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NeoMaltese
Maltese Narrazioni non molla. Anzi, decide di alzare il tiro.
Dopo adeguata pausa di riflessione indispensabile per individuare un
nuovo profilo editoriale e trovare un solido sostegno finanziario, rieccolo.
Nata sul finire degli anni Ottanta questa rivista è stata una vetrina per
i giovani che avevano difficile accesso a un mercato editoriale particolarmente chiuso e sulla difensiva. Maltese non era l’unica rivista di questo
tipo, segno della necessità di un’iniziativa che rappresentasse da un lato
uno sbocco per i nuovi scrittori e dall’altro uno stimolo per gli editori. Si
può dire senza timore di smentita che in questi anni Maltese Narrazioni ha
assolto pienamente e con ottimi risultati il suo compito: missione compiuta,
dunque.
Ora i tempi sono cambiati. Il mercato editoriale è sicuramente più aperto
e ampio: ogni giorno nascono piccole case editrici curiose, aggressive e
di qualità, che svolgono direttamente il ruolo assunto in precedenza dalle riviste. Gli stessi grandi editori hanno meno pregiudizi di un tempo nei
confronti degli esordienti. Per chi ha talento, dunque, pubblicare è indiscutibilmente più facile: nella gran parte dei casi un nuovo autore non deve
più passare attraverso una rivista per promuovere le sue prove letterarie.
Quello che manca, invece, è una “tribuna” dove anche gli scrittori più noti
possano esprimere la loro opinione su temi letterari e di attualità, uno spazio che possa ospitare scritti che non hanno ancora fatto parte di un volume
o anticipazioni di romanzi d’imminente uscita.
È per tutte queste ragioni che la rivista andava rinnovata. Si è deciso
dunque di aprirla agli scrittori già affermati. Come? Attraverso la formula
dell’invito. Maltese Narrazioni decide un tema e lo propone a una serie
di autori conosciuti. È questo il caso di MaltExpo, il prossimo numero, che
avrà, anche graficamente, le caratteristiche di una nuova Esposizione universale e conterrà le “invenzioni” per il nuovo millennio raccontate dagli scrittori
che hanno deciso di accettare l’invito a partecipare alla grande fiera. Le
adesioni sono numerose e si può già anticipare che ci saranno molti nomi
interessanti.
Naturalmente il Maltese continuerà ad andare a caccia di talenti: una
rivista è viva se sa rischiare e lanciare nuove proposte.
Il presente numero, Romance, va letto come una sorta di passaggio
di testimone tra il vecchio e il nuovo Maltese. Vi si possono trovare, infatti, scrittori noti, ma anche autori (ancora) inediti scelti dalla redazione; si
possono leggere prove di narrativa pura, ma anche interventi di non-fiction,
articoli, commenti, saggi brevi.
Infine una notizia importante. La rivista, che sarà quadrimestrale, ha trovato un editore ed è stata registrata in tribunale. La casa editrice è la Eig,
che nel 2002 ha pubblicato Collezione da Tiffany, antologia che raccoglie
i migliori racconti del Maltese. Il rinnovamento della formula editoriale, il
reperimento di nuove energie in redazione (ora c’è un direttore responsabile, un nuovo redattore si è unito al gruppo e uno vecchio lo ha lasciato),
nonché il sostegno decisivo dell’editore sono novità che dovrebbero fare
piacere ai lettori, soprattutto a quelli che sono stati vicini al Maltese nei
momenti difficili.
Se il Maltese potrà evolversi diventando uno spazio di confronto aperto
tra le idee, un luogo di conversazione ideale dove narrativa e saggistica,
reportage e fumetto potranno incontrarsi superando preclusioni e vecchie
gerarchie di genere, è anche grazie a loro.
La (Neo) Redazione
“ZOLLE”
IL NUOVO ROMANZO
DI MARCO DRAGO.
DA APRILE IN TUTTE LE LIBRERIE.
Feltrinelli
Marco Drago
ECCELLENZA
Marco Drago
è nato nel 1967.
Ha pubblicato tre libri per
Feltrinelli (L’Amico del Pazzo,
Domenica Sera e il recente
Zolle) e uno per minimum fax
(Cronace da chissà dove).
Insieme al regista Gaetano
Cappa forma l’Istituto
Barlumen, factory artistica
multimediale che produce
programmi radiofonici
(Razione K su RadioTre),
favole sonore, radiodrammi,
spot pubblicitari, grafica,
fumetti.
L’affare si era fatto interessante quando era sbucata fuori la donna.
Prima era una scommessa che mi sentivo di avere già perso. Ero fuori
forma, sette chili di troppo, fumavo quindici sigarette al giorno, potevo
farmi male facilmente a causa della vacanza di un anno e mezzo che mi
ero preso dopo le due stagioni di C2 in Abruzzo. Non lo so se abbiate idea
di quello che significa, per il corpo umano, giocare a calcio. È qualcosa
di terribilmente complicato. Avevo trentasei anni, dei quali quindici da
professionista, due in C2 e uno e mezzo in vacanza. Quell’anno e mezzo
di vacanza, come in un brutto sogno, aveva scassato quanto di buono (o
perlomeno di efficace) erano riusciti a fare i precedenti diciassette da
calciatore. E che calciatore. Non sto raccontando balle. Che calciatore.
Al Torneo di Viareggio, quando ero nella primavera del Toro, c’era
Johann Cruijff che forse era lì con l’Ajax, forse era lì a fare il commentatore
o l’osservatore. Non lo so. So soltanto che disse alla stampa italiana che
il migliore di tutto il torneo ero stato io. Johann Cruijff. Io avevo sedici
anni e mezzo. Poi che io fossi il migliore lo hanno detto in tanti, allenatori
del Milan, della Nazionale, di squadre straniere. Ho giocato bene solo
i primi anni, diciamo la verità. Alla lunga credo che si sia messa di
mezzo la mia natura di testa di cazzo e anche una certa evoluzione del
gioco del calcio. Io giocavo ala, ma poi al Milan era pieno di star, erano
gli anni novanta, mi hanno spostato di ruolo una volta e per un anno
mi hanno messo in mezzo al campo, che non c’era spazio per fare le mie
discese, i miei scatti, le mie progresioni. Un anno di merda e poi altri
due, sempre di merda. Dopo, via, in provincia. A 27 anni ero abbastanza
finito. Qualche bella stagione in provincia verso i 30 e poi ho smesso, pur
continuando. Ho tirato i remi in barca e facevo il minimo, a volte partivo
dalla panca, ma il mio nome era ancora un nome e alla fine giocavo
quasi sempre, pur avendone poca voglia.
Ecco, quando ho smesso sono stato meglio, anche se non avevo idea
di cosa potessi fare. Ero single da sempre, non avevo nessuna famiglia
a cui chiedere o dare, non avevo mai imparato a fare niente (sono
nato in periferia a Torino e i miei amici rubavano le autoradio), avevo
qualche lira, tante me le ero bruciate con gli investimenti del cazzo e
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con le stravaganze tipo macchine, barche, cavalli. Però, cazzo, stavo
meglio. Dopo tanti anni, gli allenamenti, i compagni, gli allenatori, i
preparatori, i ritiri, sono cose che ti fanno girare le palle. Il mio amico
Baggio, che è buddista, non si è mai lamentato una volta. Lo conosco
bene e posso garantire che la sua grande forza è che non si lamenta mai.
Io invece sono il contrario. Se fossi sempre stato sincero con me stesso,
avrei cominciato a lamentarmi appena nato e non avrei ancora smesso.
Infatti, a 36 anni Baggio giocava ancora in serie A nonostante dovesse
allenarsi il triplo degli altri anche solo per camminare – visto il disastro
del suo ginocchio – mentre io ero finito a giocare nella Pro Castelnuovo,
in Eccellenza. Ma Roby è un buddista. Io un mancato tossico torinese.
Le cose sono andate così: a novembre mi chiama un vecchio compagno
del Toro che si era trasferito a vivere dalle parti di Alessandria. Anche
lui aveva smesso, ma solo da sei mesi, e l’ultimo anno l’aveva fatto in B.
Mi chiama e mi propone di andare a giocare con lui in una squadra di
Eccellenza, di un paesino lì vicino.
“Eccellenza?”, faccio io.
“Eh...”
“Armando. In Eccellenza ci rovinano...”
“Cosa c’è da rovinare?”
“Le gambe, i legamenti, tutto. Rischiamo di rimanere paralizzati!”
“Ma dai, in un’ora ci sei. Tre allenamenti alla settimana e poi la partita
la domenica. Come ai vecchi tempi.”
“Pagano?”
“Duemila e cinque al mese, spese extra.”
“Madonna. Sono trentamila all’anno.”
“In C2 quanto ti davano?”
“Ero caro.”
“Quanto?”
“Centocinquanta all’anno.”
“Cazzo.”
“Eh...”
“A me in B molti meno.”
“Ma eri nella tua squadra del cuore...”
“Ah sì... peccato che è anche la tua...”
“Sì, ma non sono stato tanto scemo da chiudere la carriera lì.”
“Invece la chiuderai nella Pro-Castelnuovo.”
“Mi sa di sì.”
Quando siamo arrivati noi due, il campionato era già iniziato da un
po’, ed eravamo penultimi. La squadra era una squadra di dilettanti.
Qualcuno discreto, la maggior parte negati. Noi eravamo finiti su tutti i
giornali locali e alla prima partita che abbiamo giocato l’incasso era stato
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di settemila euro. Quasi tre mesi del sottoscritto pagati in una botta.
Nello spogliatoio eravamo trattati con un entusiasmo e una cordialità
che facevano piacere. L’allenatore era un meridionale scrupoloso, sempre
con la lavagnetta. Ogni giovedì sera arrivava il presidente, che era tifoso
del Toro e faceva tremare i muri quando parlava. I compagni erano
contenti di allenarsi e giocare con noi. Gli allenamenti erano duri. Pieno
inverno. Nebbia, pioggia, neve. Sempre presente. Alla sesta settimana,
però, mi sono fatto prendere dalla pigrizia e, con una scusa, ho saltato
una settimana di allenamenti. La domenica mi presento per giocare,
gioco e faccio schifo. Sbaglio anche un rigore al novantaduesimo. Come
nel Milan. Solo che giocavo contro l’Atletico Sezzadio.
È stato allora che è arrivata Tiziana. In effetti fino ad allora, non
so come, le donne locali non le avevamo mai incrociate. Armando era
sposato e va bene, ma io no. E per uno come me, beccare in provincia
dovrebbe essere una cosa facilissima. Invece per i primi tempi ero stato
davvero un monaco. Che le lezioni di buddismo di Roby Baggio stessero
per dare i loro frutti?
Tiziana mi si è presentata dopo un allenamento convinta che fossi Coco,
il terzino dell’Inter. Dopo l’allenamento, in un locale di Alessandria con
Armando e altri due compagni, sono riuscito a convincere Tiziana che
non ero Coco e che avevo almeno dieci anni in più di Coco. Anche lei, a
occhio e croce, aveva dieci anni in più della Arcuri, e dunque andavamo
bene. Era sposata. Ma era una di quelle sposate di provincia che conosco
bene. Hanno il gippone, le carte di credito, e una grande propensione
alla rêverie erotica. Rêverie erotica non so esattamente che cosa voglia
dire, ma lo diceva sempre Pessotto in nazionale e visto che Pessotto è un
intellettuale, lo dico anche io. Insomma, alla fantasia erotica.
In breve: la mia vita è cambiata. Prima parcheggiavo la Porsche a
Castelnuovo in mezzo alle Punto e alle Fiesta dei compagni, facevo
allenamento nel fango, sputavo i polmoni asfaltati, mi facevo dare calci
durante la partitella da qualche elettricista, provavo le punizioni, facevo
la doccia, salutavo tutti e me ne andavo. E già allora poteva sembrare
un reality show.
Da quando è arrivata Tiziana, il reality ha preso una piega sentimentale
che forse non era prevista.
Alla fine ho affittato un appartamento fighissimo ad Alessandria. Anzi
“in Alessandria”, come dicevano lì, con la erre moscia. E dunque arrivavo
con la Porsche ma non da Torino. Da Alessandria. Tredici chilometri
in pianura. Arrivavo e sorridevo a tutti, dicevo cazzate col medico e
il massaggiatore, parlavo dei Mondiali del ’94, il mio ultimo grande
momento, mi lasciavo andare e imitavo Sacchi che si aggira in trance
per l’hotel la vigilia della finale, insomma facevo quello che davvero tutti
si aspettavano da me. In allenamento facevo il figo e tutti si fermavano
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a bocca aperta a guardarmi. Che controllo. Che palleggio. Che tiro. Lo
diceva, Johann Cruiff. Dopo la doccia tornavo in Alessandria. E alle
nove e mezza arrivava lei e facevamo i fidanzatini.
Tiziana aveva la mia età, un fisico che non mi ricordo di aver mai
visto niente del genere, un viso un po’ volgare ma in fondo è così che mi
piacciono, era sposata con Gagliardi quello della Tecnobagno, uno ricco
che la tradiva, due figli, il gippone, le carte di credito e una propensione
alla rêverie erotica. Solo che il nostro, ben presto, si è trasformato in
vero amore. In lei e con lei ritrovavo una pace e una serenità che avevo
perso da quando le cose avevano cominciato a girare bene con il pallone.
Quando il Milan mi ha preso per quella cifra pazzesca, io ho fatto un
salto di qualità che, se avessi saputo, avrei evitato volentieri di fare. È
cambiato tutto. La gente che dovevo frequentare, le abitudini, i discorsi.
Mi piaceva, ma dentro di me sentivo il fortissimo desiderio di tornare
bambino in mezzo ai miei nove amici siciliani nella periferia di quella
Torino anni settanta che è esistita fino a ieri e che adesso non c’è più.
Nel Milan mi si è bruciato quel poco di verità che avevo dentro e ci ho
messo anni a guarire.
Per guarire c’è voluta Tiziana, che come me ha la terza media e che
come me ha ripetuto la prima nello stesso anno (il 1981) e che come
me non ha mai avuto fretta di diventare grande e che come me ama
sua nonna materna come e più di se stessa e che come me è una tipa
semplice anche se, come me, ama vestirsi e acconciarsi in modi un po’
appariscenti.
Con lei è bello perché non devo stare zitto e sforzarmi di aver voglia
di andare al party di Lucio Dalla. Non invidio Coco, con la Arcuri. O
con chi esce adesso Coco, non lo so. Non lo invidio: dover stare dietro a
tutto quello, giocare e in più sempre infortunato. Il Milan è l’inferno.
È la squadra del diavolo. È vero. Lo dice il simbolo. Lo dice chiaro e
tondo.
A Castelnuovo se ne sono accorti in un mese e mezzo, sei domeniche
di gol e spettacolo (18 punti in 6 gare, non ci credeva nessuno). Si sono
accorti che ero ancora un campione e che avevo una relazione con la
moglie di Gagliardi quello della Tecnobagno. Ero nascosto a fumare
la terza sigaretta prima dell’allenamento – il fatto è che una la fumo
in macchina, una la fumo appena arrivo davanti a tutti, allenatore
compreso e una la fumo di nascosto: sono tre sigarette, poco da fare...
tre sigarette che potrebbero essere una o zero e invece sono tre. Ero
nascosto a fumare una Marlboro in una specie di pianerottolo cieco
con tre porte che danno a tre locali diversi del palazzetto dello sport.
Qualcuno stava spostando degli scatoloni dietro una delle porte e
sentivo che parlavano. Parlavano di gente che non conoscevo, discorsi
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da provincia, io fumavo e intanto pensavo alle scarpette nuove che si era
comprato Armando. Aveva comprato delle scarpette che erano firmate
da Billy Costacurta e stavo pensando che Billy aveva forse tre anni più
di me e che giocava a calcio mille volte peggio di me e che era titolare nel
Milan in Champions League mentre io fumavo di nascosto al palazzetto
dello sport di Castelnuovo in provincia di Alessandria.
Poi uno dei due che spostavano gli scatoloni ha detto la parola
“Tiziana”. Poi ha detto le parole “il nostro numero undici”. E allora ho
tenuto il fiato e ho pregato che non si allontanassero proprio.
“Lei va sempre a casa sua. Gagliardi lo saprà già?”
“Oh, quello! Non ha tempo di pensare alla moglie: ha due o tre storielle
per conto suo.”
“Meno male. Abbiamo vinto sei partite e quello si è messo a giocare
davvero... se è merito della prugna di Tiziana, lasciamo che ne mangi
finché vuole.”
Sono entrato nel magazzino di colpo, urlando:
“Ripeti quello che hai detto della prugna che ti ammazzo, ripetilo!”
Erano due che vedevo sempre lì, forse stipendiati della società, operai,
magazzinieri, che ne so.
“No, scusa. Scusa. Si dicono cazzate mentre si lavora!”
Di colpo mi sono sentito strano. Non ero più arrabbiato. Anzi, che cosa
me ne fregava di tutte le chiacchiere? Però ormai avevo fatto la mezza
scenata, così ho continuato senza convinzione a fare la parte.
“Perché devo sentire certe cose alle mie spalle? Vengo qui a dare una
mano a ‘sta squadra del cazzo, avete visto anche voi che una mano ve
la sto dando... e che mano! E voi non avete niente da dire a parte ‘la
prugna di Tiziana’?”
“Sono voci. Io non vi ho mai visti insieme... sono solo voci... io non ne
so niente e non dirò più niente...” Il più vecchio dei due, sui sessanta,
aveva una parlantina fastidiosa e non la smetteva di scusarsi.
“Sono voci. E io vi posso dire che sono voci vere. Io amo Tiziana e lei
ama me. E adesso?”
“Beh, sono cose vostre, io cosa c’entro? Fate bene, anzi, la gente che si
ama deve stare insieme e ci mancherebbe pure. Vero o no, Tonino?”
“Eh. Per forza.”
“Bene. Chiuso il discorso. Non se ne parla più. Chiaro?”
Quando gliel’ho detto, Tiziana è impazzita. Ha urlato nel cuscino per
un tempo che mi è sembrato troppo. Ha cominciato a dire parolacce
pazzesche e a girare per casa come una indemoniata. Il diavolo era in
lei come è nel Milan e in Costacurta. Io cercavo di calmarla, ma lei di
colpo ce l’aveva con me: “La fai facile, tu, che sei famoso e quando ti stufi
prendi e torni a Torino! Io rimango qua con ‘sti barotti a fare la figura
della ricca porcona!”
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“Ma io ti amo. Lascia Gagliardi quello della Tecnobagno e mettiti
con me.”
“Ma cosa dici? Ho due figli!”
“Lo so.”
“E allora non se ne parla nemmeno.”
“Ma perché?”
“Come perché?”
“Perché?”
“Ma sei scemo?”
Mi ha fatto male. Mi fanno male quando mi danno dello scemo. Non
capisco il perché ma quando mi si dà dello scemo soffro davvero dentro.
Sanguino.
“Tiziana. Ascolta. Io ti amo. E anche tu ami me. Me l’hai detto tante
volte.”
“Ascolta tu. Io... oh dio... ma com’è possib... cioè. Io... io sono sposata.”
“Con Gagliardi quello della Tecnobagno.”
“Con Gagliardi quello della Tecnobagno, bravo... e Gagliardi quello
della Tecnobagno è il padre dei miei due maschietti, Guido e Pietro.”
“Sì, ma Gagliardi quello della Tecnobagno è anche l’amante di tre
femminucce, di cui non ho i nomi ma fa lo stesso...”
“Queste sono cose... oh dio... dio, dio, dio!”
“Ma cosa c’è?”
“C’è che c’è un equivoco!”
“Un equivoco?”
“Un equivoco!”
“Ma come un equivoco?”
“Io e te: un equivoco.”
Io avevo capito abbastanza bene che cosa stava succedendo. Abbastanza
bene. Ma non volevo crederci. A me era sembrato che Gagliardi quello
della Tecnobagno non fosse in cima ai pensieri di Tiziana.
“Va beh. Il padre dei tuoi figli. Però esiste il divorzio. Io prendo te e i
figli e finito il contratto vi porto a Torino!”
“I bambini vanno a scuola... hanno gli amici, il papà e i nonni qua...
non possiamo farlo. Non fantasticare!”
“Ma io ti amo!”
“L’hai già detto trenta volte e io non te l’ho ancora detto nemmeno
una! Ma vuoi accettare la realtà?”
“E quale sarebbe questa realtà?”
“Che non sono innamorata di te e che la nostra storia finisce
stasera!”
Costacurta è come quel tipo del film che il ritratto invecchiava e lui
rimaneva giovane.
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Ad aprile Castelnuovo sembrava un altro paese. Le giornate tiepide
invitavano a fermarsi a chiacchierare con qualche compagno, o con
l’allenatore, che aveva sempre la faccia preoccupata e non osava mai
dirmi quello che dovevo fare secondo lui. Armando aveva fatto vacanza
per tutto marzo per via del mal di schiena e per un mese avevo dovuto
tirare la carretta da solo. Al posto di Armando era arrivato in prestito
un argentino, Moreno Salvarani, ex serie A al suo paese, ventisei anni,
faceva l’insegnante di spagnolo in una scuola privata di Ovada e si era
sposato a Genova, insomma per un po’ avrebbe giocato con noi. Bene, mi
ero detto. Ex serie A argentina lui, ex serie A italiana io... lui dieci anni
in meno di me... in Eccellenza dovrebbe bastare... pensavo quelle cose lì,
semplici, chiare e piene di buon senso.
Con Salvarani abbiamo fatto due punti in cinque partite, anzi quattro,
perché la quinta l’ha giocata Armando non ancora guarito ed è stato il
secondo punto (due a due con gol mio nel primo tempo). Il resto tutte
batoste. Salvarani non correva, non gliene fregava niente. Dopo un mese
volevamo ammazzarlo.
Lui faceva l’offeso, diceva sempre: “Voi siete in pregiuissio”. Lo
chiamavamo “Pregiuissio”. Aveva i capelli neri neri, era alto e ben
messo, ma non correva, aveva qualche problema che ci aveva tenuto
nascosto. Proveniva da una squadra di Genova, che ce l’aveva prestato
senza fare problemi.
“Io ho giocato con Burdisso, cosa credete?”, diceva sempre.
“Pregiuissio ha giocato con Burdissio!”, rispondevamo noi. E lui si
offendeva.
Quando Armando aveva ripreso il suo posto, Salvarani aveva fatto
un po’ di panchina, tipo due partite. L’aveva presa malissimo. Poi il
mister l’aveva fatto giocare sulla sinistra, dietro di me, con Armando
sulla destra. In quella partita si è decisa la sorte di Moreno Salvarani.
Al decimo del primo tempo, dopo il tackle di un centrocampista di
Mortara, tackle maschio ma non cattivo, Moreno prese il pallone, gli
sputò sopra e lo pulì sulla divisa dell’arbitro, che lo stava ammonendo
per simulazione.
Espulsione, scena isterica nello spogliatoio, muri del palazzetto
tremanti quando il presidente decise di rimandarlo a Genova.
Moreno Salvarani.
Durante la breve parentesi di Salvarani era successo che Gagliardi
quello della Tecnobagno si era inguaiato con una ragazza della
cooperativa che si occupava delle pulizie nella sua esposizione di cessi.
A Castelnuovo si era saputo subito, a me l’aveva detto Renzo Piano, che
non è l’architetto, ma un centrale legnoso che ha qualche mese meno di
me ma che non fuma e che alla fine gioca abbastanza bene.
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“Cos’è successo? Si lasciano?”, avevo chiesto io, fregandomene di far
vedere a Renzo Piano che non vedevo l’ora.
“Sembra che lei l’abbia cacciato. Vuole tenersi la villa, le macchine, i
bambini: tutto.”
Con Armando in squadra avevamo ripreso a vincere. Eravamo ottavi.
Salvi, senza ambizioni di promozione, ma tranquilli. Missione compiuta,
in campo. Restava aperta la missione del cuore, quella che mia madre
ha sempre chiamato: “La questione delle femmine”. La questione delle
femmine doveva evolvere verso un lieto fine.
Avevo appena parcheggiato la Porsche nel garage sotterraneo in
Alessandria. Ero ancora sotto che facevo un po’ di prove con l’apriportiera,
a volte mi incanto e apro, chiudo, apro, chiudo, apro, chiudo, anche per
mezz’ora.
Mentre facevo questa cosa da autistico (notare l’ironia che mi si affina
man mano che mi allontano nel tempo dall’esperienza-Milan), mi sono
sentito osservato. Mi sono voltato di scatto e ho visto Tiziana, bellissima,
sensuale. Ho sentito il cuore battere come quando Roby stava per tirare
il rigore a Pasadena nel ’94. Ma che dico. Come quando sapevo che c’era
Johann Cruijff in tribuna, a Viareggio, che mi stava guardando e ho
segnato due gol e sono uscito al trentesimo della ripresa per il calcio di
un terzino del Dukla Praga. Ma no, di più. Di più.
“Sono qui per te. Ho capito di aver sbagliato. Io ti amo. Tu mi ami?”
“Certo che ti amo. Amo te e i tuoi bambini, Guido e Pietro...”
“Allora li vado a prendere. Sono sul gippone. Li vado a prendere così
conoscono il loro nuovo papà”.
E quando ha detto così, “il loro nuovo papà”, mi sono sentito il
ragazzo che sono. Ho trentasei anni. Magari vent’anni fa giocavo meglio
a pallone, ma adesso posso fare il padre, il marito, l’uomo. E ho solo
trentasei anni.
Mentre aspettavo la mia nuova famiglia, lì, nel garage sotterraneo, mi
sono acceso una sigaretta. Ho fatto tre tiri uno dietro l’altro, ho calcolato
quante giornate mancavano alla fine del campionato, ho rivisto in un
flash San Siro, il diavolo, Costacurta e poi lo stadio di Castelnuovo.
Ho buttato la cicca a metà, ho messo in bocca un chewing gum,
ho aperto e chiuso, aperto e chiuso, aperto e chiuso la portiera della
macchina con il mio bel comando a distanza, mi sono guardato intorno e
mi sono incamminato verso la rampa.
Ho girato l’angolo e, mentre mi prendevo in faccia il primo pugno da
Gagliardi, quello della Tecnobagno, ho capito di amare davvero Tiziana
e tutto il suo piccolo e complicato mondo.
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Cristiano De Majo
LA STORIA VERA DI
UNA VERA STORIA D’AMORE
Cristiano De Majo
è nato a Napoli nel 1975.
Ha pubblicato racconti su
Blue, ellittico, FaM e
Maltese Narrazioni.
Un suo intervento è incluso
nell’antologia Teoria e tecnica
dell’Artista di Merda (Valter
Casini Editore).
Un suo racconto è pubblicato sull’antologia Best Off, di
minimum fax.
Tra le altre cose, soffre di
teledipendenza.
Il display sul cruscotto segnava trentacinque gradi all’esterno. Un
caldo bestiale, nonostante fossero le otto di sera. Nell’abitacolo andava
meglio: ventiquattro, grazie all’aria condizionata.
Uscì dall’autostrada e imboccò la S-80. I lampioni erano spenti. Il buio
era rischiarato solo vagamente dagli anabbaglianti della macchina e
dalle luci lontane del polo industriale.
Attraversò l’ultimo tratto della spianata di terra grigia muovendo a
memoria le mani sul volante e pensando a ciò che lo stava aspettando:
a Clara nella sua tuta grigia coi capelli legati, alle pale del ventilatore
in movimento nel soggiorno, alla televisione accesa ad alto volume, alle
pentole di acciaio lucido sui fornelli.
A un certo punto, anche se non ricordava esattamente quando, quelle
immagini avevano iniziato a opprimerlo. Erano sempre le stesse da
troppo tempo e lui aveva una disperata voglia di vederne delle altre.
Aveva voglia di deragliare, di rivoluzionare la sua vita, di vedere un
altro film, uno diverso a sera magari. Dopo mesi costellati da riflessioni
infinite e infiniti sensi di colpa, aveva finalmente deciso di parlarne con
lei. Era successo la sera prima. Aveva cercato le parole giuste, né troppo
dure, né troppo dolci, e aveva provato a vuotare il sacco, a liberarsi di
quel peso insopportabile. Ma non erano state le parole giuste. Clara
sembrava non aver capito.
“Ne abbiamo passate tante, passeremo anche questa”, gli aveva detto.
Non si rese conto di niente fino a quando non superò l’ultima curva.
Solo allora la sua attenzione si spostò dai profili delle immense
strutture industriali al piazzale di ghiaia che stava davanti alla loro
villetta prefabbricata. Fu in quel preciso momento che le fiamme lo
abbagliarono.
Sul piazzale c’era un rogo. Era come se un grosso tronco d’albero stesse
bruciando. Avvicinandosi si accorse che quella cosa si muoveva, aveva
delle gambe, seguiva traiettorie illogiche nel tentativo, così pareva, di
salvarsi. Uno spettacolo spaventoso, con le fiamme che si spargevano
ovunque lasciando scie violacee nel cielo notturno.
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Come prima cosa pensò a uno sconosciuto, a qualche squilibrato che,
aveva deciso di darsi fuoco lì, chissà perché proprio sul loro piazzale di
ghiaia.
Clara prese forma nei suoi pensieri solo qualche istante dopo, quando
la sagoma avvolta dal fuoco divenne in qualche misura riconoscibile.
Inchiodò e si proiettò fuori dalla macchina a pochi metri di distanza
dalla torcia che continuava a dimenarsi. Avanzò fino a quando riconobbe
le scarpe da ginnastica e il lembo grigio di tuta appiccicato alla caviglia,
allora sentì le gambe cedere e barcollò in avanti per qualche passo.
Riuscì a rimanere in piedi però. Non poteva permettersi di perdere la
testa. Doveva solo pensare a cosa fare e a come farlo.
Si sfilò la camicia, l’arrotolò e cercò di tamponare l’avanzata del fuoco.
Poi, quando la stoffa si ridusse in brandelli bruciacchiati, corse in casa
e si lanciò sull’armadio alla ricerca di una coperta.
Trovò un vecchio plaid di lana pesante nello scaffale dei panni invernali.
Lo afferrò e si precipitò fuori. Si chinò su di lei e l’avvolse con delicatezza
nella coperta, intravedendo squarci di carne annerita e liquefatta. Poi,
non appena gli sembrò che l’incendio fosse definitivamente spento,
aprì lo sportello di dietro della macchina e depositò il fagotto sui sedili
posteriori.
L’abitacolo si riempì di una puzza fortissima di carne bruciata, come
se qualcuno avesse deciso di farsi un barbecue in macchina, coi finestrini
chiusi.
Durante tutto il tragitto fino al pronto soccorso non pensò a nulla.
Eppure, avrebbe avuto parecchie cose a cui pensare. Alle cause
dell’incendio, per esempio, a cosa aveva scatenato le fiamme. O alla
faccia che lei aveva fatto la sera prima quando lui, dopo cena, le aveva
detto che sentiva che le cose tra loro due stavano cambiando. Alla
telefonata che era arrivata sul suo cellulare poco prima, la telefonata in
cui lei gli aveva chiesto tra quanto tempo sarebbe tornato. O ancora alla
pelle di Clara, a quella pelle che ora sembrava cera grinzosa.
Invece, nei suoi pensieri non esisteva futuro, né passato. Viveva solo
nel presente, nell’abitacolo della sua macchina, ipnotizzato dalle strisce
tratteggiate della corsia d’emergenza, con la luce dei lampioni che si
rifletteva sul parabrezza in un’unica lunghissima scia che sembrava
una fiamma.
In quel presente Clara non si lamentava. Era semplicemente un
oggetto inanimato depositato sui sedili di dietro.
In ospedale non faceva caldo. Era come se il caldo di quella calda
giornata fosse stato annientato in modo definitivo. Iniziò, addirittura,
ad avvertire dei lievi brividi lungo la schiena, anche se non capiva se
fosse a causa dell’aria condizionata o perché non riusciva a togliersi
dalla testa l’immagine della pelle di Clara corrosa dalle fiamme.
16
Qualcuno del personale lo fece sedere in una sala d’aspetto. C’era
altra gente seduta, ma per lui non faceva differenza. Gli sembravano
tutti privi d’espressione, sagome di cartone messe lì per completare la
scena.
Dopo qualche ora, si avvicinò un uomo in camice bianco, un tizio con
barba, occhiali e una faccia gentile.
“È fuori pericolo…”, gli disse a bassa voce, ma a lui la notizia non
fece effetto. Era come narcotizzato. Gli sembrava di non poter provare
nessuna emozione.
Più tardi, un’infermiera lo accompagnò in un’altra sala d’aspetto. Su
una targhetta all’entrata c’era scritto GRANDI USTIONATI.
Nei giorni che seguirono passò molto tempo in quella sala d’aspetto,
praticamente quasi tutto il tempo possibile.
Con quelli dell’ufficio non aveva fatto nessuna previsione, forse non
sarebbe tornato più, aveva detto nel corso della penosa conversazione
con il capo dell’Ufficio Personale. E così era rimasto in quella sala
d’aspetto. Seduto. Anche perché l’ultima cosa che avrebbe desiderato
era tornare a casa. Immaginava che lì il tempo si fosse fermato alla
notte dell’incendio. La televisione accesa, il cibo incrostato nelle pentole,
le pale del ventilatore che continuavano a muoversi sul soffitto. E non
avrebbe sopportato niente di tutto quello.
Fu dopo qualche giorno che cominciò a riacquistare un po’ di lucidità.
Allora le cose che lo circondavano ritornarono a fuoco: le facce della
gente seduta nella sala d’aspetto, le facce dei medici e degli infermieri,
il ficus con le foglie verdi a forma di cuore all’ingresso del reparto, le
scritte lampeggianti sulla macchinetta del caffè, la finestra con vista sul
parcheggio, un manifesto del XX Congresso Europeo di Dermatologia.
Sul conto di Clara non trapelava ancora nessuna notizia. Lui sapeva
solo che era fuori pericolo, che non sarebbe morta. Per quanto riguardava
il resto, il silenzio più assoluto.
Lo facevano entrare nella sua stanza due volte al giorno. Lei era una
mummia, completamente rivestita di bende a parte bocca e occhi. Era
attaccata a certe macchine. Sembrava morta.
Tutte le volte rimaneva fermo in piedi a due metri dal suo corpo. Aveva
paura persino di accostarsi al letto e manteneva scrupolosamente una
sua distanza di sicurezza.
Fu in quei giorni che il futuro si avvicinò sottoforma di ipotesi,
previsioni, speranze. Fu allora che incominciò a pensare alle
responsabilità di cui era stato investito. Tutte quelle responsabilità gli
facevano rimpiangere la sua vita di prima, la stessa vita di cui aveva
deciso di disfarsi. Nonostante non le avesse mai considerate tali, si
rendeva conto di quanto fossero state ampie le sue possibilità di scelta,
prima.
“Prima”, continuava a ripetere tra sé e sé con un filo di voce.
17
Prima di quella notte l’avrebbe lasciata, ma ora? Ora che Clara non era
più Clara ma un corpo sfigurato avvolto in decine di metri di garza? Certo,
il pensiero di liberarsi di lei, di lasciarla lì, di fuggire in un’altra città, in
un altro mondo, l’idea di svanire per sempre cioè, lo faceva sentire leggero
e vivo. Ma, al tempo stesso, sapeva di non avere il coraggio per una scelta
simile. Ci voleva coraggio, molto più coraggio di quello che aveva avuto la
sera prima dell’incendio, quando aveva deciso di parlarle.
Qualche giorno dopo, il primario del reparto, quello con la barba, gli
occhiali e la faccia gentile, si sedette accanto a lui, nella sala d’aspetto.
Senza preamboli e con una voce molto seria, gli disse che Clara non
avrebbe più recuperato la parola.
“Come se le corde vocali si fossero squagliate…”, gli disse.
Gli disse anche che, considerata l’estensione dell’ustione, qualsiasi
intervento di chirurgia plastica era da escludere.
“Per il momento…”, aggiunse, ma a lui sembrò un’aggiunta alla quale
non dare importanza.
Gli disse poi che per il resto non c’erano altri problemi, la vista e l’udito
non erano stati danneggiati, gli organi interni erano intatti, i capelli e le
unghie sarebbero ricresciuti.
“Per fortuna…”, disse prima di congedarsi con una stretta di mano fin
troppo energica.
Quando Clara fu dimessa, era trascorso esattamente un mese dalla
notte dell’incendio. A lui non sembrava un mese, ma non avrebbe saputo
dire quanto.
Clara era una mummia e non poteva muoversi. Sarebbe stato lui a
occuparsi di lei, l’avrebbe riportata in ospedale dopo una settimana
per cambiare la medicazione, e poi la settimana successiva, e quella
dopo ancora. Sarebbe diventato la sua unica possibilità. Anzi, lo era già
diventato a partire dal momento in cui gli infermieri lo avevano lasciato
solo con lei.
La sollevò in braccio dalla barella e la sistemò sui sedili posteriori della
macchina. Poi, per tutto il tempo, guidò cercando di sopprimere l’ansia
che gli stava esplodendo dentro. Aveva la pancia gonfia, le mani sudate,
e la sensazione che la sua vita stesse per decidersi in modo definitivo. Se
fosse tornato a casa con lei, sarebbe stato per sempre, pensava.
Aveva sistemato lo specchietto retrovisore in modo da poterla controllare
e, dal riflesso del vetro, l’immagine di quella mummia si moltiplicava in
decine d’immagini proiettate nel futuro: la mummia sul divano di fronte
alla televisione accesa, la mummia stesa sul loro letto, la mummia nella
vasca da bagno, vuota.
Decise che era il momento di fermarsi all’altezza del ponte di ferro,
quando iniziò a intravedere le luci del polo industriale. Mancavano
appena due chilometri alla deviazione.
18
Nell’ultimo tratto di ponte, rallentò fino a fermarsi del tutto e cercò di
accostarsi il più possibile al guardrail. Guardò nello specchietto: Clara
aveva ancora gli occhi chiusi.
Aprì lo sportello e scese dalla macchina senza fare rumore. Poi si
avvicinò alla ringhiera, si sporse in avanti e guardò verso il basso, verso
il fiume prosciugato, verso i rottami dei macchinari che le industrie
accumulavano da anni in quella terra di nessuno.
Pensò. Passò in rassegna tutte le possibilità che aveva a disposizione.
Le famose possibilità di scelta.
L’avrebbe lasciata lì, nella macchina, per ricominciare daccapo.
Oppure l’avrebbe presa in braccio e insieme si sarebbero lanciati dal
ponte, nel vuoto eterno. O ancora, avrebbe lanciato solo lei, quell’oggetto
inerte, e sarebbe tornato a casa e avrebbe continuato a vivere come se
non fosse successo niente.
Rimase chissà quanto tempo con lo sguardo fisso sulle pieghe di ferro
arrugginito. Poi fu illuminato da un lampo che gli parve di riconoscere
come qualcosa di estremamente intimo sotterrato da qualche parte nella
sua coscienza. L’amava, ecco qual era la verità. Perché stava cercando
ostinatamente di fuggire da quell’idea? Il pensiero di qualsiasi altra
scelta che non fosse quella di tornare a casa insieme a lei lo faceva stare
male, lo faceva sudare, gli faceva sentire quelle fitte lancinanti nel petto,
allora perché non fare ciò che con tutta evidenza il suo corpo gli stava
suggerendo? No, si disse, non era mancanza di coraggio quella, la sua
incapacità di scegliere una qualsiasi delle ipotesi che aveva passato in
rassegna non poteva essere che un segno del suo amore per lei. Da quel
momento in poi le avrebbe dedicato tutto il suo tempo, e non sarebbe
stata una scelta di ripiego, l’ennesimo compromesso. Si convinse che
bastava volerlo e le cose sarebbero cambiate e tutto quello che c’era
stato prima di allora sarebbe stato cancellato. Non era mancanza di
coraggio, ma la sua scelta, la scelta che aveva deciso di prendere. Una
nuova vita li stava aspettando.
Varcarono la soglia di casa come una coppia di sposi. Lui la teneva in
braccio e continuava a guardare i suoi occhi chiusi.
Ora l’ansia era svanita. Si sentiva sereno, in pace con se stesso. In
un certo senso si sentiva in colpa per le cose che aveva pensato, ma
era sicuro che quella macchia sarebbe stata cancellata prestissimo, gli
sarebbe bastato qualche giorno per farsi perdonare da Clara, forse solo
qualche ora.
La depositò sul divano e andò a spegnere la televisione e il ventilatore.
Diede un’occhiata in giro. Accostò l’anta dell’armadio da cui la notte
dell’incendio aveva preso la coperta. Poi riprese Clara in braccio e la
portò fino alla camera da letto.
Con la massima cura l’adagiò sul materasso e per un attimo rimase
fermo a due passi da lei. Gli parve di sentire qualcosa, forse un lamento,
19
ma vedendola così, completamente spenta, pensò che doveva esserselo
immaginato. Allora si tranquillizzò, andò in bagno, si spogliò e indossò
il pigiama. Quindi la raggiunse di nuovo, elettrizzato come chi sta
per infilarsi nel letto di un amante appena conosciuto. Si addormentò
dopo poco, incantato dal suo corpo bendato e con l’odore di pomata
cicatrizzante nelle narici.
Clara aprì gli occhi solo dopo che lui prese sonno. Non fu sorpresa di
vederlo accanto a lei, Clara conosceva bene suo marito, ma quello fu
il momento in cui ebbe la certezza che il loro amore non avrebbe più
incontrato ostacoli, che, cioè, sarebbe stato per sempre. Così, quando
richiuse gli occhi, sulla pelle tirata del suo volto prese forma una specie
di smorfia, una smorfia che in realtà era un sorriso.
Quella sarebbe stata la loro prima notte d’amore.
W W W . VA R K J O V I C H . C O M
20
Nicola Lagioia
PICCOLO DIARIO CINESE
Nicola Lagioia
(Bari, 1973), ha collaborato
con diverse case editrici,
lavorato come ghost-writer,
scritto sceneggiature.
Per minimum fax ha
pubblicato nel 2001 il suo
primo romanzo, Tre sistemi
per sbarazzarsi di Tolstoj
(senza risparmiare se stessi).
Nel 2004, per Einaudi,
è uscito il romanzo
Occidente per principianti.
Attualmente dirige Nichel, la
collana di narrativa ialiana di
minimum fax, collabora con
la rivista Accattone, scopre
talenti, scrive reportage e
organizza traslochi.
Che cosa avrei dovuto preferire, alle tre scopate e mezzo di questo
autunno del 2004, quando con la Banca Commerciale Italiana filiale di
Roma Nomentana sto sotto di millecinquecento euro, quando il ridicolo
compenso per un articolo pubblicato da due anni mi si comunica verrà
probabilmente corrisposto oggi, sicuramente domani, dopodomani
vediamo, dopodomani l’altro l’addetta al commerciale è già in vacanza,
un’onda anomala di calore ci schiaccia da est come da ovest mentre le
caffetterie del mio quartiere sfornano solo orrendi sfilatini di cartone
infarciti di marmellata? Dovrei pensare che una mondina, curva
sul tramonto, i polpacci immersi nel fiele della risaia, questo sorriso
analfabeta, giù i calzoni, giù le mutandine, avrebbe potuto svoltarmi
le ultime settimane più e meglio delle fluenti, laminate creaturine
universitarie (o peggio ancora, laureate in lettere moderne con una
tesi su Georg Trakl) che mi sono capitate dentro casa, tra le gambe, sui
ginocchi tra una revisione di bozze e un avviso di mancato pagamento
forniture telefoniche recapitatomi dall’Onorata Società Telecom? Dovrei
rimpiangere l’amore ai tempi della Democrazia Cristiana, del delitto
d’onore, dell’oratorio, delle Topolino amaranto?
Marina, ad esempio, risponde ai telefoni di una famosa casa editrice
romana. Tra appuntamenti da annullare e traduttori da cinque euro
a cartella da postdatare di qualche mese trova il tempo per occuparsi
anche di me. Il suo intento, in circa un anno di telefonate senza alcun
esito, mi sembra miseramente chiaro. Non farsi fottere dal sottoscritto,
bensì arrivare a farsi fottere dopo che il sottoscritto abbia imbastito, con
sufficiente verosimiglianza, un qualche tipo di corteggiamento. Così, tre
settimane fa Marina, instancabile e puntuale come sempre, telefona per
chiedermi “che fai stasera”. Io non le oppongo il solito “ho da lavorare”
(una dedizione al lavoro, la mia, abituata a vivere unicamente tra gli
estremi di questa linea telefonica) ma un sobrio, onesto e vagamente
edulcorato “avrei bisogno di scopare con qualcuno” che, in teoria, mi
dico, dovrebbe produrre l’effetto di allontanare per sempre questa
ragazza dalle mie orbite o, al contrario, precipitarla nelle mie braccia
23
finalmente sprovvista della sua pantagruelica giostra di formalismi
amorosi. Marina non si scompone. Pronuncia schiettamente: “Molto
bene”. Poi dice: “Passo da casa tua alle otto meno venti”. “Benissimo”,
penso, “ho sempre sottovalutato questa ragazza”. E così, aspettandola
per circa due ore, decido di non rimettere in ordine i 40 mq del mio
seminterrato su via Caserta, di non sostituire gli asciugamani nel bagno,
di non verificare nemmeno la presenza dei preservativi nel comodino
della camera da letto. Questa trascuratezza, mi dico, dovrebbe servire
a scongiurare ulteriormente le possibilità di un sex in vitro di cui le
ragazze come lei rischiano di essere portatrici sane. Sospetto anche che
questi miei scrupoli possano fare pericolosamente il pelo a un distante
ma sempre parallelo feticismo. Quando il campanello suona: Marina.
Mi sono ripromesso di baciarla, spogliarla, metterla nuda sul divano
senza dire una parola, senza nemmeno salutarla. Ma la sclerosi del suo
sorriso, l’inossidabile forza del suo teatrino ambulante hanno ragione in
pochi istanti della mia utopica e balbuziente macchina per il ripristino
di un sesso privo di scenografie. È come se la parola “scopare”, proferita
al telefono con beckettiana sobrietà alle 17,30, abbia innescato l’iter di
un amor cortese bucherellato come una groviera che ci trascina prima
al cinema (ha controllato la pagina degli spettacoli, c’è un “delizioso
Truffaut” al Quattro Fontane), poi al ristorante cinese (dove sui primi
ravioli al vapore è chiaro, i ruoli si invertono definitivamente: io l’ho
invitata a cena: il conto è una faccenda che riguarda me), quindi, alle
00,30, appesantiti dal fritto e dalla nota birra Tsingtao, nuovamente a
casa mia. Qui, dopo un brevissimo giro esplorativo, si siede sul divano,
naturalmente vestita, e aspetta che, tra una chiacchiera e l’altra, la mia
mano inauguri un estenuante movimento lungo il bordo esterno della
spalliera che arrivi a carezzarle entro dieci minuti la zona neutra dello
sterno. In modo che Marina (riciclati due o tre argomenti di conversazione)
con simulata meraviglia proferisca non tanto al discreto manipolatore
delle sue ossa quanto a un pubblico invisibile: “che stai facendo?” (come
se al telefono le avessi parlato di cinema, politica e birre cinesi), e
accolga il mio misurato sconcerto tra le sue cosce come una piacevole ed
inimmaginabile sorpresa. Pretende insomma che una normale serata
tra amici sconfini nel prodigioso continente del sesso in virtù di una
forza irresistibile e rigorosamente imprevista. Questa pretesa ingombra
non soltanto il post-coito, ma il durante e, retroattivamente, ogni casella
rimasta libera del pre-. Così, riaccompagnatola a casa, ho la precisa
sensazione di non aver scopato affatto. E dire che ho sempre preferito
Bene a Strehler.
Dovrei rimpiangere l’amore ai tempi dell’Assemblea Costituente, del
Piano Marshall, di don Sturzo, di Comencini, Elia Kazan e Alida Valli?
Mio padre, un piacente maresciallo dei carabinieri, nel 1954, suonata
24
la squilla dei trentacinque, si presentò a casa dei suoi futuri suoceri e,
levatosi il cappello d’ordinanza, avanzò la sua proposta con la stessa
meticolosità con la quale redigeva verbali e attraversava le navate delle
chiese la domenica mattina. Dieci anni prima mio nonno era riuscito
a esistere quasi contemporaneamente come fascista, repubblichino e
liberale della prim’ora – una mano per sintonizzarsi su Radio Londra,
l’altra a tastare il polso della morente linea gotica. Credeva dunque
fermamente alle barzellette sui carabinieri e sapeva benissimo come,
solo ad avere tra le mani il compratore giusto, fosse possibile fare passare
il cavallo zoppo per un destriero da concorso di bellezza. Fece passare
il proprio sospiro di sollievo come una dolorosissima concessione. Mio
padre finse di credergli. Iniziò una debilitante situazione di rodaggio
fatta di pranzi domenicali, parenti in visita dall’Argentina, passeggiate
lungo il corso dei due futuri sposi seguiti a ruota dall’immancabile
cugina collaborazionista, aggiustamenti millimetrici della dote – ma
dieci millimetri fanno un centimetro, cinquanta centimetri sono già
mezzo metro e questa cosa mio nonno non l’aveva prevista. Fino a
quando anche mia madre, un incidente sulla lunga via pentecostale
che, in fin dei conti, tra le altre cose, avrebbe portato anche a me,
mia madre, una mazza di scopa senza pretese già pericolosamente in
odore di nubilato perpetuo, fu interrogata formalmente sul da farsi. La
poverina, circondata dal conclave dei parenti, avvampò tutta, strinse
le gambe e non trovò altro da proferire che un magro ma tenace: “cosa
ne posso sapere io… così, su due piedi… su due piedi… su due piedi…
su due piedi…”, ripetendo l’adagio per almeno un quarto d’ora, per
il crescente nervosismo di mio nonno, sempre pronto ad arginare gli
imprevisti famigliari con una piena di bestemmie a denti stretti che
faceva un solo fascio di Stalin, del papa e di De Gasperi. Fu comunque
proprio su due piedi che mio padre la prese, per dirla tutta, tre settimane
prima del matrimonio, al termine di uno sfiancante lunedì di Pasquetta
che avrebbe lasciato i parenti a sonnecchiare sulle sedie e lui, il mio
futuro genitore maschio, in erezione da colomba e vino bianco, e lei, la
mamma, nella sua lunga figura ulteriormente stirata nel cucinino alla
ricerca di una caffettiera dichiarata smarrita da numerose festività. Nel
corso di quell’amplesso (e di infiniti altri che, contemporaneamente, si
sviluppavano in ogni angolo della nostra penisola, da sud a nord, da
Lampedusa a Cuneo) si realizzava come il nostro Paese fosse ancora
una meravigliosa copertura temporaneamente appaltata alla Rai, al
Vaticano, alla Dc e ai sindacati nella quale, lui dietro di lei, lei ricevendo
da tergo quest’imprevisto sacramento riconosceva come strumento del
proprio buonumore un cazzo progressivamente meno gallonato (da
maresciallo maggiore a sergente, ad appuntato, a militare di leva)
fino a ritrovarsi finalmente tra le gambe l’homo sapiens senza nessun
orpello storico o istituzionale che i propri venti centimetri scarsi di
25
virilità. Una meravigliosa copertura, dicevamo, l’Italia di quel tempo, a
prova di Cia e Kgb ma non degli assolati pomeriggi di Pasquetta in cui
crollavano, uno dopo l’altro, come immensi tendoni sospesi sul niente,
gli ingombranti vessilli della Guerra Fredda, della ricostruzione, del
risorgimento e della resistenza, delle falci, dei martelli, (perfino di Salò),
per rivelare un uomo e una donna alle prese con se stessi. Un’indolente
uscita dalla Storia, quest’ultima, che però già si ricomponeva nel giro di
cinque minuti, quando per esempio mia madre, conquistata una certa
confidenza e inerpicandosi maldestramente su una china maliziosetta
decisamente troppo seventies in tempi di neorealismo e bianco e nero,
sussurrava dolcemente nell’orecchio di mio padre: “Sì, va bene, ma
adesso inculami”.
W W W . VA R K J O V I C H . C O M
26
Davide L. Malesi
STORIA D’AMORE DEBOLE
E D’AMORE AMARO
Davide L. Malesi
ha pubblicato racconti,
brevi saggi e inchieste
giornalistiche su
Origine, FaM - Frenulo
a Mano, Inchiostro, Inciquid.
Collabora stabilmente con
la redazione di Medicine Show
(www.medicine-show.net),
la rivista musicale più
cialtronesca del mondo.
Ha un blog (licenziamentodelpoeta.splinder.com).
Rania sapeva solo che le serviva il pezzo di carta firmato. Anzi, i
pezzi di carta. Tre. Quei due le dissero: non c’è problema. Sorridevano.
Troppo. Parlavano in francese. Veramente, uno parlava, l’altro stava
zitto. Indossavano completi di lino, eleganti. Estivi. Quello che parlava
aveva i baffetti,
che ce li aveva pure quello che non li voleva in Francia, l’impiegato.
Quello che stava nell’ufficio con le pareti scrostate di vernice vecchia, ocra
pallido. Le sedie scomode, di plastica. Fuori dalla finestra, Marsiglia.
Che è un porto sul Mediterraneo. Con i moli e le navi, e gente che va
e che viene. Dentro la stanza, l’impiegato. Ma Rania non lo sapeva,
che aveva i baffetti pure l’impiegato, perché lei era rimasta a casa con
Assam, e c’era andato Farid, a parlare. E quello aveva detto: ci spiace
ma non ci è consentito ammettere la vostra richiesta d’asilo. Purtroppo
abbiamo molte richieste. Voi non siete perseguitati politici. Né lei né
sua moglie siete impegnati politicamente o iscritti a un partito. Non
siete alle dipendenze di una compagnia francese. L’impiegato parlava
francese,
che Farid lo capiva perché c’era abituato. E anche Rania. Prima, a
Abadan c’erano un sacco di francesi. Per via dei cantieri della Compagnie
Internationale Nauticale et Océanique. I cantieri navali più grandi del
Medio Oriente. Pieni di francesi. E il porto era pieno di navi petroliere
francesi, che imbarcavano il petrolio della raffineria dove c’erano tecnici
francesi, e tutti i francesi di notte si riversavano nel centro della città a
riempire le mescite, i bistrò, i locali da ballo, i casinò, i night club, tutti
con nomi francesi,
come i nomi di quei due tizi vestiti di lino. Quello che parlava aveva
i baffetti, come l’impiegato di Marsiglia. Disse che l’avrebbero anche
pagata, e si trattava semplicemente di spogliarsi e far vedere il culo. Lei
andò. Non disse niente a Farid, che forse capì qualcosa, anzi sicuramente.
29
Vide la macchina blu che la venne a prendere, e fece finta di niente. Che
poteva fare? Stavano in un prefabbricato. Made in Germany. Il campo
di transito puzzava di piscio di gatto, ed era pieno di gente disperata.
Respinti. In attesa di una revisione della loro richiesta. Farid la vide solo
avviarsi verso la porta, bella, imperiosa. I capelli, neri. Indossava vecchi
jeans lisi e una maglietta scollata, e sandali. Vestiva abitualmente così,
e le donne musulmane osservanti del campo, lì a Bodrum, la evitavano
e sparlavano di lei. Farid le chiese solo: dove vai?, dove vai, Rania?, e
Rania rispose solo: quando torno avrò i permessi, e Farid avrebbe certo
detto qualcosa, ma in quel momento entrò nella stanza Assam e disse:
mamma, dove vai???, perché aveva visto che Rania aveva una borsa
leggera da viaggio. E Rania guardò Farid con due occhi che dicevano:
portala via, ti prego, e Farid prese per mano Assam,
che adesso ha otto anni. Qualche tempo fa, Assam giocava con gli altri
bambini. Alla sua età, si usa. Assam giocava nel cortile del palazzo, a
Marsiglia. Era abituata a giocare ai giardinetti vicino al mercato, ad
Abadan. Ma in quattro e quattr’otto ha imparato a giocare nel cortile del
palazzo, a Marsiglia. Assam ha otto anni e le Domande Preferite. Ché
quando hai otto anni, vivi in un mondo di domande. Devi chiedere le
cose, perché molte non sai come procurartele. Oppure c’è il caso che non
puoi fare tutto quello che vuoi. Decidono i grandi, perciò devi chiedere ai
grandi. Se hai fame, chiedi ai grandi. Di solito a mamma e papà, o agli
zii, o ai nonni, perché mamma e papà ti hanno detto di non accettare cose
dagli sconosciuti. Se non hai voglia di andare a scuola, chiedi a mamma,
o a papà: posso stare a casa?, e non è una buona domanda perché di
solito dicono: no. Ma tu chiedi lo stesso. Se hai paura, di notte, chiedi a
mamma, o a papà: posso venire nel lettone???, posso???, e a volte puoi.
Ma a volte: no. Quando sei bambino hai le Domande Preferite, che sono
quelle a cui non ti dicono quasi mai: no. Quelle a cui in genere ti dicono:
sì. La Domanda Preferita dei bambini viziati coi genitori pieni di soldi
di solito è: me lo compri?, col dito che indica un giocattolo nella vetrina
di un negozio. La domanda preferita di Assam fino a qualche tempo fa
era: vuoi giocare con me? La faceva agli altri bambini, nel cortile del
palazzo. A Marsiglia. Che è un porto sul Mediterraneo. Con i moli e le
navi, e gente che va e che viene. Assam è venuta,
con la pioggia. Pioveva sul porto quando sbarcarono dalla nave, la
prima volta, Assam e Farid e Rania. Ad Abadan, non c’era più posto,
il posto di Farid era in un club col nome francese, pieno di francesi,
un posto da pianista. A sentirlo venivano tecnici delle società petroliere
francesi, o uomini d’affari, perché ad Abadan si facevano affari, dove c’è
il petrolio si fanno affari, e il locale era pieno di ragazze, non francesi
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però, ragazze iraniane con gli occhi bistrati e le calze di seta, e i vestiti
scollati, e i francesi le invitavano a ballare e le chiamavano tutte: chérie,
ché i nomi iraniani se li scordavano sempre o li pronunciavano male.
Sopra, c’erano stanze dove i francesi scopavano con le ragazze con gli
occhi bistrati, che si toglievano le calze di seta, e i vestiti scollati, e
restavano nude,
come poi Rania, sulla barca. A Bodrum, al porticciolo turistico, erano
arrivati lì su una macchina blu notte con l’autista e i due tizi vestiti
di lino, bei completi estivi, i francesi, che una volta a bordo le dissero
nuovamente che lei doveva starsene sul tavolo e basta, a ballare. Invece
lo skipper li portò al largo e c’era uno, forse un pachistano, con una
telecamera e una bandana, e tre ciccioni turchi che quando uno dei
francesi, quello coi baffetti, disse che lei era carne fresca, una buona
moglie musulmana che aveva conosciuto solo il cazzo del marito, non
una delle solite puttane, e lo disse con un tono di apprezzamento, come
quando si parla di un cavallo che ha dei bei denti, allora i turchi si
eccitarono di brutto e vollero per forza farselo prendere in bocca, e a lei
serviva il pezzo di carta firmato, chiaro, perché era per via del pezzo
di carta che li avevano sbattuti fuori da Marsiglia, la prima volta.
L’impiegato, quello di Marsiglia, non aveva messo la firma, o il timbro, o
tutt’e due – quello che serviva insomma – sul pezzo di carta. L’impiegato
aveva detto a Farid: non posso accordarle lo status di rifugiato. Né a lei,
né a sua moglie. Né a sua figlia. E Farid aveva chiesto: perché???, ché gli
veniva da piangere, ma non voleva però la voce gli si spezzava lo stesso,
e quello di rimando: è tutto scritto qui, nella Convenzione di Ginevra.
Lei può essere accolto in Francia se è un rifugiato. Ma lei non lo è.
Prese un libro che teneva aperto a una certa pagina e lesse: È RIFUGIATO
COLUI CHE, TEMENDO A RAGIONE D’ESSERE PERSEGUITATO PER MOTIVI DI RAZZA,
RELIGIONE, NAZIONALITÀ, APPARTENENZA AD UN CERTO GRUPPO SOCIALE, O PER LE
SUE OPINIONI POLITICHE...
che Farid non aveva, né aveva mai avuto. A parte che odiava i fanatici
religiosi. Questa era una cosa che non aveva capito: pareva che tutta
Abadan li odiasse, peggio del fumo negli occhi, però adesso stavano al
potere. Strano. Comunque. A lui piaceva suonare il piano. Non ci vedeva
niente di male. Ma il nuovo governo aveva chiuso il club. Effettivamente,
era un posto che nessun musulmano osservante avrebbe frequentato. E
infatti, i clienti erano tutti francesi. Ma la direzione era severissima,
e le regole venivano fatte rispettare da buttafuori piuttosto energici:
i clienti, in sala, potevano ballare e bere con le ragazze, tutto il resto
avveniva nelle stanze sopra il locale, i clienti non dovevano neanche
provare a baciare le ragazze in pubblico, assolutamente, quello era un
locale decente. I clienti erano avvertiti all’ingresso, ché in un Paese
31
musulmano è lecito aspettarsi un minimo di decoro. Chi non ci sta, si
trovi fuori,
continuò l’impiegato, mi sta seguendo? ...SI TROVI
PAESE DI CUI È CITTADINO E NON POSSA,
VIA DI QUESTO TIMORE...
QUESTE COSE, DAL
FUORI, PER VIA DI
O NON VOGLIA, PER
che succedesse qualcosa a Rania. O peggio, che le portassero via
Assam. Il club, lo avevano chiuso. Le autorità islamiche di Abadan,
dopo la Rivoluzione khomeinista, avevano chiuso tutti i bistrò, i
locali da ballo, i casinò, i night club dai nomi francesi. Era il 1979.
La musica, ad eccezione di quella classica o religiosa, fu messa fuori
legge, spingendo persino gli esecutori di musica persiana tradizionale
a eseguirla di nascosto o all’estero. I musicisti venivano messi
sottosorveglianza dalla polizia religiosa. Se qualcuno protestava,
lo arrestavano. Metodicamente, i magistrati del nuovo governo
cominciarono a indagare nel passato di quanti avevano lavorato nei
jazz club di Abadan, trovando sempre qualcosa di deprecabile agli occhi
della morale islamica. Storie di droghe, alcolici, fornicazione, adulterio
– vere o presunte, non importava – e qualunque infrazione della legge
coranica erano tutti validi motivi di arresto, e i genitori si vedevano
portar via i figli. Anche le famiglie dei musicisti colpiti da una sentenza
di un tribunale religioso – la fatwa – correvano seri pericoli, tra cui
quello di essere linciati dai fanatici, che adesso avevano mano libera
nello sfogare la propria violenza,
in quelle parole, c’era violenza nelle parole dell’uomo. E paura. Disse
alla moglie: nostro figlio non deve più giocarci, con quella lì – parlava
di Assam – e lo disse perché tutti nel palazzo sapevano che Farid era
andato a parlare con l’impiegato, quello coi baffetti, e l’impiegato aveva
detto che Farid e Rania e Assam dovevano ritornare in Turchia. Erano
passati dalla Turchia per venire in Francia. Erano scappati da Abadan,
perché lui, Farid, non poteva permettere che accadesse nulla a Rania.
O che le portassero via Assam. Lei non glielo avrebbe mai perdonato.
Già il lavoro di lui al club non le piaceva troppo. Rania era molto
occidentalizzata, aveva studiato all’estero, e – come altre ragazze della
sua età – fino a prima della Rivoluzione, aveva sfidato le convenzioni
mostrandosi liberamente in pubblico senza il velo. Ma l’ambiente del
club dove suonava Farid, non le piaceva – anche se non c’era mai stata,
con quel che aveva sentito dire ce n’era d’avanzo – e Farid non poteva
permettere che il governo le togliesse Assam per via di quel lavoro.
Questo, Farid avrebbe voluto spiegare all’impiegato francese coi baffetti,
che continuava a leggere ad alta voce, come una litania,
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...NON
POSSA, O NON VOGLIA, PER VIA DI QUESTO TIMORE, AVVALERSI DELLA
PROTEZIONE DI QUESTO; È RIFUGIATO ANCHE COLUI CHE, NON AVENDO UNA
CITTADINANZA E TROVANDOSI FUORI DAL PAESE IN CUI AVEVA LA RESIDENZA
ABITUALE, NON POSSA O NON VOGLIA TORNARVI PER IL TIMORE DI CUI SOPRA.
Questo dice l’articolo 1, capisce? Farid capiva il francese e annuì, ma
non riusciva a intendere perché la Francia non potesse accoglierli.
Credeva che l’Europa li avrebbe salvati. E in effetti, una volta l’Europa
era diversa: prima di tutti quei rifugiati, quando i profughi politici
erano pochi, e non davano ancora fastidio. L’Europa era ospitale – non
perché fosse buona, ma perché aveva il complesso di colpa. L’Europa, si
diceva, dava asilo a quelli che fuggivano, amava i fuggiaschi. Ma era
un amore debole. Farid aveva caricato in macchina Rania e Assam, ed
erano rimbalzati fino al confine con la Turchia,
ché ad Assam piace far rimbalzare la palla, ma le piace di più se c’è
qualcuno a cui lanciare la palla che poi gliela rilancia, un altro bambino
come lei, possibilmente, i grandi non vanno bene per quello, Assam
è diventata grande abbastanza da sapere che si annoiano a giocare
a palla. A Marsiglia, Assam stava in un brutto palazzone di cemento
armato che ha otto piani con i panni stesi ad asciugare ai balconi e le
donne in pantofole e grembiule che li stendono e sono donne che hanno
pelli colorate: dal bianco al caffelatte e un po’ tutte le sfumature scure:
quelle pelli colorate migliorano l’estetica del palazzone ma resta un
brutto palazzone che però ha un cortile con un po’ di verde e i viali col
ghiaietto, e Assam correva nei viali col ghiaietto. Ma a volte il ghiaietto
s’infila nelle scarpe, e lì fa male. Così Assam era obbligata a fermarsi per
togliere i sassetti. Si sedeva per terra, slacciava la scarpa, la toglieva, la
scuoteva per levare i sassetti. Poi doveva rimettersi la scarpa, e allora
si ricordava di non saper allacciarsi le scarpe da sola. Di solito si faceva
aiutare da un bambino più grande che si chiama Samy. Ma i genitori di
Samy a un certo punto gli hanno detto che lui non doveva più parlare
con Assam, né giocare con lei, che non stava bene. Samy ha provato a
dire qualcosa e il padre l’ha fatto star zitto con uno schiaffo. Come se il
padre di Samy temesse di essere contaminato dalla sfortuna capitata
a Farid e Rania e Assam. Anche Samy e i suoi genitori erano profughi
iraniani, come molti di quelli che stavano nel brutto palazzone, e in
Iran se la polizia religiosa o una spia dei khomeinisti ti vedevano anche
solo parlare con qualcuno che stava per cadere in disgrazia, rischiavi di
brutto. Perciò il padre di Samy ha paura, perché tutti hanno saputo che
Farid e Rania e Assam devono ritornare in Turchia, nel campo di transito
che raccoglie tutti quelli che sono arrivati in Francia dalla Turchia e poi
li hanno rispediti indietro, salvo i perseguitati politici o i dipendenti delle
aziende francesi. L’impiegato coi baffetti ha detto a Farid che, poiché
lui e Assam e Rania sono passati dalla Turchia, devono rivolgere la
33
richiesta di immigrazione all’Ufficio Stranieri dell’ambasciata francese
in Turchia, richiesta di immigrazione, però, non di asilo. E Farid ha
gridato: perché, perché non posso avere asilo? Perché non ho lo status
di rifugiato? La mia famiglia era in pericolo! Non potevamo restare ad
Abadan! E l’impiegato di Marsiglia ha risposto: certo, ad Abadan non
potevate restare, ma voi eravate in pericolo laggiù, non in Turchia. In
Turchia, non correvate alcun rischio. Quando al palazzone si è saputo che
l’impiegato coi baffetti aveva detto questo a Farid, un muro di silenzio
ha circondato lui e Rania e Assam. Nessuno ha più voluto parlare con
loro. Avevano paura,
come Rania mentre lo succhiava ai tre ciccioni turchi mentre l’altro,
quello con la telecamera, rideva come un pazzo. Rania l’aveva fatto solo
col marito, fino ad allora. I turchi erano molto eccitati e temeva che le
facessero male. Vollero scoparla, tutti, anche i francesi e quello con la
bandana, a cui piaceva strizzarle i capezzoli e farla gridare, mentre gli
altri sghignazzavano. Ma Rania aveva bisogno del pezzo di carta con
le firme e i timbri. Da Marsiglia, lei e Farid e Assam, erano rimbalzati
in Turchia: scaricati nel porto di Bodrum. Agenti della polizia turca li
avevano scortati al campo di transito. Avevano sessanta giorni di tempo
per ottenere legalmente l’ingresso in Francia, presentando una richiesta
alla delegazione a Bodrum dell’ambasciata francese di Ankara: altrimenti
li avrebbero rimpatriati in Iran, definitivamente, e ovviamente laggiù
sarebbe accaduto loro qualcosa di terribile, c’erano voci di intere famiglie
lapidate o uccise in altri modi spaventosi. La prima richiesta fu respinta.
Ci dispiace, ma non avete i requisiti necessari eccetera. Presentarono
una revisione della richiesta. Ci vorrà tempo, disse l’impiegata della
delegazione francese, e i giorni intanto passavano. Ma Rania sapeva
che c’era una vecchia lì al campo, una specie di mezzana, che poteva
dar loro una mano, purché lei facesse un certo servizio, sicuro. Così
andò dalla vecchia, una ruffiana turca di settant’anni tutta ingioiellata
a cui mancavano tre dita della mano sinistra, e quella combinò un
incontro con un tizio coi baffetti dell’ambasciata francese, che le disse
che si poteva trovare il modo di fornire dei visti a lei e a tutta la sua
famiglia, Rania doveva solo andare su una barca, ballare e far vedere
il culo. Il resto, non le torna in mente, forse non vuole. Le hanno fatto
bere del vino, e lei non è abituata – da brava moglie musulmana – e
forse nel vino le avevano messo qualcosa, così che non ricorda granché,
solo qualche spezzone di immagine, e la mattina dopo in una doccia con
un’emorragia rettale e i capelli sporchi di sperma. Era sullo yacht, e sul
tavolo della cabina c’era del succo d’arancia e una brioche glassata, e
della frutta. Sotto una curva della caraffa di succo d’arancia, il pallido
e rassicurante verde vomito dei soldi. E i documenti che le servivano,
firmati e timbrati. Almeno, avevano rispettato l’accordo. Rania prende
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un taxi e torna da Farid, che quando la vede inizia a dire una parola. Ma
lei lo mette zitto: qualunque schifo possa sentire tu, quello che sento io
è cento volte tanto, dice. Lei ha l’innocenza attribuitale dal martirio, lei
può dimenticarsi di tutto in questo momento, così gli ordina di tacere. E
di baciarla, perché vuole sentire addosso le labbra di Farid. La bambina
dorme, dice lui, prima di smarrirsi nella bocca di Rania, la bambina
non riusciva a dormire stanotte, dice Farid, è rimasta in piedi finché
non è crollata, ora dorme. Bene, dice Rania, visto che la bimba dorme,
portami in camera, adesso, e fai l’amore con me. Farid fa l’amore con
lei, ovviamente: un amore amaro, silenzioso e dolente. Anche mentre lo
fanno, Rania continua a ripetere: fai l’amore con me,
che forse un giorno anche Assam lo dirà a qualcuno, a un uomo: fai
l’amore con me. Assam vive in Francia, con Rania e Farid, a Marsiglia,
che è un porto sul Mediterraneo. Con i moli e le navi, e gente che va
e che viene. Per adesso, non chiede cose del genere. Ha anche smesso
di chiedere ad altri bambini di giocare con lei, dopo che Samy non le
ha più allacciato le scarpe, perché il padre di Samy – poco prima che
la rispedissero in Turchia – gli ha detto che non deve giocare con lei.
Quando sono sbarcati in Francia, per la seconda volta, avevano tutte le
carte a posto, coi timbri e le firme. Assam non gioca più.
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Piersandro Pallavicini
Per anni e anni il genere cosiddetto “rosa” è stato odiato e aborrito. E per
forza: vi corrispondevano le melense sciocchezze romantiche a base di sesso
non detto e sentimento sbrodolato delle collezioni Harmony, o delle Liala, o
delle (appena più sopportabili) Brunella Gasperini. Stucchevolezza e moralismo
rendevano il genere insopportabile. L’iconografia di copertina rispondeva di
conseguenza: ritratti iperrealistici da Domenica del Corriere con giovani donne
munite di sguardo sofferente e semmai abbracciate – pur vestitissime – a
giovani uomini virilmente baffuti, magari in uniforme, e anch’essi con ombre
miste di estasi e malinconia ad attraversargli lo sguardo. Da quelle copertine,
dallo loro grafica dimessa e intrisa di un reale ordinario e pieno di retorica,
si era avvisati: tenetevi lontano, oppure sappiate che state per sporcarvi di
caramello, e sappiate che i vostri occhi si inumidiranno in un fiat, e un groppo
vi salirà in gola. Già iconograficamente, dunque, il romanticismo stucchevole
era eletto a genere.
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Shag: A proposed Calypso Party
IL VOLTO DEL
NUOVO ROSA
Guardate la copertina di I love shopping (Sophie Kinsella, in Italia edito da
Mondadori). E guardate pure quelle dei sequel I love shopping in New York, e
in bianco, e con mia sorella: la grafica è lontana dal realismo, parte piuttosto
dal fumetto, o dalla sua versione animata. I colori sono piatti e vivi (vivaci ma
morbidi, come diresti della texture di un cachemire) e le forme stilizzate, ed
emana un senso di soavità, di lusso, di spensieratezza, di allegria, e – sia pur in
modo sottile e sotterraneo – la flessuosità delle figure ha un che di sexy. Bene, I
love shopping è uno dei capostipiti del nuovo rosa. Certamente va citato insieme
al solito Diario di Bridget Jones (e sequel), per dire dell’area in cui questo “nuovo
genere” si muove, e poi si può portare ad esempio una piccola costellazione di
romanzi, come quelli di India Knight, o quelli di John O’Farrell… Ma la Kinsella
con i suoi amati shopping fa scuola: per contenuto e iconografia. Il nuovo
rosa, a differenza del vecchio, anche nella narrazione è adorabile: diminuisce
il peso del sentimento e innalza quello della spensieratezza, della bellezza,
della carineria e della “stupidineria”, in parte anche quello del lusso, senz’altro
quello della “coolness”, senz’altro quello del pop. Per tornare alla faccia con cui
questo new pink si presenta, alle copertine: I love shopping è un caso isolato?
Se si getta un’occhiata panoramica agli scaffali che, in libreria, raccolgono (pur
sotto le denominazioni più bizzarre: la più assurda, vista, è “libri per donne”) i
testi appartenenti in varia misura al nuovo rosa, ci si accorge che una grafica
come quella vista sulle copertine della Kinsella è in realtà, per questo genere,
marchio di fabbrica, o meglio ancora dichiarazione d’intenti, di stile, e per dirla
grossa di “poetica”. Proviamo, di questa ricetta grafica, a cercare non il gusto
che si prova ad assaggiarla, ma gli ingredienti: c’è dentro qualcosa di tipicamente
british, poi qualcosa che evoca l’illustrazione anni sessanta e cinquanta, dettagli
che richiamano a generici “tempi andati ed eleganti”, poi qualcosa che indica
comfort e calore (lo spropositato uso di dolcevita stilizzati, può essere?),
qualcosa che indica giovinezza, benessere fisico, una certa componente di
allegria (anche solo i colori…), una certa componente di alcoolicità, e nelle
forme, qualcosa che richiama le curve futuribili dei cartoon alla Pronipoti, e
cioè la bellezza e la sicurezza della tecnica e del design. Insomma: qualcosa
che inizia a generare nel lettore tranquilla allegria e piacere prima ancora che
il testo sia iniziato – così come, sui vecchi Harmony, sopracciglia corrugate e
volti emaciati generavano subito struggimento e malinconia. Bene, se avete
una certa abitudine con i superstore musicali, vi sarete accorti che questa è
la grafica che caratterizza molte copertine di musica Lounge. In particolare,
guardate cosa disegna Shag, considerato il graphic-guru della Lounge: guardate
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i suoi libri illustrati (sono guide per la preparazione di cocktail, o per la riuscita
perfetta di un Bachelor Party), i suoi flyer, o – restando appunto alla musica
– i lavori fatti per Ursula1000. Morbidezza, eleganza sexy, flessuosità, fifities e
seventies, pronipoti e pantere rosa… Ma non è certo un caso: per la musica,
il genere Lounge rappresenta esattamente il rosa. Musica nostalgica di ciò
che di cool e pop e modaiolo sono stati gli anni ’50 e ’60, musica che si nutre
di frivolezza, di soavità, di leggerezza e di eleganza, musica che predispone
l’animo al divertimento sofisticato, musica sexy ma spiritosa. A quell’impatto
grafico, all’uso degli stessi ingredienti – e alla generazione dunque dello stesso
“gusto” all’assaggio visivo – corrisponde un contenuto che ha le medesime
carattersitiche del rosa narrativo. Questo porta con sé un’interessante
possibile considerazione: la stessa ricetta grafica è stata cucinata altrove, in
altri tempi, in altri luoghi e per altre pietanze? Ed è stata servita sempre con le
stesse intenzioni, e cioè quelle di invogliare/predisporre l’utente alla fruizione
di un prodotto leggero, soave frivolo etc?
Se tracce di quella grafica si trovano sulle copertine di musica jazz anni
’60… se, anche, tracce si possono vedere su periodici d’intrattenimento
familiare con pretesa di “eleganza” (si va dalle illustrazioni de La Cucina Italiana
ai Quesiti con La Susi dentro alla Settimana Enigmistica)… se sono riscontrabili
nel leggendario cartoon di apertura del film in cui Sellers disputava a Niven un
diamante chiamato Pantera Rosa… una grafica al 100% pink e lounge la si trova
su libri che – almeno in Italia – si pubblicavano negli anni ’50 e ’60: erano quelli
di Carlo Manzoni e quelli di P.G. Wodehouse. Libri comici e non rosa? Comici
sì, ma non era solo questioni di risate. Di nuovo, l’iconografia corrispondeva
al contenuto. Manzoni, Wodehouse: entrambi faranno anche ridere, ma sono
la soavità, la stupindineria, la spensieratezza, l’ambientazione stralunata e
lussuosa, il sesso non esplicito ma presente tra le righe a rendere questi due
autori irresistibili… e dunque totalmente rosa. Bene: Wodehouse e Manzoni,
nella loro produzione, in parte precedono e in parte sono contemporanei
a Liala o alla Gasperini, e di sicuro vengono prima di qualsiasi Harmony o
Danielle Steel. Ecco allora un dato interessante: il “nuovo rosa” probabilmente
nuovo non lo è affatto. Semplicemente è un “altro rosa”. Tornato a galla dopo
decenni di polpettoni romantici che l’hanno nascosto, monopolizzando il
genere e facendo diventare l’allegra etichetta pink un’infamante insulto che fa
pensare ai fotoromanzi.
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Roberto Rivetti
I CINQUANTA SECONDI
PSICHEDELICI DI NICOLA DI BARI
Roberto Rivetti
Nato nel 1965.
Fa parte della redazione
di Maltese Narrazioni
dal 1991.
Vive ad Acqui dove lavora
come enotecnico.
Fa freddo.
In questa casa fa freddo. Perché è vecchia. È isolata da tutto, è una
casa di campagna. Perché è piena di spifferi, sibili taglienti che arrivano
dove sei più sensibile. Perché sotto il pavimento c’è una stanza vuota e
da sotto il freddo attraverso i piedi arriva dappertutto.
Fa freddo soprattutto perché il riscaldamento costa e l’inverno è lungo.
Basta muoversi però, fare qualcosa. O resistere. O avvicinarsi alla
manopola del termostato e girarla un po’.
Sembra quasi di sentire in lontananza il Floum della fiamma della
caldaia, vedere l’esplosione di colore rosso-azzurrognolo. In pochi secondi inizia il gocciolio dei termosifoni da sfiatare, mi sento come se stesse
cambiando la mia vita e posso iniziare a preparare la cena per Marina,
che sta per arrivare.
E la prima cosa da fare è accendere lo stereo, cercare un cd, alzare il
volume tanto da coprire il rumore dell’acqua che scorre nel lavandino
dove devo ancora lavare i piatti di una settimana. Mentre lavo i piatti
inizio a pensare, ai pesci in frigo da pulire e mettere in forno, e a Marina, che starà preparandosi a uscire dal lavoro, a salire sul bus e poi sul
treno, a viaggiare mettendoci un’ora e mezza per meno di sessanta chilometri, ad arrivare in stazione passando dai primi giorni di primavera
di Genova agli ultimi d’inverno di Acqui girando il volante gelato della
sua macchina ferma in stazione dalla mattina.
In definitiva sono partito per tempo, ho almeno tre ore per fare tutto,
dare una scopata in terra e una pulita in bagno, lavare i piatti e infornare il pesce.
Apro l’acqua calda, metto il detersivo. Il cd scelto per questa operazione è Otis Redding: Dictionary of Soul. Inizio dalle posate e i bicchieri.
Immergo i piatti.
Sono arrivato all’esplosione di Try a little tenderness, nel momento in
cui cambia velocità quando suona il telefono.
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Le caselle che stavo mentalmente riempiendo tremolano. Le maniche
che avevo tirato su finiscono immerse tra le bolle di sapone. Bestemmiando cerco di pulirmi con uno strofinaccio, asciugandomi le mani.
Sì?
Sono Marco.
Babbucchione!
Allora?
Stavo facendo qualche lavoro in casa, stasera viene Marina.
Marrrinna?
Mollala.
Era ora che ti decidessi.
Quarda che era lei a doversi decidere.
Be’, se viene a cena a casa tua una decisione l’ha presa, mica viene per
poi andarsene o lasciare in sospeso qualcosa.
È per quello che sto pulendo.
Era ora che dessi una pulita, soprattutto in bagno.
Sì, beh, dimmi tutto.
Sono venuto a trovare la fidanzata ma vuole studiare per un po’, e siccome non ho niente da fare posso venire da te? Una mezzora, non di più.
Un ora al massimo.
Avete litigato.
È una domanda?
Avete litigato? Questa è una domanda.
Guarda che io e la mia fidanzata mica passiamo il tempo a litigare.
La tua fidanzata mi odia.
Non è vero.
Pensa che io abbia una cattiva influenza su di te.
Non è vero.
Pensa che parli male di lei
Non è vero.
Pensa che io e te parliamo male di lei, insieme, e la prendiamo in
giro.
Ti dico di no.
Secondo me ha una cattiva influenza su di te, invece.
Non è vero.
Vabbè, ne parliamo quando arrivi, ma fai presto che poi ho da fare.
Ti do una mano anch’io.
Così ci metto il doppio.
Però la mia fidanzata un po’ di ragione ce l’ha.
In cosa?
A odiarti.
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A questo punto nei fumetti apparirebbe una nuvoletta sopra di me con
una fila di pallini tra la mia testa e la nuvola, con dentro scritto… NO.
Non hai tempo. Devi pulire. Devi lavare. Devi cucinare. No
Ti aspetto allora. Sbrigati.
Finisco di lavare i piatti prima che arrivi il babbucchione e tolgo Otis
dal lettore prima che mi venga contestato. L’abbaiare del cane anticipa
il ronzio del campanello. Apro il cancello e esco sul terrazzo a controllare
che Ciccio non si mangi Marco giù in cortile. Ha appena comprato una
Renault Laguna station wagon, macchina che ormai hanno solo più i
muratori marocchini e i campagnoli che guidano con il cappello in testa,
poi gli apro la porta.
Entra e senza nemmeno salutarmi si siede sul divano, prende una
rivista e inizia a sbriciolare il fumo per farsi una canna.
Hai un biglietto da visita?
Guarda che ci conosciamo da un po’.
Mi serve per il filtro.
Gli cerco un biglietto da visita prima che mi strappi la copertina di
qualche fumetto o di qualche cd cartonato.
Anche un biglietto del treno va bene.
Ma se saranno dieci anni che non prendo un treno.
Gli do un biglietto da visita che mi ha lasciato in casa uno che era una
via di mezzo tra un testimone di geova e un ex-tossico diventato rieducatore in una comunità di recupero. Lo guarda attentamente, forse pensa
all’influenza spirituale che potrebbe avere sul trombone, poi ne strappa
una strisciolina e l’arrotola.
Metti un po’ di musica?
Ti faccio sentire una cosa.
No, dai, metti un bel disco.
Preparo il solito disco che tutte le volte mi tocca ascoltare con Marco,
quello che preferisce per entrare nel suo magico mondo. Inizia a crescere la voce lontana e appena la chitarra inizia il suo alternarsi, mentre
la voce si arrocchisce e la batteria scandisce il suo ritmo, sul divano si
allarga un sorriso beato.
1988. Bei tempi. Sembrava il punto di partenza di un’esplosione musicale
e invece in pochi mesi, flop. Si sono sciolti e nessuno è più riuscito a raggiungere le stesse cime, l’equilibrio tra i riff di chitarra e i vocalizzi estremi.
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Bè, dai, i dischi di Morrisey non sono male.
Vabbé…però gli Smiths…
Se penso che all’epoca ero affascinato dalle chitarre di Johnny Marr
pensando che fosse un fenomeno, perfetto costruttore di strutture taglienti
e lucenti come brillanti. E invece le uniche cose decenti le ha fatte l’altro.
Marco mi guarda come se fossi io quello che stava fumando. Ha lo
sguardo interrogativo solito di quando non trova un posacenere e la cenere della sigaretta si allunga pericolosamente iniziando a piegare verso il pavimento. Gli passo il posacenere e ci svuota la mano con cui ha
arginato l’emergenza, poi si pulisce su un cuscino.
Sono un po’ teso per l’appuntamento, non ci sono più abituato.
Perché, prima ci eri abituato?
Non fare lo stronzo, dai.
Comunque se si è invitata a cena a casa tua è perché ha deciso di concludere.
Dici?
Anche perché se aspettava te…
Più che stare in silenzio non posso.
Hai già pensato alla musica da mettere?
Qualcosa troverò li in mezzo.
Certo che dischi ce ne sono. Quanti saranno?
Boh, un migliaio, forse millecinque.
La musica è importante, cerca di non esagerare come al solito.
Sam Cooke?
Troppo vecchio. E troppo esplicito.
Marvin Gaye… o forse Tim Buckley.
Ma dai su, qualcosa di più moderno.
Terence Trent D’Arby? Fine Young Cannibals?
Non hai il fisico, dovresti ballare ed è meglio di no, almeno all’inizio.
Non hai qualche cd italiano, canzoni d’amore…
Tenco?
Ma un disco di qualcuno vivo non ce l’hai?
Battiato?
Troppo cerebrale.
Oh, non so proprio cosa cercare, e poi nemmeno credo sia così importante. Sono già teso, continuo a non fare i lavori che dovrei fare e tu non
mi sei di nessun aiuto.
Suona il telefonino di Marco. Da come risponde è la sua fidanzata.
Finisce di fumare la canna mentre risponde e sbuffa fumo da un lato,
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nelle pause, cercando di non farle capire che sta fumando. Conclude con
un “Sì, dai, adesso arrivo. No, è importante. Va bene, va bene. Arrivo”.
Fa gli ultimi due tiri e spegne la cicca. Vuota il posacenere nel sacchetto della spazzatura e scrolla il sacco per far scendere le prove del
suo reato.
Forse in macchina ho qualcosa per te, l’ho preso in autogrill mentre
tornavo da Milano.
Torna dopo aver fatto abbaiare il cane con un cd in mano. Lo guardo
come se fosse appestato, lui e il cd. I grandi successi originali di Nicola
di Bari. Doppio cd.
Ascoltalo, io vado. E, mi raccomando, concentrato.
Riprendo i miei lavori di casa in cui non ho avuto collaborazione, pulisco il bagno e la camera, cambio le lenzuola. Il tempo vola, comunque
e in un attimo arriva l’ora fatidica, mi telefona che è quasi in stazione e
mi preparo ad infornare il pesce.
Mentre cresce l’ansia mi ricordo del cd. Guardo i titoli, beh, molte
canzoni dai titoli le conosco, mi ricordano quando da piccolo le sentivo
in macchina con i miei genitori sulla strada per il mare. Vedo che ci sono
ben sei cover di Tenco, vuol dire che alla fine i suoi gusti non sono così
male.
Decido di ascoltarlo.
Il bello è che è facilissimo capire come finiscono le frasi, rime semplici o
forse classici fissati nella memoria. Già l’inizio è fulminante, Vagabondo.
Ascolto altre canzoni. Arrivo alla quinta, Un uomo molte cose non le sa,
titolo profetico, evidentemente.
Inizia lentamente, con un organo da chiesa, poi la voce tremolante accompagnata dalle chitarre acustiche. Continua a cantare tristemente in
un crescendo accompagnato dall’orchestra assumendo quasi significati
religiosi, poi si ferma. Dopo un minuto e quarantotto deflagra la psichedelia più estrema per una cinquantina di inestimabili secondi. Una
folgorazione. Estremo. Poi ritorna al tema e conclude …un uomo molte
cose non le sa/le inventa ma è diversa la realtà/ma io che spero sempre
son sicuro che/ che dietro a quei ricordi il sole c’è/ il sole c’é.
Il cane abbaia.
Abbasso la musica.
Suona il campanello
Apro il cancello, esco sul terrazzo ad accogliere Marina e a guardare
che il cane non la assalga. Vedo che socializzano, il che è abbastanza
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strano visto che è la prima volta che la vede, sono un po’ invidioso delle
coccole che si prende Ciccio.
Prima di aprire la portami mi tolgo il grembiule da cucina.
Apro.
Non faccio in tempo a parlare, mi guarda dritto negli occhi, poi mi
abbraccia forte e mi bacia.
Nicola canta Così ti amo (To love somebody).
W W W . VA R K J O V I C H . C O M
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Simone Marcuzzi
IL BAMBÙ DEL VENERDÌ MATTINA
Simone Marcuzzi
è nato nel 1981 a Pordenone.
Dal 2000 è iscritto alla
Facoltà di Ingegneria
Meccanica dell’Università
di Padova.
Collabora con le riviste
on line Ellittico
(www.ellittico.org)
e FaM – Frenulo a Mano
(www.famlibri.it).
È tra i curatori dello spazio
Ombelicale all’interno di
www.pordenonelegge.it.
È lunedì: Annarita ricalca perfettamente l’immagine della Vergine
Maria che mi costruivo ogni sera da piccolo, quando prima del sonno
recitavo con diligenza due Padre Nostro e due Ave Maria. Bionda, pelle
da neonata, aura protettrice screziata di lavanda.
Mi sporgo a copiare i suoi appunti, un’informazione di seconda mano,
dal professore a lei, da lei a me. Per avvicinarmi senza sospetto sfrutto
la scusa-Matteo, che mi siede davanti col suo metro e novantotto oscurandomi l’intera lavagna. Cerco di rubarle di volta in volta un dettaglio
microscopico, rilevante nella sua purezza: l’onda perfetta delle guance
tra orecchie e naso; un piccolo neo alla base del collo – scorto durante
una calcolata sistemazione del colletto; l’odore della traspirazione cutanea nelle ore successive all’educazione fisica (timo, garofani e mandorli
in fiore).
– Posso?
– Certo, fai pure. Un attimo che finisco la frase.
– Grazie.
Controllo disinteressato qualche parola sparsa tra le righe, più che
altro ne ammiro la calligrafia, rotolante, aggraziata. Mi raddrizzo sul
posto, come se di colpo fosse cessato l’alito di vento che mi piegava di
lato, scrivo un paio di frasi (diverse da quelle lette) in una via di mezzo
di corsivo e stampatello, a tratti la spio con la coda dell’occhio, a tratti
fisso malinconico la trama della camicia di Matteo.
Quando suona la campana non cerco di seguirla e intavolare una discussione appassionata, non ne sarei capace. Le ragazze hanno i loro
argomenti, e pur conoscendoli non possiedo idee mie a riguardo. Niente
teorie rivoluzionarie su cosmetici e real-tv, niente contributi scientifici
su alta moda e musica giovanile, nessuna capacità di sciorinare intrepide battute allusive o velatamente sfacciate.
Mi accodo al gruppo, la sento ridere alzando la bocca al cielo, vedo i
fianchi flottare a destra e sinistra e le mani mimare ogni affermazione,
quasi ad aumentarne la portata, allargarne il campo di validità, ma
sono estraneo, chiuso in un’area protetta tutta mia.
Salgo in corriera, lei è su un’altra. Le do l’ultimo saluto a distanza (un
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bacio ottocentesco sulla guancia destra con leggera strizzata della pelle
di un fianco), poi mi richiudo nella più totale desolazione esistenziale.
Estraggo dallo zaino il foglio accartocciato che Annarita ha compilato
oggi nell’ora di italiano, lo apro, studio con attenzione i soliti, spietati,
paralleli CompagnoDiClasse - AnimaleEsotico. Le vittime sono casuali,
ci sono passati già tutti un paio di volte, tranne me, che sono compagno
di banco e involontario (ma in qualche misura orgoglioso) complice.
Di solito scrive durante le interrogazioni, in piccolo, su un foglio piegato in otto se non sedici parti: scruta tutt’attorno mangiucchiando
un’estremità della penna, le palpebre a mezza altezza, nel tentativo di
concentrare la capacità visiva a un’area d’azione ridotta e quindi più
potente e penetrante, fino all’improvviso guizzo, la veloce stesura di
fitte righe dense di particolari (epidermidi squamate, pronunce feline,
volti scimmieschi, sederi pachidermici) e una ridacchiata compiacente
durante la rilettura. Poi arriva il mio turno: mi passa il foglio furtiva
e ansiosa. Lo leggo e, indipendentemente da quello che effettivamente
penso, le scrivo le parole più belle e lodevoli che mi vengono in mente
per sottolinearne l’acume e lo spirito d’osservazione. Questa è l’unica
forma di lettera d’amore che mi sono finora permesso di scriverle, un
commento entusiastico e partecipe ai suoi infantili giochetti.
Chissà che ruolo avrei io nel suo zoo personale, penso richiudendo il
foglietto e arroccandomi alla meglio nel mio sedile, le ginocchia puntate
sullo schienale davanti al mio, non è mai stata così sfacciata da rivelarmelo, sarebbe abusare troppo, ance per una persona innocua come me.
Lo posso ben immaginare, in ogni caso: il panda, è chiaro. Indifferente di fronte all’estinzione della mia specie, seduto in quella goffa posa
che ricorda un bebé impacciato, a occuparmi con vaga precisione di uno
spuntino a base di croccante bambù. Ogni mia azione fa parte di un
meticoloso rituale, quasi sacerdotale, di normalità. Ciò che teorizzo nell’ombra è l’eliminazione della Sorpresa come salvaguardia dell’essere.
Come posso abbattere queste difficoltà e trovare il coraggio di dichiararmi? Come posso superare gli annosi problemi di trapasso generazionale e presa di coscienza della realtà?
Annarita ha un difetto, ed è questo che la rende diversa dalla Vergine
Maria. Più che un difetto io lo recepisco, lo vivo, come un incubo, che si
ripropone ogni venerdì mattina puntuale come la corriera da Azzano
Decimo, dove vive.
Dal lunedì al giovedì, la baraonda di sensazioni che Annarita mi procura si infittisce, diventa un frutto quasi palpabile, solido. Lo sento
sbocciare nel petto, maturare poco a poco, distendere le proprie radici
lungo il corpo come un secondo sistema nervoso, conferirmi nuova forza
e sostegno. Comodo nel mio pigiama da detenuto a righe bianche e blu
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mi aggrappo al cuscino, lo accarezzo, lo esploro da cima a fondo, variando l’intensità del tocco (da dure pressioni da metalmeccanico a dolci carezze da pianista), mi esercito in baci appassionati dosando salivazione
e penetrazione della lingua.
Nelle notti del giovedì mi permetto addirittura di sognare: all’improvviso, l’inerte ammasso di piume foderato acquisisce un metabolismo
proprio, sviluppa arti, fianchi, capacità motorie, e infine ricambia i miei
baci impacciati (non serve nemmeno che mi concentri sulla respirazione
e il senso di rotazione, tutto è spontaneo, perfetto!).
Poi, impietoso, arriva il venerdì, mai una sorpresa nel matematico
incedere della settimana.
Solitamente siedo in classe, gli occhi fissi verso l’esterno (un paesaggio
reso opaco e inespressivo dalle macchie irregolari sui vetri), senza il coraggio di controllare il suo arrivo: fingo di interessarmi alle dinamiche
del giardino, in totale quattro pioppi buttati là a fare ombra al parcheggio dei professori.
Improvvisamente (uno spavento gelido anche se calcolato; forse, gelido perché calcolato), il tonfo dello zaino in terra, lo stridore della sedia
tirata indietro e il saluto acuto. Mi giro chinato verso il basso, le pupille
a seguire gli spigoli dei banchi e i tetri aloni del pavimento, per controllare l’unico particolare rilevante, prima di incrociarne lo sguardo: ed
eccolo, diligente come un chierichetto alle prime funzioni, lo sciagurato
completo giacca e pantalone color verde pisello in fibra sintetica.
Il completo giacca e pantalone color verde pisello in fibra sintetica
(bisogna sempre chiamarlo per intero, ho stabilito fin dal primo incontro. Dire solo completo in fibra sintetica, o completo giacca e pantalone,
o completo verde pisello, sarebbe limitante e scorretto. Le cose vanno
chiamate con il loro nome, soprattutto se terribili) mi fa compagnia anche al sabato, ma è il venerdì il giorno della rivelazione. Il sabato è una
conseguenza. È impensabile che Annarita indossi il completo giacca e
pantalone color verde pisello in fibra sintetica al venerdì e poi al sabato
se ne venga fuori con un paio di jeans slavati e una discinta t-shirt da
cui si affaccia curioso un occhietto ombelicale.
Tutte le fantasie accumulate in quattro giorni e messe a fuoco in
una scintillante notte di eccessi si sono regolarmente polverizzate in un
acido ritorno alla realtà, ottenuto con una sciocca rotazione della testa
(così discreta!, così rispettosa!) simile al gesto di un bimbo che segue
interessato la corsa delle auto da un ponte sopraelevato.
È giovedì. Non riesco a stare tranquillo. Non ho raccolto nessun nuovo
dettaglio, negli ultimi due giorni, se possibile la mia intraprendenza
è ulteriormente diminuita. Sono tormentato dal presagio del completo
giacca e pantalone color verde pisello in fibra sintetica.
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– Scusami ancora, cosa ha detto?
– Ah, leggi pure, non so da dove ti manca.
– Grazie, grazie tante.
Usciamo. Tiene lo zaino su un’unica spalla, è molto allegra. La osservo
da dietro, provo a isolare il rumore della ghiaia che sposta con i leggeri
passi da danzatrice in mezzo allo spostamento globale di ghiaia, come a
cercare un suono più armonioso, delicato.
Salgo in corriera, la saluto telepaticamente e infine mi chiudo in me
stesso, nella consueta, perfetta, liturgia di pandità programmatica.
La tecnologia è l’ancora di salvezza degli imbecilli, bisogna dire le cose
come stanno.
Chi mai si affiderebbe a una conoscenza on-line potendo vagliare dal
vero la materia prima? Chi mai si abbandonerebbe alle moine telematiche se potesse annusare e saggiare carne e fiato? Perché mettere alla
prova capacità interpretative e critiche con messaggi folti di x, k, punti
di domanda ed esclamativi, senza apostrofi e accenti quando si potrebbe
dar sfoggio di eloquenza e tatto, cavalleria e sorrisi?
Insomma, la tecnologia è la mia ancora di salvezza. Senza di lei, sarei
perduto. È grazie a questa stupida presa di coscienza, che mi si rivolta
nel cervello come una rivelazione biblica, che ho il coraggio, sotto le coperte, di rivolgermi nuovamente alla Vergine Maria.
Rispetto a dodici anni fa non tengo più le mani giunte, polpastrello
contro polpastrello, ma impugno deciso un cellulare, cerco una simbiosi
coi tasti di plastica. Sono tutto nello schermo arancione, ogni altra superficie solida in camera (scrivania, armadio, scaffale) è ridotta a sfondo
indistinto, panorama.
Mi dichiaro ad Annarita in trentacinque minuti di esplosioni sinaptiche, 112 caratteri di incessante lavorio di corteccia (parole scritte per
intero, con apici ecc.), specificando di non rispondere subito ma invitandola a indossare qualcosa di diverso al mattino seguente (il venerdì)
come (eventuale) risposta affermativa.
Schiaccio INVIA, e mentre la bustina ondeggia sullo schermo sento il
cuore stantuffare colpi fitti e poderosi. Vuole far sentire nitidamente la
propria voce, superando il groviglio di ossa e muscoli del petto, quasi
a sottolineare il mio comportamento fuori dalla regola. Cosa significa
questa nuova intraprendenza? Questa sfacciataggine da ragazzaccio?
Almeno impara a inghiottire il fumo, prima! Batte e ribatte, come un
allarme interno che segnala la presenza di un virus.
Spengo luce, cellulare e palpebre, cerco di rilassarmi, ma il respiro
mi esce come un rantolo neanche avessi corso una gara di mezzofondo.
Quello che continua a riapparirmi davanti agli occhi (a nulla vale il tentativo di serrarli con più decisione, l’immagine è situata a un livello di
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coscienza superiore, non ha a che fare con la sfera sensoriale) è l’apparizione di Annarita nel primo venerdì mattina di mezza stagione.
Potrei elencare ogni minima sfumatura (l’occupazione di ciascuno dei
miei compagni presenti in aula, il perfetto limite dell’ombra dei pioppi
sul prato, la percentuale di umidità nell’aria) del momento preciso in
cui Annarita spalancò la porta con un movimento troppo secco (quasi
a togliersi subito il pensiero di un fatto grave, insostenibile) e esibì il
completo giacca e pantalone color verde pisello in fibra sintetica.
Quella mattina Annarita si districò abilmente tra gli spigoli dei banchi, sinuosa come un pianta grassa un po’ patita, e mi salutò con un
imbarazzo appena velato da un sorriso interrogativo. I capelli (una
folta chioma bionda che solitamente chiama a sé la vista e la riempie
generosamente in un abbaglio dorato) spuntavano come propaggini
marginali, detriti insignificanti del frutto prematuro che la infagottava e stringeva, e andavano a occupargli il cranio, avvolgendolo senza
cura come una parrucca clownesca troppo economica; le labbra (chiavistello che nasconde immensi tesori, unica parte emersa, visibile, di un
mondo sotterraneo che ambivo di esplorare da molte, languide notti)
parevano cipolle in mezzo ad aiuole di petunie, oggetti fuori posto, del
colore e della forma sbagliati; i fianchi (magica curva, tondeggiante
come una o a inizio parola, piena e feconda) mi costrinsero a elaborare
paragoni con ammassi incongrui di rifiuti fuori dai cassonetti, botti di
aceto imbrattate di polvere, macellai sudati che affettano costate di
maiale.
Riassumendo, quella mattina di marzo Annarita apparve ai miei occhi (ora sbarrati, incapaci di tornare a una posa naturale, umana) mal
ritratta e mal colorata, come un disegno di una bambina di cinque anni
che sperimenta le gioie dell’assurdo rendendo più spaventoso possibile
un misero foglio bianco.
Nella notte le ghiandole sudoripare si arrovellano e accaniscono attorno a quel ricordo gastrico, costringendomi a sonnellini di mezzora e
innalzando la mia temperatura interna in una sorta di stupida febbre
da attesa sentimentale. Niente sogni, nonostante sia giovedì: solo incubi
verde pisello.
Cosa succederebbe se un panda, sistemato in una zona specifica di
un parco in cui le guardie forestali gli fanno regolarmente trovare cibo
e in cui viene scaltramente spinto a dedicare attenzioni carnali a una
simile femmina – attenzioni che lui offre sornione a una piccola selva di
bambù, figuriamoci –, si rendesse conto del pericolo estinzione, e dovesse all’improvviso rispondere alla primordiale pulsione di sopravvivenza
della specie e riattivare i suoi comatosi coglioni?
Non ci voglio neanche pensare, sarebbe una storia troppo triste.
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Durante la mattina recito la solita parte: mi lavo i denti senza passarmi il filo interdentale, piscio due volte, non parlo in auto coi miei ma
auguro loro buona giornata prima di uscire. Entro in aula cercando di
figurarmi in testa (solo per trovare un’occupazione pratica e non avere
spazio intellettivo per altri pensieri) a un’ipotetica posa riproduttiva del
panda. Si montano come cani? Spargono il seme a casaccio come pesci?
Si strusciano avidamente come vermi? Fanno un po’ tutto questo, come
umani?
Matteo è impegnato in una fulminea copiatura degli esercizi di inglese: con gli occhi fissa il quaderno di Silvio, con la mano destra traccia un’unica linea curva senza interruzioni, sul suo. L’ordine è un lusso
che non ci possiamo permettere, vuol dire. Sara interroga Marco per un
sondaggio del giornalino scolastico, Noi Del Quarto Anno, come vedo ha
titolato la sequenza di stupidaggini che espone con orgoglio (consigli per
migliorare l’orario? Gara di torte a fine anno? Miss e Mister Istituto?
Nuovi distributori automatici?). Qualcun altro disegna alla lavagna un
paesaggio lunare con il professore di matematica che pianta la bandiera
del Nepal, facendo stridere di tanto in tanto i gessetti. Altri discorrono
delle partite di Coppa UEFA, altri ancora spostano banchi e sedie alla
ricerca di disposizioni più furbe.
Rumori e brusii abituali, quotidiani, che stamattina non riesco però a
controllare, ignorare. Mi esplodono in testa, sono incapace di attribuirgli la giusta dignità, li carico eccessivamente di significato. Più cerco
di isolarmi nella mia tana a osservare i pioppi (che formano un quadrilatero con lati e angoli tutti diversi), più i ricettori disobbediscono e
catturano informazioni riproponendole tre volte più intense al cervello,
in un frastuono lisergico.
Controllo l’ora.
La corriera è in ritardo. Siedo inquieto, tengo un tempo forsennato con
il piede destra, con le mani batto fuori tempo sulle cosce.
Di colpo, ultima cosa che mi sarei aspettato dal mio organismo in
un momento del genere, sento le gambe muoversi, comandate non più
dal sistema nervoso centrale (incapace di gestire una mole eccessiva di
input), ma dall’organo pulsante che da piccolo insegnano essere grande
come il pugno, e che ora lavora all’impazzata.
Sono in piedi (mi vedo in piedi. Sono uno spettatore delle mie stesse
azioni: tutte involontarie, tutte inattese), aggiro Sara con uno slancio
secco che la ammutolisce e irrita, e mi avvento verso la porta, aperta ad
angolo acuto. Esco nel lungo corridoio, semideserto, e proseguo, senza
controllo, verso l’ingresso principale.
Rinuncio definitivamente alla normalità, al bambù del venerdì mattina, e questo mi sconforta ed eccita in ugual misura. Cosa può significare? Ogni dettaglio di quotidianità è sommerso in una brodaglia di
esasperazione e attesa.
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Le pareti mi appaiono a folate, come i vagoni di un intercity in piena
corsa, i colori sfilacciati e intrecciati come in una pessima imitazione di
quadro impressionista. Il respiro mi esce a piccoli fiotti bilici, la pelle è
avvolta in una gelatina di sudore, uno strato semifreddo di esalazione
corporea, i piedi continuano a rincorrersi seguendo un percorso vagamente rettilineo.
– Sarebbe fattibile una sfilata in costume o è troppo? Se è fattibile,
però, i maschi devono sfilare in mutande, voglio dire, niente boxer. Qui i
professori li lascerei stare, siete d’accordo? – mi sembra di udire dall’aula, ma non ne sono sicuro, forse è un’eco stereofonica che mi rimbomba
nella testa.
Punto sfacciato la soglia a vetri, seguito da quattro ombre a croce sul
pavimento, incurante dei richiami dei bidelli che mi ricordano l’ora tarda e l’imminente inizio delle lezioni, guidato da una volontà superiore.
E finalmente scorgo Annarita entrare, in testa al gruppo di ragazzi
della sua corriera, sfocata, liquida nelle lacrime che mi riempiono le
orbite, sorridente e divertita, in una cascata di colori caldi e ribollenti,
nella calma oceanica del primo mattino.
Sento le ginocchia sgretolarsi e gli occhi perdere ogni residua capacità
percettiva, smantellati senza pietà dal cuore che stantuffa nel mio petto. Un attimo prima di perdere i sensi e sbattere con violenza il cranio al
suolo (senza la possibilità di decifrare l’affettuoso labiale di Annarita),
ho il tempo di avvertire tutte le sensazioni, i tormenti e le impressioni,
tutti i sogni più dolci e le aspettative mai dichiarate: convergono in un
unico punto, si avvinghiano e si fondono in quell’unica verità, eterogenea e onnicomprensiva, che chiamiamo insiemisticamente Amore.
W W W . VA R K J O V I C H . C O M
55
Massimo
Novelli
LE PAROLE
DEL CALIFFO
All’inizio ci furono altre
canzoni, motivi non
memorabili se volete, che
però funzionavano, eccome se
funzionavano.
A risentirle adesso, è chiaro, fanno un
po’ ridere. E di qualcuna ricordo soltanto il titolo, per esempio quel Richiamo
d’amore dei Bisonti (almeno, credo fossero loro) che si poteva gettonare nei jukebox dei caffè di provincia e faceva sempre
il suo bravo colpo se accompagnata dagli
occhi stucchevoli quanto wafer mignon e
da una sigaretta tipo Turmac, Astor, Hb,
Winston, Muratti, anche Marlboro da
dieci, offerta con un gesto in teoria calmo e sicuro. Ma quello era appunto l’inizio, erano baci larghi e leggeri che alla
fine sapevano sempre di pomata contro
l’acne oppure di improbabili profumi
della fanciulla che stingevano caramella,
liquirizia, fiati di coca-cola, fumo freddo
e odore delle poltrone del cinema Doria
(a Torino). Comunque era un inizio lento,
proprio nel senso che di quelle canzonette interessava la capacità di ammorbidire
la ragazzetta per circa due minuti o due
minuti e mezzo, permettendoti, oltre
alla limonata necessaria e all’abbraccio
a singhiozzo, un gioco mica male di mani
sulla schiena di lei e, a volte, l’audace toccata in punti maggiormente desiderati.
Quell’inizio, in seguito, lo abbiamo perduto. Io l’ho perso all’improvviso, doveva
essere il 1969 o tutt’al più il 1970. Incombevano rivoluzioni che non sarebbero
mai venute e libretti rossi con eskimi orribili col senno di poi, e comitati di base,
Internazionali e Figli dell’officina, urlate di
gruppo e di corsa nelle strade inneggianti
a “casa, scuola, fabbrica e quartiere, la nostra lotta è per il potere”, con amplessi
e cose più serie, fisicamente, imprigionati
fra vestitini indiani e gonne a fiori lunghe
quanto la quaresima. E’ stato allora che
ho scoperto il trucco del Califfo, mentre
il tempo passava e la canzone sovversiva serviva ormai a niente per cuccare le
belle che intanto avevano smesso il flo-
reale e s’erano ritrovate a vestire come
Dio comanda. Non si parlava ancora di
riflusso e di nuove vecchie fesserie, però
una sera, forse in un piano bar sui Navigli in cui ero entrato con i primi soldi
guadagnati scrivendo palle sui giornali di
fotoromanzi, vidi un ex capoccia del movimento studentesco (o cosa diavolo era)
domandare al pianista, uno sottile, quasi
cartavetrato, di suonargli una roba di un
tale. Quello cominciò, la musica uscì di
velluto e le parole scritte da quel tizio,
quel Califano detto il Califfo, centrarono
al cuore e soprattutto altrove la bionda
matura che accompagnava il ganzo con
un’aria annoiata. Lei allora cambiò faccia,
gli sorrise, si fece zuccherosa e addirittura fatale come nei film americani. Immaginatevi il resto. Da quel giorno cambiai
colonna sonora e rimasi fedele al trucco
del Califfo, a quel suo sapere incatenare
qualsiasi donna (io dico qualsiasi, facciamo una scommessa?) facendole credere
che quel tale brano sia stato scritto appositamente per lei e per una determinata
situazione di una sera o di una notte.
Non c’era più l’adolescenza saporosa
di acne e di mentina, non si cercava più
il mare sotto il selciato della città, ma restavano le brune, le rosse, le platinate, le
lentigginose e le maschiette, le vogliose e
le riottose. Quelle non mancavano, per
fortuna, e quindi bisognava attrezzarsi. La
scoperta delle musiche del Califfo fu la
scoperta dell’unica reale memoria condivisa dalle donne d’ogni età e condizione.
Le canzoni del romanaccio con i ray-ban
scuri, che aveva giusta fama di duro e di seduttore della madonna, che non disdegnava la frequentazione della mala e di altre
scarsamente virtuose attrattive notturne,
mi regalarono una certezza in un mondo
frammentato d’incertezze: con lui, con le
sue musiche finite e le sue solitudini, i suoi
57
ultimi amici che vanno via e le sue autostrade delle vacanze, non sbagliavi neppure una volta. E dico, per capirci, che grazie
ai suoi pezzi, alla voce roca da cantante
confidenziale che ha fumato mille sigarette come il vecchio Fred Buscaglione, non
erravi nelle sere in cui riuscivi a portarti a
casa una signora o una signorina sensibili
a quello stormir di foglie.
Di esempi, di fatti da raccontare, ce ne
sarebbero tanti. E così di casistiche da analizzare: intendo la volta che feci ascoltare
E la chiamano estate (“questa estate senza te...”) a una severa donna di legge, che,
complice un whisky e un’atmosfera da cielo dei bar, mi giurò che d’ora in poi avrebbe assolto tutti gli imputati che sarebbero
comparsi dinnanzi a lei; e parlo della mora
intellettuale che, dopo avere sentito per
tre volte di fila Me ‘nnamoro de te (“sei l’urtima rimasta devi esse’ quella giusta...”), nel
farsi slacciare l’estremo bottone, mi soffiò
che il Califfo era il solo autentico poeta
dell’amore interclassista, amore amore
insomma, del Novecento. Per non tacere
delle giovanotte, persino straniere, che si
sono fatte amare e hanno amato in slanci
puri di tenerezza sulle note strappacuore,
e straripetute dal mio stereo, della Malinconia. E delle madame e madamine che,
all’ennesimo fruscio della Musica è finita,
hanno scordato il marito, l’amante, i figli e
il maestro di tennis.
Così il Califfo è diventato una parte
integrante della mia esistenza di amatore distratto e di avventuriero timido, un
refrain costante, un mezzo per essere e
per fingere, per aspirare di nuovo al profumo del mare che si può non sentire
più, capita, “perché non torni qui, vicino a
me”. Con lui, i suoi occhiali, le sue catene
d’oro da eterno ragazzo di borgata, ho
passato la famosa linea d’ombra, che separerebbe la gioventù dalla maturità, e
ho bruciato le navi ideologiche alle mie
spalle, comprensive del libretto di Mao e
delle canzoni dei Bisonti (ammesso che
fossero loro). Ma ho anche compreso
che se con il Califfo realizzi invariabilmente ciò che ti sei proposto di realizzare, naturalmente se si tratta di donne e
se sei capace di miscelare i suoi pezzi al
momento topico (che è un arte, ragazzi
miei), è perché nella sue musiche, nei suoi
testi di esemplare banale semplicità, riesci
a ritrovare delle intermittenze del cuore.
Altro che Proust! Queste sono quelle
sensazioni, quei ricordi, quei profumi, quei
magoni, quelle felicità o quelle tristezze
brevi, che tu e le tue compagne, occasionali o più durature, di una notte o di una
settimana oppure di una vita, ti portavi e
si portavano dentro magari senza saperlo
o riconoscerlo. Siano essi l’odore ancestrale delle poltrone del cinema Doria
(sempre a Torino) e della pomata rosacea
contro l’acne, l’ombra della figliola che ti
lasciò impietrito nell’atrio della stazione
di Brignole e il seno dolce di Gea S. in
un mattino già caldo del gusto pesante
di Palermo, quando dalla Vucciria filtravano le cantilene dei venditori e al Cassero
Morto stracciava l’aria la sirena di una
volante della polizia.
Il fatto è, come dice lui, che “me ‘nnamoro de te se non che vita è/ io qui sto rilassato
e chi se move/ fori fa’ pure freddo e come
piove...”.
Il fatto è che l’abbiamo sempre chiamata estate, sebbene a volte non fosse il
caso di farlo, “ricordando sempre te”. E
che, dopotutto, non abbiamo cessato di
cercare un’altra Gea S., un’altra C. un’altra F., nel giorno in cui ci siamo sposati e
abbiamo fatto dei figli.
Non mi resta altro, d’altronde, se non
questo trucco. Provatelo pure voi, dopo
mi dite. •
58
Andrea Tullio Canobbio
LE STREGHE
Andrea Tullio Canobbio
è nato ad Acqui Terme, in
provincia di Alessandria,
nel 1975.
Attualmente è dottorando di
ricerca in Modelli, Linguaggi
e Tradizioni nella Cultura
Occidentale presso l’Istituto
Universitario di Studi
Superiori (IUSS) - Ferrara
1391. Vive a Ferrara, in un
collegio fuori le mura,
attorniato da giovani
sudamericane.
È appena entrato nella
redazione di
Maltese Narrazioni.
Le streghe è il suo primo
racconto.
In frazione Corvarello, tra Mornara e Fortalto Pavese, il ragionier
Bergonzi aveva acquistato, nel 2001, una villetta su due piani, composta di giardino privato, camino a legna, due camere da letto, balcone di
proprietà, possibilità box auto, inserita nella migliore zona panoramica
del paese. L’ambizione di Bergonzi, venditore di sanitari e arredi bagno,
era di ritirarsi, un giorno, nella villetta per trasformare il giardino in
un orto dove coltivare pomodori, zucchine, melanzane e, avendo il gusto
dell’esotismo, anche meloni e angurie. A due anni dall’acquisto, però, il
giardino era ancora intatto e l’abitazione del tutto disabitata. Del tutto?
No, non del tutto. Chi si fosse trovato, nel grigiore dell’alba di Pasqua
2003, davanti al cancello, avrebbe visto che una finestra del primo piano
era aperta e avrebbe sentito un ronzio terrificante trapassargli i nervi
come la lama di un coltello. In piedi su una sedia, intorno al tavolo della
cucina, Alice, la figlia del ragioniere, usava un tritatutto moulinex con
la grazia di un operaio al comando di un martello pneumatico. Era una
bambinetta pallida e ossuta, con le gambe magre; sotto il caschetto di
capelli neri si distinguevano gli occhietti cinesi, il muso simpatico e le
labbra carnose. Indossava una maglietta rossa con un gatto e la scritta
Dark Kitty, della linea Emily la Stramba, coperta da schizzi d’acqua e
frammenti di funghi. A un certo punto, il tritatutto si fermò. Alice gli
diede qualche manata per farlo ripartire, ma non ottenne niente. Controllò la spina, ma era attaccata.
– Merda, la corrente!
Alice buttò un occhio all’orologio sospeso all’ingresso della cucina. Non
aveva molto tempo. Doveva finire di sbriciolare i funghi e metterli in infusione con il tè prima dell’arrivo di Paolo. Andò fuori, superò il cancello
e si fermò davanti a un armadietto di metallo. Il ragioniere lo teneva
sempre aperto. Alice fece scattare il contatore: la corrente rifluì nei i fili
e, dalla finestra della cucina, il tritatutto mandò un ronzio d’approvazione. Alice tornò indietro veloce come un fulmine, ma andò a sbattere
contro la porta blindata della villetta. L’aveva chiusa uscendo, per abitudine. All’esterno era liscia, senza maniglia, e Alice non aveva in tasca
la chiave per riaprirla.
61
Si guardò intorno febbrilmente: non c’erano altre porte e la finestra
della cucina aveva inferriate troppo strette; la porta finestra sul balcone, in compenso, era aperta. Per raggiungerla, bisognava arrampicarsi.
Alice andò sul retro e prese la scala a pioli verde. Era molto pesante.
Mentre la trascinava, pensò che se non fosse stato per Stefania Buttiglione non sarebbe stata costretta a fare quella faticaccia. La colpa,
in realtà, era di tutte e due. Alice si era vantata con la babysitter dell’ordine on-line sul sito di Emily la Stramba. L’ordine era inevitabile:
in condizioni normali, i suoi genitori non le avrebbero comprato quei
vestiti. Alice non aveva il permesso di usare il computer del ragioniere,
ma l’aveva fatto lo stesso e Stefania Buttiglione aveva fatto la spia. I
suoi genitori, per punirla, l’avevano esiliata a Corvarello. Le sue giornate trascorrevano in una monotonia severa, interrotta dalle visite della
madre che le portava da mangiare.
Con un ultimo sforzo, Alice sollevò la scala e l’appoggiò al balcone.
Attese qualche minuto per riprendere fiato e cominciò ad arrampicarsi.
Tutto era iniziato il 3 dicembre. Era un giorno infausto per Alice. Sua
madre aveva riempito la casa di mandarini e le aveva ordinato di mangiarli per tenere lontana l’influenza. Alice odiava i mandarini, perché
avevano un odore appiccicoso. Al solo toccare la buccia, le venivano le
convulsioni. Mentre girava intorno al tavolo, attenta alla prossima mossa dei mandarini, sua madre aprì la porta e le presentò la nuova babysitter. Alice la guardò da capo a piedi. Stefania Buttiglione era piccola
e rotonda come una matrioska; aveva grandi occhi da cartone animato
giapponese e un sorriso che ad Alice era sembrato fin dall’inizio un po’
appiccicoso, come l’odore dei mandarini. Ripensando alla gentilezza di
Stefania, rabbrividì. Poi entrò in casa e scese in cucina dove il tritatutto,
lasciato a se stesso, aveva polverizzato i funghi.
– Perfetto!
Ora, non restava che mettere su il tè.
Il passaggio a livello ai confini di Mornara era chiuso da un bel po’.
Paolo attendeva nervosamente il passaggio del treno, picchiettando con
le dita il volante della Fiat Panda 1000 color kaki. Il paesaggio ai bordi
della strada principale offriva un insolito spettacolo a occhi abituati al
disordine della città. Poche abitazioni, dai muri grigi e umidi. Qua e là,
contadini in abiti vecchi e logori, con gli occhi incattiviti dalle ultime
intemperie. Gonfio come un frate gaudente, Paolo aveva un volto circolare da neonato, con un alone di peli e radi capelli biondicci; gli occhi da
pazzo, chiari e ipnotici, erano cerchiati da occhialini lucenti. Indossava
i jeans nuovi e la T-shirt mimetica aderente, made in USA, che sua madre tentava di buttargli via da anni. Avrebbe voluto essere in un altro
posto, ma i “negrieri”, come li chiamava lui, erano tornati a opprimere
la sua fidanzata.
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I “negrieri” erano i Bergonzi. Erano arrivati ad aprile inoltrato senza
trovare la sostituta, cioè una poveraccia che si fosse accontentata dei
cinque euro l’ora (minimo sindacale delle babysitter in nero) che erano
riusciti a rifilare a Stefania. Il giorno di Pasqua, dovevano andare a
prendere la figlia nella casa di campagna a Corvarello. Ma il padre, che
l’aveva già portata là, si rifiutava categoricamente di tornare a prenderla e la madre, troppo occupata a cucinare, aveva telefonato a Stefania.
La ragazza aveva riappeso il telefono con un’espressione molto infastidita, ma già guarnita da uno strato di rimorso. Si era seduta sul
divano, vicino a Paolo, che si godeva il dvd di Full Metal Jacket. Conosceva a memoria quel film e, quando usciva con gli amici, replicava
alla perfezione le battute dei personaggi per dare l’impressione di essere un tipo divertente. Anche in quel momento, con il volume a zero,
doppiava il sergente Hartman (Chi è quel lurido stronzo comunista
checca pompinaro, che ha firmato la sua condanna a morte? Ah, non è
nessuno, eh? Sarà stata la fatina buona del cazzo eccetera), ma si era
interrotto all’improvviso, sentendo il peso di Stefania e del suo senso
di colpa.
– Chi era? – aveva detto, premendo stop sul telecomando.
– Fabrizia Bergonzi. Alice è in campagna e nessuno vuole andarla a
prendere.
– E l’hanno chiesto a te? Che stronzi!
– Infatti. Non è che ci andresti tu? Sai che io non la posso vedere.
– Ma allora perché vuoi fare questo piacere ai Bergonzi? Ti pagano,
almeno?
– Ma no, però, sai, Fabrizia è amica di mia madre.
E così, in nome dell’antica alleanza tra i Bergonzi e i Buttiglione, Paolo si trovava ad ascoltare il rimbombo lento e ritmato di un treno, ai
confini di Mornara. Il sordo brontolio crebbe fino a diventare un suono
ininterrotto. Quando si alzarono le sbarre, Paolo riaccese il motore e
continuò verso Corvarello, oltre la sagoma spettrale del dancing che si
stagliava nel cielo grigio di aprile.
Aveva visto Alice solo due o tre volte, ma la conosceva bene per aver
ascoltato i dettagliatissimi rapporti di Stefania. Nei mesi invernali, la
bambina era stata normalmente petulante e isterica, ma con la primavera aveva subito un cambiamento. Stefania, ormai, aveva scelto la sua
fazione: le piaceva Giuliano e sorrideva soltanto a lui. Con Alice, si comportava come aveva visto fare a Fabrizia: volto terreo, sguardi seri, aria
di sufficienza, monosillabi (Alice, no. Alice, scendi. Alice, smettila), mentre a Giuliano toccavano tutta la luce dei suoi occhi e la dolcezza stomachevole dei suoi sorrisi, anche se mangiava come un porco e imbrattava
costosi pannolini. L’equilibrio si era rotto quando Alice, dopo aver visto
Paolo per la prima volta, le aveva chiesto a bruciapelo: – Come va con il
tuo ragazzo? Ci scopi?
63
Da quel momento, Stefania aveva dovuto respingere le domande importune della bambina, che voleva tutti i particolari della sua vita sessuale e usciva in mutande sul balcone della casa di Mornara per dare il
benvenuto a un attonito Paolo. Alla fine, le aveva tagliato tutti i rifornimenti sentimentali. Aveva continuato per un po’ a fare la babysitter
al solo Giuliano, ma poi aveva mollato il lavoro. La sua inattività aveva
avuto ripercussioni sulle certezze di Paolo, che se l’era trovata tutti i
giorni tra i coglioni e aveva cominciato a non pensarla così perfetta. La
settimana prima di Pasqua, parlando con l’amico Mauro, si era lasciato
scappare: – Stefania due anni fa era dolcissima, ma ora è gelosa di mia
madre e vuole che andiamo a vivere insieme.
Alice versava il tè in una tazza, lasciando la polvere di funghi nel
setaccio. Quando sentì il rumore della Panda, buttò il colino nel bidoncino della spazzatura, spinse il tritatutto dentro la credenza, si pulì alla
bell’e meglio e andò a infilarsi un gonnellino nero. Perché aveva scelto
Paolo come sua vittima? Forse perché, a differenza di suo padre, che
opprimeva sua madre in ogni aspetto della sua vita, Paolo si lasciava
tiranneggiare da Stefania Buttiglione. Ecco il lasciapassare di Alice: un
uomo debole, che le facesse guadagnare la libertà, non solo dalla villetta
di Corvarello, ma forse anche dalla casa di Mornara, dal dominio dei
suoi genitori.
Naturalmente, Alice non era sicura che Paolo si lasciasse sedurre; per
non correre rischi, gli avrebbe tolto ogni possibilità di rifiutare. L’ispirazione le era venuta dal capitolo Bevi strambo del Libro (segreto) degli
Strambamenti di Emily. L’azione della piccola eroina iconoclasta si snodava, come sempre, in due atti, ciascuno dei quali riempiva una paginata del capitolo. Nella paginata del primo atto, su sfondo nero, Emily
stringeva un alambicco pieno di liquido rosso dove galleggiavano diversi
ingredienti, tra i quali due o tre funghetti. La dicitura era: “Emily non
disseta gli ospiti...”. Per scoprire il finale, bisognava girare il foglio. Nella
paginata successiva, su sfondo rosso, l’ospite di Emily, un bambino con
la goccia al naso, giaceva riverso sul tavolo; a terra, c’era un bicchiere
da cocktail dal quale usciva il liquido con i frammenti di fungo. Emily, in
primo piano, sorrideva malignamente. La dicitura era: “...li mette KO!”.
La stragegia, quindi, era “mettere KO” Paolo. Dove trovare i funghi?
Alice aveva un cugino laureato in scienze forestali, Luciano Lazzarini.
Aveva lavorato in Sicilia tutta l’estate per una ditta di prodotti erboristici smaccatamente new age; il suo capo gli aveva trovato un letto in
una villa in costruzione. Il lavoro non era il massimo e la villa era piena
di topi; dopo giorni passati ad ascoltare il loro sinistro squittio, Luciano
li aveva avvelenati tutti e poi se n’era tornato a Mornara. Durante un
pranzo di famiglia a casa Lazzarini, Alice era penetrata nella cameretta
di Luciano e, frugando nei cassetti, aveva sequestrato un sacchetto di
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plastica trasparente pieno di funghetti psilocybe semilanceata. A Corvarello, li aveva usati per preparare un beverone micidiale, seguendo una
ricetta concepita nelle lunghe notti trascorse sul balcone, in ascolto. Era
un’abitudine che aveva preso all’inizio dell’esilio. A volte, sentiva solo gli
abbai dei cani e altri rumori indistinti che la facevano un po’ ridere, un
po’ cantare, un po’ piangere. A volte, specialmente con l’arrivo del sonno
e del freddo ai piedi, le sembrava di essere in trance e di non sentire
proprio niente, ma comunque un niente rumoroso.
Il sole aveva bucato l’incertezza del cielo con il suo benefico tepore.
La Panda kaki sfrecciava verso Mornara. O meglio, ondeggiava. Alice
guardava a destra e a sinistra. A destra, presto o tardi, sarebbe apparsa la stradina che avrebbe portato la Panda fino al luogo propizio alla
seduzione di Paolo. A sinistra c’era Paolo, che aveva già il fiato grosso.
Imbrigliato da una sensazione di estremo calore, si sentiva sprofondare
nel sedile e la strada gli sembrava sempre più offuscata. Aveva sbevazzato senza troppe cerimonie il tè oleoso offertogli da Alice, una vera
brodaglia per maiali, e ora ne pagava le conseguenze.
– Non mi sento troppo bene – disse, con uno sguardo impotente da
bestia torturata.
– Mi dispiace, perché non ti fermi un attimo? Più avanti c’è uno spiazzo.
– Dove?
Paolo aveva perso il senso dell’orientamento. Alice si accorse che stava
per superare la stradina sulla destra, così afferrò il volante e lo girò con
malagrazia. Paolo protestò debolmente, ma si lasciò guidare fino allo
spiazzo. Qui, molto prima della nascita di Alice, un’amministrazione comunale ammalata di titanismo aveva fatto costruire un gazebo ottagonale in cemento armato.
Alice spinse il piede di Paolo sul freno e la Panda kaki si fermò sotto il
gazebo. Era il momento di fare sesso. Alice aveva accumulato un’ampia
documentazione sull’argomento. Le era proibito collegarsi da quando
Stefania aveva fatto la spia sull’ordine on-line, ma aveva saputo attendere il momento giusto. Il padre era al lavoro e la madre aveva portato Giuliano dal pediatra. Alice, con un magistrale colpo di mouse, era
penetrata nel paradiso degli hentai (www.hentaiheaven.com) e aveva
visionato tutto il visionabile. In particolare, una foto dove una bambina
urlante, aureolata di peni in erezione, era sorpresa da una pioggia di
sperma e un filmato dove una ragazza indonesiana riusciva a inghiottire
con la vagina un paracarro cilindrico con testa tonda a cupola, tipo “panettone”. Alice si era scollegata e aveva iniziato a meditare. Nella maggior parte dei filmati, per fortuna, le doti da contorsionista non erano
così importanti. Si trattava di infilare ripetutamente un pene in un ano
o in una vagina. Alice concluse che il sesso era fondamentalmente un
incrocio pene-ano, ma avrebbe provato entrambe le cose, per sicurezza.
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Alice inspirò profondamente, abbassò la cerniera di Paolo e fece per
impadronirsi del suo pene.
Che delusione! Aveva sottovalutato gli effetti della psilocybe semilanceata. La mente di Paolo, ormai, fluttuava al di fuori del tempo e dello
spazio: cosa gliene importava del corpo? Infatti, il pene sembrava piccolo e molle. Per ribaltare la situazione, Alice consumò le mani e la bocca.
Dopo qualche minuto, era abbastanza dritto e duro per puntarlo verso
l’ano. Alice iniziò a spingere, ma per quanto si sforzasse il pene premeva
troppo a destra o troppo a sinistra; probabilmente, avrebbe continuato
così all’infinito, se non avesse ottenuto la collaborazione di Paolo, che
giaceva immobile contro il sedile, respirando affannosamente. Aveva
una vaga consapevolezza di quello che succedeva, ma non riusciva a
muovere un muscolo. E aveva una sete del diavolo.
– Acqua, ti prego, acqua!
Alice sbuffò, poi pensò di accontentarlo: forse avrebbe migliorato la
risposta del pene. Si guardò intorno. Nella tasca della portiera c’era una
bottiglietta di plastica, ma era vuota. Un rigagnolo scorreva davanti
al gazebo. Alice uscì dalla macchina e corse alla riva, ma l’acqua era
limacciosa, probabilmente non potabile, così andò a esplorare l’edificio.
Sul retro, erano stati costruiti ben sei wc, ma non c’era nemmeno un
lavandino. Finalmente, Alice vide che i wc erano disposti a fianco di una
fonte che gettava un’acqua solforosa. Riempì la bottiglietta, avvitò il
tappo e tornò in macchina.
Paolo, senza parlare, accettò la bottiglietta, svitò il tappo e trangugiò
il contenuto. Sembrava rinfrancato. Alice decise di approfittarne, si sedette sopra di lui, aprì le gambe più che poteva e si lasciò cadere. Il pene
entrò, in un colpo solo. Alice sentì prima un bruciore insopportabile, poi
un dolore così forte da togliere il fiato, ma continuò ad assecondare i
movimenti di Paolo, anche se faceva un male cane.
Il sesso finì quando Paolo, che fino a quel momento si era comportato
bene, fu scosso da un tremito. Un urlo bestiale gli uscì dalla bocca, come
la schiuma da una pentola in ebollizione. Alice sentì un umido sospetto
intorno all’ano e un odore nauseante sotto le narici. Dovette riconoscere
di non aver provato il minimo piacere, ma, dopotutto, quello era il sesso
e non era il caso di fare gli schizzinosi.
In realtà, il gazebo non rappresentava solo uno spreco di finanziamenti statali, ma segnalava la posizione dell’Acqua Matta, una fonte
dotata di terribili e fulminee proprietà purganti. I numerosi wc erano lì
per rimediare ai potenti attacchi di sciolta dei bevitori. Paolo non aveva
potuto raggiungerli e, incastrato tra il sedile e il sedere di Alice, si era
abbandonato all’amore e alla dissenteria.
66
In un giorno caldo di giugno, Alice uscì con Giuliano.
– Perché pagare una babysitter? – aveva chiesto a sua madre, – Io
posso fare le stesse cose, ma chiedo la metà.
Era stato l’inizio della loro riappacificazione.
Mentre spingeva il passeggino del fratello sul viale davanti alla stazione, vide arrivare la poetessa. Era inconfondibile, piccola e aggraziata;
aveva un gran naso e i denti da coniglio, ma li portava bene. Indossava
uno straordinario abitino turchese e un cappello a larghe falde dello
stesso colore.
Alice l’aveva vista per la prima volta in un marzo lontano, su quello
stesso viale, macchiato di pozzanghere. Stefania guidava con cautela
il passeggino di Giuliano e lei saltellava due metri più avanti nel suo
piumino nero, girando su se stessa per far volteggiare la gonna rossa.
Aveva alzato gli occhi verso i palazzoni, sbiancati dal sole malaticcio. La
poetessa era sul balcone, gettata nella sedia a sdraio; nuda, con un paio
di eleganti occhiali neri sul nasone e un libro spalancato sopra il pube,
tentava di abbronzarsi. Stefania aveva riso con disprezzo e aveva detto
ad Alice che i ferrovieri, dalla stazione, guardavano in alto per vedere
il corpo senza veli della poetessa e sghignazzare tra loro. Alice si era
illuminata.
– Che bello! Lo farò anch’io.
Si era messa a sventagliare la gonna e l’aveva alzata fino al mento per
mostrare le gambe bianche e magre.
– Alice, smettila! Subito!
Ma le parole di Stefania, come sempre, erano in ritardo. Il disgusto
della babysitter per la poetessa aveva insospettito Alice. – Vuoi vedere,
– aveva pensato, – che l’essere nudi c’entra qualcosa con il sesso?
La poetessa, in quel giorno di giugno, guardò Alice e Alice si sentì pari
a lei.
– Buongiorno!
– Buongiorno!
Prima che passasse oltre, Alice spiò la copertina del libro che teneva
sotto braccio. Era Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. Continuando a spingere il passeggino, Alice pensò che in tredici anni di vita non
aveva letto niente a parte Emily la Stramba. Forse era ora di leggere
qualcos’altro.
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CARTOLINA DI ABBONAMENTO
Paola Ferzuche
CONTEMPLAZIONE
Paola Ferzuche
ha 42 anni, è nata nelle
Puglie e vive a Milano.
È andata così che ci siamo baciati: io ero immalinconita, o nervosa, o
solo incazzata... davvero non mi ricordo.
Ricordo però che mi sentivo tanto di aver ragione.
Quando senti di aver ragione ti sembra di poter pretendere un risarcimento, e quella volta il risarcimento è passato sul povero Michele,
sulla sua calvizie di bancario solerte, sulla sua indecorosa camicia nera
pitturata con la Coloreria, sulla cravatta dell’Oviesse. Ma una fa i conti
e prende quello che può permettersi.
In fondo sono solo quella che si sta guardando nello specchio dopo aver
tolto le lenti a contatto e inforcato due fondi di alambicco, quella che ci
sono i peli sotto il mento da verificare, quella che il giro vita fa le pieghe,
quella che la mattina non ha voglia di farsi la doccia e si spruzza di
deodorante per dare almeno l’idea, quella che le si è consumato il tacco
sui lastroni ma le altre scarpe sono strette e chi se le porta ai piedi tutto
il giorno?
Con Michele ero io che abbassavo il prezzo.
Sapevo di andare sul sicuro.
Perché se uno ti telefona tutti i giorni per il caffè e per il pranzo; e se
uno mentre gli parli sembra che non capisca e annuisca solo per compiacerti; e se tu gli stai parlando di nulla perché di altro non sai se capirebbe e lui sembra proprio che... ti contempli: esatto, non è forse il termine
più giusto? Ti contempla con una faccia da fesso. Beh, allora è chiaro che
pensi: ma questo mi vuole scopare? E la grande sorpresa è che lui no,
non ti vuole scopare, lui vuole solo restare a contemplarti.
Michele era sposato e io no.
Poi era uno che credeva nei valori.
Quando uno crede nei valori, la moglie è un valore.
E io mi sono accorta che se mi trovo di fronte alla mano sul cuore del
“ho fatto delle scelte e le devo rispettare” mi viene quella voglia di smontargli il giocattolo. È come se mi pizzicasse l’orgoglio di dimostrargli che
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la sua mogliettina non è niente di speciale; mi sono già chiesta che cosa
mai me ne importi alla fine. È più forte di me, è una specie di riflesso
automatico: quando me ne accorgo è già partito.
E allora un residuo interiore di saggezza osserva impotente quel mio
fare intellettuale (vuoi mettere sapere chi è Musil o che cosa sia un frattale? questo riesce di solito a sbalordire il ceto medio); quel mio fare la
vittima che avrebbe un mondo da condividere se solo qualcuno la stesse
ad ascoltare; e, soprattutto, il capolavoro: quel mio fare la disinibita/
vergine, quella strana alternanza di cameratismo divertito e rossori a
comando. In genere viene un’immagine abbastanza stuzzicante.
In genere funziona.
Giuro, non lo faccio apposta.
È un’altra me che fa così.
Quando vorrei riprendere il controllo mi ha già preso completamente
la mano.
Quella volta che ho baciato Michele erano almeno un paio d’anni che
mi contemplava.
Una sera di agosto eravamo anche andati a cenare insieme al selfservice. Mi ricordo l’insalata di mais, le palline gialle che sapevano di
acqua fredda e viscida; poi il vestito che avevo, di cotone leggero, nero,
corto, con degli svolazzi: era di bassa qualità e forse un po’ sbiadito dal
sole, ma io ero appena tornata dal mare ed ero veramente al massimo
del luccicore di pelle biscottata.
Dopo il self-service avevamo vagato un po’ per il centro e poi mi aveva
accompagnato nel mio bilocale in affitto, con la 127 rossa di sua moglie.
Lei era al mare per qualche giorno ancora.
Il mio bilocale era proprio un buco triste, soprattutto per quel linoleum
incollato e tutto a bolle d’aria qua e là, e i mobili vecchi. Però era sempre
un bilocale vuoto una sera d’agosto e io ero sola e avevo l’abbronzatura
che si sprecava e presto avrebbe cominciato a sfogliarsi: oh, insomma,
sto cercando solo la scusa del perché gli dissi vieni su e lui rispose, contemplandomi e con una voce innaturale: magari un’altra volta.
E io pensai: sei proprio un pirla, te e i tuoi valori. Poi pensai: da uno
a dieci quanto ho fatto la figura della puttana? Poi pensai: che strategia
adottare per rimediare? Poi pensai: vai al diavolo.
Baciarlo sul momento non è stato spiacevole, anzi lui ci ha messo un
certo trasporto e io ho sentito l’inizio, quella specie di calore diffuso che
una sente all’inizio, quando tutto comincia da un bacio fatto d’impegno
e allora ci sono delle ottime probabilità che finisca nel modo giusto e
liscio e quasi automatico, senza sforzi o finzioni necessarie a concludere.
72
Solo che eravamo in un’ansa di corridoio dell’ufficio e, per quanto fosse
un’ansa solitaria e polverosa, il rischio era elevatissimo. Si può aggiungere che il rischio, mescolato a quel ribollire umido che cominciava a
salirmi su per la testa, mi dava una voglia forte di lasciare andare tutto
fino in fondo.
Poi ho aperto gli occhi.
E Michele non è bello.
Non è bello visto a distanza regolamentare. Come può diventarlo visto
con i pori della pelle ingranditi e gli occhi chiusi troppo a palla e l’espressione ebete di chi sta baciando una statua sul piedistallo dei sogni?
Idioti, i suoi sogni.
Se solo avesse immaginato che, mentre lui sentiva sotto le labbra finalmente le mie (la parte migliore del mio viso) invece che la federa
sgualcita contro la quale si sarà strusciato pensandomi di sera, e forse
era felice per un istante, ecco era esattamente quello l’istante in cui
invece io trovavo lui unto e insulso e mi dicevo: perché lo bacio? Perché
mi tocca baciare questo normale e non uno sublime?
E capivo che la vita sentimentale è solo un intreccio scomposto di meschinità reciproche.
Dopo la trasgressione inutile di quel bacio le cose andavano raddrizzate.
Per esempio potevo comunicargli la finzione perfida dell’affanno del
sentimento dirompente che si scontrava (oh il senso di colpa!) con la mia
virginità morale.
Lo so che sarebbe stato più pulito e addirittura più semplice dire: va
bene, ci siamo baciati, a me giravano le palle e cercavo un po’ di stordimento e tu eri lì e dovevo solo allungare la mano; ma io mi sono pentita
perché non ho nei tuoi confronti alcun sentimento d’amore, solo un senso di dolciastra gratitudine per il solletico garbato che la tua devozione
fa alla mia voglia continua di autoaffermazione. Attento, è un equilibrio
precario: se la tua contemplazione diverrà oltremodo leccosa, io comincerò a infastidirmi e prima o poi non potrò fare a meno di attaccarmi
all’invenzione di un altro inesistente amore, per umiliarti e liberarmi
di te.
Invece non lo potevo dire, perché a quel punto io stessa cominciavo
a farmi schifo e allora bisognava ricostruirsi una dignità davanti allo
specchio.
E quale dignità migliore di una donna che rinuncia a un amore romantico e devoto per rispetto dei valori? Sì, questa è la versione ufficiale
che gli spiegai con voce emozionata, questo è il perché di come andarono
le cose dopo il bacio.
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Per anni poi amici. Qualunque cosa questa parola voglia dire. Sospetto in realtà voglia dire niente.
Io ho fatto cose in questi anni, per esempio matrimonio e figli.
Ogni tanto andavo a controllare.
Chiamavo Michele al caffè e saggiavo, annusavo l’aria per sentire se
il piedistallo era ancora al suo posto. Bastavano poche parole. Bastava
un lieve scivolare della punta del mio dito indice lungo la sua guancia
(sempre più rotonda e vuota con gli anni), in un passaggio d’ascensore
furtivo, per riappropriarmi della mia vanità: la contemplazione inutile
era lì, tutta ancora intera.
Ci fu anche di nuovo una settimana per caso di agosto da soli in città.
E una lunga telefonata di un paio d’ore, mentre lui riscaldava un precotto in busta e io approfittavo dell’assenza degli altri per buttare non
vista giocattoli rotti e vecchie intoccabili riviste.
Con il cordless puoi continuare a fare e intanto parlare. Al telefono
non vedi, ti dimentichi che è il solito Michele riscaldato. Puoi quasi immaginare occhi e braccia a tuo piacimento. E mi piacque proprio tanto
sdolcinare cazzate e dirgli che insomma, dopo tanti anni, e dai, se per
una volta, solo per una volta, e chi l’avrebbe saputo, ci sarebbe rimasto
un ricordo, una volta sola. Mi venne bene, il tono giusto di quella che
si stava lanciando in una trasgressione vergognosa travolta nella sua
virtù da un affetto duraturo e profondo.
Non rispose alla provocazione. Parlò di pensieri e di cose che avrebbe
voluto dirmi negli anni passati e che aveva sempre tenuto per sé, come
un dolce tesoro; parlò di legami ideali che durano una vita; descrisse il
piedistallo, ancora tutto nella sua bianca e sola idiozia.
Adesso non lo vedo più.
Siamo stati entrambi trasferiti in nuovi uffici ai lati opposti della città.
Conosciamo il numero di telefono l’uno dell’altro, ma a che serve chiamarsi? Voglio dire, che tanto lui, quando parla, non parla con me, parla
con quell’altra, quella brava, quella che gli si incastra bene fra i tasselli
dei sogni.
Io nel frattempo una volta ho scopato per noia con uno più vecchio di
me di quindici anni, di un’altra città, incontrato per caso per lavoro. Era
uno così triste! Sono abbastanza pentita di averlo fatto.
74
Riccardo De Gennaro
L’ESTATE DEL ’65
Riccardo De Gennaro
Nato a Torino nel 1957,
laureato in Economia.
Ha lavorato come giornalista
dall’84 all’89 al Sole-24 Ore
e dall’89 alla fine del 2004 al
quotidiano La Repubblica,
prima nella redazione di
Torino poi in quella di Roma.
Ora è un free-lance.
Nel 2002 ha pubblicato il
romanzo I giorni della lumaca,
edito da Casagrande.
Collabora alla rivista di
scienze umane Aperture.
Vive a Roma.
È stato quando Billie-boy ha detto quella frase storica, “quale piscio
di cane di luce è mai questa”, che noi ci siamo voltati verso l’Adriatico e
abbiamo visto per la prima volta la luna color verde marcio. Intorno era
buio, la spiaggia era nera, la schiuma bianca delle onde lampeggiava
come un neon guasto. Billie-boy rise in modo sguaiato: una luna verde
era in grado di incidere la tavolozza della sua immaginazione quanto
l’atto di aprire un barattolo di pelati. Era il più vecchio di noi sei e se
la tirava. Ragazzi, io sono come il destino, diceva, cinico e baro. Mentre
pronunciava queste parole con quella sua voce da diciannovenne – un
terzo adulta, due adolescente – si passava il dorso della mano sotto il
naso come se sniffasse.
Quella sera mi ero accorto che Bounty strofinava il suo costume da
bagno e tutto quello che c’era dentro sulla sedia del Dolly beach come se
non ce la facesse più. Dava realmente l’impressione di uno che non vede
l’ora di correre a casa, nascondere la testa sotto le lenzuola e mettersi a
guaire. Dovete sapere che tre giorni prima aveva fatto la sua comparsa
in spiaggia una certa Peakly, incantevole creatura, una specie di inviata
del Signore. Posso giurarvi che se in quello stesso momento qualcuno
avesse portato in spiaggia una voliera e liberato un centinaio di canarini
colorati di rosso e di blu noi non ce ne saremmo accorti. Purtroppo un
paio di quegli inutili pennuti cinguettanti aveva scelto il cuore di Bounty per farci il nido.
Avevamo ancora gli occhi puntati sulla luna più bizzarra mai apparsa
da quelle parti quando rintoccarono le due. Ad eccezione di Bounty nessuno aveva voglia di tornare a casa. La Coca Cola era terminata e noi
eravamo passati alla gazzosa, che è un po’ come declassare una sbronza
scendendo dallo scotch al bourbon. Purtroppo il Dolly beach non serviva
alcolici, ma era l’unico posto che teneva aperto fino alle quattro del mattino e Sonny era un amico.
Stanley si puliva le unghie con la forchetta e continuava a tirare fuori muco, sabbia e altra porcheria di cui aveva fatto scorta durante la
giornata. I gemelli, Jack e Nick, sferravano micidiali colpi d’indice a
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una mollica di pane sulla tovaglia di carta. Erano veramente gemelli,
ma sembravano due estranei. Uno si credeva Omar Sivori, l’altro John
Charles. Nick imitava Sivori, magro, scaltro, la mano destra dribblava
la sinistra. Jack era grande e grosso, il gigante buono. Sivori era a fine
carriera, Charles era tornato in Galles, ma Jack non aveva ancora trovato uno che potesse sostituirlo nella bacheca del suo cuore.
Come ogni notte, quando venivano le due, Jack propose “un piccolo torneo a calciobalilla”. Non sapeva che la sera prima Stanley aveva
fissato un pezzo di legno sotto le gambe del campo da gioco in modo da
farlo pendere a favore degli ometti blu. “Per me ci sto – rispose pronto il
gemello – dobbiamo smaltire quel quintale di pizza con i peperoni”. Billie-boy fece di sì con la testa, Stanley si unì ai tre. Io mi proposi come arbitro, Bounty rimase seduto ad osservare le zanzare che testardamente
andavano a morire nella trappola blu elettrico. “Bene, uno contro l’altro,
semifinali e finale”, disse Nick. “Siamo in quattro, cristo – ribatté come
sempre incazzato Billie-boy – le regole le detto io: due contro due, tutto
alla vola, niente ganci”. Nick abbassò le orecchie, ma prese Stanley con
sé e impugnò con aria di sfida le manopole della difesa blu. “Vai, muovi
quei mutilatini, bestia”, urlava Billie-boy a Jack, che faticava a spingere
avanti la pallina. “Copri la mediana, dio cane – cristonava ancora – non
vedi che sono sempre qua davanti?”. A quell’ora il calciobalilla del Dolly
beach era forse l’unica cosa animata nel giro di cento chilometri.
Nick faceva goal dalla difesa come se ci fosse un tunnel sotterraneo
che portava dritto nella porta avversaria. La prima partita finì otto a
due per la coppia Nick-Stanley. La seconda dieci a zero, cappotto. La
terza – giocata da un Jack paonazzo per la batosta e i ripetuti insulti di
Billie-boy – terminò sei a tre, perché dopo un micidiale tackle una pallina andò a finire tra le sdraio accatastate contro la staccionata di bambù
e nessuno riuscì più a trovarla. Charles era disperato: tre sconfitte al
calcetto in una sera erano un’umiliazione senza precedenti, più di una
bocciatura a scuola. Dopo aver infilato le ultime 20 lire, Jack tirò la manopola nera schiumante di rabbia, prese un pugno di biglie e le scagliò
nella sabbia: il gigante buono era impazzito. “Teste di cazzo, non siete
altro che teste di cazzo – disse – ora andate a raccoglierle voi”. Il tapino
scappò via tra le lacrime e per tre giorni non scese in spiaggia. Chiesero
a me di sostituirlo alle manopole, ma in quel momento fui colto da uno
sbadiglio più esplicito di un no. Nel frattempo, Bounty era scomparso.
Salutato Sonny, ce ne andammo a dormire. Mentre mi avviavo verso
casa cercai la luna verde con la coda dell’occhio. Nella retina avevo soltanto il volto distrutto di Jack.
Che Stanley fosse un porco non era una novità, ma che arrivasse a
prendere la mano di Polly per infilarsela nel costume non ce lo sarem78
mo mai aspettato. Non fu una buona giustificazione da parte sua dire
“che c’è di male, Polly assomiglia a Jerry Lewis fatto donna”. Bounty si
arrabbiò di brutto, pareva quasi che avessero insultato la “sua” Peakly.
Prese Stanley per il collo e gli disse queste parole: “Pezzo di coglione,
impara a comportarti con le donne, altrimenti ti rompo la schiena”. Con
gli occhi fuori dalle orbite, Stanley balbettò che non era il caso di prendersela in quel modo: “Cristo, se non ci divertiamo adesso...”. Bounty
lasciò la presa. Sul collo di Stanley si disegnarono tre righe rosse. Polly
era fuggita piangendo dalla sua amica. Era laggiù sotto un ombrellone,
prendeva il sole ed era bella e aveva la pelle liscia come il sapone quando è umido. Polly si inginocchiò disperata di fianco alla sua sdraio. Lo
sguardo di Peakly abbracciò tutti noi con la commiserazione dei giusti e
Bounty diventò rosso come se fosse lui il colpevole. “Bastardo – gridò a
Stanley – bastardo”. Stanley fremette, ma non reagì. L’unità della banda era la prima regola. Quello che passò per la sua testa non era difficile
immaginarlo e non mi sarei sorpreso se avesse nuovamente provocato
Bounty dicendogli che se fosse stata Peakly non si sarebbe accontentato
della mano. Sapete, Stanley era così, si credeva Jean Paul Belmondo in
“A bout de souffle”.
Era un sabato quando Jack si ripresentò in spiaggia. Billie-boy lo vide
per primo e sghignazzò: “Ragazzi, ecce stronzo”. Una raffica organizzata
di palline del calcetto, quelle che avevamo raccolto nella sabbia davanti
al Dolly beach, raggiunse il gigante buono in pieno petto. “Voglio una
rivincita”, disse lamentoso. Ma noi avevamo altro cui pensare. Stanley
osservava con preoccupante interesse due bambine che giocavano con i
secchielli, una aveva le trecce bionde, l’altra una cuffia. Bounty guardava come un cieco verso l’angelica Peakly: diceva che, all’alba, l’aveva
vista camminare sulle onde. Nick scrutava il cielo in cerca di aeroplani
pubblicitari e ogni tanto se ne usciva con domande del tipo: “Perché
io sono io e voi siete voi? Che ne direste di scambiarci le nostre vite?”.
Oppure: “Dove saremo, questo stesso giorno, alla stessa ora, l’estate del
‘75?”. Billie-boy aveva le idee chiare: “Nick, se davvero vuoi saperlo, ficcati un dito in culo, succhiatelo e poi vedi da che parte tira il vento. Se
viene da Mosca significa che tra dieci anni scoprirai di essere un fallito”.
“E se viene da New York?”, chiese quel fesso di Nick. “Allora è meglio
che non ti chini”, rispose Billie. Nessuno osò replicare che l’America è
l’America.
L’estate del ‘65 fu una piacevole estate, forse l’ultima. Non ne vennero
altre così. Per la verità, un’estate – una qualunque della nostra adolescenza – non la si dimentica facilmente. Ricordo, ad esempio, una notte
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bellissima. La luna non era né verde, né rossa. Più semplicemente non
c’era. Avevamo giocato a calcetto per quattro ore di fila, Jack si era preso
la rivincita: qualcuno doveva avergli detto del trucco del legnetto. Aveva
eliminato uno per uno, nell’ordine, il sottoscritto, il gemello, Stanley e
Billie-boy. Bounty era certamente nel suo letto a piangere, oppure sulla
panchina dell’olmo davanti alla casa di Peakly. Oh, Peakly, Peakly. Bella stronza. Povero Bounty.
Per conto mio, io non avevo problemi, mi aspettava il quinto anno del
liceo, quello dove si studia soltanto l’ultimo mese. Io, d’altronde, avevo
letto tutto quello che c’era da leggere, compreso l’Ulisse di Joyce, di cui
non avevo capito una parola. Amavo la Nausea di Sartre, non perdevo
un film di Godard, ascoltavo i 45 giri di Gainsbourg, che mio padre mi
portava da Grenoble. Adoravo la Francia, al punto che un giorno proposi
agli amici di ripudiare gli Stati Uniti e di darci soprannomi francesi.
La proposta fu bocciata, ma non sarebbe stato più bello che Peakly si
chiamasse Nicolette? Quell’anno non sapevo ancora che cosa avrei fatto
dopo il liceo e non avevo neppure voglia di pensarci. Non mi sentivo una
vocazione addosso, prova ne sia che oggi, adulto, realizzato, una bella
moglie, un figlio quindicenne tra i primi della classe, non posso dire che
il mio lavoro di ingegnere mi convinca fino in fondo.
Comunque: una sera, con la mente libera, me ne tornavo a casa per
la scorciatoia. Il mare non era lontano dalla nostra casa: c’era un sentierino a gomito che attraversava un campo di ortiche e poi, dopo la
curva, costeggiava la massicciata della ferrovia. Era lì che le nostre madri, dopo le notti di pioggia, andavano a cercare funghi e lumachine.
Dunque, me ne tornavo tutto solo per quel sentiero quando cominciai
a vedere delle candele accese. Sembrava di essere al cimitero: le fiammelle erano a portata di mano, ma quando pareva che fosse sufficiente
allungare un braccio per sentirne il calore, scomparivano come miraggi.
Fu in quel momento che mi apparve l’immagine di Peakly.
Aveva ragione Bounty. Era bellissima. Mi accorsi con grande sorpresa
che non avevo mai provato prima le sensazioni che la sua vista suscitò
in me. Era soltanto l’immagine di Peakly o era Peakly in carne e ossa?
I suoi capelli erano neri, lisci e morbidi, divisi in due da una riga nel
mezzo. Gli occhi erano a mandorla, l’iride aveva il colore delle olive siciliane. Il volto era duro come la porcellana, ma sembrava che contenesse
un fuoco vivo. Peakly mi guardava con quel suo sguardo diritto, secco,
profondo, nello stesso tempo sereno e severo. Era uno sguardo morale,
al quale era impossibile sfuggire. Io mi sentivo come trafitto, paralizzato. Ero immobile, non riuscivo a proseguire. Credevo di trovarmi dentro
un incantesimo. Fu soltanto quando l’immagine scomparve, che a poco
a poco ritrovai i miei movimenti. Che cosa era successo? Vi giuro, non
avevo fumato, non toccavo alcool. Le candele, il suo volto acceso, c’era
qualcosa di sacro in tutto questo. Ebbi paura.
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A quel tempo non sapevamo che cosa fosse la depressione. Quella vera,
intendo. Però la noia eravamo stati tra i più lesti a conoscerla. Passavamo le nostre giornate al Dolly beach, un gelato, un paio di barzellette
maiale, una partita a calcetto, la focaccia calda. Mai che ci fosse una
pollastrella con noi. Erano tutte con quei bastardi del circolo del tennis.
E noi non ci guardavano proprio. Piccole smorfiose! Sapete che cosa facemmo? Decidemmo di consolarci con le gambe delle gemelle Kessler.
Grazie a una colletta in spiaggia acquistammo una tv e la piazzammo là
in alto, sopra il bancone del bar. La prima sera Sonny offrì Cynar a tutti
i presenti, Stanley ruttò un paio di volte e tutti risero.
Quelli del tennis schiumavano di rabbia. Passavano con finta noncuranza davanti alla finestra del Dolly per vedere che cosa stesse accadendo. Era chiaro che la nostra mossa li aveva spiazzati. Durò poco. Due
giorni dopo avevano una tivù anche loro, molto più grande e costosa.
Riuscirono a riacciuffare le due stronzette vanitose che si erano venute
a sedere in un angolo del Dolly e alle quali noi non avevamo osato rivolgere la parola. Una serata comica, quella: Bounty continuava a sbirciare fuori della vetrata per vedere se per caso spuntava Peakly, i gemelli
attaccati al calcetto urlavano goal, e goal di nuovo, minchia, per contestare la svolta modernista, Billie-boy era intento a russare dopo i primi
cinque minuti di telegiornale. Neppure il culo di Brigitte Bardot dentro
i pantaloni neri si concesse prima di abbassare le palpebre. Il locale era
affollato come non lo era mai stato, c’erano decine di persone che non
avevamo mai visto, di spiagge anche lontane, gente che naturalmente
non aveva scucito una lira per la tivù. Il dato positivo fu bevettero tutti
come delle spugne fino ad avere lo stomaco gonfio, cosicché – prima di
spegnere le luci – Sonny ci diede una parte dell’incasso per coprire le
spese della scatola luminosa.
Volete sapere se Peakly si fece vedere? No, quella sera non venne.
Tutto sommato, i programmi televisivi non sono un granché e le gemelle
Kessler non vanno mai a tempo.
Una delle canzoni più belle di Serge Gaisnbourg è “Les amours perdues”. Gli amori perduti, dice, non si ritrovano più. Mentre l’ascoltavo
pensavo a Peakly con la nostalgia del presente. Io, io non le avevo proprio detto nulla. Se ci eravamo scambiati un saluto una volta era molto.
Stavo dalla parte di Bounty, io. Ero della banda. Ci sono delle regole
da rispettare. Il fatto è che l’immagine di Peakly tra i lumini accesi
continuava a tormentarmi. La sentivo sulla pelle, come un tatuaggio.
Colpa di quel suo sguardo maledetto che l’aveva impressa a caldo. Non
ce la facevo a liberarmene, mi sentivo impotente, umiliato peraltro dalla
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consapevolezza che in quello stesso e preciso momento lei non era alle
prese con ansie analoghe alle mie. Brutto affare. Gli amori perduti non
si ritrovano più.
Ero impaurito, forse più impaurito che innamorato. Diciamo che avevo
paura di innamorarmi, poiché in questo caso sarei stato suo prigioniero
per sempre – sì, per sempre – e sentivo che non avrei avuto possibilità
alcuna di sottrarmi al suo potere: nè con una dichiarazione, nè con la
sconfessione. E poi c’era Bounty, che soffriva come un cane. Maledizione. Non potevo scoprirmi. Ridevo, d’un riso da demente, al solo pensiero
che Peakly potesse ricambiare il mio amore. Perché è più assurdo essere
amati che amare.
Erano già le quattro del mattino e non riuscivo a dormire. Volevo tornare in città. Volevo il mio liceo, i miei professori, i miei libri, la mia
sicurezza familiare. Quanto avrei desiderato che le vacanze non fossero
mai state inventate. Cercavo nella voce roca di Gainsbourg un suggerimento, speravo che a un certo punto smettesse di cantare e mi dicesse:
“Che cazzo stai facendo? Le donne bisogna prenderle a ceffoni e sbatterle giù dalle scale quando ci siamo stufati”. Se avesse potuto ascoltare i
miei pensieri Peakly si sarebbe fatta una delle sue risate sado-cristalline. Immaginavo i suoi alluci abbronzati che spuntavano dal bordo della
sdraio e che sembravano due caramelle Elah.
Mi addormentai senza rendermene conto, la mano giù dal letto, la
bocca aperta contro il cuscino in attesa di un bacio. Così come gli amori,
anche i baci perduti non si ritrovano più.
Bounty doveva essersi accorto che anch’io ero innamorato di Peakly.
Era seduto di fianco a me al cinema in un tardo pomeriggio. Proiettavano un film di Antonioni, non so più se “La Notte” o “Deserto Rosso”. Non
importa. Bounty notò che ero distratto. Di solito non accade. Guardavo
le teste degli spettatori davanti a me e ogni tanto mi voltavo. Che cosa
c’ero andato a fare? Gli unici della banda che si erano ficcati dentro
quella sala eravamo io e lui. Gli altri erano al bar, non so più che cosa
dessero alla televisione, forse “Non è mai troppo tardi” con il maestro
Manzi.
Mentre il film era fermo sull’ingresso di una fabbrica, Bounty si è
voltato verso di me e mi ha domandato: “Che cos’hai?”. Che cosa si risponde in questi casi? “Niente”, si risponde, “niente”. Ma sarebbe meglio
tacere. Perché non appena hai detto “niente”, ti accorgi che hai detto
più di quanto avresti dovuto. “Chi è?”, ha chiesto Bounty. Vedete? Ci
vuole poco perché la montagna frani. “Lasciami in pace, voglio guardare
il film”, ho detto con un gesto di stizza. Bounty non replicò. Io dissi
“scusa”. Era ridicolo che fossimo entrambi seduti nella sala buia di un
cinema per poter sognare in pace una ragazza, la stessa. Forse tutti gli
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uomini presenti erano venuti per quello. Puttana d’una Peakly, faceva
strage di cuori con la facilità con la quale io potrei rastrellare le foglie
secche in giardino. Vidi il suo volto sullo schermo, poi sulle pareti del
cinema, mi guardava dal soffitto, mi perseguitava maliziosa con gli occhi
della maschera. Io non so se Bounty vivesse le medesime sensazioni. Ma
è chiaro che qualcuno doveva aver fatto una magìa con i nostri cuori di
pezza. Peakly ci dominava con la sua assenza, una catena ci legava e ci
portava da lei. Aveva 15 anni, si muoveva con una spontaneità bambina e
una sicurezza adulta. Noi, invece, non sapevamo ancora nulla della vita.
Fuori del cinema era buio. Più buio che dentro. Io e Bounty abbiamo
fatto finta di essere in un film. Lui ripeteva battute orecchiate da chissà
quale attore, Mastroianni forse. Io continuavo a ripetere: “Non guardare in macchina, non guardare in macchina. Se fai così lo capiscono che
è tutto uno scherzo”. Sembravo impazzito. No, lo ero. Non volevo che il
film terminasse, avrebbe significato dimenticare Peakly per sempre.
La banda era a pezzi. Secondo me, la colpa era della televisione. Niente più tornei a calciobalilla, né partite a briscola. Billie-boy ci mandava
a quel paese in continuazione, “vaffanculo, vaffanculo”. Non gli andava
bene niente. I due gemelli erano dovuti partire, c’era uno zio che stava
morendo. Quanto a Stanley, io non lo reggevo più: aveva cominciato a
frequentare un altro giro, gente più adulta, di cui non volevo sapere
nulla. Fatti suoi. Sebbene fosse soltanto il 21 agosto, mi sembrava che
l’estate avesse già fatto bancarotta. Ricordo bene quel 21 agosto perché
la sera accadde un fatto singolare.
Mi trovavo sul lungomare. Erano le sette, l’ora in cui la spiaggia si è
svuotata, ma sul passeggio non c’è ancora nessuno. C’erano però decine
di gabbiani a caccia di cibo. A un certo punto uno di essi è planato davanti a me e si è messo a saltellare come se mi invitasse a seguirlo. Io
gli andavo dietro, non avevo alcuna intenzione di tornare a casa per la
cena. Abbiamo saltellato insieme per alcune centinaia di metri, poi – improvvisamente – l’ho sentito parlare. “Attento, attento – ha detto – di
tutto questo non resterà nulla”. Non abbiate paura, al contrario delle
apparenze non tutti i gabbiani sono sani di cervello. “Tu ti credi unico
e inalterabile, ma domani sarai un altro uomo e poi ancora un altro
uomo e poi ancora un altro. Una vita contiene molte vite, non credere”.
Dopodichè si levò in volo. Che cosa voleva dirmi? Per molto tempo me lo
sono chiesto. Lo sapevo da me che l’estate – l’estate del ‘65 – era finita.
Decisi di tornare a casa. Il gabbiano era ormai lontano, non riuscivo più
a distinguerlo dagli altri.
Non ne sono sicuro, ma forse fu proprio quella notte che mi spuntò
un’ombra di peli sul petto.
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“I have seen the Future!”
Maltese Narrazioni
volume XXXV
MALTEXPO
UNIVERSALE
Donne e uomini, il cui sguardo sicuro si profonda
nella nascente aurora di un tempo nuovo, orsù,
ACCORRETE
ad apporre le vostre tessere d’ingegno e immaginazione
su quel vasto e scintillante mosaico che chiamiamo
FUTURO!
A SETTEMBRE IN LIBRERIA
Laura Salvai
ALTA QUOTA
Laura Salvai
del 1962, lavora da vent’anni
nell’editoria torinese come
redattrice e traduttrice.
Ha tradotto per Einaudi un
saggio sull’Olocausto, Uomini
comuni di Christopher
Browning.
Scrive di libri e di viaggi
sulla rivista
Il Mappamondo.
La stagione era quasi alla fine; il tempo si era guastato e grosse nuvole nere incombevano ogni mattina sul pianoro, appese ai fianchi delle montagne come pennacchi di fumo. Pioveva spesso e il vento urlava
come un dannato nelle fessure delle finestre. Dai sentieri dei laghi non
scendevano più gruppi di escursionisti curvi sotto il peso di zaini enormi. I merenderos con il tavolino da picnic e l’anguria nel baule se ne
stavano a casa all’asciutto.
Il ristorante era quasi sempre vuoto. Passavo le giornate a pulire la cucina o a preparare pentolate di minestrone che nessuno avrebbe mangiato.
Sentivo l’acqua scrosciare con un fragore da grandine sul tetto di pietra.
Era un giorno di metà agosto e sembrava già autunno. Guardai il
paesaggio oltre i vetri rigati di pioggia: il Monviso era completamente
coperto. Sbadigliai.
“Vado a stirare i tovaglioli” dissi a Sergio.
Lui fece “Cosa?” senza sollevare la testa. Seduto davanti a un quaderno, contava e ricontava gli incassi perduti a causa del maltempo.
“Vado di là a stirare” ripetei più forte. In una stanza stretta e male
illuminata dietro il bar c’era un mucchio di biancheria da tavola che
aspettava un colpo di ferro. Non che la prospettiva mi allettasse, ma
tanto per fare qualcosa.
Sergio mi fissò per un attimo come uno che si è appena svegliato. “No, ho
bisogno di te qui” disse. “Stasera ho ospiti importanti. Non te l’ho detto?”
“No”.
“E le trote salmonate?”
“Salmonate?” Avevo il frigo pieno di trote normali, già sviscerate e
pulite, pronte per la friggitrice. In tre mesi di lavoro non avevo mai cucinato altri tipi di pesce.
Sergio si alzò in piedi gettando occhiate negli angoli. “Ma sì, le ho
comprate apposta stamattina”.
“Io non le ho viste”.
“Aspetta”.
Uscì in cortile sotto il diluvio, tirandosi sulla testa il cappuccio del
pile. Rientrò poco dopo e mi porse un pacchetto marroncino.
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“Erano in macchina” disse sollevato.
Aprii l’involto appiccicaticcio: dentro c’erano tre grosse trote con la
pancia rosa.
“Come le devo preparare?”
“Al vapore. Stai attenta, voglio fare bella figura”.
Aggrottai la fronte. Potevo cucinare alla buona per trecento persone,
ma la richiesta di accontentare pochi ospiti scelti mi preoccupava.
Sergio continuò: “E poi direi spaghetti al pesto scolati al dente. Niente
roba precotta, mi raccomando; fa schifo. Abbiamo qualcosa di antipasto?”
“Sì. Peperoni in salsa verde”.
“Va bene. Dolci?”
“Qualche crème caramel”.
“Sono vecchi?”
“Di ieri”.
“Allora siamo a posto. Fai un’insalata di contorno. Si cena alle otto”.
“Non mi hai detto quanti sono”.
“Con me, quattro. E mettiti un grembiule pulito”.
La cena fu un disastro. Sergio piombava continuamente in cucina per
accertarsi che tutto procedesse alla perfezione e io finii per agitarmi.
Scolai gli spaghetti troppo presto; più che al dente, erano croccanti. La
nuova cameriera, venuta apposta per la serata, mi guardava di traverso. Le trote salmonate erano troppo cotte. Mentre cercavo di sistemarle
sul vassoio, una (la più bella) mi cadde e si spappolò sul pavimento con
un tonfo. Sergio, che entrava in quel momento, mi trovò immobile con la
schiumaiola in mano a contemplare lo sfacelo.
“Che hai fatto?” sibilò, per non farsi sentire dagli ospiti. Con una rapidità che mi stupì, si chinò e raccolse i pezzi dispersi della trota. Accorpandoli
intorno alla lisca ricompose il pesce sul vassoio come se fosse un puzzle. A
me che lo guardavo impalata disse: “Su, prendi un po’ di maionese”.
Poi il vassoio fu portato in sala e non ne seppi più nulla. Tirai un
sospiro di sollievo: i crème caramel erano già pronti, bastava sformarli
dagli stampini di alluminio. Per me la cena era finita. Corrada, la lavapiatti, trafficava nel lavandino con un gran cozzare di stoviglie per
farmi intendere che per quei quattro avventori avevo sporcato fin troppe pentole. Non ci feci caso e cominciai a riordinare la cucina. Volevo
godermi il momento di calma che segue la baraonda del servizio. Io e il
Lisoform: l’unico idillio della giornata.
Lavorai in santa pace per circa mezz’ora pensando ai fatti miei. Verso
le dieci, mentre mi preparavo a lavare il pavimento, la porta della cucina si spalancò ed entrarono tre uomini di mezza età accompagnati da
Sergio. Per educazione spinsi il secchio sotto il tavolo.
Si radunarono tutti davanti alla parete opposta, vicino alla finestra che
dava sul Monviso. Dai discorsi che seguirono capii che il mio datore di
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lavoro voleva ampliare il locale in quel punto, e per farlo aveva bisogno
dell’approvazione dei tre che aveva invitato a cena. Erano, in ordine di importanza: il sindaco del comune vicino, l’assessore all’edilizia, un geometra
(o architetto) chiamato per la consulenza tecnica. Parlavano tutti insieme
tracciando nell’aria gesti ampi e solenni, come se quel muro dovessero spostarlo seduta stante. Li osservavo a braccia conserte, dimentica di tutto,
appoggiata al manico dello spazzolone. Notai che il geometra, o quello che
era, lanciava frequenti e prolungate occhiate al culo di Corrada, esposto in
bella vista mentre la sua proprietaria era china sull’acquaio.
La conversazione giunse a un punto morto. L’edificio era di particolare
pregio storico? C’era un vincolo paesaggistico? Nessuno dei tre lo sapeva. Gli uomini, d’un tratto sfaccendati, presero a ciondolare intorno alla
stufa. Il geometra afferrò Sergio per il gomito: “Non mi fai conoscere le
tue ragazze? Sono venuto apposta, in paese non si parla d’altro”.
Sergio presentò Corrada, che era la più vicina. Lei si girò appena,
biascicò un saluto e tornò alle sue stoviglie. Aveva un bel culo ma un
pessimo carattere.
“E questa è la tua cuoca universitaria?”
Sobbalzai vedendo che indicava me.
Sergio rise. “Sì. Se vuoi mandarle il conto del dentista, per via degli
spaghetti”.
L’uomo scosse la testa: “Avanti, non scherzare. Presentaci come si
deve”.
Sergio parlò con voce cerimoniosa: “Anna, ti presento l’architetto
Ermes Peano. Lei è Anna Morra, studentessa al primo anno di...”
“Lettere” completai.
“È un grande piacere conoscerti” fece l’architetto stringendomi la
mano. Subito mi accorsi che non aveva niente in comune con gli altri
due bacucchi del municipio. Era vitale e il suo sguardo era pieno di curiosità, e giovane. Gli sorrisi.
Lui mi strizzò l’occhio: “Quanti anni hai, tesoro? Venti?”
“Diciannove” dissi.
“Sei proprio una bimba. Mi dai un bacio?”
Scoppiai a ridere e con un gesto repentino afferrai lo spazzolone:
“Andate via tutti” dissi. “Devo lavare il pavimento”.
La sera dopo l’architetto ritornò. Comparve al’improvviso mentre sistemavo gli avanzi della cena in frigorifero. Il tempo era migliorato,
avevamo avuto una comitiva di alpinisti francesi. La stufa a gasolio era
accesa e c’era un caldo infernale.
Chiesi “Che ci fai in questa bolgia?”
E lui: “Non posso stare senza vedervi, streghette. Siete troppo carine”.
Se ne stava lì tra i vapori unti con addosso una camicia azzurra perfettamente stirata.
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Fece molte domande sul nostro lavoro, alle quali risposi solo io.
Corrada rimaneva rintanata nel suo angolo, ingrugnata e ostile.
Così Ermes prese a venire ogni sera. Sentivo il rimbombo della sua
voce nello stretto corridoio che collegava la cucina alla sala e subito dopo
lui compariva nello spazio vuoto davanti al bancone. Muovendosi tra
mucchi di piatti sporchi e resti di cibo dall’odore nauseante, l’architetto
ci intratteneva. Raccontava di avventure in montagna, di storie di contrabbando, di bellissime borgate alpine abbandonate che avrebbe voluto
ristrutturare. A volte accendeva la radio e ballava per noi un boogie o un
twist. Aveva un fisico agile, da ragazzo. Lo osservavo sbrigando le mie
faccende e il tempo passava in fretta, senza peso.
Cominciai a chiedermi se venisse per me o per Corrada. Provavo una
fitta di gelosia nel pensare che ci avrebbe gradite entrambe, una per
volta o anche tutte e due insieme. La mia collega però non lo filava.
Passandomi accanto, sussurrava con voce sprezzante: “Mandalo via.
È uno scemo”. Non diceva proprio scemo. Usava un termine dialettale
molto efficace: falabrac.
Di notte, prima di addormentarmi, fantasticavo di torride scene di sesso che avevo visto solo al cinema. Non avevo alcuna esperienza diretta e
a diciannove anni mi vergognavo di ammetterlo. Mia madre, donna molto
cattolica, mi aveva inculcato una serie di rigidi divieti che non vedevo
l’ora di infrangere. Ma non volevo farlo con un coetaneo maldestro: aspettavo l’occasione buona per trasgredire alla grande.
Una sera, dopo aver bevuto con me un paio di grappe nel bar pieno
di alpinisti, Ermes infilò una mano sotto la mia giacca bianca da cuoco.
La tenne solo un attimo, ma fu abbastanza. Lo guardai con un sorriso
complice, da ninfetta cresciuta e parecchio scafata. Non volevo che mi
considerasse una pivella.
Mezz’ora dopo, in cucina, sentii cigolare la porta che dava sul cortile.
Una voce sussurrò il mio nome: “Anna!”
Guardai, ma non vidi nessuno. “Chi è?” chiesi.
Ermes comparve nella fascia di luce e mi fece un cenno impaziente con
la mano: “Vieni fuori”.
“Non posso” dissi. “Devo finire qui”. Stavo pulendo l’affettatrice.
“Lascia stare. Lo farai più tardi”.
“Ma poi Sergio si arrabbia con me…”
Entrò, mi afferrò per il polso. “Avanti, non fare la brava bambina.
Tanto so che non lo sei”.
Mi tolsi il grembiule e lo seguii fuori, nella notte gelida dei duemila
metri. Appena fummo al buio mi spinse contro il muro e cominciò a baciarmi furiosamente. Sentivo il suo corpo contro il mio, le sue dita calde
sotto i vestiti. Era come cadere in un abisso.
Soffiandomi le parole all’orecchio Ermes disse: “Vieni con me, andiamo
in macchina”.
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Capii che cosa voleva e scossi il capo: “No”.
Mi tirò a sé, sorrise. Non credeva che dicessi sul serio. “Su, come no…”.
Lo allontanai con un gesto brusco, puntai i piedi a terra. “Non voglio
farlo in macchina”.
Mi guardò incredulo: “Perché? Non ti piace?”
“Mi piace, sì” mentii. “Ma è la prima volta con te. Voglio farlo a letto”.
“Ma dove?”
“A casa tua. Domani sera”.
“Non arrivo fino a domani. Senti in che stato sono”. Pigiò il mio palmo
sulla patta dei suoi pantaloni. Rabbrividii di desiderio, ma non cedetti.
Liberai la mano e scappai in cucina. Sulla porta mi voltai: “Alle undici,
davanti alle casermette. Ti aspetto”.
Ermes aveva telefonato per dirmi che mi portava fuori a cena. Frugai
fra i miei vestiti cercando qualcosa da mettermi. Puzzavano tutti di cucina. Scovai un paio di pantaloni di velluto a coste color tortora e un
dolcevita nero che non avevo ancora usato. Alle undici scesi alle casermette diroccate all’inizio del pianoro. Non volevo che Sergio o Corrada
ci vedessero andar via insieme.
Nel cielo nitido dell’alta quota le stelle brillavano vicine e molto più
numerose di quanto ricordassi.
Ermes era già lì. Quando mi vide accese il motore e partimmo. Parlò in
continuazione mentre scendevamo verso il paese lungo la strada stretta
tutta a curve. Io ero silenziosa; avevo un po’ di paura.
Al ristorante non mangiai quasi nulla e bevvi moltissimo. Quando
uscimmo ero sbronza. Ermes mi portò a casa sorreggendomi per la vita.
Nella mia confusione alcolica vidi un appartamento tutto bianco pieno
di mobili da esposizione; le pareti, i pavimenti, le lampade, i divani erano immacolati e perfetti, come se nessuno li avesse mai usati. Ermes mi
guidò in una camera al fondo del corridoio. Mi lasciai cadere sul letto e
lo trascinai giù con me, slacciandogli la cintura con mani impazienti.
Nel dormiveglia del mattino sentivo le dita di Ermes che mi sfioravano
la pelle. Aprii gli occhi con una fatica immensa. “Che ore sono?”
“Le sei”.
Lo abbracciai, intrecciando le mie gambe con le sue. “Non voglio andare”
dissi. “Ho ancora sonno”.
“A che ora cominci in cucina?”
“Alle sette”.
“Devi prepararti. Farai tardi”.
Obbedii. Alzandomi dal letto mi accorsi che sul lenzuolo bianco c’erano
alcune gocce di sangue. Le vide anche Ermes. “Hai le tue cose?” domandò.
“No”.
Mi fissò senza capire: “E queste macchie?”
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“Indovina” dissi, e mi diressi verso il bagno.
Balzò in piedi, nudo, e mi afferrò per le spalle: “Vuoi dire che era la
prima volta… in assoluto?”
“Sì”.
“E l’hai fatto con me?”
“Sì!”
“Streghetta bugiarda! E io che credevo...”
“Ci sei cascato, eh?”
Mi accarezzò il viso con il dorso della mano. “Ma bimba mia, dovevi
dirmelo. Sarei stato meno brutale”.
“Non sei stato affatto brutale”
Fuori era una bellissima giornata. Il sole ancora basso illuminava le
montagne davanti a noi, mentre la macchina si arrampicava sui tornanti.
Cercavo di imprimermi nella memoria i nomi che Ermes elencava, indicandomi le cime una a una.
Più di tutto mi piaceva fare l’amore nelle stanze polverose sopra il
ristorante, dove non dormiva quasi mai nessuno. I vecchi mobili di legno scuro creavano un’atmosfera intima, piena di ombre e di mistero.
Aspettavo il momento buono per svignarmela con Ermes su per le scale,
mentre Sergio era impegnato a preparare un caffè dopo l‘altro al bar.
Tirchio com’era, sarebbe stato capace di farci pagare la camera.
A metà settembre piovve per cinque giorni di fila; la stagione era finita.
Cominciammo a ritirare le coperte nei sacchetti con la naftalina e a mettere via le pentole più grandi, che ormai non ci servivano più. Poi fu il turno
delle stoviglie e un lunedì mattina ci chiudemmo la porta alle spalle.
Vista da lontano, la sagoma grigia del ristorante sembrava già un
luogo abbandonato.
Sergio mi accompagnò in macchina alla fermata degli autobus.
Abbracciai Corrada, che tornava a casa con un parente taciturno che
non mi fu presentato.
Guardai il paesaggio che cambiava con il diminuire dell’altitudine: dai
pendii spogli disseminati di rocce alle foreste di larici, dai boschi di castagni ai campi di mais della pianura agricola. Mi accorsi che la distesa regolare della campagna mi deprimeva. Era monotona, piatta, senza vigore.
Mia madre si insospettì vedendomi tornare senza zaino. Mi venne dietro in camera da letto e rimase a guardarmi mentre io, in piedi davanti
all’armadio, cacciavo mucchi di abiti pesanti nel borsone.
“Che fai?” domandò cautamente.
Risposi senza voltarmi: “Sono venuta solo a prendere i vestiti. Torno
subito in montagna”.
“Torni… dove?”
Avevo cercato a lungo di evitare quella spiegazione, ma ormai non po92
tevo più rimandare. Volevo andarmene al più presto. Presi fiato e dissi
con calma: “Ho conosciuto un uomo. Vado a stare da lui”.
Mia madre sussultò: “Un uomo?” Parlò con voce spezzata, come se
avesse ricevuto un colpo in pieno petto.
La sua reazione mi addolorò. Cercai di tranquillizzarla. “Mamma, è
un’ottima persona, non devi preoccuparti. Mi vuole bene”.
Dal suo sguardo capii che mi odiava. “Sei pazza” disse.
“Ma no, è simpatico”.
“Simpatico!” urlò lei, con un sarcasmo amaro e disperato. “E sentiamo, quanti anni ha?”
“Quarantotto”.
La vidi impallidire. Il mio amante aveva esattamente la sua età.
Mi si parò davanti, alta e minacciosa. “Tu non vai da nessuna parte.
Non ti permetterò di buttare via la tua vita così, per un capriccio. Cosa
credi, di poter fare ciò che vuoi?”
Non risposi. Conoscevo bene tutti i suoi argomenti.
Irritata dal mio silenzio proseguì con violenza: “Non sai che tutto questo è immorale? Devo proprio vederti finire come una donnaccia? Non è
così che ti ho educato. Ci sono delle regole”.
Sbottai: “Me ne infischio delle tue regole. Io voglio vivere”.
Sollevò una mano di scatto. Stava per darmi una sberla, ma si trattenne; sapeva che sarebbe stato peggio. Cercò di contenersi, cambiò tono:
“Ragiona, per favore. Non hai pensato ai tuoi studi, alla tua vita? …Sei
giovane, te ne pentirai amaramente”.
“Non me ne importa un fico” dissi, afferrando il manico del borsone.
La lasciai in cima alle scale in preda a una furia muta, il viso impietrito e ostile. Se avesse pianto mi avrebbe reso tutto più difficile. Ma non
pianse; era troppo arrabbiata.
La vita con Ermes era strana, senza orari. Dormivamo fino a tardi, poi
lui si chiudeva nel suo studio in mansarda e lavorava fino a notte fonda.
Non cucinavamo mai: andavamo sempre al ristorante. Se protestavo
per quello spreco, Ermes ribatteva: “Di che cosa ti preoccupi? Posso permettermelo”, ma non era quello il punto. A me mancava il calore dei
fornelli accesi e delle pentole sul fuoco. Quando tentai di spiegarglielo,
lui scrollò le spalle e disse che non sopportava l’odore di cucina nelle
stanze.
Durante il giorno non avevo niente da fare. Ascoltavo il rumore del ruscello che scorreva accanto alla casa o guardavo dalla finestra le nuvole
che si addensavano sulla cima del Monviso. Con la fine della stagione
turistica le strade del paese si erano svuotate; si poteva star fuori per
ore senza incontrare nessuno. I laghi, i colli e i rifugi indicati sulle mappe dei sentieri mi attiravano, ma non avevo voglia di andarci da sola;
preferivo stare in casa. Sdraiata sul letto sfogliavo i libri di architettura,
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guardavo le figure, leggevo le biografie di Le Corbusier, Alvar Aalto e
Antoni Gaudí. Qualche volta salivo in mansarda e osservavo Ermes al
lavoro. Mostrandomi fogli pieni di tracciati mi spiegava come era riuscito a risolvere la pendenza di un tetto o lo sviluppo di una scala e io non
ci capivo nulla. Invidiavo la sua passione e sentivo di non avere niente
che mi appartenesse allo stesso modo.
I miei libri erano rimasti a casa e non potevo studiare. Sarei corsa a
prenderli, ma non me la sentivo di affrontare la delusione di mia madre.
Non ancora. Volevo andare a lezione all’università ma era troppo lontana. Tre ore con l’autobus, un’eternità.
Chiedevo a Ermes: “Dobbiamo proprio vivere qui, in questo posto
sperduto?”
E lui, trasecolando: “Perché? Non ti piace?”
“Be’ è piccolo, non c’è niente”.
“Ci sono le montagne. Guarda che spettacolo”.
“Non ti trasferiresti in città?”.
“Sei matta? Io sto bene solo qui”.
Tutt’al più scendevamo nella cittadina a valle per un invito a cena.
Nelle belle case dei colleghi di pianura, così simili alla sua, Ermes si infervorava descrivendo la modernità di certe soluzioni che aveva scoperto studiando l’architettura delle baite alpine. Ogni tanto mi strizzava
l’occhio o mi spiegava qualche particolare tecnico perché non mi sentissi
tagliata fuori. Ma io sapevo di essere oggetto di un’attenzione obliqua.
Gli uomini sembravano chiedersi come Ermes fosse riuscito a trovarsi
una pollastra così giovane da scopare. Le donne mi scrutavano diffidenti, incerte se compatirmi o temermi. Ero una ragazza ingenua traviata
da un porco o una zoccola da quattro soldi? Nel dubbio mi trattavano
freddamente e sorvegliavano i mariti.
Una sera, di ritorno da una cena, sentii per la prima volta un groppo
che mi serrava la gola. I boschi di castagni ai lati della strada, spazzati
da un vento furioso, erano neri e minacciosi. Afferrai la mano di Ermes
appoggiata sul cambio e strinsi forte le sue dita fra le mie.
“Ti amo” dissi.
Lui ricambiò la stretta e sorrise: “Davvero?”
“Sì”. Il groppo minacciava di soffocarmi; ero terrorizzata.
Aggiunsi in fretta: “Voglio sposarti”.
Ermes non rispose. Guardava la strada davanti a sé con caparbia concentrazione. “Sei una bambina” disse poi. “Non sai cosa dici”.
Il giorno dopo mi portò a fare una gita in montagna. I prati di alta
quota erano pieni di marmotte grasse che si muovevano al rallentatore;
faceva freddo, fra poco sarebbero andate in letargo. Le piante di mirtilli
chiazzavano di rosso l’erba ingiallita, dal colle scendeva una nebbia gelida che sapeva di inverno. Camminando tenevo le mani strette a pugno
nelle tasche della giacca, nel tentativo di scaldarmi le dita.
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Una vecchia apparsa sulla soglia di una baita ci invitò dentro a prendere un caffè. Nella cucina buia, piena di mobili da poco prezzo, respirai
l’odore del minestrone che cuoceva sulla stufa.
“Andiamo?” disse Ermes.
E io pensai: “No”.
Mi svegliai da sola nel grande letto sfatto. Ermes era già in mansarda
a lavorare. Salii da lui e rimasi in piedi sulla porta, senza scarpe né
calze, aspettando che si accorgesse di me. Era davanti al tecnigrafo e mi
dava la schiena. Passarono alcuni minuti e non successe niente; sentivo
il gelo del pavimento che si propagava in tutto il corpo.
“Voglio tornare a casa” dissi improvvisamente.
Ermes si voltò e mi vide. Non disse nulla. Mise il tappo alla penna e
l’appoggiò sull’apposita mensolina.
Continuai: “Non ce la faccio più a stare qui. Portami a casa”.
Mi fissò a braccia conserte aggrottando la fronte, poi si alzò, prese la
giacca dall’attaccapanni e disse: “Va bene, se è questo che vuoi”.
Durante il lungo viaggio in macchina verso la pianura non scambiammo una parola. Passammo davanti alla villa che lui aveva progettato e
arredato per una coppia di ricchi commercianti di bestiame: una costruzione moderna in cemento armato a vista, con balconi e serramenti in
legno di frassino. L’edificio con tutto ciò che conteneva era una creatura
di Ermes. I proprietari lo avevano incaricato di scegliere ogni cosa: i
mobili, i tappeti, le lampade e persino le stoviglie. Adesso che la casa era
finita e completa di tutto, i due vivevano nella tavernetta, preoccupati di
non sciupare quegli oggetti costosi, o forse solo intimiditi da quel gusto
ricercato che non capivano. Li immaginavo là sotto nel locale seminterrato, circondati dai loro vecchi mobili, mentre ai piani superiori gli
arredi dalle linee impeccabili si coprivano di polvere. Era una storia che
mi piaceva moltissimo e non mi stancavo mai di risentirla, ma Ermes
non me l’avrebbe più raccontata. Il pensiero di quella perdita mi diede
una fitta al cuore.
Ma lui che cosa provava? Spiavo il suo profilo nella speranza di cogliervi un segno che non era troppo arrabbiato con me. Per consolarmi
pensavo di aver preso la decisione che anche lui in fondo si augurava.
Aveva vissuto sempre da solo; per quanto gli piacessi, si sarebbe presto
stufato di avermi tra i piedi.
Ma non c’era più tempo per rimuginare. La macchina oltrepassava già
le prime case del paese.
Senza chiedermi nulla, Ermes parcheggiò sulla piazza; sapeva che
abitavo da quelle parti. A quel punto l’idea di scendere mi sembrò talmente dolorosa che esitai. Fuori era tutto stupidamente normale. Un
vecchio leggeva i necrologi sotto il porticato davanti alla chiesa. In giro
c’erano facce che conoscevo di vista, uomini e donne che tornavano dal
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mercato con le borse della spesa. Li invidiai pensando che per loro era
un giorno come un altro. Potevano star lì tranquilli a chiedersi chi era
morto o che cosa ci sarebbe stato per pranzo.
Ermes taceva, aspettando una mia decisione. Non aveva nemmeno
spento il motore. Volevo dirgli qualcosa di bello, tipo quanto era stato
importante per me eccetera, ma non mi veniva niente.
Allungai un braccio, gli sfiorai i capelli con le dita. Aprii la bocca per
parlare, ma mi uscì solo un “ciao” misero e insipido.
Ermes si voltò. Per la prima volta da quando eravamo partiti mi guardò in faccia, le labbra piegate in un mezzo sorriso.
“Addio, streghetta” disse senza togliere le mani dal volante.
Non c’era nient’altro da aggiungere. Scesi dalla macchina e mi incamminai in fretta verso casa senza guardare in faccia nessuno.
Mia madre non mi chiese nulla; mi vide entrare con i bagagli e si
accontentò di quel dato di fatto. Io però sapevo che non ero tornata per
restare. Mi sarei cercata un lavoro in città e me ne sarei andata a vivere
da sola. Ma non subito. Dio mio, non subito, no! Ero a pezzi.
Pensavo che sarei morta. Ermes mi mancava da impazzire, di giorno
e di notte. Una mattina non resistetti più e gli telefonai. Composi il numero e immaginai lo squillo che risuonava a lungo sul tavolino di legno
accanto al tecnigrafo. Quando udii lo stacco del ricevitore mi pentii di
quell’impulso insensato. Ma ormai era troppo tardi.
Lui già diceva: “Pronto?”
“Sono io, Anna” risposi con il cuore in gola.
Ci fu un lungo silenzio. Pensai: adesso mette giù. Invece sentii nell’orecchio un soffio, come una specie di sospiro o qualcosa di simile.
“Perché mi hai chiamato?”
Quella domanda mi fece sentire infinitamente stupida. “Non so…
Volevo sentire la tua voce”.
“E ti sembra una buona idea?”
“No”.
Ci fu un’altra pausa, eterna e straziante. Poi lui disse con tono duro:
“Senti, Anna, sei tu che mi hai lasciato. Adesso fai la brava e non mi
tormentare. D’accordo?”
“Sì”.
Buttai giù la cornetta come se mi scottasse tra le dita.
Mia madre mi incrociò in corridoio: “Che succede? Hai pianto?”
“No”.
“Hai gli occhi rossi…”
“Non è niente” dissi. “Stai tranquilla”.
Andai alla finestra del soggiorno e guardai fuori, cercando in lontananza,
oltre i campi e le case, il profilo aguzzo delle Cozie. Ma il Monviso non si vedeva; l’intero arco delle montagne era coperto dall’odiosa foschia di pianura.
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Giordano Tedoldi
LE MACCHINE
Giordano Tedoldi
è nato a Roma nel 1971.
Ha scritto articoli per
L’Espresso e per Kataweb
Libri, e racconti per le
riviste Liberatura e
Maltese Narrazioni.
Prima, col Vigliacco, c’era amicizia per la pelle, almeno in certi momenti. In effetti quando La Butterata non mi cacava e io m’ero isolato, l’unico da cui mi lasciassi consolare era lui, Il Vigliacco. Forse Il
Vigliacco già mi faceva la corte e non mi accorgevo di quanto prendesse
la cosa sul serio. Il Vigliacco l’avevo sempre considerato solo un amico.
Certo, mi mandava messaggini dove scriveva che gli mancavo. Ma che
vuol dire, anche a me lui mancava. Ma la mancanza resta quella che è:
un vuoto che colmato si tranquillizza. Non pretende di ingoiare ancora.
Per lui evidentemente era diverso: la mancanza non si colmava mai, era
decisamente avido, voleva possedere, voleva assorbire. Io tutto questo
non lo vedevo. Cosa volete che ne capissi, allora pensavo a una donna.
Ero molto dispiaciuto del fatto che La Butterata mi ignorasse totalmente. Leggevo spazzatura, ascoltavo spazzatura, bevevo spazzatura, uscivo con escrementi umani – tutto per dimenticare l’indifferenza della
Butterata. Non la capivo. Si diceva mia amica ma era come non potesse
vedermi. In realtà era come avesse una metà del cervello occupata da
pensieri negativi su di me, e l’altra metà da pensieri positivi, una perfetta mela spaccata a metà. Parlando della metà negativa, cos’avevo
fatto di male? So fin troppo bene che il pensiero paranoico ha sempre
un principio di realtà alla base. Non è casuale. Una minima, minuscola
colpa: avevo forse parlato male di lei? Avevo forse detto a qualcuno che
La Butterata era molto butterata? Troppo butterata? Sarebbe stato tipico di me. Il Vigliacco voleva vedermi spesso in quel periodo in cui mi
addoloravo perché La Butterata era assente, io però non lo trovavo consolante e tentavo di restarne alla larga. Certi giorni staccavo il telefono,
prendevo i tranquillanti e andavo a dormire.
Era sempre lui a telefonare, a farsi vivo per offrirmi il suo aiuto, e io
non rispondevo, io mi comportavo con lui esattamente come La Butterata
con me. Copiavo La Butterata. Studiavo La Butterata a fondo nel suo
sbattersene di me e quindi allo stesso modo me ne sbattevo del Vigliacco.
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Il Vigliacco dopo nemmeno due settimane di questo trattamento entrò
in sofferenza. Smise di dirmi con tortuosi giri di parole che gli faceva
piacere vedermi, che mi trovava intelligente, che ero una persona divertente, e mi confessò che non voleva perdermi perché si era quasi innamorato. Mi confessò che stare lontano da me gli procurava dolore. E io
ero insensibile. Consapevolmente insensibile, così come La Butterata lo
era nei miei confronti. Io, per parte mia, certi giorni stavo davvero male,
avrei voluto baciare La Butterata sulla guancia, m’ero visto allo specchio con il viso guasto e arrossato; mi stavo dando in olocausto per una
donna dal nome malaugurante: La Butterata. Quando le parole adoranti del Vigliacco attraverso il telefono mi ronzavano nell’orecchio, spesso
soppesavo la differenza tra Il Vigliacco e La Butterata, e mi domandavo
perché l’uno ci tenesse tanto a me e l’altra per niente, e perché io tenessi
tanto all’una e non a quest’altro, come fosse buffo e crudele. Ascoltavo
le parole di lui attraverso il ricevitore del cordless e continuavo a specchiarmi nei miei pensieri finché la voce del Vigliacco non divenne a tutti
gli effetti la voce della Butterata, la voce della Butterata era molto bella,
educata, linguisticamente sempre precisa, solo a tratti distratta, cosa
che inevitabilmente mi faceva pensare che stesse facendo altro mentre
parlava con me al cordless, tipo fumare in terrazza, mangiare un panino tenendo in sordina la masticazione con una mano sul microfono,
controllare la posta elettronica, far cenno di aspettare e avere pazienza
a qualcuno, un uomo, lì con lei. Non mi sfiorava nemmeno l’anticamera
del cervello che, al telefono con me, La Butterata potesse davvero ascoltarmi: era solo un passatempo, una partita a un gioco scemo e che non le
interessava vincere. Col Vigliacco, al telefono, presi l’abitudine di starci
a lungo, perché lui imitava alla perfezione La Butterata, e pronunciava parole adoranti nei miei confronti, che non poteva vivere senza di
me, che ero perfetto, stavo lì a ascoltarlo finché non mi faceva ridere
che quasi non ne potevo più, e anche finché non potevo assicurarmi un
pezzo della pseudoButterata nell’interpretazione del Vigliacco, mediante quelle telefonate, che inevitabilmente si chiudevano con la richiesta
del Vigliacco di incontrarsi, per fare cose innocue, tipo passeggiare in
un parco, andare al cinema, andare a bere un bicchiere di birra, non ci
sarebbero state conseguenze, non ci sarebbe stato sesso. Una di queste
sere ero veramente disperato, nemmeno l’imitazione del Vigliacco, col
suo falsetto stupendo, riusciva a consolarmi dal fatto che La Butterata
non mi considerasse per niente, e cominciai a tirare su col naso. “Sei
raffreddato?” mi domandò quel Vigliacco. “Sì, aspetta che mi soffio il
naso”. Aveva smesso di imitare la Butterata, si era stufato di quel gioco.
“Non è che per caso tiri?” aveva detto a un certo punto. “Un mucchio di
gente delusa comincia a tirare. La solitudine è l’anticamera della tossicodipendenza, e alla fine anche il suo ospizio”. Sicché fu facile per me
rispondere: “Quando parli senza imitare La Butterata perdi tutto il tuo
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interesse”. E lui: “Sarà ma tu continui a tirare su col naso. O stai piangendo o ti fai”. Concludemmo la telefonata. Pensai alla cocaina, a quante
volte mi era stata offerta e stupidamente avevo declinato. Dove potevo
prenderla adesso? Non conoscevo nessuno. Non ero nessuno. Erano le
nove, era sceso il buio e non me n’ero nemmeno accorto. Mi faceva male
l’orecchio per tutto il tempo che avevo tenuto il telefono incollato, e in
frigorifero avevo solo una confezione di Emmental. Avrei avuto voglia
di cocaina. Mi avrebbe aiutato a sopportare la solitudine. Provai con un
ultimo tentativo. Provai a chiamare La Butterata.
La Butterata era di buon umore. Ero riuscito a chiamarla anche se mi
tremava la mano e allucinavo davanti a me una piccola piramide bianca di cocaina sul tavolino del salone, da dove stavo chiamando seduto
sul divano. Rispose. La sua voce aperta, solare, mi sembrava da sola
uno schiaffo allo squallore della vita. Sembrava contenta di sentirmi,
sembrava avesse delle cose da dirmi. La cosa mi calmò un po’. Mi chiese
cosa Il Vigliacco volesse da noi, visto che le era giunta voce che sparlasse
a 360 gradi di lei, dunque anche con me. Le dissi che Il Vigliacco non
poteva volere niente da noi intesi come Noi, perché io e lei eravamo due
estranei. “Non siamo due estranei” disse La Butterata, “non siamo insieme ma nemmeno due estranei. Esiste una linea, e noi siamo su quella
linea. Siamo amici. Anzi se ti va la prossima settimana ci vediamo”. E
io: “Vediamoci presto, ma dimmi cosa vuoi fare, mentre rimaniamo in
equilibrio sulla linea o forse è meglio dire striscia”. E lei: “Perché striscia?”, e io: “Lascia perdere”. Ci fu un silenzio imbarazzato, poi lei disse: “Voglio andare a correre”, e io: “Non posso venire, sono fuori forma,
sono veramente da buttare in questi giorni, ti dico solo che ascolto Luigi
Tenco che odio come nient’altro”, e lei: “Non si può fare niente con te”, e
io: “Possiamo parlare di me, di te, e del Vigliacco. Possiamo parlare male
di tutti quanti, noi compresi. Ne hai voglia?”.
Quando ci vedemmo, andammo a prendere un cocktail in un locale
che esponeva l’adesivo del Gambero Rosso, ragion per cui era carissimo e i cocktail erano assolutamente ordinari, e la Butterata, appena la
vidi, ovviamente non mi fece nessuna impressione, perché stavo male
già da prima, da ore prima di vederla, quindi l’impatto con lei non mi
fece male più di tanto. Tantopiù che mi tenevo sulla mia linea, deciso
a non fare un passo indietro né uno avanti. Se avessi fatto un passo
falso, avrei avuto davanti a me solo tre soluzioni, come avevo sentito
dire in un film di giovani mafiosi: il tetto, il fiume, o un colpo di pistola.
Sostituiamo il colpo di pistola con il gas, e la cosa si fa realistica. Ora,
dicevo che non avevo più paura, ne avevo avuta abbastanza per tutto il
giorno, pensando a cosa avrei fatto rivedendo La Butterata. E ora, come
sempre, ero superficiale, avevo messo il pilota automatico – come se io
101
e La Butterata fossimo già sposati da molti anni! Anzi, quasi quasi la
mollavo lì, quasi quasi me ne andavo, non valeva la pena. Quasi quasi
divorziavo da questa non moglie che amavo totalmente in absentia. Era
butterata, ovviamente, ma in più aveva nuovi pedicelli sul lato del collo. Non ricordavo nemmeno se le avessi mai chiesto il perché di quella
sua pelle in rovina, forse una volta l’avevo fatto, e lei aveva tirato fuori
la storia che non mangiava frutta né verdura, mangiava troppe patate
lesse, troppa cioccolata al latte con quel burro orribile, e soprattutto
la ritenzione idrica, che le gonfiava i tessuti, glieli rendeva rugosi, la
rendeva antiestetica. Alla birreria presente sul Gambero Rosso, a un
tavolino d’angolo, dopo aver parlato di un mucchio di stronzate, infine la
Butterata mi chiese: “Perché il Vigliacco mi attacca?”. Le avevo riferito
tutto quanto di male aveva detto di lei, cosa che l’aveva colta di sorpresa
ma non troppo, aveva finto di essere sorpresa ma in realtà lo sapeva che
Il Vigliacco andava in giro a sparlare di lei, a dire che era una Butterata
marcia. Io le risposi toccandomi il naso nella penombra appena illuminata dai colori dei cocktail: “Non lo so, gelosia. Lui dice che gli manco” e
La Butterata: “Anche a me invia messaggini dove dice che gli manco. A
lui mancano tutti. Così parla male di tutti”. Io la guardavo, la ascoltavo
perché mi piaceva molto sentirla parlare dal momento che a differenza
delle donne comuni oppure ordinarie definitele come volete lei adoperava la logica, i suoi discorsi avevano una consequenzialità di cui realizzavi la portata perfino ore dopo averli uditi, e ancora te ne stupivi, ma
in quel momento, seduti a un tavolino su una pedana rialzata nella sala
non fumatori di quella birreria, io soprattutto la guardavo, e alla fine
glielo dissi, le dissi: “È sleale”, e lei: “Cosa?”, e io: “È sleale, quanto sei
bella”, così mi ero finalmente calato le braghe, come si dice, davanti a
lei, le avevo confessato che sì, i discorsi, la logica, tutte cose fondamentali, ma se poi ci aggiungevi che butterata o no era veramente bella, aveva uno sguardo preciso, accurato che ti puntava negli occhi, al confronto
tutte le altre erano strabiche, tutte le altre avevano uno sguardo che
nuotava nel nulla come principianti dell’occhiata, lei no, era veramente
sleale, era veramente una scorrettezza.
Dopo aver riaccompagnato La Butterata a casa, era l’una, La Butterata
abitava in un quartiere studentesco dove a quell’ora languiva un sommesso ronzio di malattie sessualmente trasmissibili e angoscia da esame imminente, decisi che non avevo voglia di tornarmene a casa, decisi
di tentare l’ingresso in un’altra birreria, non necessariamente segnalata
dal Gambero Rosso, decisi di bere ancora qualcosa in solitudine perché
può darsi che il giorno dopo sarei morto, già da qualche giorno guidando
vedevo delle macchie buie, non come quelle protocellule che ti sembra di
vedere d’estate quando bevi poca acqua e la pressione del globo oculare
diminuisce, no, avevo proprio dei momenti di buio, sprazzi che ingoia102
vano la visione, che avevo derubricato alla voce psicosomatologia, anche
se sapevo bene che era una diagnosi consolatoria e rassicurante, dunque
sbagliata. Dopo aver visto La Butterata scendere dalla mia macchina e
gettare un’ultima occhiata precisa a me o forse al cambio della macchina, averla salutata senza ricevere alcuna risposta, come quei messaggini del Vigliacco cui né io né lei avevamo più voglia di rispondere, avevo
avuto un altro momento di buio, e subito dopo stavo guidando lungo la
via della Butterata e parcheggiavo in un posto libero davanti una birreria che frequentavo da studente di lettere, dove litigavo spesso col proprietario o comunqueil gestore a proposito della guerra ONU in Kosovo,
che ritenevo sacrosanta, ritenevo giusta e soprattutto caldeggiavo l’invasione di terra e non i meri bombardamenti e ricordo che mentre mi
accaloravo su quest’opinione scema come qualunque altra opinione il
gestore con la sua solita camicia bianca e le labbra pronunciate – un
bell’uomo in definitiva, con un certo stile – portò il vassoio con le birre
che io e i miei amici studenti avevamo ordinato e con grande maleducazione ma al tempo stesso maggiore convinzione di quanta ne avessi io
mi prese di petto e disse: “Ma vacci tu, in guerra, allora”. Entrai dunque in quella birreria, che si chiama Rive Gauche, ed è buffo perché
io da ragazzo ho collaborato a una rivista di Destra che si chiamava
Riva Destra, la Destra ha sempre scimmiottato la Sinistra, mentre la
Sinistra, dal canto suo, ha perso il senso dell’ispirazione marxiana ed è
diventata una cosa simpatica e infantile ma nulla più, come l’Orso Yogi,
la Sinistra è un Cartoon, e entrando nella birreria mi avvicinai al bancone in fondo e il gestore in camicia bianca, riccioli neri lucidi e labbra
pronunciate mi riconobbe e io ordinai una birra rossa media e lui disse:
“Vuoi mangiare anche qualcosa?” che è pur sempre un bel progresso
rispetto a: “Ma vacci tu in guerra”, se ci pensate.
A un tavolino d’angolo sulla sinistra, mentre mi sceglievo il posto per
sedermi, c’era ancora qualcuno là dentro, molti studenti con le borse
appoggiate ai piedi delle sedie, qualche professore di filosofia che rimorchiava qualche studentessa, una ragazza apparentemente assorta
in una traduzione col suo portatile che sarebbe presto divenuta cieca
perché si stava quasi al buio, e lei doveva leggere dal libro e consultare
un vocabolario e poi scrivere sul laptop, avrebbe perso la vista così, a un
tavolino d’angolo sulla sinistra c’era Francesco, uno studente di fisica
appena ventenne, molto più giovane di me dunque, col quale in un niente mi mettevo a fargli da padre, mi mettevo a fare il duro, solo perché
avevo dodici anni più di lui, mi avvicinai e gli feci un gesto con la mano
davanti agli occhi, sembrava che dormisse o che fosse assorto in qualcosa
di profondamente complesso, si riscosse e mise una mano sul libro che teneva sul tavolino, uno Schnitzler della piccola biblioteca Adelphi. Avevo
conosciuto Francesco sul sito di appassionati di scacchi chessgames.com
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e in seguito avevamo deciso di incontrarci al Rive Gauche, un posto che
lui non conosceva, e ora ecco che all’una passata me lo trovavo lì, con
un libro di Schnitzler (una pippa antica) sul tavolino umido. Ci eravamo
incontrati ancora molte volte, e grazie a Dio avevamo smesso di parlare
di scacchi. Aveva conosciuto pure Il Vigliacco, che molti mercoledì sera
mi portavo al Rive Gauche a tenermi compagnia mentre bevevo due o al
massimo tre birre rosse. Francesco mi disse che stava andando via, quel
giorno aveva perso malamente una partita con uno che poi lo aveva umiliato davanti a tutti mostrando così tanti errori nel suo gioco che alla
fine disse che quella partita non poteva essere che fasulla, preparata a
tavolino, e Francesco si umiliò a spiegare che no, quegli errori o cappelle, come si dice in gergo, li aveva fatti pensandoci, riflettendoci, dunque
era proprio una pippa anche se non antica come Schnitzler, io gli dissi
che cazzo te ne frega gli scacchi sono un gioco da rincoglioniti e lo pregai
di restare perché avevo voglia di parlare della Butterata, c’erano nuovi
sviluppi, chissà forse la possibilità di mettersi insieme, anche perché
parlando a Francesco della Butterata avrei continuato ad averla sotto
gli occhi, ma Francesco era davvero stanco e “Domani devo svegliarmi”,
disse, una frase priva di senso solo in apparenza, e io cominciai a dubitare che mi volesse ancora bene, e quando Francesco fu uscito dalla porta del Rive Gauche io cominciai a tempestare di chiamate Il Vigliacco,
perché avevo questo terribile, orrendo sospetto, che Il Vigliacco avesse
cominciato a farmi terra bruciata attorno, ma il cellulare del Vigliacco
era spento, e dove abitasse adesso non lo sapevo, e come fosse la sua
macchina nemmeno, non potevo trovarlo in nessun modo. Mi sedetti
con la mia birra e il mio piattino con gli stuzzichini a un altro tavolo,
non quello lasciato libero da Francesco, che oltretutto aveva fumato così
tante sigarette cheil posacenere esalava un odore ributtante, e cercai
di non pensare al Vigliacco, cercai di essere contento, stare bene. Ero
uscito con La Butterata, quella sera, la donna che amavo, se solo avessi
avuto le idee chiare sull’amore.
Sul sesso le idee me le ero chiarite. Del resto, solo i minorati non se
le chiariscono. Alla fine devi solo capire cosa ti piace fare. A casa aprivo
spesso internet e andavo su un sito dove si vedevano donne che si fanno penetrare da rudimentali macchine idrauliche o meccaniche. Anche
quella notte, tornato dal Rive Gauche, lo feci. Erano le tre passate, odoravo di fumo e provavo una profonda rabbia. Ascoltavo un cd dei Rem a
volume molto basso per non disturbare la vicina francese pippa antica
che batteva sempre sul muro e vedevo nel mio monitor piatto queste
donne che nel sito erano definite modelle che, presumibilmente dotate
di cervello, si alzavano sulle gambe sporgendo la fica per consentire a
un fallo di plastica rosa di penetrarle. Un fallo di plastica avvitato su
una sbarra di ferro collegata a una ruota che forniva l’energia cinetica
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necessaria a penetrare. Osservavo tutto ciò – la chiamerò tortura pippa antica - e non mi sembrava tanto distante dai miei comportamenti,
quello che la modella si stava facendo fare in quel momento, per non
so quante poche migliaia di dollari, forse nascere donna è davvero una
sventura, forse hanno ragione le donne che lamentano una discriminazione per la quale alla fine la scorciatoia è sempre quella: farsi penetrare da una macchina, da un sistema, da un uomo che ti paga. Cosa c’è di
sbagliato in tutto ciò? Potevo a malapena sopportare di vedere quello
che stavo vedendo, perché da un lato era eccitante, dall’altro era una
cosa talmente malvagia da non suscitare nemmeno il riso, era il nichilismo, era vedere una giovane ragazza completamente confusa, nemmeno narcisismo, nemmeno esibizionismo, quella era catatonia, quella era
malinconia e basta. Modelle era il nome della bestia.
Se solo la mia vita mi avesse dato un’opportunità di cambiare le cose.
Avrei cambiato queste cose. Avrei fatto chiudere quel sito. Lo avrei censurato. Avrei invitato gli uomini e le donne a un diverso comportamento, ma io sapevo perfettamente da cosa era determinato quel comportamento: non dalla volgarità, non dal denaro, non dal machismo, ma
dalla scarsa stima di sé. Dall’odio di sé. E l’odio di sé mi fece tornare a
mente Il Vigliacco. Immaginai che la modella dovesse aver conosciuto
un Vigliacco, prima o poi, nella sua vita, o anche una Vigliacca, non
frega niente se uomo o donna, che poi poteva essere anche La Madre, o
Il Padre, o Il Fratello, o tutti loro insieme, e questo Vigliacco era riuscito a scavare come un ratto nella sua autostima, era riuscito a roderla
da dentro, nemmeno l’esca del denaro può fare quello che può fare un
Vigliacco quando decide di abbatterti, di infilarti un pene di plastica
attaccato a una sbarra di ferro dentro di te. Il Vigliacco aveva convinta
la modella che la sua vita non era niente di che. Era a perdere. Quindi
da riempire. Con le macchine. E da mostrare. Sul sito a pagamento, sul
quale io però accedevo grazie alle password piratate, dunque nemmeno a pagamento: uno schifo assoluto. Adesso Il Vigliacco sarebbe stato
contento, vederla fottere dalle macchine, quella ragazza che prima ancora che modella fottuta dalle macchine poteva essere una sua amica,
poteva parlarci, portarla a bere un bicchiere di birra rossa, stabilire un
transfert, parlarle di sogni e visioni, e invece no: e allora anch’io dovevo
stare attento, e dovevo sorvegliare La Butterata senza riuscire molesto
né invadente, un compito improbo. Non dovevo essere un altro Vigliacco
per La Butterata, perché di Vigliacco già c’era quello originale. Io avrei
dovuto proteggerla, dal rischio di finire in un modo anche lontanamente
analogo a quello delle modelle penetrate dalle macchine. Il Vigliacco
mi chiamò la mattina seguente alle dieci. La mattina seguente era domenica. Era pesante, la sua voce. Il Vigliacco mi disse che aveva visto
le mie chiamate e così mi aveva richiamato. Era pesantissimo, denso
come un gas. Disse che aveva saputo dalla Butterata che eravamo usci105
ti. Prima di me, aveva chiamato lei. Voleva sapere tutto. Era evidente.
Gli chiesi da quanto tempo non vedeva Francesco. Disse che non ricordava nemmeno chi fosse questo Francesco. Gli dissi che era il ragazzo che giocava a scacchi e studiava fisica all’università. Disse che non
si ricordava di questo tizio. Dissi al Vigliacco di stare attento. “A cosa
devo stare attento?”, e io: “Ti faccio fottere dalle macchine, stai attento, ti faccio diventare un modello”. “Aspetta, forse me lo ricordo questo
Francesco. È quel pischello che sfida tutti a scacchi, perde e si deprime”.
E io: “Esatto”. E Il Vigliacco: “Ti racconto una storiella. Una sera ho dato
una festa a casa mia. C’erano tutti, tranne te. Tu come al solito non sei
venuto. Al telefono mi dicesti che saresti venuto ma poi niente. C’era
La Butterata, anche se è stata solo pochi minuti, giusto all’inizio per
stringermi le mani e dirmi che faceva un freddo boia. C’era L’Umiliatore
che suonava con la chitarra certi arrangiamenti suoi dei Radiohead intervallati a Luigi Tenco, una cosa allucinante che però gli procurava un
certo successo presso il pubblico femminile. E c’era questo Francesco,
triste come un’acquaforte. Invidioso come e peggio di me. Un bastardo,
per avere ventidue anni, un bastardo fatto e finito. A un certo punto ho
tirato fuori la scacchiera con i pezzi di vetro, e Francesco è uscito dal
suo silenzio d’acciaio e ha chiesto all’Umiliatore se gli andava di perdere. L’Umiliatore ha posato la chitarra acustica a terra e ha guardato
Francesco con un sorriso, avvisandolo che non giocava con i dilettanti.
Francesco gli ha risposto che non era un dilettante, aveva vinto una
mezza dozzina di tornei, giocava tutte le sere su internet, tutte quelle
stronzate che dicono i dilettanti. Va bene. Le ragazze ci hanno messo
del loro. Giocate! Giocate! Vogliamo vedere il sangue! Gridavano. Se si
fossero spogliate, se ci avessero fatto mangiare la loro fica, sarebbero
risultate più composte. Giocate! Giocate! E Il Perdente paga pegno!”
“Vai avanti, Vigliacco”, dissi al telefono. Il Vigliacco proseguì il racconto della festa a casa sua.
“Francesco prese il Nero. Anche quella fu arroganza. Disse che era lui
che lanciava la sfida, e quindi era giusto prendesse il Nero. L’Umiliatore
avanzò di due passi il pedone di Re e Francesco avanzò di un passo
il pedone di Donna. Quando si dice autolesionismo. Giocare la difesa
Pirc con L’Umiliatore. Con uno preciso, profondo e calcolatore come
L’Umiliatore. Quando Francesco ebbe finito di costruire la sua piccola
casa protettiva sul lato di Re, la sua posizione era già così passiva che
si accettavano scommesse sulla sua sconfitta. Alle ragazze, che si erano
rese conto che una partita a scacchi è di una noia mortale, se non si ama
il gioco, cominciai a offrire drink sempre più forti, cominciai a mostrare
libri e dischi, parlare di cinema, cercai di comportarmi con loro come il
migliore ospite possibile, ormai la cazzata di tirare fuori la scacchiera
e uccidere la festa l’avevo fatta. Una buona metà delle ragazze se ne
andò. Qualcuna me lo disse pure: madonna che palle, qui da te. Mai più!
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Almeno mi disse quello che pensava. Francesco si teneva le mani sulla
fronte, e fissava un punto della scacchiera dove forse pensava di poter
attaccare vincendo uno scambio, insomma rimanendo con un pezzo di
più dopo uno scontro tra pezzi leggeri”, e io: “Lo so cosa vuol dire vincere
uno scambio”, e Il Vigliacco riprese: “Toccava i pezzi di vetro a lungo,
sembrava autistico, credimi amore mio, sembrava…”, e io: “Non dire
amore mio, su, lasciami fuori a me”, e Il Vigliacco si scusò e riprese: “A
un certo punto Francesco si mise a pensare tantissimo, si strusciava le
mani sui pantaloni e io mi dicevo adesso gli prendono fuoco, quei jeans
scintillavano, e alla fine Francesco guardò negli occhi L’Umiliatore e
domandò quanto tempo avesse e L’Umiliatore a una simile domanda da
dilettante nemmeno rispose, era una partita senza tempo, non avevamo
gli orologi, che senso aveva domandare quanto tempo avesse? Bisognava
giocare più presto che si potesse e punto. La verità era che Francesco
non sapeva più che fare per uscire da quel casino. Una ragazza vicino
a lui disse perfino muovi l’alfiere, il disastro era completo, le cretine
cominciavano a suggerirgli le mosse, e allora lui fece l’unica cosa dignitosa che doveva fare: prese tra indice e pollice il suo bel Re nero e lo
capovolse. L’Umiliatore aveva vinto in ventiquattro mosse, che io avevo
memorizzato mentre cercavo di non far scappare le ragazze parlando
loro di cinema e teatro cinese e concerti”.
“Finita così?” domandai al Vigliacco.
“No. Mandai via le ragazze. Le lasciai andare a casa. Anche i maschi
se ne andarono. Francesco se ne andò in cucina e ebbe una crisi di pianto e si mise a fumare Philip Morris lights a catena. Io chiesi all’Umiliatore di poter giocare un’altra partita, avrei preso il Nero o il Bianco,
non m’importava. Ero credimi furioso. Trattenevo la rabbia come sotto
vetro, come i sottaceti. L’Umiliatore non vedeva la mia rabbia, vedeva
questa specie di salamoia verdolina ma non vedeva la rabbia. Accettò di
giocare con me e io dissi che anche se era impossibile doveva considerarla una specie di rivincita per Francesco. E chiesi di puntare dei soldi. In
caso di mia vittoria, avrebbe dovuto dare tremila euro a Francesco, che
stava di là in cucina a fumare come un turco, la stanza dove stavamo era
piena di fumo per quanto fumava lui in cucina. L’Umiliatore disse che la
cosa lo divertiva, lo eccitava, che ero tipo il cavaliere errante, il paladino di Francesco, mi pigliava per il culo e io pensavo okay fai lo stronzo
alla fine facciamo i conti, insomma L’Umiliatore prendendomi per il culo
disse che non aveva nulla in contrario a una rivincita conto terzi, però
dovevamo fare presto perché lui il giorno dopo doveva andare di mattina presto a lavoro, non so che lavoro, domanda alla Butterata che c’ha
fatto gli ultimi anni d’università insieme. Comunque. Sorteggiammo i
colori col pedone nel pugno, mi toccò il Bianco. Giocammo una partita
di Giuoco Piano – antica variante molto in voga un cent’anni fa, una
pippa antica di variante, prima che ci fossero i computer a sedici pro107
cessori - la giocai più simile possibile a una partita di Paul Morphy del
1858, schiacciai L’Umiliatore in diciannove mosse, lui fece una boiata
terribile. Era devastato ma faceva il superiore, quel coglione. Mi disse
che avrebbe pagato molto presto. Credo che non abbia mai dato un euro
a Francesco. Se hanno giocato di nuovo, come dici, si saranno giocati di
nuovo la posta, quindi ora lui non è più in debito, anzi forse in credito,
indaga un po’”.
“Non sapevo che sapessi giocare a scacchi, Vigliacco”.
“Tutte le attività che richiedono di pensare velocemente mi vengono
bene. Sono come una macchina. Il pettegolezzo, gli scacchi, il corteggiamento. In queste tre cose, è molto difficile battermi se sei un amatore, e
L’Umiliatore, per quante arie si dia, col suo bell’aspetto, la sua chitarra
acustica e i suoi arrangiamenti dei Radiohead, in queste tre cose, al
confronto mio, è solo merda. Ora scusami, ma devo attaccare, devo andare al giornale a sistemare un pezzo con la mia protettrice, quella cui
ho raschiato il culo a forza di leccarglielo. È sempre peggio lì, hai fatto
bene a andartene”.
“Sì, sì, vai”.
“Ciao”.
Nemmeno a presto. Nemmeno baci. Nemmeno ti abbraccio. Il Vigliacco
mi aveva detto solo Ciao e aveva attaccato.
Dell’Umiliatore io sapevo poco e niente. Non l’avevo mai visto in faccia. Forse non aveva una faccia. Forse portava un cappuccio o una maschera veneziana. Se fossi andato alla festa a casa del Vigliacco, l’avrei
visto e conosciuto, ma il destino ha voluto diversamente. Io non ci andai
a ragion veduta, perché sapevo che La Butterata in quanto regolarmente invitata si sarebbe presentata alla festa, sarebbe restata pochi minuti, si sarebbe lamentata di qualunque cosa e se ne sarebbe andata senza
nemmeno salutarmi, perciò avevo fatto bene a non andare. Non bisogna
farsi spezzare il cuore dalle stronze. Però una cosa di lui la sapevo, sapevo che era completamente rasato, come va di moda da anni ormai per
quelli che hanno un’alopecia parziale, sapevo che si era sottoposto a
degli interventi di chirurgia estetica presso un noto specialista romano
che operava soprattutto le divette dello spettacolo, e tutte queste cose le
sapevo perché ne spettegolavano i suoi migliori amici, di cui aveva una
scorta pressoché infinita, era molto facile girare per locali, feste, cene e
dopocene e sentire gente che si professava molto amica dell’Umiliatore,
un ragazzo stupendo, mi piace veramente, gli voglio bene, è un grande,
sta scrivendo un libro che, sta dipingendo un quadro che, tutto il repertorio della leccata di culo sull’Umiliatore lo conoscevo fin troppo bene.
Era come se tutti i leccaculo di Roma si fossero messi d’accordo per sfidarsi sull’Umiliatore, chi glielo leccava meglio, più a fondo, oppure giusto sul bordo, e L’Umiliatore per parte sua era sempre ben felice di farsi
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leccare il culo, non solo perché era ricco sfondato e non sapeva come
usare i suoi soldi e avere tutta una corte di leccaculo cui offrire cene,
prestare macchine, pagare trasferte all’estero lo doveva far sentire un
imperatore, un capo della yakuza, un pappone, ma anche perché c’era
questa brutta leggenda nera sul suo conto che di tanto in tanto tornava
e cioè che i suoi soldi fossero frutto di ricatti a una certa giornalista
famosa sposata, che lui aveva chiavato e successivamente minacciato di
rivelare ogni cosa al marito, c’era questa leggenda che un paio di volte
questa cretina lo avesse chiamato a casa e lui con un rudimentale sistema spionistico avesse registrato i di lei ti voglio bene, mi manchi tanto,
non sai dove ti bacerei oggi, sono stata dal dentista e mentre lui mi lavorava l’otturazione pensavo a come scopiamo bene, insomma, credo fosse
solo un altro mito, c’è gente così inutile che nasce e approda al successo
così: Il Capitano Hewitt amante di Lady Diana, Monica Lewinsky, scopi
la gente perché quella gente può farti andare avanti, è una cosa più eccitante che farsi di coca e certamente più dignitoso che farsi penetrare
dalle macchine.
Perfino La Butterata conosceva L’Umiliatore. Tutta questa gente si
conosceva, si sfidava, si odiava, si riappacificava, si difendeva per interposta persona, e io, che pure li credevo miei amici, non ne sapevo un cazzo. Tutto questo mondo di cavalieri, e puttane, e damigelle, e buffoni, di
cui ero all’oscuro. Mi venne un gran desiderio di riguadagnare qualche
metro. Risultò che La Butterata aveva visto L’Umiliatore alcune volte,
in occasioni mondane, e non ne aveva una gran bella opinione. Ma parlando con La Butterata, mi resi conto che in realtà questo non era vero.
Era turbata dall’Umiliatore, con tutta probabilità L’Umiliatore le aveva
proposto un qualche ruolo di prostituta nella sua compagnia di giro, e
naturalmente La Butterata si era rifiutata, non credo per senso morale,
perché di senso morale La Butterata non ne aveva alcuno, ma perché
lo dovette ritenere svantaggioso ai fini della sua vita (di prostituta o
meno). Uscii addirittura due volte in una settimana con La Butterata,
una cosa che quasi mi risultò intollerabile, la seconda volta mi dissi che
piuttosto andavo con degli uomini, l’emozione era troppa, ma in quelle
due serate l’argomento centrale di conversazione fu tutto questo mondo
di persone allucinanti e soprattutto L’Umiliatore (c’è sempre uno di cui,
chissà perché, in un certo periodo si parla di più, poi svanisce) e ebbi la
conferma che lei dell’Umiliatore non voleva in linea di massima sentir
parlare però ne sparlava tantissimo, addirittura compresi che odiava
più L’Umiliatore del Vigliacco, voglio dire, per lei Il Vigliacco era uno
psicotico, un invadente rompicoglioni ossessivo, ma L’Umiliatore era
proprio la feccia dell’umanità, la merda senza principi, senza regole,
sfondato di soldi, ricattatore, bugiardo, sparlatore, incapace, ora che poi
sapeva che non era nemmeno questo genio agli scacchi, avendo perso
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col Vigliacco, mi disse che Il Vigliacco le era simpatico, e dell’Umiliatore
non voleva saperne niente. Ma io le domandai cosa facesse nella vita
L’Umiliatore, se almeno questo lo sapeva, perché un paio di anni avevano studiato insieme all’università no? Così mi aveva detto Il Vigliacco.
E lei mi disse lo psicologo, le ultime sono che lavora al San Raffaele a
via della Pisana coi maniaco-depressivi, e io andai a quest’ospedale per
incontrare L’Umiliatore fingendo di dover scrivere per il giornale (dal
quale invece mi ero licenziato già da un pezzo, ma mi faceva gioco dire
in giro che facevo il giornalista perciò nessuno lo sapeva) un articolo
sulle macchine, su come gli uomini vadano imitando le macchine nei
comportamenti e nei pensieri. Infatti, la mia teoria era che il problema
non è se le macchine pensino o facciano sesso, ma perché noi pensiamo
come macchine e facciamo sesso come loro. Avevo questa pezza d’appoggio per conoscere un tassello mancante del mio mondo di patetici, in cui
io ero primus inter pares, questo sottobosco di intellettuali senza storia
romani cui appartengo, e sto parlando dell’Umiliatore, forse l’unico titano tra noi, l’unico di cui avresti creduto un flirt con Julia Roberts, e finalmente il fatto di collaborare all’Espresso mi tornava utile, un lavoro per il
resto che consideravo la merda assoluta, e per cui ritenevo che mia madre
avesse fatto malissimo a sbattersi, con quella raccomandazione che mi
fece entrare dopo una ridicolissima prova di poche centinaia di battute al
cospetto del caposervizio cultura depresso cronico superdotato ma con le
gambe storte. Entrare all’Espresso fu l’unica volta in vita mia in cui leccai
il culo. Ma leccai fino a consumarmi la lingua. Dopo aver leccato, compresi che ero come tutti gli altri leccaculo. Ero pronto per quel mondo. Ero
bugiardo, sparlatore, vigliacco, con frustrazioni erotiche di tutti i tipi, con
idee del cazzo tipo quelle sulle macchine a darmi uno straccio di identità
culturale. L’Umiliatore al confronto mio e dei miei compari, era un angelo, si distingueva da noialtri senza storia. Curava i pazzi. Aveva perso
una partita a scacchi con uno del mio giro, e vinta un’altra, e allora? Era
SANO, perdio. La mattina stabilita mi feci la barba alle sei, mi vestii decentemente, in giacca voglio dire, e andai a via della Pisana all’ospedale
San Raffaele, dove mi dissero che non c’era, che quel giorno stava alla facoltà di Psicologia nel quartiere San Lorenzo a fare lezione, San Lorenzo,
lo stesso quartiere studentesco dove abitava La Butterata. Provai un tuffo al cuore, presi la mia Golf e mi rifeci tutta la città per andare dalla
Pisana a San Lorenzo, impiegando un paio d’ore. Non sapevo nemmeno
più, tanto mi batteva il cuore, se volevo vedere L’Umiliatore, o fare una
citofonata alla Butterata. Arrivato dalle parti della stazione Termini, non
avevo più dubbi, non volevo incontrare quella montagna di leccaculo della
Facoltà di Psicologia e in fondo nemmeno L’Umiliatore, che, personaggio
carismatico quanto volete, mi avrebbe potuto rovinare la giornata. Io volevo solo rivedere La Butterata. I miei ritmi di vita allora erano questi:
vedere La Butterata almeno tre volte alla settimana. L’avevo vista due
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volte, sentivo la mancanza del terzo e ora col riscaldamento in macchina,
le mani guantate sul volante, andavo a prendermi la terza volta.
Entrai nell’appartamento della Butterata dopo che lei senza esitare
mi aprì e mi fece salire. Salendo pensai com’è gentile. Non s’incazza
per le improvvisate. Ne avrebbe tutto il diritto: le improvvisate sono
quanto di peggio si possa fare, a me fanno venire voglia di piangere
quelle del mio portiere, per esempio, con le sue ridicole buste gonfie di
comunicazioni dall’ultima assemblea di condominio. Salii le scale fino
all’ultimo piano, la porta era aperta, entrai in un piccolo ingresso nell’appartamento della Butterata, vidi un ombrello nell’angolo, rosso, e un
altro ombrello, nero. La voce di un uomo veniva dalla cucina. La voce di
un uomo seduto al tavolo della cucina che affetta un frutto duro come
una mela su un piatto e ride perché non riesce a farlo decentemente. La
Butterata mi accolse alla porta si slanciò in avanti e mi stampò un bacio
sulla guancia che mi mise immediatamente di pessimo umore. Volevo
andarmene ma prima dovevo andare in cucina e vedere quello stronzo.
Chiesi un bicchiere d’acqua. La Butterata andò in cucina e tornò con un
bicchiere d’acqua. “Posso andare in cucina?” domandai. La Butterata
guardò in terra, piegò così tanto il collo che quasi le vidi la sfumatura
sulla nuca. “No” rispose. “Grazie dell’acqua, solo un saluto” dissi, le restituii il bicchiere vuoto e scesi a volo giù le scale. Corsi col fiato in gola
alla Facoltà di Psicologia, scesi quelle ridicole rampe che portano alla
biblioteca, devastai la biblioteca cercando un volto che potesse somigliare a quello dell’Umiliatore dalle descrizioni inaffidabili che me ne
avevano fatto, i suoi vestiti, i suoi modi, ma quelli erano tutti studenti
borderline, tutti poveracci nel pieno e totale delirio dei vent’anni universitari, sicuramente nessuno di loro era L’Umiliatore. Non potevo certo
mettermi a perquisire tutte le aule, non potevo entrare mentre si faceva
lezione, mi feci il secondo e il terzo piano della facoltà, non so bene con
che scopo, alla fine mi fermai davanti a una porta con un pannello di vetro attraverso il quale vidi delle persone sedute attorno a un tavolo come
per un seminario, e un tizio apparentemente serio, in giacca e cravatta e
riccioli biondi sulla fronte, entrai e dissi la seguente frase: “Qualcuno di
voi conosce Francesco? Ha giocato una partita a scacchi con Francesco
e gli doveva dei soldi? Io sono venuto a riscuotere”. Quelli mi guardarono come uno venuto dalla Luna, e una piccoletta con gli occhi verdi e
l’accento meridionale con lessico da conduttrice di tiggì che legge da un
gobbo mi disse che stavano preparando una nuova rivista di narrativa,
poesia, interventi sul sociale e musica di strada, se volevo collaborare
potevo lasciargli la mia mail.
Quell’uomo che affettava la mela, era L’Umiliatore. Dove altrimenti
poteva essere, a San Lorenzo, appurato che quasi certamente la storia
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della lezione alla Facoltà di Psicologia era una scusa piazzata a quelli
del San Raffaele? Forse ero capitato nel bel mezzo di una storia segreta. Una storia tra il mio amore, La Butterata, e il titano del giro degli
squallidi intellettualini romani, L’Umiliatore. Questo pensavo mentre
guidavo stringendo le mani guantate sul volante della mia Golf, che
davvero dovevo decidermi a cambiare con una Mercedes SLK 200. Così,
di questo passo, sarei stato sempre cornuto e mazziato. Arrivato dalle
mie parti, ai Parioli, su via Bertoloni, proprio all’incrocio con piazza
Pitagora, un crocevia usualmente tranquillo e non più intasato del solito, un ragazzo cicciotto e in fondo buono di cuore in scooter grigio e
camicia a quadri tentò di sorpassarmi a sinistra proprio quando io stavo
uscendo per superare tutte le macchine incolonnate, entrambi avevamo completamente invaso la corsia opposta, entrambi eravamo in torto
marcio, entrambi eravamo credo nella nostra giornata storta, il ragazzo in scooter inchiodò perché per un pelo lo facevo nuovo e incominciò
a dirmi Che cazzo fai Come cazzo guidi e io risposi urlando Muoviti!
Muoviti! Ancora parli! Sai solo parlare! Stronzo! E il ragazzo cominciò
a girarmi attorno alla macchina con lo scooter come in una specie di
danza rituale e a dirmi Stronzo, Come cazzo guidi, Chi cazzo t’ha dato la
patente, Ti prendo a catenate! e io a ogni giro del ragazzo, appena me lo
ritrovavo fuori dal finestrino, gli urlavo Muoviti! Ancora parli! Sai solo
parlare! Stronzo! Alla fine smise di parlare, di ronzarmi attorno, se ne
andò mandandomi affanculo col braccio, e io pensai che orrenda camicia
a quadri, quel cicciotto, pensai chissà com’è fatto L’Umiliatore, chissà
com’è fatto l’uomo che se la spassa con La Butterata, l’uomo che affetta
la mela. Feci inversione a U su viale Bruno Buozzi, all’altezza della
Banca Antonveneta, fottendomene altamente dei clacson che scatenai,
lamentatevi pure, è come a notte fonda quando ascolto la mia musica e
la vicina bussa al muro, non gliela do mai vinta, lamentati pure, muori,
muori, feci inversione a U e tirai dritto verso San Lorenzo, stringendo
le mani guantate sul volante, pieno, colmo di rabbia. Stavo tornando
nell’unico posto sensato della città, per me, allora. Oltre alle mani sul
volante, stringevo anche i denti.
Accesi la radio della macchina, per nervi, solo per nervi. Le macchine
con cui ci spostiamo da un punto all’altro della città, ci aiutano a non
subire la città. La radio, in teoria, ci aiuta a non subire la macchina.
Ma nulla ci aiuta a non subire la radio. Dobbiamo sentirla e morire in
mezzo a quei canali infami con i deejay infami che prendono strafalcioni
e ridacchiano scusandosi, mentre la nostra donna, abbiamo scoperto,
non è mai stata nostra, dorme con un altro, vive con un altro, e questo è
il vero tessuto della vita, non le radio, le 18 stazioni che abbiamo memorizzato e che mandano tutte inevitabilmente Vasco Rossi, Max Pezzali e
i Rem, io mi salvo mettendo il quinto canale della filodiffusione, una pip112
pa antica che non vi dico, ma quello, il quinto canale della filodiffusione,
quando ho il cuore a pezzi o sto somatizzando o sono semplicemente
depresso, aiuta a non farmi subire troppo la macchina, che è l’unico
mezzo di cui dispongo per non subire la città, per non sentire che Roma
è Roma, per spostarmi come in un ambiente immateriale composto di
luoghi immaginari, che solo prendono vita appena metto il piede fuori
dalla mia macchina, quando scendo, luoghi morti, zone morte, effluvi.
Senonché, mentre stavo tentando di visualizzare il percorso più rapido e diretto per tornare a San Lorenzo, scavalcando tutti i blocchi imposti dal traffico romano,mentre la radio era sintonizzata su un tale che si
faceva chiamare Dj Shadow, mi tornò alla mente una cosa che mi aveva
detto Il Vigliacco, nel corso di una telefonata notturna nella quale come
al solito si era messo a sparlare della Butterata, e cioè che La Butterata
una sera al Teatro Argentina nell’intervallo del solito spettacolo mistico-involuto-ignorante della Societas Raffaello Sanzio, il solito spettacolo
pieno di macchine disarticolate, strumenti di tortura provvisori, citazioni gratuite dai sopravvissuti di Birkenau e altrettanto superflui rimandi
veterotestamentari, La Butterata, che era seduta un paio di file avanti
al Vigliacco, ritrovatisi lì come tutta la melassa cerebrale romana, tutti
vestiti con ciondoli dondolanti, brandelli di pizzo, stivali militari, t-shirt
nere, orecchini ossidati come fedi nuziali tradite, La Butterata aveva
fatto un chiaro cenno di saluto a un tale in giubbotto di pelle chiara
quasi arancione, e questo tale in giubbotto di pelle, Il Vigliacco lo sapeva, era Lo Spacciatore, Lo Spacciatore calabrese venuto su a Roma a
rifornire tutta La Roma Sputtanata Dalla Cultura, non c’era appartamentino romano o attichetto o scantinato da Monte Sacro ai Parioli alla
Salaria a Trastevere che non conoscesse i prodotti dello Spacciatore, un
ragazzo belloccio di cui non si capiva mai se fosse in bolletta o pieno di
soldi, certo era un punto nodale della cocaina romana, e altre pasticche,
lui era sempre strafatto, le poche volte che Il Vigliacco ci aveva parlato
l’aveva trovato talmente strafatto che non si era nemmeno reso conto
di aver parlato con qualcuno, gli sembrava di aver sognato, questo era
l’effetto che gli faceva incontrarlo, era talmente carico di stupefazione,
Lo Spacciatore, che appena lo vedevi precipitavi in un sogno, dove tutto
si faceva incerto, indefinito, provvisorio, incompiuto – le emozioni, gli
amori, gli affetti, le amicizie, tutto diventava un desiderio disperato di
parlare con lui e farsi lasciare, magari solo in regalo, un po’ dei suoi prodotti. Lo Spacciatore, ecco chi aveva salutato La Butterata, quella sera
al Teatro Argentina, prima di quella stronzata della Societas Raffaello
Sanzio. Ora capisci? Sembrava dirmi Il Vigliacco, alla fine della telefonata, La Butterata è una poveraccia che si fa, niente stupore, è proprio
il caso di dirlo, noi siamo anche peggio di lei, ma non è con gente simile
che vuoi avere a che fare, oppure sì? Vuoi amare una che la mattina
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presto si fa venire a trovare dallo Spacciatore e ne parla col rispetto e il
timore dovuto a un capo mafioso e lo saluta alle prime degli eventi dove
si balla sul set di un dj resident? Misi la freccia, sterzai, ripresi la strada
per i Parioli, per casa mia. Non m’interessava più disturbare la mia donna che elemosinava la droga da un altro uomo. La amavo ancora, perché
che ci posso fare se queste macchine che siamo aspirano dalle narici il
loro carburante e lo vomitano in entusiasmi fittizi su spettacoli teatrali bidone? Lo Spacciatore era poi tanto peggio della Societas Raffaello
Sanzio? Non era lo stesso mondo fasullo, insensato, e che non sarebbe
durato più di due secondi allo scrutinio dell’uomo della strada? Dovevo
stare attento con la macchina, come guidavo, perché l’uomo della strada
aveva bisogno di me e io di lui. Insieme, dovevamo organizzare una difesa e soccombere con dignità.
E veniamo a oggi. A oggi, ho litigato con tutti e ho le valigie pronte.
Rotto con tutto il mondo romano della cultura. Non perché fosse colto,
non sono così snob, ma perché romano. Ho sempre trovato intollerabile
la connotazione specifica di una città. Sono belle le città che non ti impongono le loro regole, le loro abitudini, i loro vizi e la loro storia. Mi si
dice che Toronto non sia male da questo punto di vista. L’ultimo scazzo
con Il Vigliacco è stato proprio su questo punto, mi sono presentato a
casa sua e gli ho mostrato il biglietto sola andata. “Guarda che lì è peggio che andare a una prima di un evento con una donna che poi salta
su dalla poltroncina e si sbraccia per salutare un belloccio in giubbotto
di pelle chiara, quasi arancione, facendogli segno che ci si vede dopo, se
si può”. E io: “Hai ragione, Vigliacco, forse Toronto non è il posto ideale,
e partire è sempre un’idiozia, una velleità adolescenziale maldigerita,
ma che altro si può fare quando la colonna sonora della tua città diventano dei dischi in vinile, comprati in un negozietto per intenditori,
e piazzati su un piatto controllato da due borderline che ti uccidono con
le basse frequenze?” Bene. Tutto sommato non mi sono lasciato male col
Vigliacco. Mi ha offerto un bicchiere, siamo usciti sul suo terrazzino e
abbiamo guardato quest’orrenda città che si nutre di spettacoli e eventi.
A Toronto mi annoierò, temo, entrerò in depressione, e non sarò mai più
così felice come quando mi renderò conto, sdraiato nella mia stanza d’albergo stordito dal jet-lag, che la depressione è dolce, è un rimedio antico,
non fa ricerca, non stordisce i sensi, solo ti uccide.
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Gianrico Bezzato
IL CIGNO NERO
(ultimo bar revisited)
Gianrico Bezzato
traduttore (ha lavorato
per Arcana, Giunti, Instar),
dal 1991 redattore di Maltese
Narrazioni. Ha collaborato
con le riviste Rockerilla, Il
Mucchio, Feedback e la
francese Café Racer.
Esperienze lavorative varie,
tra le quali quella d’insegnante
e di educatore in centri per
disabili mentali e ragazzini
borderline.
Leader del gruppo folkedelico
Knot Toulouse.
Ti ricordi, no? È stato un po’ di tempo fa, lo so, però il ricordo della
prima volta che l’hai vista ce l’hai ben chiaro. Era autunno, vero? Ci
sono tante cose belle che iniziano d’autunno. L’autunno, il campionato
di calcio, la fine dell’estate. Se sei bambino anche il conto alla rovescia
per Natale. E qualsiasi altra cosa che debba iniziare mentre il giorno
perde colpi su uno sfondo di asfalto lucido di pioggia e luce di lampioni.
Uno sfondo lumido. Foglie gialle che si attaccano alle suole e soprabiti,
odore di insalata nel frigo da una settimana e clacson afoni. Una messinscena che quel pomeriggio ti dava noia, fastidio, pensieri a vanvera.
Una tiritera blues che rotolava agonizzante sino alla solita domanda
dei momenti così: cosa ci faccio qui? Niente, non t’agitare. Il desiderio di
cambiare aria ti deve essere venuto in fretta e così hai deciso di passeggiare altrove. Dove? Magari in un posto insolito. Il cimitero degli ebrei.
Ne avevi sempre sentito parlare ma non c’eri mai stato. Così ti sei acceso una sigaretta e a naso, ricordandoti indicazioni vaghe, sei arrivato
dove volevi. Saranno state le quattro.
Una volta lì, ti sei sinceramente chiesto se ne valeva la pena. Quando ci vai per disperazione, i posti nuovi fanno sempre quell’effetto. Ti
manca subito la bolla rassicurante in cui ti trovavi fino a poco prima, e
avresti scambiato volentieri con qualsiasi altro posto. Anche una cabina
telefonica. O la sala d’aspetto di un medico, con l’orrendo tavolo basso
coperto da quelle riviste che nessuno leggerebbe mai. Devi ammettere,
comunque, che un cimitero d’autunno praticamente abbandonato fa il
suo bell’effetto preromantico. Ti sei sentito sollevato. La vista del cimitero e del magazzino di pneumatici subito a fianco incuteva una discreta
malinconia, lieve e migliore del soffoco in città. Hai pensato: ho fatto
un’ottima scelta. E stavi già per tornartene da dove eri venuto. Cos’è
stato a frenarti, a parte la stringa un po’ allentata di una scarpa? Forse,
nel chinarti a risolvere il problema, hai pensato che gli amici da Badile
potevano benissimo aspettare un po’. L’appuntamento era alle cinque
ma era tanto che non ti vedevano e dunque avrebbero aspettato anche
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di più. Nel rialzarti ti è rimbalzato un po’ il cuore per lo sforzo della genuflessione. Eri proprio mal piazzato. È stato in quel momento che l’hai
notata. Da lontano una sagoma nera. Immobile al di qua del cancello
chiuso del cimitero.
La situazione ti disturbava. Adesso, santo Dio, non potevi più andartene, preso fra la curiosità e il fastidio perché qualcuno aveva avuto la
tua stessa idea. Cosa ci fa una persona a quest’ora, qua? Chissà cosa
c’è da guardare. Delle tombe. Sono già due minuti che le guarda. Chi è,
Shelley? Potevi benissimo dare un’alzata di spalle e andartene. Non era
nel tuo stile indugiare troppo su quello che ti accadeva attorno. Giusto
il tempo di accorgertene. A volte giusto il tempo di disinteressartene
senza neanche accorgertene. Invece ti sei fermato quel tanto da sentirti
tu l’intruso. Eri tu che disturbavi la scena, non il randagio che annusava
le tue braghe di velluto blu come fossero il tronco di un pioppo. Chiunque altro si sarebbe defilato. Non tu, ovviamente, che teorizzavi l’inadeguatezza come miglior modo per sopravvivere senza che nessuno ti
rompesse le scatole. Hai frugato nelle tasche dell’impermeabile in cerca
delle sigarette e hai desistito prima di trovarle. Ti sei detto: perché devo
sempre accenderne una nei momenti elettrici? Quando ero ragazzino
mica fumavo mentre fregavo le gomme da masticare in drogheria. Rapito da quel mistero della vita, hai sentito le gambe che si muovevano.
Azione, hai pensato. Ti sei avvicinato al cancello del cimitero come a un
tabellone degli orari ferroviari. Neanche il tempo di levarti il disagio
dalla testa e le eri di fianco. Di fianco alla persona che, dandoti la schiena, ti aveva fatto cambiare idea due volte in meno di cinque minuti. Ti
è caduto lo sguardo sul lucchetto che teneva chiuso il cancello. Adesso
cosa faccio? Devo dire qualcosa altrimenti pensa che sia un malintenzionato. Non ci sarebbe da stupirsi. Non siamo mica in centro davanti
a una vetrina. Devo dire qualcosa di rassicurante e suadente, di neutro
ma brillante. Qualcosa da forestiero.
“Si può entrare?”
“No.”
“Mai, o ci sono giorni che si può?”
“Sono anni che è chiuso.”
“Ah, capisco. E magari sempre con lo stesso lucchetto.”
“Non so. Sinceramente non ci ho mai fatto caso.”
“No, pensavo… qualcuno l’ha chiuso tanti anni fa e poi non è mai più
tornato. E nessuno si è più preso cura di questo posto. Così… le cose
vanno così a volte. Non è vero che un posto vale l’altro. Non so se mi
spiego.”
“Quand’ero ragazzina il cancello era aperto. Si poteva entrare, era
pieno d’erbacce e le tombe erano già malridotte allora. Poi hanno messo
in ordine e hanno chiuso. I sepolti qui non hanno più nessuno che li
venga a trovare.”
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“Ci sarà una specie di custode che viene a tagliare l’erba e a levare
qualche lattina di birra volata oltre il muro.”
“Credo di sì.”
“In casi come questo di solito è così. Mi pare di capire che lei ci viene
spesso.”
“Di tanto in tanto.”
“Ah.”
“Non per fare conversazione.”
“Capisco.”
“Ora devo andare, mi scusi. Piacere d’averla conosciuta. Buona sera.”
“Piacere mio, buona… sera. A lei. E sì, si fa tardi. Poi… poi… i negozi… chiudono. È… è bello qui. C’è silenzio. Adesso. Adesso anch’io devo
andare. Comunque… ci torno… sì… magari sì. Magari ci torno.”
Il silenzio quello vero è arrivato quando hai smesso di parlare da solo
mentre lei se ne andava. Elegante e distaccata com’era stata nell’acconsentire a rivolgerti la parola. Un cigno nero. Nell’osservarla che s’allontanava evitando i tratti fangosi della strada sterrata hai trascorso i
migliori due minuti d’autunno di sempre. È curioso come possa essere
piacevole sentire forte la presenza di qualcuno distante. Quand’è sparita nella via in discesa che porta in città ti è scappata una smorfia come
quando si guarda un bicchiere cadere per terra senza potere fare niente.
Hai spostato la tua immagine al centro dell’inquadratura e ti è subito
venuto in mente il titolo dell’istantanea. Uomo solo con le mani in tasca
che dà le spalle pensieroso a un cimitero. Valutando la distanza che ti
separava dalla statale, non hai potuto fare a meno di cedere a riflessioni
pratiche. Il perché ho deciso di mettermi le Clark’s proprio oggi, hai pensato, lo so solo io. Mi sembra di avere i piedi in due pozzanghere.
Quando meditabondo hai raggiunto le vie che portano al centro, ti è
sembrato che nessuno avesse la più pallida idea di come fare a tornarsene a casa propria. In realtà non c’era più movimento di qualsiasi altro
lunedì. Il viavai, malgrado il fresco, aveva un ritmo quasi messicano.
I negozi erano quasi vuoti e i capannelli di conversatori gli stessi di
sempre. C’erano anche gli Eterni, immancabili quelli. Un gruppo di cinque persone che da tempo immemorabile si riunisce tutti i santi giorni
davanti all’edicola di via Carlo Marx. Cinque persone che dalle cinque
alle sei del pomeriggio sono cresciute, vivono e probabilmente invecchieranno assieme. Prima adolescenti, poi giovanotti, scapoli, ammogliati,
padri, nonni e così via per chissà quanto tempo ancora. Lì, quasi confortanti, immutabili e cangianti. Sino a quando, un pomeriggio, uno non
si presenterà. Si conteranno i giorni e dopo una settimana che non lo si
vede si capirà che era il meno eterno dei cinque.
Dunque era tutto nella norma. Non c’era niente fuori posto. Era il solito bel vedere, suadente, rassicurante e, soprattutto, ininfluente. Eppure
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ti sentivi infastidito, tanto che sei passato davanti a Badile e non ci sei
neanche entrato. Neanche hai dato una sbirciata per vedere chi c’era
dentro. Dopo tutto il fastidio era cominciato proprio lì. Un fastidio che
si era allargato a macchia d’olio sino a investire prima il marciapiede,
in cui regolarmente t’inciampavi, poi un raggio di cinquanta metri che
comprendeva panettiere, parrucchiera e tabaccaio dove ti fregavano sul
resto e poi, alla fine, tutto il quartiere. Il tavolo dei regolari era sempre vuoto, con appoggiata sopra la targhetta con su scritto “Riservato”,
un’anticaglia da nostalgico che Badile teneva lì per malinconia. Non
avevi voglia di entrare a fare l’aperitivo lungo con quelli che chiamavi
gli occasionali e che, a loro volta e in un’altra storia, sarebbero diventati i nuovi regolari. No, meglio fare due passi in più, girare l’angolo e
piombare con aria da novizio incuriosito al No Grazie, la nuova base alla
moda che ti garantiva due cose: il passare inosservato per età e l’incontrarci Zeno che, come da vecchia abitudine, se stava seduto sempre allo
stesso tavolo.
“Sempre qua ti devi mettere?”
“Mi piace.”
“A me no. Darry! Mi porti qualcosa da bere?”
“Dimmi.”
“Avete la birra analcolica?”
“Va bene. Un coca e rum. Te lo porto subito.”
“Veniamo qua da tre mesi e fai sempre la stessa battuta.”
“Anche lui continua a chiamarsi Darry. Che nome imbecille. Sta a sentire Zeno, sta a sentire qua. Rispondi serio. Ti ritrovi in una situazione
inaspettata, la vivi e poi ci pensi su e l’unica cosa che ti viene da pensare
è: per una volta che ero al posto giusto nel momento giusto, l’unica cosa
che ho provato è stato imbarazzo.”
“Be’, cosa ti devo dire, può capitare. Se ti capita forse è ora che inizi
a farti delle domande. Non so. Pensi di aver provato imbarazzo o l’hai
effettivamente provato e poi ci hai pensato su? È una distinzione importante. Vale a dire, la figura da cretino l’hai fatta davvero o hai paura
d’averla fatta? Tanta paura da esserne praticamente convinto?”
“Ho paura d’averla fatta.”
“Ferma, ferma. Allora è una cosa grave. Cosa te ne frega di aver fatto
una brutta figura dopo un paio di birre da Badile, mentre parlavi con
una delle poche che s’invaghisce ancora del tuo fascino da parolaio beat.
Quando sei al bancone da Badile sembri una delle giacche di mio nonno
appesa a un attaccapanni. Con la sciarpa.”
“Ah sì. Perché qui seduti praticamente in vetrina io divento Paul
Newman, tu Cary Grant e il gin tonic analcolico.”
“Be’ l’esposizione agli occhi dei passanti ignari aiuta a darsi un contegno. Almeno dovrebbe. Certo che se svieni con la faccia nella ciotola
delle olive…”
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“Non cercare di cambiare discorso. Non ero da Badile, avevo appena fatto una lunga passeggiata e lei è una persona che non ama le
chiacchiere.”
“Fammi capire. Eri completamente in te e sei riuscito ad aprire bocca
e a parlare di qualcosa che non fosse il tempo con una sconosciuta? E
dove è avvenuto questa specie di miracolo?”
“Al cimitero degli ebrei.”
“Lei com’è?”
“È… pensierosa. Elegante e distaccata. Come… be’ mi capisci, no?”
“Come si chiama?”
“Non so. Non ho avuto… tempo di chiederglielo.”
“Grandioso. Cimitero, donna dall’aspetto nobile di un cigno viene
avvicinata da un uomo che tenta di lottare contro la propria indole di
struzzo. Grandioso.”
“Sai Zeno, devo dire che ho sempre invidiato il tuo modo chiaro di dire
le cose fra le righe.”
“Alla tua signora di un pomeriggio d’autunno.”
“Che Dio mi mantenga abbastanza in salute da incontrarla ancora.”
“Così le chiedi come si chiama. Salud.”
“Salud.”
Il giorno dopo, alle tre e mezza di pomeriggio, eri lì che stazionavi amletico fuori dalla redazione de La voce della presenza, il bisettimanale
per cui lavori in qualità di un po’ di tutto. Non sapevi cosa fare. Tre e
mezza, cinque: la zona morta. Il limbo solitamente convertibile in una
spensierata via crucis di soste alternative in locali dove si è poco conosciuti ma comunque graditi. Oggi no, ti sei detto, e te lo stavi dicendo
da un quarto d’ora. Hai comprato un noir novembrino dal giornalaio, te
lo sei infilato in tasca e hai preso la strada che portava nel posto dove,
idealmente, stavi ancora dalla sera prima.
Tutto uguale ma incompleto. La strada di fango rappreso, il magazzino di pneumatici, il cimitero, tu. E basta. Dal cancello d’entrata giusto
una coda di sole malvagio di fine ottobre. Ti sei sentito un po’ stupido.
Sei rimasto lungamente a fissare a caso intorno, un po’ inebetito ma
non deluso. Non c’era senso di desolazione. Il cimitero era sempre lì, i
pneumatici là. Non che il fatto fosse da interpretare come un segno particolare però la loro presenza immobile dava come continuità a qualcosa
di altrimenti sfuggente e mutevole. Di sorprendente. Quasi a malincuore, hai deciso di tornare in città. Nel ripercorre a ritroso la pista di
fango ti sei fermato più di una volta a voltarti indietro. Strada, cimitero,
pneumatici, cancello. Ieri nuvolo, oggi sereno. Tanto domani ci ritorno,
pensavi. Chissà. Se non altro mi serve a tener vivo ieri.
Era trascorso più o meno un mese quando hai preso una decisione di
quelle che ci devi pensare un bel po’ su: vado dal medico. Cominciavi a
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nutrire qualche dubbio sulla tua presunta invulnerabilità. C’erano le
ammaccature che ogni tanto ti procuravi la sera rincasando dai bar, i
più maligni del quartiere avevano cominciato a chiamarti l’Equilibrista, e qualcos’altro d’invisibile che però dava fastidio. Per le botte era
sufficiente una pomata, per il resto occorreva il parere dello stregone. A
parte la salute, la tua vita non aveva subito variazioni degne di nota, se
si esclude la quotidiana passeggiata al cimitero. L’avevi inserita tra le
tue abitudini, e il ricordo di quella prima volta riposava rassegnato tra
i forse. Il dottore, dopo tutto, era un buon diversivo.
Aprendo la porta della sala d’aspetto, hai intuito a colpo d’occhio il
tempo d’attesa: minimo un’ora e mezza. Tre sedie libere nel più remoto
nord est della stanza, una accanto all’altra. Grandioso. Ti sei seduto su
quella in mezzo e hai iniziato una rapida escursione audiovisiva dell’ambiente. Il cast era al completo. Dal finto squatter con un braccio
ingessato alla moglie del notaio in pensione. Gli argomenti, i soliti. Il
cicaleccio dimesso variava d’intensità contemplando morti, ictus e antiche amicizie con cari estinti. Un perla su tutte ti ha costretto a una
breve risata interiore. Un’ischemia cerebrale trasformata in un eskimo
cerebrale. Era opportuno immergersi in una delle più classiche letture
preambulatorio: Maigret.
Dopo un omicidio, tre o quattro Calvados e un paio di birre nell’ufficio di Quais des Orfèvres, un fragrante spostamento d’aria ti ha fatto
riemergere dalla lettura. Rive Gauche e fresco della sera fuori. Il tempo
di voltarti leggermente incuriosito e hai compiaciuto tutti i presenti imbambolandoti a osservare chi ti si era seduto a fianco. Un fermo immagine quasi imbarazzante nella sua eternità. A volte il tempo si blocca e
sembra non riparta mai. Un treno di parole ti s’infila nella testa ma tutto rimane scollegato. Visione, pensiero, voce. Ti sentivi come un pupazzo
seduto sulle ginocchia di un ventriloquo muto. Nello sfilarsi il tre quarti
nero, la tua imprevista compagna d’attesa ti ha sfiorato il braccio. E le
hai visto gli occhi che un mese prima, nascosti dagli occhiali da sole,
avevi solo intuito. Bruni.
“Scusi.”
“Si… figuri.” Stavi già per continuare con un qualcosa da manuale
quando ti è passata per la mente una cinica ovvietà. Questa volta ha
parlato lei per prima. Tocca a lei, se si ricorda di me, dire sbaglio o ci
siamo già da visti da qualche parte.
“Buonasera, sembra sia destino che ci si incontri sempre in posti particolari.” Ti aveva riconosciuto. Se non ti stava confondendo con qualcun altro che aveva incontrato in una lavanderia a gettoni o in una
sala scommesse, ti aveva riconosciuto. E poi quelli sarebbero stati posti
particolari solo per lei, non per te che li frequentavi abitualmente. Qui
s’intendeva luoghi insoliti in assoluto, dove potendo scegliere si va ogni
tanto, non tutti i giorni per sempre.
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“Buona sera, come va? Sì… in effetti, l’altra volta al cimitero degli
ebrei…”
“Questa volta nella sala d’attesa di un medico…”
“Niente di serio, spero.”
“No, devo solo farmi fare delle ricette.”
“Ah, sì. Dunque per un po’…”
“Scusi?”
“No, volevo dire, non è che viene qua tutti i pomeriggi.”
“No, per carità. Il meno possibile.”
“Ah, ecco. Anch’io.”
“Ricette anche lei?”
“Visita di controllo, niente di speciale.”
“Strano, però.”
“Cosa?”
“No, niente, il fatto d’incontrarsi… così.”
“A caso, vuol dire?”
“Sì ma, più che altro, in posti così.”
“Be’, in effetti, pensare a due persone che si incontrano solo per caso
e sempre nei pressi d’un cimitero o dal dottore… risulta piuttosto bizzarro.”
“Sembra siano mossi da un esigenza di fuga, di pace.”
“O di cure.”
“E invece s’incontrano sempre.”
“E non riescono a stare in pace.”
“Be’ detto così è un po’ secco. Magari per un attimo si dimenticano che
volevano fuggire da qualcosa.”
“Praticamente stanno lì senza memoria.”
“Non si conoscono, di cosa dovrebbero avere memoria?”
“Magari dell’ultima volta che si sono visti.”
“È un ricordo che torna loro per un attimo solo nel momento in cui si
rincontrano.”
“Ma si ricordano di tutte le volte che si sono visti o solo della volta
prima?”
“Non lo so. Dovrei essere una di quelle due persone. Lei ricordo d’averla già incontrata al cimitero.”
“Che è anche la prima volta. Io poi ci sono ancora andato altre volte,
voglio dire… ci vado spesso. Quasi tutti i giorni. Sa com’è… la quiete.”
L’imbarazzo piano piano svaniva, il bastardo. Sempre imprevedibile
nelle sue scelte di tempo. Ti sarebbe piaciuto rimanere in quel metro
quadro per sempre. Ti distraeva solo la conta delle persone prima di
te. Un’insegnante presumibilmente di matematica, una signora in pensione con su un tailleur elegante, un giovane liceale con problemi di
epidermide. Venti minuti in tutto, supponendo che l’insegnante fosse
separata, la signora vedova e che tutte e due soffrissero di malinconia.
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Il resto dell’attenzione era su di lei, i sensi svegli per percepirla quanto
più possibile. Avresti voluto abbracciarla e stringerla.
“E se uno dei due dimentica completamente?”
“Mi sembra le sfugga la reciprocità del gioco. Finisce solo se tutti e due
non riescono a ricordare.”
“Potrebbero passare giorni, forse settimane. Sa com’è, non è che venire qua sia come andare al bar… per dire.”
“La città è piena di posti, oltre i bar e le sale d’attesa. Vie, negozi, supermercati… il parco, ci va mai?”
“No, lo trovo… dispersivo.”
“Se è una bella giornata mi capita d’andarci sovente il sabato.”
“Il sabato?”
“Sì, Emanuele è a casa dall’asilo. Va matto per scivoli, altalene, qualsiasi gioco acrobatico.”
“Eh… sì. Chissà… chissà cosa ci trovano i bambini in uno scivolo. Non
mi ricordo.”
“La prima volta tanta paura, di quella che per non piangere ridi. Poi
il brivido.”
“Sì, forse era così. È strano… il pericolo spesso è conturbante.”
“E il nuovo, quello che non si conosce, spesso è pericoloso. Ah, sta
uscendo il ragazzo che era prima di lei.”
“Eh… passi pure. Ha solo delle ricette.”
“No, prego, si figuri.”
“No, davvero… potrei metterci un po’. Non mi sembra il caso di farla
aspettare a quest’ora. E poi non mi sento per niente attratto da quello
che potrebbe dirmi il dottore.”
“Spero nulla di grave. Ma sono sicura che se le dicesse che non ha
niente… chissà, magari ne rimarrebbe un po’ deluso.”
È entrata e tu sei rimasto lì. Non ti andava di lasciarla da sola in
quella stanza desolata. Altro che cimiteri, quella era pura desolazione
in interno urbano. Neon, odore di chiuso, sedie vuote e sciattamente
fuori posto rispetto all’ordine asettico in cui sicuramente erano prima,
riproduzioni di foto degli inizi del novecento appese ai muri. Ma l’attesa
compensava lo spettacolo. Aspettare di rivederla ancora per un attimo
prima che sparisse chissà dove. Quel dove non hai neanche avuto tempo
d’immaginarlo. Mentre usciva ti ha salutato con un leggero inchino del
capo. Diciamo che ti ha anche sorriso. In fondo alla sala d’attesa ti sei
sentito come l’ultimo birillo, ancora in piedi per poco. Facendo leva sulla
scarsa autostima che ti rimaneva, l’arrivederci potevi anche darlo per
sottinteso.
Com’era prevedibile, dopo averti ascoltato e guardato in faccia, il guru
ha cominciato a stampare una serie d’impegnative infinita. Analisi del
sangue, raggi, ecografie. Nel giro di un mese, altri guru dopo di lui ti
avrebbero comunicato quello che già sapevi: era ora di darsi una rego124
lata. In vent’anni te l’avevano già detto almeno quindici volte. Come ogni
cosa che ti procurava serenità angoscia o apatia, anche la visita dal medico valeva un paio di giri alla salute e quella sera non era proprio il caso di
peccare di originalità, fuoriprogramma ce n’erano stati fin troppi.
Zeno lo hai incontrato per strada. Aveva iniziato la beata giostra da
un po’, con Pluto e Chiara. Il gomito compulsivo da mercoledì sera aveva
già relegato il No Grazie tra i locali noiosi.
“Era ora.”
“Sono stato dal dottore.”
“Ti ha guarito?”
“Mai stato meglio. Dove andate?”
“Facciamo una prova dei bar per decidere qual è il migliore.”
“Ma se sono sempre gli stessi.”
“Anche noi, caro. Ma è apparenza. In realtà siamo tutti vittime inconsapevoli di mutazioni occulte.”
“Di cosa?”
“Vedi che sei inconsapevole? Di mutazioni occulte. In realtà cambia
tutto, in continuazione, l’importante è che per noi sia sempre tutto
uguale.”
“Cos’è, una specie di complotto?”
“Esatto. Un complotto a cui possiamo opporci con l’unica arma che
abbiamo a disposizione: un’angelica indifferenza.”
“Gli angeli sono gente indifferente?”
“Gli angeli non si lamentano.”
“Santo Dio… sei già filosofico alle otto e mezza di sera. Qui viene lunga.”
“Indifferenza e pensiero a ruota libera. Bello come slogan, no? Potrei
venderlo a qualcuno.”
“L’ho rivista.”
“Chi?”
“Il Cigno Nero.”
“Ma va’. Dove? Su una rupe mentre incombeva un temporale, lei guardava l’orizzonte e il vento le scuoteva le falde del lungo paltò scuro?”
“Che scemo.”
“Come si chiama?”
“Non so, non lo so come si chiama.”
“Ma, scusa eh, c’è qualcosa che sai di questa donna a parte il colore
che predilige?”
“La penso parecchio, mi si è infilata in testa. È… veloce. Ogni tanto
va al cimitero degli ebrei per pensare e, quando fa bello, di sabato va al
parco con il figlio.”
“Grande?”
“Non lo so. Fino a che età si va sullo scivolo?”
“Accompagnati dalla mamma, sino a quattro, cinque anni. Per scelta libera e autonoma… noi ci siamo saliti giusto un paio di volte l’estate scorsa.”
125
“È grave?”
“L’altalena è più grave, meno mascolina.”
“Ma no… che lei si sia accomodata nella mia testa.”
“Be’ vuol dire che, malgrado quell’enorme mucchio di cazzate, un po’ di
posto confortevole c’è ancora.”
“Mi sembra che ci si trovi sempre più a suo agio.”
“Ci siamo, vecchio mio, e mi sembra inutile che io sprechi fiato per
consigli. Sai benissimo quello che devi fare. Un suggerimento su misura, però, permettimi di dartelo, prima di sgonfiarti tutta la sera con il
mio vaneggiare psichedelico. Cerca di dare sempre l’impressione di aver
cura di te stesso.”
“Ossia?”
“Ricordati di fare tutte le cose che ti è impossibile dimenticare senza
una scusa fortemente plausibile o solo perché non avevi voglia di farle.”
“Tipo?”
“La barba.”
E rasarti è stata la prima cosa che hai fatto stamattina, ben attento
a non tagliarti sennò è inutile. In una scala della noncuranza le escoriazioni da rasoio valgono tanto quanto il viso ispido per malavoglia.
La barba si fa bene o crescere. Quando decidono di farla crescere, i veri
Impeccabili spariscono dalla circolazione per almeno una settimana.
Hai ispezionato il tuo viso stampato sullo specchio alla ricerca di qualche segno di declino, a parte le rughe d’espressione. A chi non ti conosce,
quelle puoi sempre dire che ce l’hai da quando facevi le medie.
Ti sei vestito secondo tuo gusto. Senza preoccuparti se esista o no
un abbigliamento particolarmente indicato per un incontro di sabato
al parco, in una giornata d’inverno non troppo inoltrato e con un sole
abbastanza discreto da poter rimanere dov’era. Hai puntato su una prevalenza di blu marina. Ti piace, lo vedi come il colore che sintetizza in
bel modo il bianco e nero in fotografia. Sei uscito e in fondo alle scale hai
controllato se avevi dimenticato qualcosa. Sigarette, accendino, soldi,
chiavi. Ah, il cellulare. Come fai senza cellulare?
“Sai cosa ti dico? Non me ne frega niente. L’unico numero che mi interessa non lo so. Nel caso lo venga a sapere, la prossima volta torno su
a prendere il telefono. Ho altre a cose a cui pensare. A cosa? A niente.
Non penso niente perché tutto quello che penso si ferma a quello che sto
facendo mentre cerco di immaginare cosa succederà dopo. Adesso apro il
portone ed esco in strada. Ora sono per strada che cammino e so che dovrò camminare. Non riesco a fare andare la testa più in là. Riesco a pensare bene a quello che ho pensato prima di adesso. Adesso che per poco
finisco sotto una macchina. Sono sulle strisce, coglione. Chissà come mi
saluterà? Mi riconoscerà un po’ a distanza o quando le arriverò a mezzo
metro fingendo pateticamente di essere lì per caso? Di cosa parleremo
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non me lo sono neanche chiesto e, comunque, vedi bene che anche prima
di adesso ho pensato solo delle domande. Non la conosco. Non le ho mai
parlato per più di un quarto d’ora e non sono neanche riuscito a sapere
come si chiama. Dovrò chiederglielo, non mi dà l’impressione di essere
una di quelle mamme che i figli chiamano per nome. In casa ho pensato di prendere l’armonica a bocca nel caso Emanuele si stufasse dello
scivolo. Inopportuno. E poi come la spiego la presenza di un’armonica
nelle mie tasche? So suonare solo Oh Susanna senza neanche arrivare
al ritornello. Semaforo rosso, mi fermo. Potevo prendere l’autobus ma
mi sembrava di aver bisogno di pensare. Mi sono sbagliato. È tutto in
una sola domanda. Come sarà? Semaforo verde, vado. Ho perso il senso
del futuro. Dicono succeda così a chi rimane affascinato da una persona.
Sarà vero? Non lo so. So che sembra di essere felice e che, incontrandola,
mi è parso di capire che la stavo cercando. So che esiste e tanto mi basta.
Mi accontento di poco.”
da PLAYS (EIG)
“Forse è meglio fare così, incrocio le
braccia sul tavolo e ci appoggio la testa sopra. Magari sogno, magari ricordo
tutta la storia. Forse alla fine della storia uscirò di qui. Fuori di me c’è tanta
altra gente.”
G I A N R I C O B E Z Z AT O - P L AY S
pagg. 112 - € 10.00
da Aprile in libreria
Editrice Impressioni Grafiche
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Un perdigiorno, collezionista di
sconfitte artistiche altrui, viene casualmente in possesso di tre plichi
di manoscritti firmati Zeb. Li legge,
dapprima svogliatamente e poi incuriosito. Sono racconti, miscele di ricordi, esperienze e invenzione, legati
a tre fasi della vita di un uomo: infanzia, adolescenza, maturità. Malinconia divertita, comicità involontaria e
a tratti bizzarra, disillusione e capacità di continuare ad illudersi. Queste
sono le corde che Zeb ama toccare
per comporre le sue ballate, i suoi
valzer lenti, i brevi blues e fox-trot.
Il perdigiorno, con il passo lento e
disincantato da perdigiorno, si lascia
trascinare dalle note del misterioso
Zeb sino all’appuntamento con lui.
In persona. Nell’ultimo bar.
...end of a Romance!