ermes era strana, senza orari. Dormivamo fino a tardi, poi lui si chiudeva nel suo studio in mansarda e lavorava fino a notte fonda. Non cucinavamo mai: andavamo sempre al ristorante. Se protestavo per quello spreco, Ermes ribatteva: “Di che cosa ti preoccupi? Posso permettermelo”, ma non era quello il punto. A me mancava il calore dei fornelli accesi e delle pentole sul fuoco. Quando tentai di spiegarglielo, lui scrollò le spalle e disse che non sopportava l’odore di cucina nelle stanze. Durante il giorno non avevo niente da fare. Ascoltavo il rumore del ruscello che scorreva accanto alla casa o guardavo dalla finestra le nuvole che si addensavano sulla cima del Monviso. Con la fine della stagione turistica le strade del paese si erano svuotate; si poteva star fuori per ore senza incontrare nessuno. I laghi, i colli e i rifugi indicati sulle mappe dei sentieri mi attiravano, ma non avevo voglia di andarci da sola; preferivo stare in casa. Sdraiata sul letto sfogliavo i libri di architettura, 93 guardavo le figure, leggevo le biografie di Le Corbusier, Alvar Aalto e Antoni Gaudí. Qualche volta salivo in mansarda e osservavo Ermes al lavoro. Mostrandomi fogli pieni di tracciati mi spiegava come era riuscito a risolvere la pendenza di un tetto o lo sviluppo di una scala e io non ci capivo nulla. Invidiavo la sua passione e sentivo di non avere niente che mi appartenesse allo stesso modo. I miei libri erano rimasti a casa e non potevo studiare. Sarei corsa a prenderli, ma non me la sentivo di affrontare la delusione di mia madre. Non ancora. Volevo andare a lezione all’università ma era troppo lontana. Tre ore con l’autobus, un’eternità. Chiedevo a Ermes: “Dobbiamo proprio vivere qui, in questo posto sperduto?” E lui, trasecolando: “Perché? Non ti piace?” “Be’ è piccolo, non c’è niente”. “Ci sono le montagne. Guarda che spettacolo”. “Non ti trasferiresti in città?”. “Sei matta? Io sto bene solo qui”. Tutt’al più scendevamo nella cittadina a valle per un invito a cena. Nelle belle case dei colleghi di pianura, così simili alla sua, Ermes si infervorava descrivendo la modernità di certe soluzioni che aveva scoperto studiando l’architettura delle baite alpine. Ogni tanto mi strizzava l’occhio o mi spiegava qualche particolare tecnico perché non mi sentissi tagliata fuori. Ma io sapevo di essere oggetto di un’attenzione obliqua. Gli uomini sembravano chiedersi come Ermes fosse riuscito a trovarsi una pollastra così giovane da scopare. Le donne mi scrutavano diffidenti, incerte se compatirmi o temermi. Ero una ragazza ingenua traviata da un porco o una zoccola da quattro soldi? Nel dubbio mi trattavano freddamente e sorvegliavano i mariti. Una sera, di ritorno da una cena, sentii per la prima volta un groppo che mi serrava la gola. I boschi di castagni ai lati della strada, spazzati da un vento furioso, erano neri e minacciosi. Afferrai la mano di Ermes appoggiata sul cambio e strinsi forte le sue dita fra le mie. “Ti amo” dissi. Lui ricambiò la stretta e sorrise: “Davvero?” “Sì”. Il groppo minacciava di soffocarmi; ero terrorizzata. Aggiunsi in fretta: “Voglio sposarti”. Ermes non rispose. Guardava la strada davanti a sé con caparbia concentrazione. “Sei una bambina” disse poi. “Non sai cosa dici”. Il giorno dopo mi portò a fare una gita in montagna. I prati di alta quota erano pieni di marmotte grasse che si muovevano al rallentatore; faceva freddo, fra poco sarebbero andate in letargo. Le piante di mirtilli chiazzavano di rosso l’erba ingiallita, dal colle scendeva una nebbia gelida che sapeva di inverno. Camminando tenevo le mani strette a pugno nelle tasche della giacca, nel tentativo di scaldarmi le dita. 94 Una vecchia apparsa sulla soglia di una baita ci invitò dentro a prendere un caffè. Nella cucina buia, piena di mobili da poco prezzo, respirai l’odore del minestrone che cuoceva sulla stufa. “Andiamo?” disse Ermes. E io pensai: “No”. Mi svegliai da sola nel grande letto sfatto. Ermes era già in mansarda a lavorare. Salii da lui e rimasi in piedi sulla porta, senza scarpe né calze, aspettando che si accorgesse di me. Era davanti al tecnigrafo e mi dava la schiena. Passarono alcuni minuti e non successe niente; sentivo il gelo del pavimento che si propagava in tutto il corpo. “Voglio tornare a casa” dissi improvvisamente. Ermes si voltò e mi vide. Non disse nulla. Mise il tappo alla penna e l’appoggiò sull’apposita mensolina. Continuai: “Non ce la faccio più a stare qui. Portami a casa”. Mi fissò a braccia conserte aggrottando la fronte, poi si alzò, prese la giacca dall’attaccapanni e disse: “Va bene, se è questo che vuoi”. Durante il lungo viaggio in macchina verso la pianura non scambiammo una parola. Passammo davanti alla villa che lui aveva progettato e arredato per una coppia di ricchi commercianti di bestiame: una costruzione moderna in cemento armato a vista, con balconi e serramenti in legno di frassino. L’edificio con tutto ciò che conteneva era una creatura di Ermes. I proprietari lo avevano incaricato di scegliere ogni cosa: i mobili, i tappeti, le lampade e persino le stoviglie. Adesso che la casa era finita e completa di tutto, i due vivevano nella tavernetta, preoccupati di non sciupare quegli oggetti costosi, o forse solo intimiditi da quel gusto ricercato che non capivano. Li immaginavo là sotto nel locale seminterrato, circondati dai loro vecchi mobili, mentre ai piani superiori gli arredi dalle linee impeccabili si coprivano di polvere. Era una storia che mi piaceva moltissimo e non mi stancavo mai di risentirla, ma Ermes non me l’avrebbe più raccontata. Il pensiero di quella perdita mi diede una fitta al cuore. Ma lui che cosa provava? Spiavo il suo profilo nella speranza di cogliervi un segno che non era troppo arrabbiato con me. Per consolarmi pensavo di aver preso la decisione che anche lui in fondo si augurava. Aveva vissuto sempre da solo; per quanto gli piacessi, si sarebbe presto stufato di avermi tra i piedi. Ma non c’era più tempo per rimuginare. La macchina oltrepassava già le prime case del paese. Senza chiedermi nulla, Ermes parcheggiò sulla piazza; sapeva che abitavo da quelle parti. A quel punto l’idea di scendere mi sembrò talmente dolorosa che esitai. Fuori era tutto stupidamente normale. Un vecchio leggeva i necrologi sotto il porticato davanti alla chiesa. In giro c’erano facce che conoscevo di vista, uomini e donne che tornavano dal 95 mercato con le borse della spesa. Li invidiai pensando che per loro era un giorno come un altro. Potevano star lì tranquilli a chiedersi chi era morto o che cosa ci sarebbe stato per pranzo. Ermes taceva, aspettando una mia decisione. Non aveva nemmeno spento il motore. Volevo dirgli qualcosa di bello, tipo quanto era stato importante per me eccetera, ma non mi veniva niente. Allungai un braccio, gli sfiorai i capelli con le dita. Aprii la bocca per parlare, ma mi uscì solo un “ciao” misero e insipido. Ermes si voltò. Per la prima volta da quando eravamo partiti mi guardò in faccia, le labbra piegate in un mezzo sorriso. “Addio, streghetta” disse senza togliere le mani dal volante. Non c’era nient’altro da aggiungere. Scesi dalla macchina e mi incamminai in fretta verso casa senza guardare in faccia nessuno. Mia madre non mi chiese nulla; mi vide entrare con i bagagli e si accontentò di quel dato di fatto. Io però sapevo che non ero tornata per restare. Mi sarei cercata un lavoro in città e me ne sarei andata a vivere da sola. Ma non subito. Dio mio, non subito, no! Ero a pezzi. Pensavo che sarei morta. Ermes mi mancava da impazzire, di giorno e di notte. Una mattina non resistetti più e gli telefonai. Composi il numero e immaginai lo squillo che risuonava a lungo sul tavolino di legno accanto al tecnigrafo. Quando udii lo stacco del ricevitore mi pentii di quell’impulso insensato. Ma ormai era troppo tardi. Lui già diceva: “Pronto?” “Sono io, Anna” risposi con il cuore in gola. Ci fu un lungo silenzio. Pensai: adesso mette giù. Invece sentii nell’orecchio un soffio, come una specie di sospiro o qualcosa di simile. “Perché mi hai chiamato?” Quella domanda mi fece sentire infinitamente stupida. “Non so… Volevo sentire la tua voce”. “E ti sembra una buona idea?” “No”. Ci fu un’altra pausa, eterna e straziante. Poi lui disse con tono duro: “Senti, Anna, sei tu che mi hai lasciato. Adesso fai la brava e non mi tormentare. D’accordo?” “Sì”. Buttai giù la cornetta come se mi scottasse tra le dita. Mia madre mi incrociò in corridoio: “Che succede? Hai pianto?” “No”. “Hai gli occhi rossi…” “Non è niente” dissi. “Stai tranquilla”. Andai alla finestra del soggiorno e guardai fuori, cercando in lontananza, oltre i campi e le case, il profilo aguzzo delle Cozie. Ma il Monviso non si vedeva; l’intero arco delle montagne era coperto dall’odiosa foschia di pianura. 96 Giordano Tedoldi LE MACCHINE Giordano Tedoldi è nato a Roma nel 1971. Ha scritto articoli per L’Espresso e per Kataweb Libri, e racconti per le riviste Liberatura e Maltese Narrazioni. Prima, col Vigliacco, c’era amicizia per la pelle, almeno in certi momenti. In effetti quando La Butterata non mi cacava e io m’ero isolato, l’unico da cui mi lasciassi consolare era lui, Il Vigliacco. Forse Il Vigliacco già mi faceva la corte e non mi accorgevo di quanto prendesse la cosa sul serio. Il Vigliacco l’avevo sempre considerato solo un amico. Certo, mi mandava messaggini dove scriveva che gli mancavo. Ma che vuol dire, anche a me lui mancava. Ma la mancanza resta quella che è: un vuoto che colmato si tranquillizza. Non pretende di ingoiare ancora. Per lui evidentemente era diverso: la mancanza non si colmava mai, era decisamente avido, voleva possedere, voleva assorbire. Io tutto questo non lo vedevo. Cosa volete che ne capissi, allora pensavo a una donna. Ero molto dispiaciuto del fatto che La Butterata mi ignorasse totalmente. Leggevo spazzatura, ascoltavo spazzatura, bevevo spazzatura, uscivo con escrementi umani – tutto per dimenticare l’indifferenza della Butterata. Non la capivo. Si diceva mia amica ma era come non potesse vedermi. In realtà era come avesse una metà del cervello occupata da pensieri negativi su di me, e l’altra metà da pensieri positivi, una perfetta mela spaccata a metà. Parlando della metà negativa, cos’avevo fatto di male? So fin troppo bene che il pensiero paranoico ha sempre un principio di realtà alla base. Non è casuale. Una minima, minuscola colpa: avevo forse parlato male di lei? Avevo forse detto a qualcuno che La Butterata era molto butterata? Troppo butterata? Sarebbe stato tipico di me. Il Vigliacco voleva vedermi spesso in quel periodo in cui mi addoloravo perché La Butterata era assente, io però non lo trovavo consolante e tentavo di restarne alla larga. Certi giorni staccavo il telefono, prendevo i tranquillanti e andavo a dormire. Era sempre lui a telefonare, a farsi vivo per offrirmi il suo aiuto, e io non rispondevo, io mi comportavo con lui esattamente come La Butterata con me. Copiavo La Butterata. Studiavo La Butterata a fondo nel suo sbattersene di me e quindi allo stesso modo me ne sbattevo del Vigliacco. 99 Il Vigliacco dopo nemmeno due settimane di questo trattamento entrò in sofferenza. Smise di dirmi con tortuosi giri di parole che gli faceva piacere vedermi, che mi trovava intelligente, che ero una persona divertente, e mi confessò che non voleva perdermi perché si era quasi innamorato. Mi confessò che stare lontano da me gli procurava dolore. E io ero insensibile. Consapevolmente insensibile, così come La Butterata lo era nei miei confronti. Io, per parte mia, certi giorni stavo davvero male, avrei voluto baciare La Butterata sulla guancia, m’ero visto allo specchio con il viso guasto e arrossato; mi stavo dando in olocausto per una donna dal nome malaugurante: La Butterata. Quando le parole adoranti del Vigliacco attraverso il telefono mi ronzavano nell’orecchio, spesso soppesavo la differenza tra Il Vigliacco e La Butterata, e mi domandavo perché l’uno ci tenesse tanto a me e l’altra per niente, e perché io tenessi tanto all’una e non a quest’altro, come fosse buffo e crudele. Ascoltavo le parole di lui attraverso il ricevitore del cordless e continuavo a specchiarmi nei miei pensieri finché la voce del Vigliacco non divenne a tutti gli effetti la voce della Butterata, la voce della Butterata era molto bella, educata, linguisticamente sempre precisa, solo a tratti distratta, cosa che inevitabilmente mi faceva pensare che stesse facendo altro mentre parlava con me al cordless, tipo fumare in terrazza, mangiare un panino tenendo in sordina la masticazione con una mano sul microfono, controllare la posta elettronica, far cenno di aspettare e avere pazienza a qualcuno, un uomo, lì con lei. Non mi sfiorava nemmeno l’anticamera del cervello che, al telefono con me, La Butterata potesse davvero ascoltarmi: era solo un passatempo, una partita a un gioco scemo e che non le interessava vincere. Col Vigliacco, al telefono, presi l’abitudine di starci a lungo, perché lui imitava alla perfezione La Butterata, e pronunciava parole adoranti nei miei confronti, che non poteva vivere senza di me, che ero perfetto, stavo lì a ascoltarlo finché non mi faceva ridere che quasi non ne potevo più, e anche finché non potevo assicurarmi un pezzo della pseudoButterata nell’interpretazione del Vigliacco, mediante quelle telefonate, che inevitabilmente si chiudevano con la richiesta del Vigliacco di incontrarsi, per fare cose innocue, tipo passeggiare in un parco, andare al cinema, andare a bere un bicchiere di birra, non ci sarebbero state conseguenze, non ci sarebbe stato sesso. Una di queste sere ero veramente disperato, nemmeno l’imitazione del Vigliacco, col suo falsetto stupendo, riusciva a consolarmi dal fatto che La Butterata non mi considerasse per niente, e cominciai a tirare su col naso. “Sei raffreddato?” mi domandò quel Vigliacco. “Sì, aspetta che mi soffio il naso”. Aveva smesso di imitare la Butterata, si era stufato di quel gioco. “Non è che per caso tiri?” aveva detto a un certo punto. “Un mucchio di gente delusa comincia a tirare. La solitudine è l’anticamera della tossicodipendenza, e alla fine anche il suo ospizio”. Sicché fu facile per me rispondere: “Quando parli senza imitare La Butterata perdi tutto il tuo 100 interesse”. E lui: “Sarà ma tu continui a tirare su col naso. O stai piangendo o ti fai”. Concludemmo la telefonata. Pensai alla cocaina, a quante volte mi era stata offerta e stupidamente avevo declinato. Dove potevo prenderla adesso? Non conoscevo nessuno. Non ero nessuno. Erano le nove, era sceso il buio e non me n’ero nemmeno accorto. Mi faceva male l’orecchio per tutto il tempo che avevo tenuto il telefono incollato, e in frigorifero avevo solo una confezione di Emmental. Avrei avuto voglia di cocaina. Mi avrebbe aiutato a sopportare la solitudine. Provai con un ultimo tentativo. Provai a chiamare La Butterata. La Butterata era di buon umore. Ero riuscito a chiamarla anche se mi tremava la mano e allucinavo davanti a me una piccola piramide bianca di cocaina sul tavolino del salone, da dove stavo chiamando seduto sul divano. Rispose. La sua voce aperta, solare, mi sembrava da sola uno schiaffo allo squallore della vita. Sembrava contenta di sentirmi, sembrava avesse delle cose da dirmi. La cosa mi calmò un po’. Mi chiese cosa Il Vigliacco volesse da noi, visto che le era giunta voce che sparlasse a 360 gradi di lei, dunque anche con me. Le dissi che Il Vigliacco non poteva volere niente da noi intesi come Noi, perché io e lei eravamo due estranei. “Non siamo due estranei” disse La Butterata, “non siamo insieme ma nemmeno due estranei. Esiste una linea, e noi siamo su quella linea. Siamo amici. Anzi se ti va la prossima settimana ci vediamo”. E io: “Vediamoci presto, ma dimmi cosa vuoi fare, mentre rimaniamo in equilibrio sulla linea o forse è meglio dire striscia”. E lei: “Perché striscia?”, e io: “Lascia perdere”. Ci fu un silenzio imbarazzato, poi lei disse: “Voglio andare a correre”, e io: “Non posso venire, sono fuori forma, sono veramente da buttare in questi giorni, ti dico solo che ascolto Luigi Tenco che odio come nient’altro”, e lei: “Non si può fare niente con te”, e io: “Possiamo parlare di me, di te, e del Vigliacco. Possiamo parlare male di tutti quanti, noi compresi. Ne hai voglia?”. Quando ci vedemmo, andammo a prendere un cocktail in un locale che esponeva l’adesivo del Gambero Rosso, ragion per cui era carissimo e i cocktail erano assolutamente ordinari, e la Butterata, appena la vidi, ovviamente non mi fece nessuna impressione, perché stavo male già da prima, da ore prima di vederla, quindi l’impatto con lei non mi fece male più di tanto. Tantopiù che mi tenevo sulla mia linea, deciso a non fare un passo indietro né uno avanti. Se avessi fatto un passo falso, avrei avuto davanti a me solo tre soluzioni, come avevo sentito dire in un film di giovani mafiosi: il tetto, il fiume, o un colpo di pistola. Sostituiamo il colpo di pistola con il gas, e la cosa si fa realistica. Ora, dicevo che non avevo più paura, ne avevo avuta abbastanza per tutto il giorno, pensando a cosa avrei fatto rivedendo La Butterata. E ora, come sempre, ero superficiale, avevo messo il pilota automatico – come se io 101 e La Butterata fossimo già sposati da molti anni! Anzi, quasi quasi la mollavo lì, quasi quasi me ne andavo, non valeva la pena. Quasi quasi divorziavo da questa non moglie che amavo totalmente in absentia. Era butterata, ovviamente, ma in più aveva nuovi pedicelli sul lato del collo. Non ricordavo nemmeno se le avessi mai chiesto il perché di quella sua pelle in rovina, forse una volta l’avevo fatto, e lei aveva tirato fuori la storia che non mangiava frutta né verdura, mangiava troppe patate lesse, troppa cioccolata al latte con quel burro orribile, e soprattutto la ritenzione idrica, che le gonfiava i tessuti, glieli rendeva rugosi, la rendeva antiestetica. Alla birreria presente sul Gambero Rosso, a un tavolino d’angolo, dopo aver parlato di un mucchio di stronzate, infine la Butterata mi chiese: “Perché il Vigliacco mi attacca?”. Le avevo riferito tutto quanto di male aveva detto di lei, cosa che l’aveva colta di sorpresa ma non troppo, aveva finto di essere sorpresa ma in realtà lo sapeva che Il Vigliacco andava in giro a sparlare di lei, a dire che era una Butterata marcia. Io le risposi toccandomi il naso nella penombra appena illuminata dai colori dei cocktail: “Non lo so, gelosia. Lui dice che gli manco” e La Butterata: “Anche a me invia messaggini dove dice che gli manco. A lui mancano tutti. Così parla male di tutti”. Io la guardavo, la ascoltavo perché mi piaceva molto sentirla parlare dal momento che a differenza delle donne comuni oppure ordinarie definitele come volete lei adoperava la logica, i suoi discorsi avevano una consequenzialità di cui realizzavi la portata perfino ore dopo averli uditi, e ancora te ne stupivi, ma in quel momento, seduti a un tavolino su una pedana rialzata nella sala non fumatori di quella birreria, io soprattutto la guardavo, e alla fine glielo dissi, le dissi: “È sleale”, e lei: “Cosa?”, e io: “È sleale, quanto sei bella”, così mi ero finalmente calato le braghe, come si dice, davanti a lei, le avevo confessato che sì, i discorsi, la logica, tutte cose fondamentali, ma se poi ci aggiungevi che butterata o no era veramente bella, aveva uno sguardo preciso, accurato che ti puntava negli occhi, al confronto tutte le altre erano strabiche, tutte le altre avevano uno sguardo che nuotava nel nulla come principianti dell’occhiata, lei no, era veramente sleale, era veramente una scorrettezza. Dopo aver riaccompagnato La Butterata a casa, era l’una, La Butterata abitava in un quartiere studentesco dove a quell’ora languiva un sommesso ronzio di malattie sessualmente trasmissibili e angoscia da esame imminente, decisi che non avevo voglia di tornarmene a casa, decisi di tentare l’ingresso in un’altra birreria, non necessariamente segnalata dal Gambero Rosso, decisi di bere ancora qualcosa in solitudine perché può darsi che il giorno dopo sarei morto, già da qualche giorno guidando vedevo delle macchie buie, non come quelle protocellule che ti sembra di vedere d’estate quando bevi poca acqua e la pressione del globo oculare diminuisce, no, avevo proprio dei momenti di buio, sprazzi che ingoia102 vano la visione, che avevo derubricato alla voce psicosomatologia, anche se sapevo bene che era una diagnosi consolatoria e rassicurante, dunque sbagliata. Dopo aver visto La Butterata scendere dalla mia macchina e gettare un’ultima occhiata precisa a me o forse al cambio della macchina, averla salutata senza ricevere alcuna risposta, come quei messaggini del Vigliacco cui né io né lei avevamo più voglia di rispondere, avevo avuto un altro momento di buio, e subito dopo stavo guidando lungo la via della Butterata e parcheggiavo in un posto libero davanti una birreria che frequentavo da studente di lettere, dove litigavo spesso col proprietario o comunqueil gestore a proposito della guerra ONU in Kosovo, che ritenevo sacrosanta, ritenevo giusta e soprattutto caldeggiavo l’invasione di terra e non i meri bombardamenti e ricordo che mentre mi accaloravo su quest’opinione scema come qualunque altra opinione il gestore con la sua solita camicia bianca e le labbra pronunciate – un bell’uomo in definitiva, con un certo stile – portò il vassoio con le birre che io e i miei amici studenti avevamo ordinato e con grande maleducazione ma al tempo stesso maggiore convinzione di quanta ne avessi io mi prese di petto e disse: “Ma vacci tu, in guerra, allora”. Entrai dunque in quella birreria, che si chiama Rive Gauche, ed è buffo perché io da ragazzo ho collaborato a una rivista di Destra che si chiamava Riva Destra, la Destra ha sempre scimmiottato la Sinistra, mentre la Sinistra, dal canto suo, ha perso il senso dell’ispirazione marxiana ed è diventata una cosa simpatica e infantile ma nulla più, come l’Orso Yogi, la Sinistra è un Cartoon, e entrando nella birreria mi avvicinai al bancone in fondo e il gestore in camicia bianca, riccioli neri lucidi e labbra pronunciate mi riconobbe e io ordinai una birra rossa media e lui disse: “Vuoi mangiare anche qualcosa?” che è pur sempre un bel progresso rispetto a: “Ma vacci tu in guerra”, se ci pensate. A un tavolino d’angolo sulla sinistra, mentre mi sceglievo il posto per sedermi, c’era ancora qualcuno là dentro, molti studenti con le borse appoggiate ai piedi delle sedie, qualche professore di filosofia che rimorchiava qualche studentessa, una ragazza apparentemente assorta in una traduzione col suo portatile che sarebbe presto divenuta cieca perché si stava quasi al buio, e lei doveva leggere dal libro e consultare un vocabolario e poi scrivere sul laptop, avrebbe perso la vista così, a un tavolino d’angolo sulla sinistra c’era Francesco, uno studente di fisica appena ventenne, molto più giovane di me dunque, col quale in un niente mi mettevo a fargli da padre, mi mettevo a fare il duro, solo perché avevo dodici anni più di lui, mi avvicinai e gli feci un gesto con la mano davanti agli occhi, sembrava che dormisse o che fosse assorto in qualcosa di profondamente complesso, si riscosse e mise una mano sul libro che teneva sul tavolino, uno Schnitzler della piccola biblioteca Adelphi. Avevo conosciuto Francesco sul sito di appassionati di scacchi chessgames.com 103 e in seguito avevamo deciso di incontrarci al Rive Gauche, un posto che lui non conosceva, e ora ecco che all’una passata me lo trovavo lì, con un libro di Schnitzler (una pippa antica) sul tavolino umido. Ci eravamo incontrati ancora molte volte, e grazie a Dio avevamo smesso di parlare di scacchi. Aveva conosciuto pure Il Vigliacco, che molti mercoledì sera mi portavo al Rive Gauche a tenermi compagnia mentre bevevo due o al massimo tre birre rosse. Francesco mi disse che stava andando via, quel giorno aveva perso malamente una partita con uno che poi lo aveva umiliato davanti a tutti mostrando così tanti errori nel suo gioco che alla fine disse che quella partita non poteva essere che fasulla, preparata a tavolino, e Francesco si umiliò a spiegare che no, quegli errori o cappelle, come si dice in gergo, li aveva fatti pensandoci, riflettendoci, dunque era proprio una pippa anche se non antica come Schnitzler, io gli dissi che cazzo te ne frega gli scacchi sono un gioco da rincoglioniti e lo pregai di restare perché avevo voglia di parlare della Butterata, c’erano nuovi sviluppi, chissà forse la possibilità di mettersi insieme, anche perché parlando a Francesco della Butterata avrei continuato ad averla sotto gli occhi, ma Francesco era davvero stanco e “Domani devo svegliarmi”, disse, una frase priva di senso solo in apparenza, e io cominciai a dubitare che mi volesse ancora bene, e quando Francesco fu uscito dalla porta del Rive Gauche io cominciai a tempestare di chiamate Il Vigliacco, perché avevo questo terribile, orrendo sospetto, che Il Vigliacco avesse cominciato a farmi terra bruciata attorno, ma il cellulare del Vigliacco era spento, e dove abitasse adesso non lo sapevo, e come fosse la sua macchina nemmeno, non potevo trovarlo in nessun modo. Mi sedetti con la mia birra e il mio piattino con gli stuzzichini a un altro tavolo, non quello lasciato libero da Francesco, che oltretutto aveva fumato così tante sigarette cheil posacenere esalava un odore ributtante, e cercai di non pensare al Vigliacco, cercai di essere contento, stare bene. Ero uscito con La Butterata, quella sera, la donna che amavo, se solo avessi avuto le idee chiare sull’amore. Sul sesso le idee me le ero chiarite. Del resto, solo i minorati non se le chiariscono. Alla fine devi solo capire cosa ti piace fare. A casa aprivo spesso internet e andavo su un sito dove si vedevano donne che si fanno penetrare da rudimentali macchine idrauliche o meccaniche. Anche quella notte, tornato dal Rive Gauche, lo feci. Erano le tre passate, odoravo di fumo e provavo una profonda rabbia. Ascoltavo un cd dei Rem a volume molto basso per non disturbare la vicina francese pippa antica che batteva sempre sul muro e vedevo nel mio monitor piatto queste donne che nel sito erano definite modelle che, presumibilmente dotate di cervello, si alzavano sulle gambe sporgendo la fica per consentire a un fallo di plastica rosa di penetrarle. Un fallo di plastica avvitato su una sbarra di ferro collegata a una ruota che forniva l’energia cinetica 104 necessaria a penetrare. Osservavo tutto ciò – la chiamerò tortura pippa antica - e non mi sembrava tanto distante dai miei comportamenti, quello che la modella si stava facendo fare in quel momento, per non so quante poche migliaia di dollari, forse nascere donna è davvero una sventura, forse hanno ragione le donne che lamentano una discriminazione per la quale alla fine la scorciatoia è sempre quella: farsi penetrare da una macchina, da un sistema, da un uomo che ti paga. Cosa c’è di sbagliato in tutto ciò? Potevo a malapena sopportare di vedere quello che stavo vedendo, perché da un lato era eccitante, dall’altro era una cosa talmente malvagia da non suscitare nemmeno il riso, era il nichilismo, era vedere una giovane ragazza completamente confusa, nemmeno narcisismo, nemmeno esibizionismo, quella era catatonia, quella era malinconia e basta. Modelle era il nome della bestia. Se solo la mia vita mi avesse dato un’opportunità di cambiare le cose. Avrei cambiato queste cose. Avrei fatto chiudere quel sito. Lo avrei censurato. Avrei invitato gli uomini e le donne a un diverso comportamento, ma io sapevo perfettamente da cosa era determinato quel comportamento: non dalla volgarità, non dal denaro, non dal machismo, ma dalla scarsa stima di sé. Dall’odio di sé. E l’odio di sé mi fece tornare a mente Il Vigliacco. Immaginai che la modella dovesse aver conosciuto un Vigliacco, prima o poi, nella sua vita, o anche una Vigliacca, non frega niente se uomo o donna, che poi poteva essere anche La Madre, o Il Padre, o Il Fratello, o tutti loro insieme, e questo Vigliacco era riuscito a scavare come un ratto nella sua autostima, era riuscito a roderla da dentro, nemmeno l’esca del denaro può fare quello che può fare un Vigliacco quando decide di abbatterti, di infilarti un pene di plastica attaccato a una sbarra di ferro dentro di te. Il Vigliacco aveva convinta la modella che la sua vita non era niente di che. Era a perdere. Quindi da riempire. Con le macchine. E da mostrare. Sul sito a pagamento, sul quale io però accedevo grazie alle password piratate, dunque nemmeno a pagamento: uno schifo assoluto. Adesso Il Vigliacco sarebbe stato contento, vederla fottere dalle macchine, quella ragazza che prima ancora che modella fottuta dalle macchine poteva essere una sua amica, poteva parlarci, portarla a bere un bicchiere di birra rossa, stabilire un transfert, parlarle di sogni e visioni, e invece no: e allora anch’io dovevo stare attento, e dovevo sorvegliare La Butterata senza riuscire molesto né invadente, un compito improbo. Non dovevo essere un altro Vigliacco per La Butterata, perché di Vigliacco già c’era quello originale. Io avrei dovuto proteggerla, dal rischio di finire in un modo anche lontanamente analogo a quello delle modelle penetrate dalle macchine. Il Vigliacco mi chiamò la mattina seguente alle dieci. La mattina seguente era domenica. Era pesante, la sua voce. Il Vigliacco mi disse che aveva visto le mie chiamate e così mi aveva richiamato. Era pesantissimo, denso come un gas. Disse che aveva saputo dalla Butterata che eravamo usci105 ti. Prima di me, aveva chiamato lei. Voleva sapere tutto. Era evidente. Gli chiesi da quanto tempo non vedeva Francesco. Disse che non ricordava nemmeno chi fosse questo Francesco. Gli dissi che era il ragazzo che giocava a scacchi e studiava fisica all’università. Disse che non si ricordava di questo tizio. Dissi al Vigliacco di stare attento. “A cosa devo stare attento?”, e io: “Ti faccio fottere dalle macchine, stai attento, ti faccio diventare un modello”. “Aspetta, forse me lo ricordo questo Francesco. È quel pischello che sfida tutti a scacchi, perde e si deprime”. E io: “Esatto”. E Il Vigliacco: “Ti racconto una storiella. Una sera ho dato una festa a casa mia. C’erano tutti, tranne te. Tu come al solito non sei venuto. Al telefono mi dicesti che saresti venuto ma poi niente. C’era La Butterata, anche se è stata solo pochi minuti, giusto all’inizio per stringermi le mani e dirmi che faceva un freddo boia. C’era L’Umiliatore che suonava con la chitarra certi arrangiamenti suoi dei Radiohead intervallati a Luigi Tenco, una cosa allucinante che però gli procurava un certo successo presso il pubblico femminile. E c’era questo Francesco, triste come un’acquaforte. Invidioso come e peggio di me. Un bastardo, per avere ventidue anni, un bastardo fatto e finito. A un certo punto ho tirato fuori la scacchiera con i pezzi di vetro, e Francesco è uscito dal suo silenzio d’acciaio e ha chiesto all’Umiliatore se gli andava di perdere. L’Umiliatore ha posato la chitarra acustica a terra e ha guardato Francesco con un sorriso, avvisandolo che non giocava con i dilettanti. Francesco gli ha risposto che non era un dilettante, aveva vinto una mezza dozzina di tornei, giocava tutte le sere su internet, tutte quelle stronzate che dicono i dilettanti. Va bene. Le ragazze ci hanno messo del loro. Giocate! Giocate! Vogliamo vedere il sangue! Gridavano. Se si fossero spogliate, se ci avessero fatto mangiare la loro fica, sarebbero risultate più composte. Giocate! Giocate! E Il Perdente paga pegno!” “Vai avanti, Vigliacco”, dissi al telefono. Il Vigliacco proseguì il racconto della festa a casa sua. “Francesco prese il Nero. Anche quella fu arroganza. Disse che era lui che lanciava la sfida, e quindi era giusto prendesse il Nero. L’Umiliatore avanzò di due passi il pedone di Re e Francesco avanzò di un passo il pedone di Donna. Quando si dice autolesionismo. Giocare la difesa Pirc con L’Umiliatore. Con uno preciso, profondo e calcolatore come L’Umiliatore. Quando Francesco ebbe finito di costruire la sua piccola casa protettiva sul lato di Re, la sua posizione era già così passiva che si accettavano scommesse sulla sua sconfitta. Alle ragazze, che si erano rese conto che una partita a scacchi è di una noia mortale, se non si ama il gioco, cominciai a offrire drink sempre più forti, cominciai a mostrare libri e dischi, parlare di cinema, cercai di comportarmi con loro come il migliore ospite possibile, ormai la cazzata di tirare fuori la scacchiera e uccidere la festa l’avevo fatta. Una buona metà delle ragazze se ne andò. Qualcuna me lo disse pure: madonna che palle, qui da te. Mai più! 106 Almeno mi disse quello che pensava. Francesco si teneva le mani sulla fronte, e fissava un punto della scacchiera dove forse pensava di poter attaccare vincendo uno scambio, insomma rimanendo con un pezzo di più dopo uno scontro tra pezzi leggeri”, e io: “Lo so cosa vuol dire vincere uno scambio”, e Il Vigliacco riprese: “Toccava i pezzi di vetro a lungo, sembrava autistico, credimi amore mio, sembrava…”, e io: “Non dire amore mio, su, lasciami fuori a me”, e Il Vigliacco si scusò e riprese: “A un certo punto Francesco si mise a pensare tantissimo, si strusciava le mani sui pantaloni e io mi dicevo adesso gli prendono fuoco, quei jeans scintillavano, e alla fine Francesco guardò negli occhi L’Umiliatore e domandò quanto tempo avesse e L’Umiliatore a una simile domanda da dilettante nemmeno rispose, era una partita senza tempo, non avevamo gli orologi, che senso aveva domandare quanto tempo avesse? Bisognava giocare più presto che si potesse e punto. La verità era che Francesco non sapeva più che fare per uscire da quel casino. Una ragazza vicino a lui disse perfino muovi l’alfiere, il disastro era completo, le cretine cominciavano a suggerirgli le mosse, e allora lui fece l’unica cosa dignitosa che doveva fare: prese tra indice e pollice il suo bel Re nero e lo capovolse. L’Umiliatore aveva vinto in ventiquattro mosse, che io avevo memorizzato mentre cercavo di non far scappare le ragazze parlando loro di cinema e teatro cinese e concerti”. “Finita così?” domandai al Vigliacco. “No. Mandai via le ragazze. Le lasciai andare a casa. Anche i maschi se ne andarono. Francesco se ne andò in cucina e ebbe una crisi di pianto e si mise a fumare Philip Morris lights a catena. Io chiesi all’Umiliatore di poter giocare un’altra partita, avrei preso il Nero o il Bianco, non m’importava. Ero credimi furioso. Trattenevo la rabbia come sotto vetro, come i sottaceti. L’Umiliatore non vedeva la mia rabbia, vedeva questa specie di salamoia verdolina ma non vedeva la rabbia. Accettò di giocare con me e io dissi che anche se era impossibile doveva considerarla una specie di rivincita per Francesco. E chiesi di puntare dei soldi. In caso di mia vittoria, avrebbe dovuto dare tremila euro a Francesco, che stava di là in cucina a fumare come un turco, la stanza dove stavamo era piena di fumo per quanto fumava lui in cucina. L’Umiliatore disse che la cosa lo divertiva, lo eccitava, che ero tipo il cavaliere errante, il paladino di Francesco, mi pigliava per il culo e io pensavo okay fai lo stronzo alla fine facciamo i conti, insomma L’Umiliatore prendendomi per il culo disse che non aveva nulla in contrario a una rivincita conto terzi, però dovevamo fare presto perché lui il giorno dopo doveva andare di mattina presto a lavoro, non so che lavoro, domanda alla Butterata che c’ha fatto gli ultimi anni d’università insieme. Comunque. Sorteggiammo i colori col pedone nel pugno, mi toccò il Bianco. Giocammo una partita di Giuoco Piano – antica variante molto in voga un cent’anni fa, una pippa antica di variante, prima che ci fossero i computer a sedici pro107 cessori - la giocai più simile possibile a una partita di Paul Morphy del 1858, schiacciai L’Umiliatore in diciannove mosse, lui fece una boiata terribile. Era devastato ma faceva il superiore, quel coglione. Mi disse che avrebbe pagato molto presto. Credo che non abbia mai dato un euro a Francesco. Se hanno giocato di nuovo, come dici, si saranno giocati di nuovo la posta, quindi ora lui non è più in debito, anzi forse in credito, indaga un po’”. “Non sapevo che sapessi giocare a scacchi, Vigliacco”. “Tutte le attività che richiedono di pensare velocemente mi vengono bene. Sono come una macchina. Il pettegolezzo, gli scacchi, il corteggiamento. In queste tre cose, è molto difficile battermi se sei un amatore, e L’Umiliatore, per quante arie si dia, col suo bell’aspetto, la sua chitarra acustica e i suoi arrangiamenti dei Radiohead, in queste tre cose, al confronto mio, è solo merda. Ora scusami, ma devo attaccare, devo andare al giornale a sistemare un pezzo con la mia protettrice, quella cui ho raschiato il culo a forza di leccarglielo. È sempre peggio lì, hai fatto bene a andartene”. “Sì, sì, vai”. “Ciao”. Nemmeno a presto. Nemmeno baci. Nemmeno ti abbraccio. Il Vigliacco mi aveva detto solo Ciao e aveva attaccato. Dell’Umiliatore io sapevo poco e niente. Non l’avevo mai visto in faccia. Forse non aveva una faccia. Forse portava un cappuccio o una maschera veneziana. Se fossi andato alla festa a casa del Vigliacco, l’avrei visto e conosciuto, ma il destino ha voluto diversamente. Io non ci andai a ragion veduta, perché sapevo che La Butterata in quanto regolarmente invitata si sarebbe presentata alla festa, sarebbe restata pochi minuti, si sarebbe lamentata di qualunque cosa e se ne sarebbe andata senza nemmeno salutarmi, perciò avevo fatto bene a non andare. Non bisogna farsi spezzare il cuore dalle stronze. Però una cosa di lui la sapevo, sapevo che era completamente rasato, come va di moda da anni ormai per quelli che hanno un’alopecia parziale, sapevo che si era sottoposto a degli interventi di chirurgia estetica presso un noto specialista romano che operava soprattutto le divette dello spettacolo, e tutte queste cose le sapevo perché ne spettegolavano i suoi migliori amici, di cui aveva una scorta pressoché infinita, era molto facile girare per locali, feste, cene e dopocene e sentire gente che si professava molto amica dell’Umiliatore, un ragazzo stupendo, mi piace veramente, gli voglio bene, è un grande, sta scrivendo un libro che, sta dipingendo un quadro che, tutto il repertorio della leccata di culo sull’Umiliatore lo conoscevo fin troppo bene. Era come se tutti i leccaculo di Roma si fossero messi d’accordo per sfidarsi sull’Umiliatore, chi glielo leccava meglio, più a fondo, oppure giusto sul bordo, e L’Umiliatore per parte sua era sempre ben felice di farsi 108 leccare il culo, non solo perché era ricco sfondato e non sapeva come usare i suoi soldi e avere tutta una corte di leccaculo cui offrire cene, prestare macchine, pagare trasferte all’estero lo doveva far sentire un imperatore, un capo della yakuza, un pappone, ma anche perché c’era questa brutta leggenda nera sul suo conto che di tanto in tanto tornava e cioè che i suoi soldi fossero frutto di ricatti a una certa giornalista famosa sposata, che lui aveva chiavato e successivamente minacciato di rivelare ogni cosa al marito, c’era questa leggenda che un paio di volte questa cretina lo avesse chiamato a casa e lui con un rudimentale sistema spionistico avesse registrato i di lei ti voglio bene, mi manchi tanto, non sai dove ti bacerei oggi, sono stata dal dentista e mentre lui mi lavorava l’otturazione pensavo a come scopiamo bene, insomma, credo fosse solo un altro mito, c’è gente così inutile che nasce e approda al successo così: Il Capitano Hewitt amante di Lady Diana, Monica Lewinsky, scopi la gente perché quella gente può farti andare avanti, è una cosa più eccitante che farsi di coca e certamente più dignitoso che farsi penetrare dalle macchine. Perfino La Butterata conosceva L’Umiliatore. Tutta questa gente si conosceva, si sfidava, si odiava, si riappacificava, si difendeva per interposta persona, e io, che pure li credevo miei amici, non ne sapevo un cazzo. Tutto questo mondo di cavalieri, e puttane, e damigelle, e buffoni, di cui ero all’oscuro. Mi venne un gran desiderio di riguadagnare qualche metro. Risultò che La Butterata aveva visto L’Umiliatore alcune volte, in occasioni mondane, e non ne aveva una gran bella opinione. Ma parlando con La Butterata, mi resi conto che in realtà questo non era vero. Era turbata dall’Umiliatore, con tutta probabilità L’Umiliatore le aveva proposto un qualche ruolo di prostituta nella sua compagnia di giro, e naturalmente La Butterata si era rifiutata, non credo per senso morale, perché di senso morale La Butterata non ne aveva alcuno, ma perché lo dovette ritenere svantaggioso ai fini della sua vita (di prostituta o meno). Uscii addirittura due volte in una settimana con La Butterata, una cosa che quasi mi risultò intollerabile, la seconda volta mi dissi che piuttosto andavo con degli uomini, l’emozione era troppa, ma in quelle due serate l’argomento centrale di conversazione fu tutto questo mondo di persone allucinanti e soprattutto L’Umiliatore (c’è sempre uno di cui, chissà perché, in un certo periodo si parla di più, poi svanisce) e ebbi la conferma che lei dell’Umiliatore non voleva in linea di massima sentir parlare però ne sparlava tantissimo, addirittura compresi che odiava più L’Umiliatore del Vigliacco, voglio dire, per lei Il Vigliacco era uno psicotico, un invadente rompicoglioni ossessivo, ma L’Umiliatore era proprio la feccia dell’umanità, la merda senza principi, senza regole, sfondato di soldi, ricattatore, bugiardo, sparlatore, incapace, ora che poi sapeva che non era nemmeno questo genio agli scacchi, avendo perso 109 col Vigliacco, mi disse che Il Vigliacco le era simpatico, e dell’Umiliatore non voleva saperne niente. Ma io le domandai cosa facesse nella vita L’Umiliatore, se almeno questo lo sapeva, perché un paio di anni avevano studiato insieme all’università no? Così mi aveva detto Il Vigliacco. E lei mi disse lo psicologo, le ultime sono che lavora al San Raffaele a via della Pisana coi maniaco-depressivi, e io andai a quest’ospedale per incontrare L’Umiliatore fingendo di dover scrivere per il giornale (dal quale invece mi ero licenziato già da un pezzo, ma mi faceva gioco dire in giro che facevo il giornalista perciò nessuno lo sapeva) un articolo sulle macchine, su come gli uomini vadano imitando le macchine nei comportamenti e nei pensieri. Infatti, la mia teoria era che il problema non è se le macchine pensino o facciano sesso, ma perché noi pensiamo come macchine e facciamo sesso come loro. Avevo questa pezza d’appoggio per conoscere un tassello mancante del mio mondo di patetici, in cui io ero primus inter pares, questo sottobosco di intellettuali senza storia romani cui appartengo, e sto parlando dell’Umiliatore, forse l’unico titano tra noi, l’unico di cui avresti creduto un flirt con Julia Roberts, e finalmente il fatto di collaborare all’Espresso mi tornava utile, un lavoro per il resto che consideravo la merda assoluta, e per cui ritenevo che mia madre avesse fatto malissimo a sbattersi, con quella raccomandazione che mi fece entrare dopo una ridicolissima prova di poche centinaia di battute al cospetto del caposervizio cultura depresso cronico superdotato ma con le gambe storte. Entrare all’Espresso fu l’unica volta in vita mia in cui leccai il culo. Ma leccai fino a consumarmi la lingua. Dopo aver leccato, compresi che ero come tutti gli altri leccaculo. Ero pronto per quel mondo. Ero bugiardo, sparlatore, vigliacco, con frustrazioni erotiche di tutti i tipi, con idee del cazzo tipo quelle sulle macchine a darmi uno straccio di identità culturale. L’Umiliatore al confronto mio e dei miei compari, era un angelo, si distingueva da noialtri senza storia. Curava i pazzi. Aveva perso una partita a scacchi con uno del mio giro, e vinta un’altra, e allora? Era SANO, perdio. La mattina stabilita mi feci la barba alle sei, mi vestii decentemente, in giacca voglio dire, e andai a via della Pisana all’ospedale San Raffaele, dove mi dissero che non c’era, che quel giorno stava alla facoltà di Psicologia nel quartiere San Lorenzo a fare lezione, San Lorenzo, lo stesso quartiere studentesco dove abitava La Butterata. Provai un tuffo al cuore, presi la mia Golf e mi rifeci tutta la città per andare dalla Pisana a San Lorenzo, impiegando un paio d’ore. Non sapevo nemmeno più, tanto mi batteva il cuore, se volevo vedere L’Umiliatore, o fare una citofonata alla Butterata. Arrivato dalle parti della stazione Termini, non avevo più dubbi, non volevo incontrare quella montagna di leccaculo della Facoltà di Psicologia e in fondo nemmeno L’Umiliatore, che, personaggio carismatico quanto volete, mi avrebbe potuto rovinare la giornata. Io volevo solo rivedere La Butterata. I miei ritmi di vita allora erano questi: vedere La Butterata almeno tre volte alla settimana. L’avevo vista due 110 volte, sentivo la mancanza del terzo e ora col riscaldamento in macchina, le mani guantate sul volante, andavo a prendermi la terza volta. Entrai nell’appartamento della Butterata dopo che lei senza esitare mi aprì e mi fece salire. Salendo pensai com’è gentile. Non s’incazza per le improvvisate. Ne avrebbe tutto il diritto: le improvvisate sono quanto di peggio si possa fare, a me fanno venire voglia di piangere quelle del mio portiere, per esempio, con le sue ridicole buste gonfie di comunicazioni dall’ultima assemblea di condominio. Salii le scale fino all’ultimo piano, la porta era aperta, entrai in un piccolo ingresso nell’appartamento della Butterata, vidi un ombrello nell’angolo, rosso, e un altro ombrello, nero. La voce di un uomo veniva dalla cucina. La voce di un uomo seduto al tavolo della cucina che affetta un frutto duro come una mela su un piatto e ride perché non riesce a farlo decentemente. La Butterata mi accolse alla porta si slanciò in avanti e mi stampò un bacio sulla guancia che mi mise immediatamente di pessimo umore. Volevo andarmene ma prima dovevo andare in cucina e vedere quello stronzo. Chiesi un bicchiere d’acqua. La Butterata andò in cucina e tornò con un bicchiere d’acqua. “Posso andare in cucina?” domandai. La Butterata guardò in terra, piegò così tanto il collo che quasi le vidi la sfumatura sulla nuca. “No” rispose. “Grazie dell’acqua, solo un saluto” dissi, le restituii il bicchiere vuoto e scesi a volo giù le scale. Corsi col fiato in gola alla Facoltà di Psicologia, scesi quelle ridicole rampe che portano alla biblioteca, devastai la biblioteca cercando un volto che potesse somigliare a quello dell’Umiliatore dalle descrizioni inaffidabili che me ne avevano fatto, i suoi vestiti, i suoi modi, ma quelli erano tutti studenti borderline, tutti poveracci nel pieno e totale delirio dei vent’anni universitari, sicuramente nessuno di loro era L’Umiliatore. Non potevo certo mettermi a perquisire tutte le aule, non potevo entrare mentre si faceva lezione, mi feci il secondo e il terzo piano della facoltà, non so bene con che scopo, alla fine mi fermai davanti a una porta con un pannello di vetro attraverso il quale vidi delle persone sedute attorno a un tavolo come per un seminario, e un tizio apparentemente serio, in giacca e cravatta e riccioli biondi sulla fronte, entrai e dissi la seguente frase: “Qualcuno di voi conosce Francesco? Ha giocato una partita a scacchi con Francesco e gli doveva dei soldi? Io sono venuto a riscuotere”. Quelli mi guardarono come uno venuto dalla Luna, e una piccoletta con gli occhi verdi e l’accento meridionale con lessico da conduttrice di tiggì che legge da un gobbo mi disse che stavano preparando una nuova rivista di narrativa, poesia, interventi sul sociale e musica di strada, se volevo collaborare potevo lasciargli la mia mail. Quell’uomo che affettava la mela, era L’Umiliatore. Dove altrimenti poteva essere, a San Lorenzo, appurato che quasi certamente la storia 111 della lezione alla Facoltà di Psicologia era una scusa piazzata a quelli del San Raffaele? Forse ero capitato nel bel mezzo di una storia segreta. Una storia tra il mio amore, La Butterata, e il titano del giro degli squallidi intellettualini romani, L’Umiliatore. Questo pensavo mentre guidavo stringendo le mani guantate sul volante della mia Golf, che davvero dovevo decidermi a cambiare con una Mercedes SLK 200. Così, di questo passo, sarei stato sempre cornuto e mazziato. Arrivato dalle mie parti, ai Parioli, su via Bertoloni, proprio all’incrocio con piazza Pitagora, un crocevia usualmente tranquillo e non più intasato del solito, un ragazzo cicciotto e in fondo buono di cuore in scooter grigio e camicia a quadri tentò di sorpassarmi a sinistra proprio quando io stavo uscendo per superare tutte le macchine incolonnate, entrambi avevamo completamente invaso la corsia opposta, entrambi eravamo in torto marcio, entrambi eravamo credo nella nostra giornata storta, il ragazzo in scooter inchiodò perché per un pelo lo facevo nuovo e incominciò a dirmi Che cazzo fai Come cazzo guidi e io risposi urlando Muoviti! Muoviti! Ancora parli! Sai solo parlare! Stronzo! E il ragazzo cominciò a girarmi attorno alla macchina con lo scooter come in una specie di danza rituale e a dirmi Stronzo, Come cazzo guidi, Chi cazzo t’ha dato la patente, Ti prendo a catenate! e io a ogni giro del ragazzo, appena me lo ritrovavo fuori dal finestrino, gli urlavo Muoviti! Ancora parli! Sai solo parlare! Stronzo! Alla fine smise di parlare, di ronzarmi attorno, se ne andò mandandomi affanculo col braccio, e io pensai che orrenda camicia a quadri, quel cicciotto, pensai chissà com’è fatto L’Umiliatore, chissà com’è fatto l’uomo che se la spassa con La Butterata, l’uomo che affetta la mela. Feci inversione a U su viale Bruno Buozzi, all’altezza della Banca Antonveneta, fottendomene altamente dei clacson che scatenai, lamentatevi pure, è come a notte fonda quando ascolto la mia musica e la vicina bussa al muro, non gliela do mai vinta, lamentati pure, muori, muori, feci inversione a U e tirai dritto verso San Lorenzo, stringendo le mani guantate sul volante, pieno, colmo di rabbia. Stavo tornando nell’unico posto sensato della città, per me, allora. Oltre alle mani sul volante, stringevo anche i denti. Accesi la radio della macchina, per nervi, solo per nervi. Le macchine con cui ci spostiamo da un punto all’altro della città, ci aiutano a non subire la città. La radio, in teoria, ci aiuta a non subire la macchina. Ma nulla ci aiuta a non subire la radio. Dobbiamo sentirla e morire in mezzo a quei canali infami con i deejay infami che prendono strafalcioni e ridacchiano scusandosi, mentre la nostra donna, abbiamo scoperto, non è mai stata nostra, dorme con un altro, vive con un altro, e questo è il vero tessuto della vita, non le radio, le 18 stazioni che abbiamo memorizzato e che mandano tutte inevitabilmente Vasco Rossi, Max Pezzali e i Rem, io mi salvo mettendo il quinto canale della filodiffusione, una pip112 pa antica che non vi dico, ma quello, il quinto canale della filodiffusione, quando ho il cuore a pezzi o sto somatizzando o sono semplicemente depresso, aiuta a non farmi subire troppo la macchina, che è l’unico mezzo di cui dispongo per non subire la città, per non sentire che Roma è Roma, per spostarmi come in un ambiente immateriale composto di luoghi immaginari, che solo prendono vita appena metto il piede fuori dalla mia macchina, quando scendo, luoghi morti, zone morte, effluvi. Senonché, mentre stavo tentando di visualizzare il percorso più rapido e diretto per tornare a San Lorenzo, scavalcando tutti i blocchi imposti dal traffico romano,mentre la radio era sintonizzata su un tale che si faceva chiamare Dj Shadow, mi tornò alla mente una cosa che mi aveva detto Il Vigliacco, nel corso di una telefonata notturna nella quale come al solito si era messo a sparlare della Butterata, e cioè che La Butterata una sera al Teatro Argentina nell’intervallo del solito spettacolo mistico-involuto-ignorante della Societas Raffaello Sanzio, il solito spettacolo pieno di macchine disarticolate, strumenti di tortura provvisori, citazioni gratuite dai sopravvissuti di Birkenau e altrettanto superflui rimandi veterotestamentari, La Butterata, che era seduta un paio di file avanti al Vigliacco, ritrovatisi lì come tutta la melassa cerebrale romana, tutti vestiti con ciondoli dondolanti, brandelli di pizzo, stivali militari, t-shirt nere, orecchini ossidati come fedi nuziali tradite, La Butterata aveva fatto un chiaro cenno di saluto a un tale in giubbotto di pelle chiara quasi arancione, e questo tale in giubbotto di pelle, Il Vigliacco lo sapeva, era Lo Spacciatore, Lo Spacciatore calabrese venuto su a Roma a rifornire tutta La Roma Sputtanata Dalla Cultura, non c’era appartamentino romano o attichetto o scantinato da Monte Sacro ai Parioli alla Salaria a Trastevere che non conoscesse i prodotti dello Spacciatore, un ragazzo belloccio di cui non si capiva mai se fosse in bolletta o pieno di soldi, certo era un punto nodale della cocaina romana, e altre pasticche, lui era sempre strafatto, le poche volte che Il Vigliacco ci aveva parlato l’aveva trovato talmente strafatto che non si era nemmeno reso conto di aver parlato con qualcuno, gli sembrava di aver sognato, questo era l’effetto che gli faceva incontrarlo, era talmente carico di stupefazione, Lo Spacciatore, che appena lo vedevi precipitavi in un sogno, dove tutto si faceva incerto, indefinito, provvisorio, incompiuto – le emozioni, gli amori, gli affetti, le amicizie, tutto diventava un desiderio disperato di parlare con lui e farsi lasciare, magari solo in regalo, un po’ dei suoi prodotti. Lo Spacciatore, ecco chi aveva salutato La Butterata, quella sera al Teatro Argentina, prima di quella stronzata della Societas Raffaello Sanzio. Ora capisci? Sembrava dirmi Il Vigliacco, alla fine della telefonata, La Butterata è una poveraccia che si fa, niente stupore, è proprio il caso di dirlo, noi siamo anche peggio di lei, ma non è con gente simile che vuoi avere a che fare, oppure sì? Vuoi amare una che la mattina 113 presto si fa venire a trovare dallo Spacciatore e ne parla col rispetto e il timore dovuto a un capo mafioso e lo saluta alle prime degli eventi dove si balla sul set di un dj resident? Misi la freccia, sterzai, ripresi la strada per i Parioli, per casa mia. Non m’interessava più disturbare la mia donna che elemosinava la droga da un altro uomo. La amavo ancora, perché che ci posso fare se queste macchine che siamo aspirano dalle narici il loro carburante e lo vomitano in entusiasmi fittizi su spettacoli teatrali bidone? Lo Spacciatore era poi tanto peggio della Societas Raffaello Sanzio? Non era lo stesso mondo fasullo, insensato, e che non sarebbe durato più di due secondi allo scrutinio dell’uomo della strada? Dovevo stare attento con la macchina, come guidavo, perché l’uomo della strada aveva bisogno di me e io di lui. Insieme, dovevamo organizzare una difesa e soccombere con dignità. E veniamo a oggi. A oggi, ho litigato con tutti e ho le valigie pronte. Rotto con tutto il mondo romano della cultura. Non perché fosse colto, non sono così snob, ma perché romano. Ho sempre trovato intollerabile la connotazione specifica di una città. Sono belle le città che non ti impongono le loro regole, le loro abitudini, i loro vizi e la loro storia. Mi si dice che Toronto non sia male da questo punto di vista. L’ultimo scazzo con Il Vigliacco è stato proprio su questo punto, mi sono presentato a casa sua e gli ho mostrato il biglietto sola andata. “Guarda che lì è peggio che andare a una prima di un evento con una donna che poi salta su dalla poltroncina e si sbraccia per salutare un belloccio in giubbotto di pelle chiara, quasi arancione, facendogli segno che ci si vede dopo, se si può”. E io: “Hai ragione, Vigliacco, forse Toronto non è il posto ideale, e partire è sempre un’idiozia, una velleità adolescenziale maldigerita, ma che altro si può fare quando la colonna sonora della tua città diventano dei dischi in vinile, comprati in un negozietto per intenditori, e piazzati su un piatto controllato da due borderline che ti uccidono con le basse frequenze?” Bene. Tutto sommato non mi sono lasciato male col Vigliacco. Mi ha offerto un bicchiere, siamo usciti sul suo terrazzino e abbiamo guardato quest’orrenda città che si nutre di spettacoli e eventi. A Toronto mi annoierò, temo, entrerò in depressione, e non sarò mai più così felice come quando mi renderò conto, sdraiato nella mia stanza d’albergo stordito dal jet-lag, che la depressione è dolce, è un rimedio antico, non fa ricerca, non stordisce i sensi, solo ti uccide. 114 Gianrico Bezzato IL CIGNO NERO (ultimo bar revisited) Gianrico Bezzato traduttore (ha lavorato per Arcana, Giunti, Instar), dal 1991 redattore di Maltese Narrazioni. Ha collaborato con le riviste Rockerilla, Il Mucchio, Feedback e la francese Café Racer. Esperienze lavorative varie, tra le quali quella d’insegnante e di educatore in centri per disabili mentali e ragazzini borderline. Leader del gruppo folkedelico Knot Toulouse. Ti ricordi, no? È stato un po’ di tempo fa, lo so, però il ricordo della prima volta che l’hai vista ce l’hai ben chiaro. Era autunno, vero? Ci sono tante cose belle che iniziano d’autunno. L’autunno, il campionato di calcio, la fine dell’estate. Se sei bambino anche il conto alla rovescia per Natale. E qualsiasi altra cosa che debba iniziare mentre il giorno perde colpi su uno sfondo di asfalto lucido di pioggia e luce di lampioni. Uno sfondo lumido. Foglie gialle che si attaccano alle suole e soprabiti, odore di insalata nel frigo da una settimana e clacson afoni. Una messinscena che quel pomeriggio ti dava noia, fastidio, pensieri a vanvera. Una tiritera blues che rotolava agonizzante sino alla solita domanda dei momenti così: cosa ci faccio qui? Niente, non t’agitare. Il desiderio di cambiare aria ti deve essere venuto in fretta e così hai deciso di passeggiare altrove. Dove? Magari in un posto insolito. Il cimitero degli ebrei. Ne avevi sempre sentito parlare ma non c’eri mai stato. Così ti sei acceso una sigaretta e a naso, ricordandoti indicazioni vaghe, sei arrivato dove volevi. Saranno state le quattro. Una volta lì, ti sei sinceramente chiesto se ne valeva la pena. Quando ci vai per disperazione, i posti nuovi fanno sempre quell’effetto. Ti manca subito la bolla rassicurante in cui ti trovavi fino a poco prima, e avresti scambiato volentieri con qualsiasi altro posto. Anche una cabina telefonica. O la sala d’aspetto di un medico, con l’orrendo tavolo basso coperto da quelle riviste che nessuno leggerebbe mai. Devi ammettere, comunque, che un cimitero d’autunno praticamente abbandonato fa il suo bell’effetto preromantico. Ti sei sentito sollevato. La vista del cimitero e del magazzino di pneumatici subito a fianco incuteva una discreta malinconia, lieve e migliore del soffoco in città. Hai pensato: ho fatto un’ottima scelta. E stavi già per tornartene da dove eri venuto. Cos’è stato a frenarti, a parte la stringa un po’ allentata di una scarpa? Forse, nel chinarti a risolvere il problema, hai pensato che gli amici da Badile potevano benissimo aspettare un po’. L’appuntamento era alle cinque ma era tanto che non ti vedevano e dunque avrebbero aspettato anche 117 di più. Nel rialzarti ti è rimbalzato un po’ il cuore per lo sforzo della genuflessione. Eri proprio mal piazzato. È stato in quel momento che l’hai notata. Da lontano una sagoma nera. Immobile al di qua del cancello chiuso del cimitero. La situazione ti disturbava. Adesso, santo Dio, non potevi più andartene, preso fra la curiosità e il fastidio perché qualcuno aveva avuto la tua stessa idea. Cosa ci fa una persona a quest’ora, qua? Chissà cosa c’è da guardare. Delle tombe. Sono già due minuti che le guarda. Chi è, Shelley? Potevi benissimo dare un’alzata di spalle e andartene. Non era nel tuo stile indugiare troppo su quello che ti accadeva attorno. Giusto il tempo di accorgertene. A volte giusto il tempo di disinteressartene senza neanche accorgertene. Invece ti sei fermato quel tanto da sentirti tu l’intruso. Eri tu che disturbavi la scena, non il randagio che annusava le tue braghe di velluto blu come fossero il tronco di un pioppo. Chiunque altro si sarebbe defilato. Non tu, ovviamente, che teorizzavi l’inadeguatezza come miglior modo per sopravvivere senza che nessuno ti rompesse le scatole. Hai frugato nelle tasche dell’impermeabile in cerca delle sigarette e hai desistito prima di trovarle. Ti sei detto: perché devo sempre accenderne una nei momenti elettrici? Quando ero ragazzino mica fumavo mentre fregavo le gomme da masticare in drogheria. Rapito da quel mistero della vita, hai sentito le gambe che si muovevano. Azione, hai pensato. Ti sei avvicinato al cancello del cimitero come a un tabellone degli orari ferroviari. Neanche il tempo di levarti il disagio dalla testa e le eri di fianco. Di fianco alla persona che, dandoti la schiena, ti aveva fatto cambiare idea due volte in meno di cinque minuti. Ti è caduto lo sguardo sul lucchetto che teneva chiuso il cancello. Adesso cosa faccio? Devo dire qualcosa altrimenti pensa che sia un malintenzionato. Non ci sarebbe da stupirsi. Non siamo mica in centro davanti a una vetrina. Devo dire qualcosa di rassicurante e suadente, di neutro ma brillante. Qualcosa da forestiero. “Si può entrare?” “No.” “Mai, o ci sono giorni che si può?” “Sono anni che è chiuso.” “Ah, capisco. E magari sempre con lo stesso lucchetto.” “Non so. Sinceramente non ci ho mai fatto caso.” “No, pensavo… qualcuno l’ha chiuso tanti anni fa e poi non è mai più tornato. E nessuno si è più preso cura di questo posto. Così… le cose vanno così a volte. Non è vero che un posto vale l’altro. Non so se mi spiego.” “Quand’ero ragazzina il cancello era aperto. Si poteva entrare, era pieno d’erbacce e le tombe erano già malridotte allora. Poi hanno messo in ordine e hanno chiuso. I sepolti qui non hanno più nessuno che li venga a trovare.” 118 “Ci sarà una specie di custode che viene a tagliare l’erba e a levare qualche lattina di birra volata oltre il muro.” “Credo di sì.” “In casi come questo di solito è così. Mi pare di capire che lei ci viene spesso.” “Di tanto in tanto.” “Ah.” “Non per fare conversazione.” “Capisco.” “Ora devo andare, mi scusi. Piacere d’averla conosciuta. Buona sera.” “Piacere mio, buona… sera. A lei. E sì, si fa tardi. Poi… poi… i negozi… chiudono. È… è bello qui. C’è silenzio. Adesso. Adesso anch’io devo andare. Comunque… ci torno… sì… magari sì. Magari ci torno.” Il silenzio quello vero è arrivato quando hai smesso di parlare da solo mentre lei se ne andava. Elegante e distaccata com’era stata nell’acconsentire a rivolgerti la parola. Un cigno nero. Nell’osservarla che s’allontanava evitando i tratti fangosi della strada sterrata hai trascorso i migliori due minuti d’autunno di sempre. È curioso come possa essere piacevole sentire forte la presenza di qualcuno distante. Quand’è sparita nella via in discesa che porta in città ti è scappata una smorfia come quando si guarda un bicchiere cadere per terra senza potere fare niente. Hai spostato la tua immagine al centro dell’inquadratura e ti è subito venuto in mente il titolo dell’istantanea. Uomo solo con le mani in tasca che dà le spalle pensieroso a un cimitero. Valutando la distanza che ti separava dalla statale, non hai potuto fare a meno di cedere a riflessioni pratiche. Il perché ho deciso di mettermi le Clark’s proprio oggi, hai pensato, lo so solo io. Mi sembra di avere i piedi in due pozzanghere. Quando meditabondo hai raggiunto le vie che portano al centro, ti è sembrato che nessuno avesse la più pallida idea di come fare a tornarsene a casa propria. In realtà non c’era più movimento di qualsiasi altro lunedì. Il viavai, malgrado il fresco, aveva un ritmo quasi messicano. I negozi erano quasi vuoti e i capannelli di conversatori gli stessi di sempre. C’erano anche gli Eterni, immancabili quelli. Un gruppo di cinque persone che da tempo immemorabile si riunisce tutti i santi giorni davanti all’edicola di via Carlo Marx. Cinque persone che dalle cinque alle sei del pomeriggio sono cresciute, vivono e probabilmente invecchieranno assieme. Prima adolescenti, poi giovanotti, scapoli, ammogliati, padri, nonni e così via per chissà quanto tempo ancora. Lì, quasi confortanti, immutabili e cangianti. Sino a quando, un pomeriggio, uno non si presenterà. Si conteranno i giorni e dopo una settimana che non lo si vede si capirà che era il meno eterno dei cinque. Dunque era tutto nella norma. Non c’era niente fuori posto. Era il solito bel vedere, suadente, rassicurante e, soprattutto, ininfluente. Eppure 119 ti sentivi infastidito, tanto che sei passato davanti a Badile e non ci sei neanche entrato. Neanche hai dato una sbirciata per vedere chi c’era dentro. Dopo tutto il fastidio era cominciato proprio lì. Un fastidio che si era allargato a macchia d’olio sino a investire prima il marciapiede, in cui regolarmente t’inciampavi, poi un raggio di cinquanta metri che comprendeva panettiere, parrucchiera e tabaccaio dove ti fregavano sul resto e poi, alla fine, tutto il quartiere. Il tavolo dei regolari era sempre vuoto, con appoggiata sopra la targhetta con su scritto “Riservato”, un’anticaglia da nostalgico che Badile teneva lì per malinconia. Non avevi voglia di entrare a fare l’aperitivo lungo con quelli che chiamavi gli occasionali e che, a loro volta e in un’altra storia, sarebbero diventati i nuovi regolari. No, meglio fare due passi in più, girare l’angolo e piombare con aria da novizio incuriosito al No Grazie, la nuova base alla moda che ti garantiva due cose: il passare inosservato per età e l’incontrarci Zeno che, come da vecchia abitudine, se stava seduto sempre allo stesso tavolo. “Sempre qua ti devi mettere?” “Mi piace.” “A me no. Darry! Mi porti qualcosa da bere?” “Dimmi.” “Avete la birra analcolica?” “Va bene. Un coca e rum. Te lo porto subito.” “Veniamo qua da tre mesi e fai sempre la stessa battuta.” “Anche lui continua a chiamarsi Darry. Che nome imbecille. Sta a sentire Zeno, sta a sentire qua. Rispondi serio. Ti ritrovi in una situazione inaspettata, la vivi e poi ci pensi su e l’unica cosa che ti viene da pensare è: per una volta che ero al posto giusto nel momento giusto, l’unica cosa che ho provato è stato imbarazzo.” “Be’, cosa ti devo dire, può capitare. Se ti capita forse è ora che inizi a farti delle domande. Non so. Pensi di aver provato imbarazzo o l’hai effettivamente provato e poi ci hai pensato su? È una distinzione importante. Vale a dire, la figura da cretino l’hai fatta davvero o hai paura d’averla fatta? Tanta paura da esserne praticamente convinto?” “Ho paura d’averla fatta.” “Ferma, ferma. Allora è una cosa grave. Cosa te ne frega di aver fatto una brutta figura dopo un paio di birre da Badile, mentre parlavi con una delle poche che s’invaghisce ancora del tuo fascino da parolaio beat. Quando sei al bancone da Badile sembri una delle giacche di mio nonno appesa a un attaccapanni. Con la sciarpa.” “Ah sì. Perché qui seduti praticamente in vetrina io divento Paul Newman, tu Cary Grant e il gin tonic analcolico.” “Be’ l’esposizione agli occhi dei passanti ignari aiuta a darsi un contegno. Almeno dovrebbe. Certo che se svieni con la faccia nella ciotola delle olive…” 120 “Non cercare di cambiare discorso. Non ero da Badile, avevo appena fatto una lunga passeggiata e lei è una persona che non ama le chiacchiere.” “Fammi capire. Eri completamente in te e sei riuscito ad aprire bocca e a parlare di qualcosa che non fosse il tempo con una sconosciuta? E dove è avvenuto questa specie di miracolo?” “Al cimitero degli ebrei.” “Lei com’è?” “È… pensierosa. Elegante e distaccata. Come… be’ mi capisci, no?” “Come si chiama?” “Non so. Non ho avuto… tempo di chiederglielo.” “Grandioso. Cimitero, donna dall’aspetto nobile di un cigno viene avvicinata da un uomo che tenta di lottare contro la propria indole di struzzo. Grandioso.” “Sai Zeno, devo dire che ho sempre invidiato il tuo modo chiaro di dire le cose fra le righe.” “Alla tua signora di un pomeriggio d’autunno.” “Che Dio mi mantenga abbastanza in salute da incontrarla ancora.” “Così le chiedi come si chiama. Salud.” “Salud.” Il giorno dopo, alle tre e mezza di pomeriggio, eri lì che stazionavi amletico fuori dalla redazione de La voce della presenza, il bisettimanale per cui lavori in qualità di un po’ di tutto. Non sapevi cosa fare. Tre e mezza, cinque: la zona morta. Il limbo solitamente convertibile in una spensierata via crucis di soste alternative in locali dove si è poco conosciuti ma comunque graditi. Oggi no, ti sei detto, e te lo stavi dicendo da un quarto d’ora. Hai comprato un noir novembrino dal giornalaio, te lo sei infilato in tasca e hai preso la strada che portava nel posto dove, idealmente, stavi ancora dalla sera prima. Tutto uguale ma incompleto. La strada di fango rappreso, il magazzino di pneumatici, il cimitero, tu. E basta. Dal cancello d’entrata giusto una coda di sole malvagio di fine ottobre. Ti sei sentito un po’ stupido. Sei rimasto lungamente a fissare a caso intorno, un po’ inebetito ma non deluso. Non c’era senso di desolazione. Il cimitero era sempre lì, i pneumatici là. Non che il fatto fosse da interpretare come un segno particolare però la loro presenza immobile dava come continuità a qualcosa di altrimenti sfuggente e mutevole. Di sorprendente. Quasi a malincuore, hai deciso di tornare in città. Nel ripercorre a ritroso la pista di fango ti sei fermato più di una volta a voltarti indietro. Strada, cimitero, pneumatici, cancello. Ieri nuvolo, oggi sereno. Tanto domani ci ritorno, pensavi. Chissà. Se non altro mi serve a tener vivo ieri. Era trascorso più o meno un mese quando hai preso una decisione di quelle che ci devi pensare un bel po’ su: vado dal medico. Cominciavi a 121 nutrire qualche dubbio sulla tua presunta invulnerabilità. C’erano le ammaccature che ogni tanto ti procuravi la sera rincasando dai bar, i più maligni del quartiere avevano cominciato a chiamarti l’Equilibrista, e qualcos’altro d’invisibile che però dava fastidio. Per le botte era sufficiente una pomata, per il resto occorreva il parere dello stregone. A parte la salute, la tua vita non aveva subito variazioni degne di nota, se si esclude la quotidiana passeggiata al cimitero. L’avevi inserita tra le tue abitudini, e il ricordo di quella prima volta riposava rassegnato tra i forse. Il dottore, dopo tutto, era un buon diversivo. Aprendo la porta della sala d’aspetto, hai intuito a colpo d’occhio il tempo d’attesa: minimo un’ora e mezza. Tre sedie libere nel più remoto nord est della stanza, una accanto all’altra. Grandioso. Ti sei seduto su quella in mezzo e hai iniziato una rapida escursione audiovisiva dell’ambiente. Il cast era al completo. Dal finto squatter con un braccio ingessato alla moglie del notaio in pensione. Gli argomenti, i soliti. Il cicaleccio dimesso variava d’intensità contemplando morti, ictus e antiche amicizie con cari estinti. Un perla su tutte ti ha costretto a una breve risata interiore. Un’ischemia cerebrale trasformata in un eskimo cerebrale. Era opportuno immergersi in una delle più classiche letture preambulatorio: Maigret. Dopo un omicidio, tre o quattro Calvados e un paio di birre nell’ufficio di Quais des Orfèvres, un fragrante spostamento d’aria ti ha fatto riemergere dalla lettura. Rive Gauche e fresco della sera fuori. Il tempo di voltarti leggermente incuriosito e hai compiaciuto tutti i presenti imbambolandoti a osservare chi ti si era seduto a fianco. Un fermo immagine quasi imbarazzante nella sua eternità. A volte il tempo si blocca e sembra non riparta mai. Un treno di parole ti s’infila nella testa ma tutto rimane scollegato. Visione, pensiero, voce. Ti sentivi come un pupazzo seduto sulle ginocchia di un ventriloquo muto. Nello sfilarsi il tre quarti nero, la tua imprevista compagna d’attesa ti ha sfiorato il braccio. E le hai visto gli occhi che un mese prima, nascosti dagli occhiali da sole, avevi solo intuito. Bruni. “Scusi.” “Si… figuri.” Stavi già per continuare con un qualcosa da manuale quando ti è passata per la mente una cinica ovvietà. Questa volta ha parlato lei per prima. Tocca a lei, se si ricorda di me, dire sbaglio o ci siamo già da visti da qualche parte. “Buonasera, sembra sia destino che ci si incontri sempre in posti particolari.” Ti aveva riconosciuto. Se non ti stava confondendo con qualcun altro che aveva incontrato in una lavanderia a gettoni o in una sala scommesse, ti aveva riconosciuto. E poi quelli sarebbero stati posti particolari solo per lei, non per te che li frequentavi abitualmente. Qui s’intendeva luoghi insoliti in assoluto, dove potendo scegliere si va ogni tanto, non tutti i giorni per sempre. 122 “Buona sera, come va? Sì… in effetti, l’altra volta al cimitero degli ebrei…” “Questa volta nella sala d’attesa di un medico…” “Niente di serio, spero.” “No, devo solo farmi fare delle ricette.” “Ah, sì. Dunque per un po’…” “Scusi?” “No, volevo dire, non è che viene qua tutti i pomeriggi.” “No, per carità. Il meno possibile.” “Ah, ecco. Anch’io.” “Ricette anche lei?” “Visita di controllo, niente di speciale.” “Strano, però.” “Cosa?” “No, niente, il fatto d’incontrarsi… così.” “A caso, vuol dire?” “Sì ma, più che altro, in posti così.” “Be’, in effetti, pensare a due persone che si incontrano solo per caso e sempre nei pressi d’un cimitero o dal dottore… risulta piuttosto bizzarro.” “Sembra siano mossi da un esigenza di fuga, di pace.” “O di cure.” “E invece s’incontrano sempre.” “E non riescono a stare in pace.” “Be’ detto così è un po’ secco. Magari per un attimo si dimenticano che volevano fuggire da qualcosa.” “Praticamente stanno lì senza memoria.” “Non si conoscono, di cosa dovrebbero avere memoria?” “Magari dell’ultima volta che si sono visti.” “È un ricordo che torna loro per un attimo solo nel momento in cui si rincontrano.” “Ma si ricordano di tutte le volte che si sono visti o solo della volta prima?” “Non lo so. Dovrei essere una di quelle due persone. Lei ricordo d’averla già incontrata al cimitero.” “Che è anche la prima volta. Io poi ci sono ancora andato altre volte, voglio dire… ci vado spesso. Quasi tutti i giorni. Sa com’è… la quiete.” L’imbarazzo piano piano svaniva, il bastardo. Sempre imprevedibile nelle sue scelte di tempo. Ti sarebbe piaciuto rimanere in quel metro quadro per sempre. Ti distraeva solo la conta delle persone prima di te. Un’insegnante presumibilmente di matematica, una signora in pensione con su un tailleur elegante, un giovane liceale con problemi di epidermide. Venti minuti in tutto, supponendo che l’insegnante fosse separata, la signora vedova e che tutte e due soffrissero di malinconia. 123 Il resto dell’attenzione era su di lei, i sensi svegli per percepirla quanto più possibile. Avresti voluto abbracciarla e stringerla. “E se uno dei due dimentica completamente?” “Mi sembra le sfugga la reciprocità del gioco. Finisce solo se tutti e due non riescono a ricordare.” “Potrebbero passare giorni, forse settimane. Sa com’è, non è che venire qua sia come andare al bar… per dire.” “La città è piena di posti, oltre i bar e le sale d’attesa. Vie, negozi, supermercati… il parco, ci va mai?” “No, lo trovo… dispersivo.” “Se è una bella giornata mi capita d’andarci sovente il sabato.” “Il sabato?” “Sì, Emanuele è a casa dall’asilo. Va matto per scivoli, altalene, qualsiasi gioco acrobatico.” “Eh… sì. Chissà… chissà cosa ci trovano i bambini in uno scivolo. Non mi ricordo.” “La prima volta tanta paura, di quella che per non piangere ridi. Poi il brivido.” “Sì, forse era così. È strano… il pericolo spesso è conturbante.” “E il nuovo, quello che non si conosce, spesso è pericoloso. Ah, sta uscendo il ragazzo che era prima di lei.” “Eh… passi pure. Ha solo delle ricette.” “No, prego, si figuri.” “No, davvero… potrei metterci un po’. Non mi sembra il caso di farla aspettare a quest’ora. E poi non mi sento per niente attratto da quello che potrebbe dirmi il dottore.” “Spero nulla di grave. Ma sono sicura che se le dicesse che non ha niente… chissà, magari ne rimarrebbe un po’ deluso.” È entrata e tu sei rimasto lì. Non ti andava di lasciarla da sola in quella stanza desolata. Altro che cimiteri, quella era pura desolazione in interno urbano. Neon, odore di chiuso, sedie vuote e sciattamente fuori posto rispetto all’ordine asettico in cui sicuramente erano prima, riproduzioni di foto degli inizi del novecento appese ai muri. Ma l’attesa compensava lo spettacolo. Aspettare di rivederla ancora per un attimo prima che sparisse chissà dove. Quel dove non hai neanche avuto tempo d’immaginarlo. Mentre usciva ti ha salutato con un leggero inchino del capo. Diciamo che ti ha anche sorriso. In fondo alla sala d’attesa ti sei sentito come l’ultimo birillo, ancora in piedi per poco. Facendo leva sulla scarsa autostima che ti rimaneva, l’arrivederci potevi anche darlo per sottinteso. Com’era prevedibile, dopo averti ascoltato e guardato in faccia, il guru ha cominciato a stampare una serie d’impegnative infinita. Analisi del sangue, raggi, ecografie. Nel giro di un mese, altri guru dopo di lui ti avrebbero comunicato quello che già sapevi: era ora di darsi una rego124 lata. In vent’anni te l’avevano già detto almeno quindici volte. Come ogni cosa che ti procurava serenità angoscia o apatia, anche la visita dal medico valeva un paio di giri alla salute e quella sera non era proprio il caso di peccare di originalità, fuoriprogramma ce n’erano stati fin troppi. Zeno lo hai incontrato per strada. Aveva iniziato la beata giostra da un po’, con Pluto e Chiara. Il gomito compulsivo da mercoledì sera aveva già relegato il No Grazie tra i locali noiosi. “Era ora.” “Sono stato dal dottore.” “Ti ha guarito?” “Mai stato meglio. Dove andate?” “Facciamo una prova dei bar per decidere qual è il migliore.” “Ma se sono sempre gli stessi.” “Anche noi, caro. Ma è apparenza. In realtà siamo tutti vittime inconsapevoli di mutazioni occulte.” “Di cosa?” “Vedi che sei inconsapevole? Di mutazioni occulte. In realtà cambia tutto, in continuazione, l’importante è che per noi sia sempre tutto uguale.” “Cos’è, una specie di complotto?” “Esatto. Un complotto a cui possiamo opporci con l’unica arma che abbiamo a disposizione: un’angelica indifferenza.” “Gli angeli sono gente indifferente?” “Gli angeli non si lamentano.” “Santo Dio… sei già filosofico alle otto e mezza di sera. Qui viene lunga.” “Indifferenza e pensiero a ruota libera. Bello come slogan, no? Potrei venderlo a qualcuno.” “L’ho rivista.” “Chi?” “Il Cigno Nero.” “Ma va’. Dove? Su una rupe mentre incombeva un temporale, lei guardava l’orizzonte e il vento le scuoteva le falde del lungo paltò scuro?” “Che scemo.” “Come si chiama?” “Non so, non lo so come si chiama.” “Ma, scusa eh, c’è qualcosa che sai di questa donna a parte il colore che predilige?” “La penso parecchio, mi si è infilata in testa. È… veloce. Ogni tanto va al cimitero degli ebrei per pensare e, quando fa bello, di sabato va al parco con il figlio.” “Grande?” “Non lo so. Fino a che età si va sullo scivolo?” “Accompagnati dalla mamma, sino a quattro, cinque anni. Per scelta libera e autonoma… noi ci siamo saliti giusto un paio di volte l’estate scorsa.” 125 “È grave?” “L’altalena è più grave, meno mascolina.” “Ma no… che lei si sia accomodata nella mia testa.” “Be’ vuol dire che, malgrado quell’enorme mucchio di cazzate, un po’ di posto confortevole c’è ancora.” “Mi sembra che ci si trovi sempre più a suo agio.” “Ci siamo, vecchio mio, e mi sembra inutile che io sprechi fiato per consigli. Sai benissimo quello che devi fare. Un suggerimento su misura, però, permettimi di dartelo, prima di sgonfiarti tutta la sera con il mio vaneggiare psichedelico. Cerca di dare sempre l’impressione di aver cura di te stesso.” “Ossia?” “Ricordati di fare tutte le cose che ti è impossibile dimenticare senza una scusa fortemente plausibile o solo perché non avevi voglia di farle.” “Tipo?” “La barba.” E rasarti è stata la prima cosa che hai fatto stamattina, ben attento a non tagliarti sennò è inutile. In una scala della noncuranza le escoriazioni da rasoio valgono tanto quanto il viso ispido per malavoglia. La barba si fa bene o crescere. Quando decidono di farla crescere, i veri Impeccabili spariscono dalla circolazione per almeno una settimana. Hai ispezionato il tuo viso stampato sullo specchio alla ricerca di qualche segno di declino, a parte le rughe d’espressione. A chi non ti conosce, quelle puoi sempre dire che ce l’hai da quando facevi le medie. Ti sei vestito secondo tuo gusto. Senza preoccuparti se esista o no un abbigliamento particolarmente indicato per un incontro di sabato al parco, in una giornata d’inverno non troppo inoltrato e con un sole abbastanza discreto da poter rimanere dov’era. Hai puntato su una prevalenza di blu marina. Ti piace, lo vedi come il colore che sintetizza in bel modo il bianco e nero in fotografia. Sei uscito e in fondo alle scale hai controllato se avevi dimenticato qualcosa. Sigarette, accendino, soldi, chiavi. Ah, il cellulare. Come fai senza cellulare? “Sai cosa ti dico? Non me ne frega niente. L’unico numero che mi interessa non lo so. Nel caso lo venga a sapere, la prossima volta torno su a prendere il telefono. Ho altre a cose a cui pensare. A cosa? A niente. Non penso niente perché tutto quello che penso si ferma a quello che sto facendo mentre cerco di immaginare cosa succederà dopo. Adesso apro il portone ed esco in strada. Ora sono per strada che cammino e so che dovrò camminare. Non riesco a fare andare la testa più in là. Riesco a pensare bene a quello che ho pensato prima di adesso. Adesso che per poco finisco sotto una macchina. Sono sulle strisce, coglione. Chissà come mi saluterà? Mi riconoscerà un po’ a distanza o quando le arriverò a mezzo metro fingendo pateticamente di essere lì per caso? Di cosa parleremo 126 non me lo sono neanche chiesto e, comunque, vedi bene che anche prima di adesso ho pensato solo delle domande. Non la conosco. Non le ho mai parlato per più di un quarto d’ora e non sono neanche riuscito a sapere come si chiama. Dovrò chiederglielo, non mi dà l’impressione di essere una di quelle mamme che i figli chiamano per nome. In casa ho pensato di prendere l’armonica a bocca nel caso Emanuele si stufasse dello scivolo. Inopportuno. E poi come la spiego la presenza di un’armonica nelle mie tasche? So suonare solo Oh Susanna senza neanche arrivare al ritornello. Semaforo rosso, mi fermo. Potevo prendere l’autobus ma mi sembrava di aver bisogno di pensare. Mi sono sbagliato. È tutto in una sola domanda. Come sarà? Semaforo verde, vado. Ho perso il senso del futuro. Dicono succeda così a chi rimane affascinato da una persona. Sarà vero? Non lo so. So che sembra di essere felice e che, incontrandola, mi è parso di capire che la stavo cercando. So che esiste e tanto mi basta. Mi accontento di poco.” da PLAYS (EIG) “Forse è meglio fare così, incrocio le braccia sul tavolo e ci appoggio la testa sopra. Magari sogno, magari ricordo tutta la storia. Forse alla fine della storia uscirò di qui. Fuori di me c’è tanta altra gente.” G I A N R I C O B E Z Z AT O - P L AY S pagg. 112 - € 10.00 da Aprile in libreria Editrice Impressioni Grafiche 127 Un perdigiorno, collezionista di sconfitte artistiche altrui, viene casualmente in possesso di tre plichi di manoscritti firmati Zeb. Li legge, dapprima svogliatamente e poi incuriosito. Sono racconti, miscele di ricordi, esperienze e invenzione, legati a tre fasi della vita di un uomo: infanzia, adolescenza, maturità. Malinconia divertita, comicità involontaria e a tratti bizzarra, disillusione e capacità di continuare ad illudersi. Queste sono le corde che Zeb ama toccare per comporre le sue ballate, i suoi valzer lenti, i brevi blues e fox-trot. Il perdigiorno, con il passo lento e disincantato da perdigiorno, si lascia trascinare dalle note del misterioso Zeb sino all’appuntamento con lui. In persona. Nell’ultimo bar. ...end of a Romance!
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