SOMMARIO Culture Economie e Territori Rivista Quadrimestrale Numero Sedici, 2006 Focus: epistemologi eretici del ’900 Pag. 03 Presentazione di Gaspare Polizzi Pag. 05 Michel Serres: un “umanesimo complesso” di Gaspare Polizzi Pag. 16 La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard di Gabriella Arazzi Pag. 31 Edgar Morin: abitare eticamente la natura di Mario Quaranta Pag. 44 Giovanni Vailati e Mario Calderoni tra meta-etica, etica descrittiva e normativa di Ivan Pozzoni Borderline Pag. 58 Le stagioni della Puglia Dalla primavera delle primarie all’autunno del Governo regionale di Alessandro Lattarulo Pag. 87 Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa di Elio Franzin Il Sestante Pag. 100 Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 284. di Lidia Lo Schiavo Pag. 114 Il deficit democratico dell’Unione europea: tra politics e policy di Silvia Bedin 1 2 Gaspare Polizzi Presentazione Focus: epistemologi eretici del ’900 Nel 1910 Henri Poincaré scriveva che «la fede dello scienziato assomiglierebbe piuttosto alla fede inquieta dell’eretico, a quella che cerca sempre e che non è mai soddisfatta» (H. Poincaré, Savants et Ecrivains, Flammarion, Paris 1910, p. VI). Queste frasi rispondono a una condizione storica e psicologica particolare: gli scienziati della natura e i matematici sono colpiti – alla fine dell’Ottocento – da una radicale trasformazione che mette in discussione i principi stessi della scienza. La loro risposta a tale crisi, che apre la strada agli straordinari successi delle scienze fisico-matematiche e biologiche nel Novecento, è ben espressa dalla «fede inquieta dell’eretico». Gli studiosi che qui vengono presentati (G. Bachelard, G. Vailati, M. Calderoni, E. Morin, M. Serres), di area culturale francese e italiana, si sono misurati dall’interno con il farsi della scienza del Novecento e testimoniano una linea di interpretazione della “crisi” della scienza che ha condotto a configurare una epistemologia e una filosofia della scienza attente al carattere storico ed evolutivo delle teorie scientifiche, allo sviluppo della conoscenza e ai suoi risvolti etici. Si tratta di tendenze epistemologiche estranee alla linea dominante dell’epistemologia contemporanea, che ha vissuto della rapida affermazione e dell’altrettanto rapido declino dell’empirismo logico. Abbandonata l’illusione che si potesse fondare una scienza unificata e definire una logica univoca della conoscenza scientifica, la prospettiva dell’epistemologia si fa storica e critica, seguendo da vicino «la fede inquieta» dello scienziato e risolvendosi nelle ultime posizioni (si pensi in particolare a Morin e a Serres) in una vera e propria filosofia della natura eticamente orientata. Questa visione dinamica ed etica della razionalità scientifica, che guarda alla scienza come alla ricerca di una verità che emerge spesso con i tratti dell'eresia, si è fatta strada nel Novecento confrontandosi con le svolte epocali della scienza contemporanea. La storia della scienza è anche storia di istituzioni e di “sette eretiche”, di un sapere dislocato fra il potere e l'antagonismo, è storia di svolte traumatiche e di rivoluzioni, nella quale teorie a lungo rimaste sotterranee si affermano per effetto di congiunture sempre diverse e non predeterminate. Nel pensiero scientifico contemporaneo il contrasto tra scienza “normale” e scienza “rivoluzionaria” (per usare il lessico di Th. Kuhn) è stato particolarmente efficace e ha condotto alla costituzione di una nuova disciplina – l’epistemologia – che ha inteso indagare limiti e condizioni di possibilità delle nuove teorie scientifiche con il pieno possesso degli strumenti del mestiere, ovvero padroneggiando dall’interno linguaggi e strumenti delle scienze. Soltanto ai margini del trionfante movimento dell’empirismo logico – e specificamente in Francia e in Italia – si è tuttavia sviluppata un’attenzione alla nuova scienza non indirizzata verso grandiose proposte di rifondazione e illusori progetti di unificazione del sapere. In Francia si sono prodotti momenti di riflessione che hanno visto protagonisti scienziati-filosofi come Henri Poincaré o Pierre Duhem e che hanno fornito non pochi spunti al Circolo di Vienna e all’empirismo logico. Ma in Francia – e, per quel poco che si è espresso, anche in Italia, con pensatori come 3 n.16 / 2006 Vailati e Calderoni (ma anche Giuseppe Peano e Federigo Enriques) – l’epistemologia ha mantenuto un carattere storico, critico e razionalmente aperto, che ben si raffigura nell'opera di Bachelard, il primo ad aver creato le condizioni per pensare adeguatamente le rotture epistemologiche prodotte della scienza novecentesca. Bachelard propone una vera e propria «psicologia dello spirito scientifico», al fine di superare gli ostacoli che si frappongono alla razionalità rettificata della microfisica o della teoria della relatività, di abbandonare il senso comune che condiziona la pratica stessa della razionalità. Se «la scienza non ha la filosofia che si merita», una nuova "filosofia scientifica" nascerà soltanto dall’interno stesso delle scienze (fisica, matematica e chimica, scienza che Bachelard frequenta professionalmente) e si piegherà alla scienza senza presumere di sostituirvisi. L'effetto più consistente di tale dinamica del pensiero scientifico è proprio la divaricazione rispetto alla conoscenza comune e alla scienza passata. Da qui la teorizzazione di una «filosofia del non», che raccolga in un’epistemologia non cartesiana sorretta dalla prospettiva della complessità il valore alternativo delle geometrie non euclidee, della meccanica non newtoniana, della fisica non maxwelliana, dell’aritmetica non pitagorica. Dalle nuove scienze emerge anche quel primato del complesso che dà vita a una visione discontinua, rivoluzionaria dello sviluppo del sapere e che diverrà centrale nel pensiero “eretico” di Morin. Scrive già Bachelard nel 1934: «Mentre la scienza di ispirazione cartesiana costruiva molto logicamente il complesso col semplice, il pensiero scientifico contemporaneo cerca di leggere il complesso reale sotto l’apparenza semplice offerta dai fenomeni compensati, si sforza di trovare il pluralismo sotto l’identità, al di là dell’esperienza immediata riassunta troppo frettolosamente in un aspetto d’insieme» (G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico, pref. di L. Geymonat e P. Redondi, trad. it. di F. Albèrgamo, Laterza, Bari 19782, pp. 126-127). Nella sua apertura anti-sistematica l’epistemologia bachelardiana mostra in pieno la sua attualità, 4 anche in rapporto con le più note tesi del postneopositivismo (I. Lakatos, Th. Kuhn, P. Feyerabend). La dimensione “eretica” di tale indirizzo epistemologico è stata espressa nel modo più convincente da due pensatori di grande rilievo nel panorama della riflessione contemporanea sulle scienze: Morin e Serres. Morin ha percorso un lungo itinerario di ricerca che lo ha condotto dall’epistemologia alla filosofia della natura ed è stato in buona parte motivato dall’esigenza di sintetizzare un nuovo metodo (l’apprendere di apprendere) nel quadro di un’enciclopedia “democratica” del sapere, e dalla necessità etica di superare la separazione tra discipline distinte per pensare la complessità sui tre livelli della realtà naturale (microfisica, fisica, cosmologia) e sul piano variabile e storico della realtà umana e sociale. La sua prospettiva tende a presentare una visione unitaria del rapporto tra realtà umana e naturale che approda a un’alleanza tra epistemologia ed etica. Per parte sua Serres sviluppa da quarant’anni una riflessione sul complesso e sulla miscela nelle scienze e nella natura e propone una filosofia della natura che interpreta i messaggi e le loro trasmissioni nella trama che connette le scienze e il mondo della cultura umana al Grand Récit dell’evoluzione naturale. Negli scritti apparsi a partire dal 2001 la “filosofia naturale” di Serres affronta i nodi ontologici ed etici più rilevanti della condizione umana nella tarda modernità, al fine di indicare nuove forme possibili per «abitare eticamente la Terra» (M. Quaranta). Un obiettivo questo che accomuna negli scopi gli itinerari di ricerca di Morin e di Serres. Con gli scritti che qui raccogliamo intendiamo fornire una prima ricognizione di tali tendenze “eretiche” della odierna riflessione sulla scienza e sulla morale. *I saggi di Arazzi, Polizzi e Quaranta sono le relazioni lette al convegno su “Caos e complessità” che si è tenuto a Messina nel Luglio 2006. Ringraziamo il Professor Giuseppe Gembillo per aver consentito la pubblicazione. Gaspare Polizzi Michel Serres: un “umanesimo complesso” Focus: epistemologi eretici del ’900 Nous vivons et pensons dans le mélange Conversations avec Michel Serres. Jules Verne, la science et l'homme contemporain, p. 71 Da quasi quarant’anni Michel Serres sviluppa una riflessione sul complesso tel quel, contrapponendo alla fissità semplice della ragione referenziale l'intreccio mobile delle complessità e, sotto il segno di Ermes, propone una filosofia che interpreta i messaggi e le loro trasmissioni nelle forme di una trama complessa di scienze, arti, leggi e religioni. La tessitura dell’ordine del sapere scientifico con la varietà del paesaggio narrativo ed esistenziale costituisce il tratto distintivo dell’opera serresiana1, la cifra della sua lunga randonnée, che – in controtendenza rispetto a tutta una tradizione di pensiero – ha prodotto da più di trent’anni una riflessione mobile su variazioni e paesaggi di corpi e scienze, rimarcando negli ultimi scritti la dimensione epocale dell’attuale svolta evolutiva dell’umanità2. La complessità di tale itinerario ha fatto sì – come ha riconosciuto lo stesso Serres – che la sua opera, estranea a ogni collocazione disciplinare, non sia stata ben compresa: «Je n’ai jamais été classé, pour la raison simple que j’habite une intersection vide. Très peu d’auteurs littéraires autrefois ont ignoré la science. Balzac en savait, Corneille aussi, La Fontaine plus encore, il avait traduit Lucrèce. Or Lucrèce c’est de la bonne physique et ma critique a consisté à le montrer. Pascal écrit des mathématiques mais personne n’en tient compte. Quand j’ai fait ma thèse sur Leibniz dont la moitié de l’oeuvre porte sur la science je me suis aperçu que personne n’en avait tenu compte. On coupe en deux les oeuvres en question. Donc, j’ai essayé de tenir compte de cet état de choses. Mais, la pédagogie, aujourd’hui, divise les gens en scientifiques qui ne connaissent pas de Lettres, et littéraires qui ne connaissent pas de Science. Or, j’ai fait mon ?uvre au beau milieu. Et par conséquent, je n’appartiens ni aux uns ni aux autres; je suis seul. C’est une question que l’université a sanctionnée dans les années 50, quand elle a décidé de ne pas enseigner de Science aux littéraires et de ne pas enseigner de Lettres aux scientifiques … c’est un malheur de civilisation considérable. Il donne lieu aujourd’hui à des phénomènes inattendus contre lesquels j’ai essayé de lutter toute ma vie». [VERNE 113-114] 1 L’indicazione della rotta fu proposta in M. Serres, Le messager, «Bulletin de la Société Française de Philosophie», 62, 2, aprile-giugno 1968, pp. 33-71 e nel 2003, a parziale bilancio, Serres scrive: «Depuis un demi-siècle, je cherche à construire une philosophie, qui manque, de la relation, en passant de modèles saturés: Hermès, les Anges, le Parasite ou l’Hermaphrodite, aux généralités qu’elle exige: traduction, communication, bouquet des prépositions», L’incandescent, Le Pommier, Paris 2003, p. 97. 2 La prima opera espressamente dedicata a descrivere le variazioni complesse della corporeità umana e naturale può ritenersi Les Cinq Sens. Philosophie des corps melés, Grasset, Paris 1985, ma la ricognizione sui paesaggi delle scienze e del sapere inaugura l'intera ricerca serresiana a partire da Hermès I. La communication, Èditions de Minuit, Paris 1969. Ricordo che negli ultimi anni Serres ha accentuato tale indagine su variazioni e paesaggi, 5 n.16 / 2006 producendo cinque importanti opere: Variations sur le corps, Le Pommier-Fayard, Paris 1999 [d’ora in poi citerò con la sigla VC seguita dal numero di pagina]; Paysages des Sciences, ouvrage collectif sous la direction de M. Serres et N. Farouki, Le PommierFayard, Paris 1999 [d’ora in poi citerò con la sigla PS seguita dal numero di pagina]; Hominescence, Le Pommier, Paris 2001 [d’ora in poi citerò con la sigla HOM seguita dal numero di pagina]; L’incandescent, cit. [d’ora in poi citerò con la sigla INC seguita dal numero di pagina] e Rameaux, Le Pommier, Paris 2004 [d’ora in poi citerò con la sigla RAM seguita dal numero di pagina]. Per un preliminare inquadramento dell'indagine serresiana rinvio a A. Delcò, Morphologies. À partir du premier Serres, Kimé, Paris 1998 e ai miei Michel Serres. Per una filosofia dei corpi miscelati, Liguori, Napoli 1990 e Tra Bachelard e Serres. Aspetti dell’epistemologia francese del Novecento, Armando Siciliano editore, Messina 2003, nonché all'illuminante autobiografia intellettuale fornita dallo stesso Serres in Eclaircissements, entretiens avec Bruno Latour, F. Bourin, Paris 1992 (tr.it. di A. Colella, postfazione e cura di M. Castellana, Barbieri, Manduria 2001 - da cui cito - ) e in parte anche in Conversations avec Michel Serres. Jules Verne, la science et l'homme contemporain, a cura di Jean-Paul 6 Una lotta spesso solitaria, una difficile erranza, nella quale Serres ha «tenté toute [sa] vie de faire du savoir une culture» [VERNE 141], «de construire une philosophie qui tienne compte des acquits du savoir contemporain qui structure notre monde» [VERNE 148]; una lotta motivata dalla consapevolezza che «les nouvelles manières de penser, les nouvelles manières d’agir, entretiennent un rapport mort avec la culture. Voilà l’un des problèmes les plus fondamentaux du monde contemporain, l’un des plus profonds et qui a des conséquences immenses que sont la crise de la littérature et celle de la science. Cette crise de culture est considérable» [VERNE 140], e dal riconoscimento, per molti versi drammatico, che «la philosophie a complètement abandonné la connaissance du monde» [VERNE 141]. Intendo qui richiamare alcuni paesaggi teorici descritti da Serres negli ultimi scritti (2001-04), ben consapevole che non potrò riprodurre i tratti del suo inconfondibile stile di pensiero e ugualmente convinto che la “filosofia naturale” di Serres affronta i nodi ontologici ed etici più rilevanti della condizione umana nella tarda modernità. Gli scritti apparsi a partire dal 2001 sono segno della ricognizione di una nuova “emergenza” dell’umano, di uno sguardo epocale sulla svolta evolutiva dell’umanità, il cui arazzo compare nella varietà complessa di Hominescence (2001), nel Grand Récit di L’Incandescent (2003) e nel tessuto sistemico e narrativo di Rameaux (2004). Questi ultimi scritti si dirigono verso quella nuova forma di scrittura, miscela di scienza e narrazione, che Serres rimpiange di non aver ancora compiutamente trovato («La question de la nouvelle forme est nostre espoir. Et si j’ai un regret dans ma vie, c’est peut-être de ne pas l’avoir trouvée», [VERNE 16]). Si tratta di una svolta rispetto alle opere precedenti indicata da Serres come irreversibile: «Je ne réécrirai plus jamais les livres que j’ai écrits au début. Je les trouve maintenant trop difficiles, trop ardus, trop coincés, trop défendus dans une armature énorme de références et de citations. Maintenant, je ne mets plus de notes en bas des pages parce que je déteste de plus en plus cet effet-là». [HOR 4] Serres aveva già descritto per immagini paesaggi di trasformazioni dei corpi umani (Variations sur le corps, 1999), e “naturali” (Paysages des sciences, 1999), intrisi di sapere scientifico e tecnologico, facendo emergere un mondo reticolare della comunicazione, della miscela e dello scambio in tutte le forme possibili di una cultura naturalizzata e di una natura culturale. E bisogna ricordare che la curiosa ricognizione di paesaggi – siano essi naturali che virtuali – è peculiare della randonnée serresiana, in questo parallela a quella di Jules Verne, come ha dichiarato lo stesso Serres in un’intervista del 20023. Va rilevata anche la novità procedurale di una scrittura figurata, sostanzialmente ipertestuale e multimediale, che – a partire dalla Légende des Anges (1993) – impegna Serres in una ricognizione di legami (angeli come punto di unione tra uomini e mondo), di variazioni (nella flessibilità psicofisica dei corpi) e di paesaggi (nella virtualità delle scienze). La rappresentazione delle variazioni dei corpi e dei paesaggi delle scienze, raffigurata nel pensiero visivo dei due libri omonimi del 1999, confluisce in un repertorio complessivo sullo stato dell'evoluzione umana, della coevoluzione tra uomini e mondo, nel segno di una biforcazione che Serres intende come irre- Gaspare Polizzi Michel Serres: un “umanesimo complesso” versibile e che descrive in Hominescence, «livre de synthèse» [VERNE 11], che sembra scritto da «plusieurs auteurs» [VERNE 17]. Serres vede emergere una hominescence, ovvero un processo incoativo di svolta nell’evoluzione dell’umano4. Egli nota un’emergenza nuova nei processi di ominizzazione, nel duplice senso di snodo evolutivo della specie e di crinale catastrofico dell’ominizzazione: nel XX secolo si sono addensati tempi di catastrofi inaudite e di poderose speranze. Le tre parti che distinguono il libro (Corps, Monde, Autres), ormai libero da ogni commentario e rivolto a «des choses telles quelles» [VERNE 122], rendono conto dei riferimenti costitutivi delle tre modalità del mutamento evolutivo, in rapporto alla materialità dei corpi, alla “naturalità” del mondo fisico e alla socialità delle relazioni e delle comunicazioni collettive. A partire dagli anni Settanta del XX secolo Serres riconosce le linee di una rivoluzione mondiale profonda, di un assestamento tettonico della storia sociale che taglia in due il secolo provocando ben riconoscibili rotture superficiali. Tale “non-evento universale” ha prodotto tre terremoti che hanno incrinato le stabilità di lunga durata nella configurazione dei rapporti umani, ben al di là del segno degli eventi storici: nel soggettivo, la liberazione dalle costrizioni corporali; nell’oggettivo, quella dalle antiche dipendenze del rapporto con le cose; nel collettivo, quella dalle condizioni spaziali della comunicazione. Ne è scaturita una ridefinizione della condizione umana rispetto alla classica tripartizione funzionale legata alla guerra, all'economia, al sacro, che Serres propone di mappare5. Nel primo dominio la bomba atomica ha trasformato radicalmente le forme della guerra e della violenza, il regno guerresco di Marte; la scomparsa dell’agricoltura tradizionale ha segnato, nel secondo dominio, la fine di un’economia legata alla produzione e agli scambi agrari, il regno sedentario di Quirino; la radicale rifondazione conciliare della religione cattolica ha cancellato, nel terzo dominio, la figura statica del prete, il regno sacro di Giove [cfr. HOM 316-320]. I rapporti umani con la violenza, con la terra e con il sacro, rimasti pressoché stabili nelle nostre società a partire dal neolitico, sono stati dissolti in un sommovimento delle placche profonde dei legami sociali che non si ferma alla superficie della storia, ma tocca le condizioni antropologiche delle società umane, se non addirittura la dimensione evolutiva della specie. Soltanto se si discende nella profondità del sommovimento tettonico si possono cogliere le dinamiche superficiali degli eventi politici, economici e religiosi che continuano a inquietarci leggendole nel segno di una rinascenza pericolosa ma anche straordinariamente fertile. E Serres rivolge il suo sguardo acuto all’ominiscenza riconoscendone senza esitazioni la radice nelle trasformazioni provocate dalle “scienze dure” e dalle loro applicazioni tecnologiche; egli traccia le linee di sviluppo di un medesimo processo evolutivo che cambia insieme i connotati della specie umana, del suo mondo e le relazioni reciproche. Soltanto alla luce di tale profondità di prospettiva ci si può avvicinare a un libro che descrive «[…] l’émergence de liens sans équivalents connus au corps, au monde et aux autres» [HOM 12]. Si tratta di riconoscere la radicale trasformazione della condizione umana dovuta allo straordinario potere di vita e di morte accumulato nei cambiamenti promossi dal sapere scientifico-tecnologico dell'umanità. Il processo di “ominiscenza”, marca «[…] une sorte de differentielle d’hominisation» [HOM 14], scavando nei tempi profondi della biologia e delle scienze esatte per rintracciare l’onda lunga del mutamento evolutivo. Dekiss, «Revue Jules Verne», n. 13/14, juillet 2002, pp. 96-98 [d’ora in poi citerò con la sigla VERNE seguita dal numero di pagina], nuova edizione presso Le Pommier, Paris 2004. Ricordo inoltre tra le più recenti ricognizioni d'insieme i numeri monografici di «Configurations. A Journal of Literature, Science, and Technology», Michel Serres, 8, 2, spring 2000 e di «Horizons philosophiques", Le Monde de Michel Serres, 8, 1997, 1 [d’ora in poi citerò con la sigla HOR seguita dal numero di pagina]. 3 «Ah, que je sois attaché aux paysages du monde, oui ! Je ne sais pas si je le tire de Jules Verne mais j’ai toujours voyagé avec passion. J’ai voulu voyager à peu près partout. C’est vrai que je suis passé aussi bien par la banquise que dans l’hémisphère sud, que j’ai navigué à peu près sur toutes les mers du monde, que j’ai roulé ma bosse dans cent ports. J’ai marché dans les déserts, j’ai fait de la haute montagne. Bien sûr ! … J’ai ça en commun avec Jules Verne». [VERNE 134] 4 Lascio la parola allo stesso Serres: «J’ai inventé ce mot pour caractériser la coupure qui intervient dans les pays occidentaux vers les années 1950/1970. Elle est si importante qu’elle touche plus l’évolution que l’histoire. Elle concerne le corps, l’agriculture, notre rapport a monde, à la vie, à la naissance 7 n.16 / 2006 et à la mort, enfin notre rapport aux autres, par les divers canaux de communication. Je n’ai pas voulu utiliser le mot hominisation. Trop lourd, et j’ai forgé ce vocable, plus léger, en choisissant parmi les mots que les grammairiens appellent inchoatifs et qui signifient le début d’une transformation (comme luminescence, adolescence, arborescence, etc.) Hominescence signifie donc le commencement d’un nouvel homme». [VERNE 144] 5 Utilizzo le note per richiamare qualche significativa ricorrenza del pensiero di Serres riflessa in Hominescence, seguendo peraltro un consiglio formulato dallo stesso Serres, che chiede a chi voglia accostarsi al suo pensiero di partire dal suo ultimo libro: «Il me semble toujours qu'en vieillissant, quelqu'un qui travaille trouve de plus en plus de manières claires de s'exprimer – je parle peutêtre seulement dans mon cas –, mais il me semble toujours qu'il faut lire un auteur à l'envers, c'est-àdire de partir du dernier pour remonter vers le premier». [HOR 4] Mi riferisco qui alla triade proposta da Georges Dumézil, e richiamata da Serres in varie forme. In Rome. Le livre des fondations, Grasset, Paris 1983 e in Les origines de la Géométrie. Tiers livre des fondations, Flammarion, Paris 1993 la triade Marte-GioveQuirino, resa dinamica tramite la teoria della fondazione violenta del sacro di Réné Girard, è 8 Il riconoscimento di una possibile ominiscenza muove dalla nuova cognizione della morte globale dell’umanità segnata a partire dal 6 agosto 1945 (e Serres ha più volte ripetuto che non ci si può impegnare in uno sguardo filosofico sul nostro tempo trascurando tale irreversibile aspetto della morte collettiva della specie umana, impressa dopo Hiroshima) [HOM 3-4]6. Esso impone un ripensamento globale – nel soggettivo, nell’oggettivo e nel collettivo –, che approdi alla comprensione comune delle forme e delle condizioni di possibilità di nuovi vincoli, di un diritto possibile per un’umanità posta oggi dinanzi alle modalità di una morte globale conseguibile come effetto delle stesse azioni umane. Il pericolo dell’acosmismo7, così presente nella pratica odierna della filosofia, consiste proprio nell’incomprensione dei nuovi dati e risultati del sapere scientifico e tecnologico, senza i quali risulta impossibile ogni progetto per costruire una dimora possibile per gli uomini alle soglie dell’ominiscenza: dinanzi ai nuovi uominimondo tecnologici e scientifici la filosofia si chiude in una cieca ricerca di rigore locale e analitico, di giochi linguistici autoreferenziali, senza confrontarsi con le impegnative categorie della totalità8. Una filosofia per i nuovi processi di ominiscenza, questa – molto semplicemente – la scommessa che Serres presenta per la futura ricerca filosofica. Essa innanzitutto si impegna in una filosofia della conoscenza e dell’azione ricongiunte nel punto d’unione della ricerca di un nuovo diritto, globale e naturale insieme, che tenga conto del tertium9, oltre la sterile, arcaica e agonistica dialettica del servo-padrone o dell’amico-nemico. La lotta, lo scontro, la violenza coinvolgono globalmente un terzo, sconvolgono l’habitat locale e globale. Basta guardarci intorno: non ci chiediamo mai cosa ne è delle terre del Kosovo, dell’Afghanistan o dell’Iraq dopo la massiccia distribuzione di bombe e mine, come può essere abitato un territorio distrutto da bombardamenti devastanti che lo fanno diventare quasi lunare, come può vivere un mare che dopo l’incendio dei pozzi di petrolio diventa una grande chiazza oleosa. Proprio dal pericolo concreto di una morte globale scaturisce l’utopia di una nuova immortalità, perché la consapevolezza della morte è tratto distintivo dell’evoluzione dell’umano oltre i limiti della naturalità (le tombe sono il primo segno di riconoscimento di Homo sapiens) [HOM 1-2]10. Il processo di ominiscenza potrà magnificare o assassinare gli uomini, nella più completa indecidibilità tra nuova soglia di immortalità e morte globale dell’umanità. Il modello dell’apoptosi, il suicidio cellulare che costituisce una costante dell’auto-organizzazione del corpo e che insieme conduce nelle sue forme estreme alla senescenza e alla morte, come anche alla costruzione delle differenziazioni organiche funzionali già a partire dall’embrione, indica bene l’ambivalenza delle possibile biforcazioni evolutive dell’ominiscenza [HOM 5-6]. Oggi, la consapevolezza della possibilità della morte globale si presenta come un’angosciante litania quotidiana, ma proprio da tale ripetizione che non permette oblio, nasce l’obbligo di una teoria dell’ominiscenza [HOM 11]. Speranze e inquietudini si mescolano in un cruccio intenso che pungola con urgenza la filosofia, secondo una necessità impellente che richiede l’abbandono dei trucchi accademici e dei sotterfugi pseudo-specialistici. «Le moment d'hominescence – conclude Serres nell’introduzione al volume, intitolata Morts e siglata, non casualmente, 1957-2000 – oblige à résoudre ce pro- Gaspare Polizzi Michel Serres: un “umanesimo complesso” blème global sous le risque de guerre totale, donc d'une mort alors pleinement universelle. L'intuition que se produisit récemment un tel bouquet de bifurcations et qu'il demandait, en urgence, une reconstruction de nos cultures et de nos philosophies, accompagna ma vie et illumine ce livre». [HOM 16] Serres descrive tre boucles che compongono l’hominescence, in un andirivieni ricorsivo di corpi, mondo e comunicazione rispetto alle radici arcaiche del nostro presente11. Dinanzi alle conseguenze stupende e terribili implicate nel processo soggettivo, oggettivo e collettivo di ominiscenza, nella trasformazione del soggetto cognitivo, della scienza oggettiva e della cultura collettiva, non è tuttavia sufficiente il perspicuo riconoscimento dei sommovimenti profondi delle faglie dell’ominizzazione. Serres invita a pensare la totipotenza dell’umano, l’onnivalenza delle sue possibilità, a partire da un luogo terzo dal quale poter vedere insieme la ragione della scienza (le leggi del mondo fisico, le regole della natura) e la ragione del diritto (le regole dei contratti, le leggi politiche dei collettivi umani). Assistiamo alla costituzione embrionale di un contratto naturale che estende le condizioni ricorrenti del diritto (e la storia del diritto consiste nell’universalizzazione progressiva del diritto a divenire soggetti di diritto)12: con i processi di ominiscenza sono comparse insieme una nuova oggettività e una nuova collettività che impongono di interrogarsi sulle nuove condizioni del diritto, sul diritto di un nuovo soggetto di diritto, la Terra stessa. La trasformazione degli statuti degli oggetti nel processo che incrementa globalmente azione e conoscenza comporta un nuovo stato di fatto nel diritto della Terra a divenire soggetto di diritto13. Ma, al di là della dimensione politica e giuridica, l’esigenza del contratto è alla radice di ogni istanza sociale, di ogni rapporto umano, di ogni scambio tra organismi viventi e ambienti, ha a che fare con il rapporto originario di simbiosi che lega la vita al suo habitat14. Ricorsivamente tale esigenza si rintraccia oggi nella rete, vero insieme ramificato di contratti, che «recouvre et exprime un objet-sujet, le monde» e pone innanzitutto problemi di diritto, presuppone un contratto globale, esigenza prioritaria nel pensare la svolta evolutiva dei nostri tempi senza implodere nella catastrofe collettiva15. Dinanzi alla pervasività della guerra, alla spirale senza fine che lega guerra, stati, storia, società umane, la morte collettiva che riconosciamo sul piano attuale dell’ominiscenza correlativamente alla straordinaria avanzata delle scienze, delle ricchezze e delle relazioni umane impone di svelare il “segreto di Pulcinella”: non distruggere, ecco il principio costitutivo del nuovo contratto naturale e l’impegno prioritario per la vita futura [cfr. HOM 291-295]. Un Homo universalis coniuga uno spazio senza distanza e un io senza spazio, scorre, fluttua, percola16, nell’attesa di un umanismo globale che ne fissi il contratto naturale, un contratto di simbiosi tra la Terra globale e gli attori umani globali [cfr. HOM 198 e 332-333]. Tale umanismo integrale è in qualche modo l’oggetto dei due libri successivi, L’Incandescent e Rameaux, che si iscrivono nella dimensione complessiva dell’hominescence. L’Incandescent è sostanzialmente dedicato a quella nuova sintesi di natura e cultura che Serres designa con la felice espressione di Grand Récit17. I passaggi e i transiti del Grand Récit riuniscono in un’unica descrizione universale la storia dell’universo (13 miliardi di anni), quella del vivente (quattro alla base del triplice processo di esclusione (tempio, campo, pagus) che produce la società organizzata (Rome) e la cultura (Les origines de la Géométrie). Un richiamo alla connessione tra la struttura trifunzionale di Dumézil e la dinamica della violenza fondativa di Girard si trova anche in Atlas, Juillard, Paris 1994, pp. 217-242. 6 La centralità della bomba atomica come motore della filosofia serresiana è evidente nella scelta di rivolta morale compiuta da Serres nel 1949, con l'abbandono dell'École navale e il passaggio alla filosofia ed è stata ribadita di recente: «Chiedo ai miei lettori di sentir esplodere questo problema in ogni pagina dei miei libri. Hiroshima resta il solo oggetto della mia filosofia», Eclaircissements, cit., p. 23. 7 L'acosmismo della filosofia, unito al tendenziale acosmismo della politica e della sociologia, viene riconosciuto esemplarmente – in Le contrat naturel, F. Bourin, Paris 1990, pp. 52-54 e 116-118 – come riduzione a storia e linguaggio delle forze, dei legami e delle interazioni che ci legano al mondo. 8 In uno scritto recente connesso alla tematica del contratto naturale – Retour au Contrat Naturel, Bibliothèque Nationale de France, Paris 2000, p. 15 (il testo è ricavato da una conferenza tenuta il 14 gennaio 1998 nell'auditorium della Bibliothèque Nationale de France ed è 9 n.16 / 2006 stato parzialmente rifuso in Hominescence) – Serres sottolinea con forza che «La philosophie a donc pour tache de réexaminer tous ses anciens concepts comme: le sujet, les objets, la connaissance et l’action… tous construits au long des millénaires sous condition de découpages locaux préalables: en ceux-ci, se définissait une distance sujet-objet, le long de laquelle jouaient connaissance et action». 9 Tale impegno è illuminato fin dal 1991 (cfr. Le Tiers Instruit, F. Bourin, Paris 1991) da una pedagogia del “terzo istruito”, parallela alla definizione di un nuovo diritto naturale proposta nel 1990, che unisce la cognizione del mondo e la sua comprensione nei due fuochi della sofferenza universale e del pensiero locale (con una connessione simile a quella che ispirò a J.-J. Rousseau nel 1762 insieme l'Emilio e il Contratto sociale). 10 Una generalizzazione teoretica della funzione della tomba e della necropoli nella fondazione della città e del consorzio umano è stata proposta da Serres in Statues. Le second livre des fondations, F. Bourin, Paris 1987. 11 Le tre boucles sono condensate nei paragrafi Première boucle d'hominescence [cfr. HOM 5168], Deuxième boucle d'hominescence [cfr. HOM 179-189] e Troisième boucle d'hominescence [cfr. HOM, 267- 10 miliardi), e quella dell’uomo (sette milioni) e delle civiltà storiche (alcune migliaia). Il Grand Récit insegna che gli uomini, la conoscenza e la filosofia devono più alla natura che non alle loro recenti civilizzazioni. In questa prospettiva, il libro si autodefinisce un’opera di filosofia della natura18. Una filosofia – possiamo aggiungere – realista della natura, con un attributo che oggi suona quasi denigratorio, ma che Serres accredita con una difesa appassionata. Il realismo crede che le cose esistano, assume una credenza empirica non dimostrabile, ma ancorata alla “durezza” del mondo: «[...] le réalisme ne se défend, le plus faiblement du monde, que par une croyance issue des sens, de l’expérience brute et même de la religion, prétendent certains. En effet, les réalistes croient en la réalité des / choses comme les mystiques croient en Dieu, pour l’avoir expérimenté. Malgré cette faiblesse, je n’ai jamais su ni pu me départir du réalisme, dur, car les idéalistes, doux, me paraissent n’avoir jamais souffert du monde comme tel [...]». [INC 53-54] Ispirata alla stratigrafia, alla termodinamica, alla radioattività, alla biochimica, tale credenza nelle cose reali ritrova in esse le funzioni umane elementari; le cose del mondo, il cervello individuale e la collettività “si ricordano” sempre a partire dai “materiali” delle cose stesse. In quanto memoria partecipiamo delle cose, in quanto cose esse partecipano della memoria. Viceversa, «l’idéalisme suppose un combat d’où nous sortions vainqueurs; je vois la partie équilibrée ou nulle. Pis, je ne vois plus la frontière qui sépare et oppose hommes et monde». [INC 55] Ma è proprio tale frontiera che va dissolta, ritrovando una partita equilibrata tra uomini e mondo che inneschi un processo ciclico nel quale il reale risvegli l’atto di conoscere che a sua volta lo risveglia. Se l’idealismo ricerca il dominio parassitario, il realismo pratica la simbiosi e la partecipazione, senza contrapposizioni e agonismi. Il libro è scandito in quattro parti: la prima (Mémoire et Oubli) e l’ultima (Le Grand Récit) introducono e concludono la lunga trama di riflessioni racchiuse in Nature et Culture e in Accès à l’Universel, sostenendo entrambe il complesso organico del Grand Récit che viene poi risolto in molteplici varietà poste nelle due parti centrali. Richiamo la prima, che racchiude efficacemente l’intera cornice del Grand Récit. La salita e la discesa delle scale spazio-temporali viene inaugurata in Mémoire et Oubli da un’immagine di Fontanelle, che ricorda come «de mémorie de rose, jamais l’on ne vit mourir de jardinier» [INC 11]. Tutta la nostra storia replica l’illusione del giardino, permane nella credenza illusoria che una geografia stabile veda scorrere l’azione del tempo umano, come si vede scorrere un torrente o si assiste a uno spettacolo teatrale. Anzichè vedere due spettacoli diversi posti in uno spazio simile, si tratta invece di riconoscere «une succession de mille fontaines à rythmes divers» [INC 13], di riconoscere la coesistenza delle diverse scale temporali dello storico, del geologo, del chimico, dell’astrofisico, riproducibili in una serie scalare di orologi che segnano il tempo a ritmi diversi. Ecco che Serres delinea il racconto che prepara al Grand Récit, dove tutto è tempo, nei differenti ritmi di durata, dove lo spazio scompare nell’alternanza e nell’intreccio di tanti ritmi. Gli uomini, illudendosi di vivere nello spazio stabile di un giardino, non si accorgono di tessere lo spazio stesso, tappeto di tempo insieme effimero e millenario. L’universalità eraclitea del «tutto Gaspare Polizzi Michel Serres: un “umanesimo complesso” scorre» si riempie soltanto ora della complessità intrecciata dei tempi degli uomini e del mondo. Ciascun individuo, vera “polvere di stelle”, è immerso in una totalità temporale che si dispiega dall’effimero ai milioni di secoli. Il nostro corpo sale e scende nella scala temporale, con una connessione in tempo reale di mille date tra di loro incomparabili. La peculiarità complessa di questo «vieillard nouveau-né» risiede nella straordinaria difficoltà della combinazione del vivente e nella sua effimera durata, nella miscela di una lunga forza e di una corta fragilità. E oggi, grazie alla sincronia di ontogenesi e di filogenesi promossa dalle biotecnologie, la vita e la storia si connettono reciprocamente. La commedia naturale e umana si svolge nell’ampia contingenza del tempo; siamo immersi nel Grand Récit ed è giunto il tempo di praticare un umanesimo degno del suo nome, scritto nella lingua enciclopedica di tutte le scienze, che non può risolversi in falso antropocentrismo e che deve ricercare il difficile percorso che dalla discesa lungo le biforcazioni temporali consenta la risalita nel loro labirinto, connessa all’andatura caotica del processo. A tal fine Serres impiega la doppia tradizione di scienze e miti, che permettono insieme di retrocedere nel passato più lontano e di aprire spiragli sulla ricomposizione complessa dei tempi lungo la direzione inversa. Ancora una volta viene posto l’accento sul carattere concreto e “vivente” della natura, iscritto nell’etimologia stessa del termine, che è stato progressivamente cancellato dall’astrazione filosofica: «Mais nous avions oublié ce que signifie le participe futur naturus, au féminin natura, du verb latin nascor, sa racine: ce qui va naître, le processus même de naissance, d’émergence ou de nouveauté. Nature: la nouvelle-née». [INC 28] Con linguaggio matematico la natura può essere descritta come un integrale indefinito di tutte le biforcazioni note, come una sommatoria di nascite, all’interno della quale si colloca la natura umana, integrale definito di quelle biforcazioni che hanno condotto a Homo sapiens sapiens19. Scomparsi ogni centro di riferimento, ogni forma circolare del sapere, ogni enciclopedia totalizzante, il Grand Récit descrive il paesaggio dinamico di una «cronopedia» che raccoglie tutti gli orologi dell’universo e si compone nei mille tasselli delle nuove scienze, con un’operazione di collage per la quale Serres richiama il modello recente della teoria delle superstringhe, che fa sperare nell’adattamento reciproco della meccanica quantistica e della fisica relativistica. Insieme all’istanza narrativa del Grand Récit permane ne L’Incandescent una volontà pedagogica che costituisce il punto di convergenza dell’intero libro. La pedagogia esprime lo slittamento della materia e dei viventi nel tempo che si racconta, lo spiazzamento nel tempo di uomini e cose che coevolvono e coproducono il mondo attraverso le contingenze possibili e le fluttuazioni della modalità20. L’Incandescent è un libro di coniugazioni, un libro di congiunture, che Serres con ostinato coraggio connette in un Gran Récit in cui la filosofia si sforza di raggiungere il tempo stesso delle cose: «Depuis longtemps, je cherche à construire une culture où la philosophie, oeuvre d’art aussi bien, s’écarterait un peu du trou noir, inévitable et relativement stable, où attirent les rapport sociaux, pour rejoindre, au prix d’un effort incompris, à la lettre surhumain, la formation même des choses, le temps mondial, le chaos du climat, le frémissement des vivants, bref, notre habitat global oublié, ainsi que son Grand Récit». [INC 296] 278]; per una presentazione più ampia rinvio al mio Tra Bachelard e Serres, cap. 10 Verso una nuova emergenza dell'umano, cit., pp. 293-308. 12 Preconizzato già nel Contrat naturel, il problema della Terra come soggetto di diritto è oggi posto consapevolmente anche nell'istanza politica, cfr. ancora M. Serres, Retour au Contrat Naturel, cit., p. 22. 13 Riporto un illuminante passaggio sul nuovo status dell'oggetto-mondo da Retour au Contrat Naturel, cit., pp. 20-21: «[…] comment le statut objectif du sujet collectif varia, puisque, anciennement actif, il devient l’objet global passif deforces et contraintes en retour de ses propres actions, et comment le statut de l’objet-monde varie, puisque, anciennement passif, le voici, à son retour, et puisque, anciennement donné, il devient notre partenaire de fait». 14 All’interno di un'ambivalente logica parassitaria dell'hospes che si può trasformare in hostis, del simbolon che cela il diabolon, ovvero della coppia ambivalente simbiota-parassita; cfr. soprattutto Le Parasite, cit., tra l'altro alle pp. 224-226 e 335-338. 15 M. Serres, Retour au Contrat Naturel, cit., p. 27. Emblematica a questo proposito la "questione di Robin Hood", ovvero di come pensare un diritto in una terra di nessuno dove non c'è nessun diritto: Serres ci 11 n.16 / 2006 ricorda che la foresta di Robin Hood era la terra dei senza legge, come lo è oggi internet, ma l'esistenza stessa di Robin Hood, ovvero del "magistrato dei boschi", come recita il senso originario del suo nome, testimonia di un'allegoria del diritto, del passaggio dalla violenza al contratto, della possibilità di un nuovo diritto "complesso" [HOM 227-229]. 16 Una teoria della percolazione – per la quale cfr. M. Serres, Les origines de la Géométrie, cit., pp. 40-41 – rendeva conto del tempo nuovo alle soglie del neolitico, dell'agricoltura, della geometria e della cultura umana, a partire dalla prima biforcazione ominide; una nuova soglia di percolazione si rintraccia ora nell'ominiscenza. 17 Riporto la seguente definizione serresiana: «J’appelle Grand Récit l’énoncé des circonstances contingentes émergeant tour à tour au cours d’un temps, d’une longueur colossale, dont la naissance de l’univers marque le commencement et qui continue par son expansion, le refroidissement des planètes, l’apparition de la vie sur la terre, l’évolution des vivants telle que la conçoit le néodarwinisme et celle de l’homme», M. Serres, Le temps humain: de l’évolution créatrice au créateur d’évolution, in P. Picq, M. Serres, J.-D. Vincent, Qu'est-ce que l'humain?, Le Pommier, Paris 2003, pp. 73-74. 12 Uno sforzo sovrumano che si compone, nella chiusa del libro, in un progetto “pedagogico” lanciato all’umanità futura, l’unico progetto che in questa fase di umanizzazione possa essere promosso e mantenuto, quello del sapere: «Il en reste un [de projet], qu’on le veuille ou non. Le savoir reste un projet, le savoir en général…l’enseignement, la transmission de l’information… non seulement cela reste un projet,mais c’est le seul pour le moment. La politique ou les politiques n’ont plus de projets». [VERNE 151] Ed è con questo progetto “pedagogico” che Serres chiude il libro, nell’ambizione di promuovere una cultura in armonia con le scienze, un «nuovo umanesimo» che acceda all’universale di un’umanità possibile. Si tratta di un appello pedagogico lanciato tramite l’Unesco e rivolto alle Università di tutto il mondo, affinché si diffonda un sapere comune, un ceppo comune del sapere, e avanzino la pace e la fratellanza. Nella sua articolazione pedagogica esso prevede in concreto tre parti: un programma corrente di specialità disciplinari, secondo gli studi disciplinari intrapresi (medicina, diritto, scienze o letterature) e due parti comuni, Il Grande Racconto unitario di tutte le scienze e Il mosaico delle culture umane. Sulla medesima linea, ma con un’attenzione più forte per il riavvicinamento tra universo, viventi e uomini, si presenta Rameaux, un vero “monumento alla contingenza”. Il volume propone uno svolgimento parallelo tra la dimensione del système e quella del récit, che permette di confrontare e far convergere la configurazione stabile del format e quella dinamica dell’événement. L’ingresso in un nuovo rameau evolutivo, che prospetta l’inquietante biforcazione tra la comparsa di un nuovo uomo o la scomparsa dell’umanità, impone di inventare «nouveaux rapports entre les hommes et la totalité de ce qui conditionne la vie» [RAM 5] per decidere «la paix entre nous pour sauvegarder le monde et la paix avec le monde afin de nous sauver» [Ibid.]. Rameaux è un «livre-fils» immerso nella contingenza; esso «célèbre l’éveil au point-fourche entre tige et rameau, parce que nous vivons ces jours-ci sur ce point double de tangence, d’où vint le mot de contingence». [RAM 130] Anche se testimonia di un deficit di linguaggio: «Comment dire, d’une seule voix, tous les genres d’événements, comment unir les exemples cités sans les distinguer ? Privé de la discipline que les synthétiserait, ce livre, fils orphelin, manque du langage dans lequel il pourrait exprimer leur concordance, celle de la nouveauté dont la ramification se retrouve en tous lieux et nous concerne aussi bien»[RAM 141]21. L’immagine centrale del libro disegna figurativamente la trama stessa del rapporto tra la dimensione stabile del tronco solido di una scienza dell’ordine e quella imprevedibile delle arborescenze contingenti delle scienze del possibile. E proprio nell’incrocio tra la dimensione universale della matematica e quella individuale della metafisica emerge la singolarità innovativa dell’opera rispetto al quadro degli scritti serresiani22. Nella parte “sistemica” del libro si confrontano gli statuti contrapposti del sistema-padre e della scienza-figlia per condurre, tramite la lettura del messaggio cristiano di San Paolo, alla nuova dimensione del “figlio adottivo”. Nella parte “narrativa” si espone la biforcazione tra événement e avènement, tramite la quale vengono offerte le chiavi per una proposta di riconciliazione adatta alla profondità della attuale svolta evolutiva. Formattazione del tempo nella serializzazione collettiva delle attività, formattazione della gioventù tramite gli istituti pedagogici, formattazione dei ritmi del Gaspare Polizzi Michel Serres: un “umanesimo complesso” corpo nello spazio-tempo regolare per chi pratica l’esercizio della scrittura: aspetti diversi di un’omologazione pervasiva dell’azione umana che ha preso forma agli inizi dell’età moderna. Format, supporto e codificazione producono oggi il più potente sistema di controllo sul mondo mai realizzato; ma esigono, come al tempo di Platone, che aveva intrecciato il mondo sensibile e i collettivi sociali nella figura “politica” del tessitore, o di Leibniz, che aveva operato una mirabile sintesi tra le leggi del padre (armonia prestabilita) e il posto del figlio nelle mille contingenze delle singolarità23, una nuova sintesi filosoficamente rilevante, che «lie l’univers et les cultures par un contrat naturel» [RAM 31], affidata alle pagine di Hominescence, che ha scoperto come la storia degli uomini sia immersa nel Grand Récit del mondo materiale, come l’informazione giaccia nel seno della materia. La descrizione del format implica una connotazione di necessità e violenza, un integralismo tirannico; ma in realtà i format, che si pongono come trascendenti sono anche immanenti e contingenti. Dalla meccanica quantistica in poi trionfano le scienze-figlie, nelle quali le circostanze vengono reintegrate nel sapere. Nel format è iscritto «un moteur de production irréductible» [RAM 42], che intreccia contingenza e legge razionale24. Il format si sfrangia e si dissolve. Dal sistema della scienza-padre, preformante e deduttiva, ai decentramenti successivi delle scienze-figlie, alle filiazioni decentrate che si espandono nel sapere odierno e che spesso sono opera di scienziati-figli, allontanati e sconfitti dal potere canonico della scienza del loro tempo, che assumono posti esitanti e temporanei. Dinanzi alla prospettiva di una scienza che padroneggia la natura, che esige «la liaison meurtrière du savoir et du pouvoir» [RAM 55], gli scienziati-figli indietreggiano e ricercano un rapporto contrattuale, trasformano il sapere in contratto: «La symbiose, obligée, débouche sur un contrat naturel» [RAM 53]. La vera conoscenza, scienza nell’esodo e non nel metodo, erranza del viaggio arborescente del Grand Récit, connette la scienza, gli uomini e il mondo. La conoscenza viva intreccia a partire dal soggettivo l’oggettivo e il collettivo; Serres usa il termine «escient» (dall’ablativo assoluto latino meo sciente), che associa in pieno soggetto e oggetto del sapere, per indicare la vera conoscenza, che trasforma il corpo e la parola di chi la riceve tramite un’invenzione che è anche resurrezione dell’informazione morta, concentrazione di forze sociali, esternalizzazione incarnata di conoscenza in un collettivo (come fu quello dei congressi Solvay o di Bourbaki). L’evocazione religiosa e cristiana di queste pagine trova la sua piena esplicazione nella terza parte della sezione (Le fils adoptif), modello di una filosofia “cristiana” della scienza, incardinata sulla figura e sul pensiero di Paolo, che unisce e scioglie i tre format ebraico, greco e romano posti all’origine dell’occidente, ramificandoli in una nuova creatura. Paolo incarna la distinzione tra identità, espressa nella singolarità della vita individuale, e appartenenza, propria del collettivo, sia greco che romano. Negli scritti paolini Serres rintraccia il primo discorso di un filosofo-figlio, prodigo, errante, adottivo, di fronte alla ripetizione pesante della ragione critica dei discorsi di potere dei filosofi-padri. Il fragile figlio Paulos non parla soltanto al suo tempo, ma soprattutto al nostro: indica la virata dalla generazione all’adozione che configura l’hominescence come ultima biforcazione della trama evolutiva, verso la fabbrica dell’umano. Il progetto di resurrezione incarnato in Paolo e tramite esso nella figura di Cristo rappresenta 18 «A propos d’humanisme, ce livre de philosophie de la nature traite d’elle, de la vie et de l’homme, trois concepts sans définitions et en parle sans idéologie, tabou ni sacré, puisqu’il les définit selon les lignes du Grand Récit». [INC 29] 19 «Qu’appeler nature, dès lors, sinon une intégrale des bifurcations en questions? Une somme de naissances. Du coup, même la nature humaine devient facile à définir, sinon à dépister, comme intégrale définie des carrefours qui, dans le Grand Récit, amenèrent à la formation du sapiens sapiens. La nature, quant à elle, se définirait comme l’intégrale indéfinie de toutes les bifurcations connues et à venir dans le bouquet explosif du Grand Récit. / D’où venons-nous? De ce bouquet, de ce Grand Récit, d’un sous-ensemble de ses branches, d’une série finie de ses émergences contigentes. Qui sommes-nous? Le résultat temporaire de ce sousensemble». [INC 29] 20 «Je souhaite qu’il [le mot pédagogie] exprime désormais ce déplacement, rapide ou lent, du monde, des choses et des vivants dans le temps, oui, cette nouvelle perception de l’Univers, la nôtre et celle de nos enfants». [INC 38] 21 «Toute ma philosophie crie dans les lettres et la voix. La fontaine chante le pouvoir des fables; je célébre et cultive celui des langues. A chacune son rameau». [RAM 147] 13 n.16 / 2006 22 «Par ces approches croisées, ce livre essaie de nouer, de nouveau et pour aujourd’hui, la mathématique universelle, tige-père, à la métaphysique de l’individu, rameau-fils». [RAM 222] 23 Un altro aperçu leibniziano si trova nella presentazione della piramide dei mondi offerta alla fine degli Essais de théodicée, che rappresenta al vertice il mondo reale e nelle zone inferiori i mondi possibili: Serres ricorda come anche la porzione di spazio posta all’esterno della sezione conica possa includere mondi possibili, stavolta sviluppati verso l’alto [cfr. RAM 171-173]. Leibniz rimane, dopo Paolo, il riferimento privilegiato del libro: in conclusione, Serres legge nel pensiero leibniziano (e in quello di Pascal) un preannuncio della sintesi tra matematica universale e metafisica dell’individuo che viene proposta in Rameaux [cfr. RAM 221-222]. 24 «Lorsque la théorie des branes et des supercordes tente de réconcilier la relativité du premier [le père] avec la mécanique quantique du second [le fils], je rêve que les mathématiciens arrangent une affaire de famille». [RAM 42] 25 «Notre espèce sort, voilà son destin sans définition, sa fin sans finalité, son projet sans but, son voyage, non, son errance, l’escence de son hominescence. Nous sortons et faisons sortir de nous nos productions; 14 un’inversione nelle rappresentazioni e nelle pratiche dell’umano, tutte radicate nella morte; Serres lo legge come una vittoria inventiva sulla morte, una rottura dell’ominizzazione estranea al conflitto mortale e aperta alla speranza di vita. La seconda parte di Rameaux vive – come ho sopra ricordato – nella dinamica del récit, oscillante tra l’evento e l’avvento. L’evento fisico, culturale e umano, può segnare un mutamento di natura dalle conseguenze globali. Ecco allora che l’evento, deviazione inattesa dal format monotono delle regole anteriori, si presenta come sinonimo di novità. L’evento umano non è meno dirompente: da un’equazione come e=mc2 è emersa un’arma globale che non abbiamo il potere di dominare, nel segno – ben descritto da Poincaré nella teoria del caos – di una straordinaria sproporzione tra causa ed effetto. Nel suo doppio movimento dal format monotono alla rottura contingente l’evento implica un interesse che cresce proporzionalmente rispetto alla sua novità. La convenienza tra il tempo individuale ramificato e le ramificazioni del Grand Récit propone una nuova fondazione della conoscenza, che vive nell’in-quietudine, nello scarto dall’equilibrio costitutivo dell’ex-istenza. E tale nuova fluttuante fondazione rende possibile la trasformazione dell’evento in avvento, l’invenzione di un nuovo mondo, che viene descritta nella seconda e nella terza parte di questa sezione. Si tratta di dar conto di un processo autocatalitico, di un ciclo che innesca un’emergenza complessa, come è avvenuto per la nascita della Terra o di un gruppo sociale, come avviene nell’inclinazione del genio, nella sua serendipity. In realtà qui Serres ricapitola la propria stessa vocazione di messaggero, angelo, parassita, la reiterata vocazione degli annunci, materiali, viventi, storici. Il suo ordito si intesse di “esordi”, ovvero alla lettera di inizi che coincidono con le trame, di testi tessuti sempre di nuovo. E la descrizione dell’avvio del racconto, nel momento iniziale del punto di biforcazione, è un’ottima descrizione della propria personale ars narrativa, oltre che una professione di fede evangelica nell’avvento. L’inerte, il collettivo, il soggetto partecipano insieme di tale meraviglia “panica” dell’inizio, oscillano nella contingenza. Non l’essenza, ma l’«escenza», il movimento incessante di uscita, caratterizza l’umano25, e prende oggi il nome di appareillage; è così giunto un momento exodarwiniano dell’evoluzione umana in cui si trasformano le tecniche piuttosto che gli organismi, in cui si scopre il vantaggio della mobilità dell’artificiale; «L’évolution produit un corps qui en produit une nouvelle» [RAM 177]. La tecnica, risparmio di tempo e di morte, accompagna la natura, è insita nella sua autoevoluzione26. E così la tecnica sgorga non programmata dall’evoluzione e si sviluppa programmaticamente in cultura, secondo un processo autocatalitico che si iscrive nell’evoluzione cosmica. Se la nostra produzione biforca rispetto alla riproduzione l’emergenza delle biotecnologia riconduce alla riproduzione e gli strumenti tornano a essere organi. Le biotecnologie tornano alle sorgenti vive dalla tecnicità e inversamente il tempo evolutivo diviene un lento avvento di fabbricazione. All’ultima sezione è dedicato il momento della proposta nel panorama della mondializzazione tecnologica odierna, nella quale si intrecciano in modo contingente i tre codici genetici delle molecole, del vivente e dell’informazione. Se «Le récit des techniques participe donc de la même contingence que l’évolution» [RAM 199], i problemi legati a un’etica delle tecnologie riguardano esclusivamente il mutamento di scala e l’ordine di grandezza dell’imprevisto. Serres propone «une éthique à la mode cybernétique» [RAM 201], nella quale il governo Gaspare Polizzi Michel Serres: un “umanesimo complesso” della tecnica segua modalità contingenti, tra la precauzione e la prudenza. E al contratto naturale aggiunge la proposta di un contratto virtuale, che guardi alla salvezza delle possibilità contingenti. Una nuova etica del contingente quindi, che porta con sé una nuova politica del concordato. Serres ne enuncia, in conclusione del libro, tre ragioni: una ragione ontologica (fabbrichiamo già mondi possibili), una ragione metodologica (le scienze dure si fanno storiche e viceversa), una ragione cognitiva (il concettuale che opera distinzioni viene ormai rimpiazzato, tramite l’intelligenza artificiale, dal procedurale che produce dettagli). Tale proposta insieme etica e politica per un contratto virtuale dei mondi possibili viene simbolizzata dall’unione cristiana del dichiarativo ebraico (Jesus) con l’algoritmo greco (Cristo) e viene sostanziata da un preciso riferimento autobiografico27. Ma il messaggio più generale che il libro consegna risiede proprio nella possibilità concreta di pensare il concetto e il racconto, nel raccontare circostanze e avventi dell’umano secondo il tempo cangiante. Una ragione che coltiva il dettaglio del paesaggio, che si apre a un contratto virtuale come condizione trascendentale insieme per la conoscenza e per l’azione relativamente alle generazioni e alle cose future, è una ragione non più univoca e astratta, ma vivente e ricca nella dimensione singolare della contingenza, preconizzata da Montaigne con la frase «Chaque homme porte la forme entière de l’humaine condition» [RAM 225]. A questa ragione che unisca la concezione temporale della storia, la visione spazio-temporale del mondo e la società comunitaria e solidale Serres dona l’attributo paolino della fede cristiana, senza timore di miscelare il linguaggio della complessità con quello della religione. Anche un non credente, che abbia a cuore la salvezza dell’umanità e insieme della natura, deve convenire non soltanto che con Serres la filosofia si fa sincera “meta-fisica” che interroga con la radicalità più conseguente il presente, ma che difficilmente siamo stati posti dinanzi a soluzioni così globali per i destini dell’umanità e della natura. Dal neolitico al Novecento la cultura umana ha intrecciato l'umanismo e le peggiori barbarie; la gioiosa speranza della ricerca filosofica di Serres, orientata verso un’ominiscenza di pace ci invita a inventare un nuovo umanismo senza limiti, l'umanismo integrale dell'ominizzazione: «[…] qu’attendons nous – domandiamoci con Serres pour inventer, non point un seconde humanisme, mais l’humanisme comme tel, puisque, pour la première fois dans le processus millionnaire de l’hominisation, nous avons les moyens scientifiques, techniques et cognitifs, par études faciles, voyages aisés, rencontres et voisinages multiples et inattendues, de lui donner un contenu fédérateur non exclusif, enfin digne de son nom?» [HOM 333] nous produisons et nous autoproduisons par ce mouvement incessant de sortie». [RAM 173] 26 «La technique accompagne la nature, puisque l’homme lui-même naquit, naît encore naîtra – nascor, naturus, natura – de façonner des choses; ainsi naquit-il, faber, fabriquant déjà, de ses propres mains, des équivalents de ses organes. Et ainsi entra-t-il, déjà, en autoévolution». [RAM 178] 27 «Formé depuis la jeunesse aux concepts à la grecque, j’ai échoué, ma vie durant, à comprendre les avènements et singularités des religions à récit, comme, plus récemment, à évaluer la nouveauté du Grand Récit et le surgissement de ses rameaux. Mes lumières conceptuelles laissaient dans l’ombre les algorithmes issus de Rome ou de Jérusalem». [RAM 221] 15 Graziella Arazzi La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard* Focus: epistemologi eretici del ’900 1. I presupposti Sul pensiero di Gaston Bachelard varie e ricche di prospettive sono state le piste di analisi e di studio. Alcuni percorsi hanno analizzato la dialettica della conoscenza scientifica, in cui Bachelard mette a fuoco la dimensione di una razionalità costantemente messa alla prova, valorizzando l’errore e l’ostacolo come energie interne ai vari saperi. Molti studi si sono rivolti all’approfondimento della matrice storica che, secondo l’autore, costituisce l’essenza della scienza. Recenti programmi di ricerca hanno invece tematizzato le linee di una pedagogia del razionalismo applicato, che richiede il continuo investimento della comunità educativa e che mette al centro dell’attenzione la distinzione e il contemporaneo richiamo tra rêverie e scienza. In questo panorama, i percorsi di ricostruzione storiografica, che sottolineano l’originalità di Bachelard rispetto ai cardini del positivismo e dello spiritualismo della cultura francese del primo Novecento, ma anche innovativi modelli di indagine, che orientano a cogliere aspetti talora poco studiati come la struttura comunicativa e letteraria delle opere di Bachelard, appaiono cospicui e molteplici. Tra tante articolazioni di riflessione, si rivela tuttavia un’assenza: ciò che sembra mancare all’orizzonte è la configurazione di relazioni e rinvii che si generano tra il pensiero di Bachelard e il quadro epistemologico della complessità, che ha lasciato un profonda impronta nella cultura del XX secolo. Come contestualizzare questo rapporto, senza cadere in riduzionismi, sovrapposizioni, metafisiche dell’anticipazione? Più che di un processo lineare, che esamini e fotografi le opere di Bachelard, si tratta di utilizzare quello che il filoso- 16 fo ha più volte descritto come fisionomia vettoriale del conoscere. Nel caleidoscopio della produzione bachelardiana occorre allora individuare, selezionare, sollecitare e mettere in scena le tracce della complessità, una sorta di riconoscimento di quelli che sono gli elementi determinanti del paradigma della metaconoscenza. Allo schema di lettura a una sola dimensione subentra il dinamismo della scorribanda (randonnée, secondo il dizionario di Michel Serres), dove il rinvio da un testo all’altro non viene operato dal lettore ma si istituisce come una tessitura tra le varie forme di scrittura dell’opera dell’autore. A farsi strada non è un semplice passaggio storico da un saggio all’altro, bensì un percorso in cui tra categorie e nozioni tracciate e definite si genera reciprocità, richiamo, quasi uno spazio di ricodificazione e di inedita connotazione, che valorizza i modelli teorici e rivendica la polifonia dei concetti, l’apertura arborescente della conoscenza medesima. Mappa di questa interpretazione è un punto de La Philosohie du Non (1940), laddove Bachelard sostiene: “si procede da una concettualizzazione chiusa, bloccata, lineare e si arriva a una concettualizzazione aperta, libera, ramificata” (G. Bachelard, La Philosophie du Non, Paris, Puf, 1940, p. 133). Emerge l’indicazione di un cammino, tuttavia già segnalato da un’opera del 1932, L’intuition de l’instant. Saggio sulla Siloë di G. Roupnel . Il saggio fornisce una mappa o una visione d’insieme con cui intravedere, registrare e problematizzare le molteplici direzioni o aperture alla complessità. Al centro dell’attenzione la categoria di istante, che connota l’azione e il pensiero, un binomio che tanto più percepisce la propria coesione e duplicità tanto più si apre al mondo. In Bachelard non si Graziella Arazzi La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard arriva a concepire la complessità come compresenza di istante e durata, di accidentalità e di permanenza, intesi come termini che confliggono e si richiamano ad un tempo. Si insiste invece sul termine di istante, considerato come cuore di un dinamismo, apertura della ragione che non è data una vota per tutte ma che si può cogliere solo come procedura temporale, oltre i vincoli di una struttura consolidata e racchiusa in uno spazio definito. Una ragione che è discontinuità, “attività autonoma che tende a completarsi” (G. Bachelard, La Philosophie du Non, cit., p.33) nel corso del suo procedere, un logos che si qualifica nella messa in scena delle differenze, qualcosa che sempre ricomincia, in tensione perspicua, senza smarrirsi nella tranquillità del continuo. Tuttavia, il pensiero dinamico è scandito da una peculiare solitudine, attitudine speculativa e non emozionale che, lungi dal prefigurare isolamento, diviene opera del tempo, atto che è decisione istantanea, scelta tra pluralità di orientamenti e dunque dimensione fondamentalmente creativa. La ragione si manifesta nel suo incessante interrompersi e simmetrico riconoscersi, nel costante differenziarsi e produrre specificità. L’opera del 1932 pare demandare la sua chiarificazione ad un‘ulteriore riflessione che Bachelard svolge nel corpo della Philosophie du Non: “dialettizzare il pensiero significa aumentare la garanzia di creare fenomeni completi, rigenerando e offrendo ospitalità a tutte le variabili che la scienza, proprio come il pensiero ingenuo, aveva omesso nella sua prima fase” (G. Bachelard, La Philosophie du Non, cit., p. 17). La coscienza del tempo è valutata come la geometria topologica che si innerva tra i singoli istanti, una configurazione attiva e mobile passiva. L’istante è la situazione-ponte che collega l’orizzonte pratico al teorico, la vita al suo costante mettersi in atto, il germogliare della conoscenza all’autoevidenza. Sintesi di polarità, funziona come polo di energia, dialogo tra elementi che la rappresentazione comune scinde. Secondo tali prerogative, non è assimilabile alla durata, non si presenta quale insieme di parti distinte, bensì appare nella fisionomia paradossale del tutto e delle parti. L’isolamento dell’ istante, la solitudine della conoscenza sono tuttavia speculari a creatività e ricchezza concettuale, individuando quell’orizzonte della complessità dove gli opposti vivono come identici e differenti. Spetterà all’analisi di E. Morin individuare i movimenti tra parti e sistema, sviluppando un modello che Bachelard definisce in modo intuitivo nel flash dell’attimo. articolazione, dischiusura immediata, senza anticipazioni. In questo percorso, appaiono operazioni prive di significato tanto distinguere tra logica della scoperta e struttura della dimostrazione scientifica tanto contrapporre schemi deduttivi a schemi induttivi. Qualsiasi elemento di vita è storicità, temporalità concentrata nell’attimo, unione dell’esistente e del possibile. Anche i fatti scientifici sono azioni che si svolgono, funzioni dinamiche, aperte a nuove stratificazioni. La valutazione dell’essere come struttura improvvisa, inaspettata, richiede l’accoglienza di un pensiero multiforme, vettore temporale, destinato a collocarsi sul particolare, a interrompersi e a riprendersi. L’intuition de l’instant rappresenta un luogo di esplorazione di tematiche che costelleranno saggi, articoli, recensioni, prefazioni, opere meno strutturate e sistematiche ma rispondenti alla dimensione di nuclei tematici della discontinuità. 2. Le trame dell’istante: tra conoscenza e volontà Sul sentiero che Bachelard offre al lettore si costruisce in tutta la sua concretezza la dinamica di un conoscere che costantemente si ricerca e si autoosserva, che procede per operazioni di tessitura, che tende a tenere insieme concetti, percezioni, inquadramenti storici. Il costante lavoro condotto da Bachelard per demistificare le nozioni tradizionali di realtà e di soggetto, definendo la dinamica della conoscenza approssimata e dalla dialettica della complementarietà, un procedere mai rettilineo ma sempre topologico, sottoposto a costante rettificazione, si esprime in un dizionario sotterraneo, forse meno esplicito e trasparente rispetto alle grammatiche del razionalismo applicato, ma di estremo rilievo per permettere di leggere fasi e mosse dell’avvistamento del conoscere che conosce se stesso. Ed è proprio la conoscenza della conoscenza – come avverte Morin - a caratterizzare la struttura della complessità. “La conoscenza è per eccellenza un’opera segnata dal tempo” (G. Bachelard, L’intuition de l’instant. Etude sur la Siloë de G. Roupnel, Paris, Librairie Stock, 1932, p. 17 n.16 / 2006 23), dalla correlazione tra tempi molteplici che vivono in vicinanza e in opposizione. Conoscere la conoscenza significa abbandonare il terreno astratto di nozioni separate e chiuse, la rassicurante dedizione a modelli che presumono di rispecchiare la realtà, l’assolutezza di una verità che si pensa di acquisire con l’applicazione di procedure logico-argomentative. Se il conoscere è l’atto dello spirito nel suo sforzo, l’istantaneità isolata nella sua energia e nella sua potenzialità, conoscere il conoscere richiede e sollecita l’apertura a fasi temporali multiple. In tale contesto, emergono non solo itinerari logici plurimi ma anche tipologie percettive e contesti d’azione diversificati. Nell’istante del pensiero, la reciprocità o meglio la continua traslazione tra tutti questi piani opera in modo da tradurre la costruzione del sapere in continui ricominciamenti. Come non esiste una piatta realtà, che si offra alla conoscenza ma ogni fatto è intessuto di idee e volizioni così non si manifesta un procedere continuo e durevole per il sapere. In quale direzione e con quale intensità si muova l’istante non è determinabile in una prospettiva continuista e lineare, che pare rivendicare le uniche dimensioni della dimostrazione e della scoperta. Questi due processi risultano essere l’esito di un modello astratto che, per Bachelard, perde significato di fronte all’atto creativo della scienza. Nell’istante di un logos attivo, categorie, parole, teorie si collegano in topografie sempre nuove ed è l’energia psicosociobiologica della temporalità a nutrire e a cementare le connessioni. Apprendere e lavorare nella ricerca diventano azioni che aprono a una vera e propria scorribanda di nodi, in cui gli operatori dell’intelletto chiariscono e si rendono conto in primo luogo del loro modo di procedere. La conoscenza complessa stabilisce legami tra le varie configurazioni di realtà e le inedite geometrie dell’intelletto, sonda la reciprocità tra i poli, mette in evidenza come natura e pensiero rafforzino stili e autonomia solo nell’invadere reciprocamente l’uno il campo dell’altro. Alla logica della complementarietà subentra quella dell’azione simmetrica. Ogni pensiero è vincolato agli altri e le nozioni rinviano all’elemento empirico, tramite una sequenza di azioni cui succedono continue reazioni. La conoscenza si costruisce e si sedimenta nella rapidità e nell’accidentalità, manifesta incessanti segnali di apertura, secondo cambia- 18 menti e costellazioni, che generano distruzioni per ricomporsi in altre forme. L’eterogeneità del reale, l’infinita diversità della natura, l’illimitata energia delle varie parti del cosmo e il dinamismo molteplice della mente lasciano intravedere i contemporanei flussi dell’indipendenza e dell’interdipendenza, giocati in ogni fase del conoscere. Come per Morin “la conoscenza della conoscenza” non è questione esclusiva dei filosofi ma assume i caratteri di un problema di tutti i cittadini, “perché la cosa più importante è la vita vissuta, che è strettamente collegata al sapere ed è infatti a partire dalla conoscenza che noi prendiamo decisioni e compiamo azioni” (E. Morin, Lezioni messinesi, a cura di A.M. Anselmo e G. Gembillo, Messina, Armando Siciliano Editore, 2006, pp.17-18), per Bachelard la vera evidenza, il nucleo del conoscere si raggiunge “nella coscienza che si protende fino a decidere un’azione” (G. Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p. 26). Un atto è decisione istantanea, che segue un movimento costantemente variato, discontinuo, sempre ricominciato e carico di originalità. Se liberiamo la conoscenza da stereotipi e schematismi, osserviamo infinite particolarità, proprietà accidentali, istantanee, contatti tra elementi diversi, non prevedibili in sequenze continue. Ogni fattore è indipendente rispetto agli altri; contemporaneamente, ha in ogni caso bisogno degli altri. Ogni istante è separato dagli altri ma proprio nella sua assolutezza genera la configurazione d’insieme della conoscenza. Conoscere il conoscere significa tener presente la rete variabile di configurazioni, le procedure ricorsive, per cui ciò che si qualifica come effetto di una causa - nell’essenzialità dell’istante - retroagisce sulla causa presunta, in un percorso che Bachelard connota come propulsività. Utilizzando un dizionario che rivela parentele con la struttura della complessità, Bachelard considera le relazioni di distanza e contemporanea vicinanza tra vita e conoscenza, tra biologia e logica. La vita, come la conoscenza, è per essenza temporale, vettore prospettico e non può essere compresa “in una contemplazione passiva; comprenderla, è più che viverla, è in verità offrirle propulsione”(G. Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p.28). Nella dimensione ologrammatica di Morin, l’individuo si trova entro la società ma l’anima sociale si espande nell’individuo con un linguaggio, un codice, un universo e individuo e specie si richiamano costan- Graziella Arazzi La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard temente, in una dinamica in cui agisce un tutto per un tutto. In sorprendente analogia, Bachelard intende la conoscenza come dialettica di autorealizzazione dei sistemi viventi medesimi, in un processo temporale per cui la conoscenza-vita non ha svolgimento continuo, non scorre “sull’asse di un tempo destinato a riceverla come un canale riceve le acque di un fiume” bensì trova la sua realtà essenziale nella concentrazione di un attimo” (G. Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p.28). Tale autoorganizzazione propulsiva è segnata dalla discontinuità e dall’originalità che ne rinvigorisce la struttura. Vivere, conoscere e creare sono fasi di un percorso costellato da interruzioni, cesure, rivolgimenti, capovolgimenti e pieno di “anacronismi, scacchi, riprese” (G. Bachelard, L’intuition de l’instant, cit. p. 30). Viene definita la priorità dell’accidentale, momento in cui la vita si sintetizza e ricomincia, diviene autocreazione e conoscenza consapevole. Superando le barriere della continuità e lo stereotipo della scomposizione della conoscenza in frammenti, Bachelard cancella la tipologia di una realtà, destinata a permanere in un tempo uniforme, passibile di rappresentazioni o di scoperta e sottolinea la dimensione di un istante, continuo rinnovamento e ricominciamento, che restituisce al reale la proprietà di un divenire molteplice. Tempi differenti, intersecati, nuclei di sintesi dell’essere caratterizzano l’epistemologia, ossia la struttura complessa in cui - come avverte Morin - persona, cultura, organizzazione delle idee e delle teorie comunicano in forma multipla, registrando cambiamenti che non sono prevedibili e si innescano nella dialettica dell’istante. L’istante che Bachelard valorizza è il momento in cui reale e psichico, fattori tradizionalmente opposti, si richiamano nella dialogo della ricorsività, dove tutto e parti si rapportano. Verità, evidenza, energia vitale si svelano solo nell’attimo e non nel modello inefficace della durata. Sinergie e simbiosi, logiche dell’integrazione, traduzioni costanti di parametri sociali, culturali e psicologici caratterizzano un pensiero che elude la chiusura autoevidente della logica cartesiana e si profila come attenzione al momento fecondo, in cui conoscere e vivere sono strutture che emergono nella ricchezza organizzativa, nell’apertura continua, nella dimensione del costante rinnovamento. Su questo asse, la solitudine degli opposti, tipica delle varie dialettiche, lascia il posto alla comunicazione tra spirito e cose, alla comunicazione fra presente e passato, tra essere umano e altre specie. L’autopoiesi, l’emergenza di stili e forme di vita, incorpora una temporalità discontinua, dove l’istante è un punto di completezza che proprio in quanto tale si autosupera, deflagrando la propria consistenza nel dinamismo delle multipossibilità. La vita e la conoscenza non sono altro che il teatro in cui emergono istanti, separati, discontinui. L’essere, soggetto o oggetto, “è un luogo di risonanza per i ritmi degli istanti” (G. Bachelard, L’intuiton de l’instant, cit., p. 69). La metafora di un’eco, che possiede nel suo passato anche una voce, elimina il paradigma sostanzialistico e conoscitivo lineare per lasciare spazio alla “problematica permanente, che cambia ogni giorno assieme a tutte le conoscenze che via via ritroviamo”, in altri termini all’”autoesame” (G. Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p. 44). Emergenza e autoanalisi sono segnali di discontinuità e di direzioni multiple che riorientano le finalità dell’insegnamento delle varie discipline. La fisica teorica e la storia delle scienze devono, infatti, accompagnarsi a una sorta di pedagogia del discontinuo per Bachelard e di osservazione della conoscenza secondo Morin. L’analisi di ciò che si conosce e di come si conosce diviene esame del contesto biopsicosociale, in cui il rapporto di assimilazione è anche rapporto di conflitto, dove l’esistenza di una vita culturale e intellettuale dialogica, il calore culturale, la possibilità di esprimere devianze rappresentano tre condizioni che mobilitano e liberano energie, tre dinamiche che la sociologia della conoscenza deve prendere in considerazione e che “rendono possibile l’autonomia del pensiero e, correlativamente, le condizioni sociali, culturali, storiche delle possibilità di oggettività, di innovazione e di evoluzione nell’ambito della conoscenza” (E Morin, Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi, tr. it A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 31) In un’opera difficile da interpretare e che può essere assunta come il tentativo di Bachelard di conoscere il conoscere stesso, una sorta di metalogica del tempo, l’attenzione verte sulla struttura medesima del paradosso che caratterizza la dimensione della complessità. L’istante è solitudine, eliminazione della continuità e, nello stesso tempo, è 19 n.16 / 2006 nucleo fecondo di idee, punto in cui la vita è ricominciamento. La struttura ricorsiva e circolare connota la conoscenza, eliminando la dimensione progressiva e lineare. Nella ripresa, che scatta nell’istante, nella tensione del tempo, emerge la vita ma anche lo stile di conoscenza, si struttura l’apprendere ad apprendere, coniugando l’estrema fecondità e pienezza dell’essere con la quiete e l’isolamento del ricercatore che si autoanalizza, la fertilità con il rigore. “Nel presente che agisce, operano i mille fattori della nostra cultura, i mille tentativi di rinnovarci e di riformularci” (G. Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p.23). Con questi termini Bachelard sembra alludere alla finalità di un sapere che, albero mobile e libero, produce autonomia e consapevolezza, offrendo occasioni per rivalorizzare costantemente l’uomo, osservato in connessione multipla con le cose e con il mondo. La conoscenza cessa di essere applicazione di modelli e paradigmi che fotografano o scoprono realtà per divenire linea costantemente articolata e deviante, dove si offrono condizioni di apertura e di continua innovazione. “Dal momento in cui si libera la conoscenza e nella proporzione in cui si libera la conoscenza, ci si accorge che può ospitare infinite casualità” (G. Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p.24). Bachelard usa il termine di accidente per indicare l’estrema varietà delle connessioni, delle combinazioni e delle relazioni, proprietà emergenti in un percorso che interrompe qualsiasi logica lineare per configurare le rotture, le crepe, i conflitti. Si delinea quel panorama che Morin definirà con nuovi processi categoriali: l’autonomia delle menti, l’emergenza di conoscenze e idee nuove, lo sviluppo di ibridazioni e di critiche reciproche. La definizione del tempo istantaneo e discontinuo si affianca all’esplicita critica del modello del conoscere inteso come durata ed estensione lineare. Quest’ultima prospettiva, infatti, suscita una serie di condizionamenti e di determinismi che imprigionano il dinamismo, l’originalità e la creatività delle conoscenze, annullando in estrema sintesi l’anima stessa del sapere, che è quella di andare costantemente oltre. L’epistemologia complessa pone in chiaro le condizioni di autonomia della conoscenza che Bachelard individua in nuce nella critica allo stile continuista della durata bergsoniana. Riconoscere la realtà decisiva dell’istante significa demistificare 20 le condizioni di falsa conoscenza e, in primo luogo, lo stereotipo di causalità lineare per concedere spazio alla discontinuità. “Ogni azione, pur semplice che sia, rompe necessariamente la continuità”(G. Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p. 30) presunta della vita. Ciò che accade è l’effettivo principio da valutare attraverso una topografia di rotture, crepe, buchi, cesure. Solo nell’istante puntiforme, concentrato di energia, si assicurano quelle condizioni che poi Morin definirà secondo gli assi della PLURALITÀ/COMMERCIO/DIALOGICA, (regolazione, regola del gioco, tradizione critica, conflitti di argomentazioni, Calore, agitazioni, alea); della LIBERTÀ (libere polemiche, devianze tollerate, ibridazioni, sintesi, critica, scetticismo, contestazioni, rivolta) e delle ROTTURE PARADIGMATICHE (buchi neri antropologici, possibilità di decentramento, ricerca di oggettività, di universalità). E’ l’istante discontinuo, casuale, a sprigionare energia per nuove configurazioni, a gestire retroazioni, capovolgimenti, sintesi ologrammatiche, assegnando valore al soggetto che conosce il mondo, nel momento in cui è condotto ad esaminare rischi e possibilità della conoscenza medesima. Nell’atto del presente si concentrano dimensioni e direzioni plurali che occorre disoccultare. 3. La ragione in esercizio Nella seconda delle Lezioni messinesi, Morin individua tre idee guida. La prima di esse, denominata ecologia dell’azione, indica un fatto testimoniato dall’orizzonte della complessità. “Quando si comincia un’azione, essa entra in un gioco di interrelazione, di interazione e di retroazione con l’ambiente politico e sociale circostante” (E. Morin, Lezioni messinesi, cit., p. 33). Non esiste dunque un’intenzionalità lineare, un nesso di continuità tra l’azione e il suo risultato. Un percorso accidentale che, per Bachelard, non coincide tuttavia con l’irrazionale e l’alogico; al contrario, riassume la completezza delle prospettive conoscitive. L’accidentalità delinea la libertà della conoscenza, che esplode nell’energia e nella decisività di atti teorico-pratici. Ogni atto è sintesi, ibridazione, rinnovamento. Non è mai ripresa del precedente ma è sempre messa all’opera e validazione continua del conoscere. L’istante contestualizza l’essere, offre una configurazione delle arti- Graziella Arazzi La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard colazioni conoscitive. Ogni geometria del sapere è tuttavia autonoma e proprio in quanto tale esprime il valore della conoscenza. L’atto istantaneo è certo in quanto inizia; nello stesso tempo. appare indeterminato e aleatorio, poiché infinite sono le articolazioni. Mescolanza di regole e di occasionalità, risponde al criterio di pertinenza, poiché riveste caratteri multidimensionali e multidirezionali ed è coevoluzione di materia e psiche. La nostra vita come la nostra conoscenza appare quale lunga fila di istanti separati e interviene come integrazione di eventi, rispetto delle differenze mai assemblabili in una estensione lineare. Affrontare l’incertezza, il dramma della solitudine della conoscenza istantanea, che non conosce la tranquillità della durata, significa tuttavia anche riconoscere la pluralità infinita delle costellazioni di istanti, la multidimensionalità delle organizzazioni conoscitive. In tale contesto, si ipotizza il quadro di un’educazione dell’istante, che privilegia la metodologia dell’arborescenza e che richiama il principi dell’antropoetica, ossia l’interazione tra individuo, specie e società. Cominciare sempre da capo è la tensione che guida il cominciare a cominciare, ossia percorrere delle trame devianti rispetto alle traiettorie prefissate costituisce anche l’obiettivo dell’epistemologia della complessità. La ragione che ricomincia, completamente coerente nell’assolutezza di un istante, si apre alla pluralità delle sue forme, è in grado di recepire la polivalenza del reale e di tradursi in strutture aperte ad ospitare principi che ritmano il divenire del conoscere. Il logos istantaneo è apertura al nuovo e memoria delle azioni compiute, dei continui sentieri, in cui il conoscere si è via via strutturato attraverso traiettorie, scacchi, riprese, deviazioni e turbolenze. Bachelard, seguendo G. Roupnel, individua la categoria di germe come quella che concentra particolarità distinte. Il germe “è una vera unione di contrari, anche di contraddizioni: il germe è ciò che non è. E’ già ciò che non è ancora, ciò che sarà solamente. E’ ciò che sarà perché, altrimenti, come potrebbe diventarlo? Non lo è perché, altrimenti, che esigenza avrebbe di diventarlo?” (G. Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p. 83). Il germe è materia che si trasforma e potenza che trasforma la materia, due processi ad un tempo. La ragione che vive nell’istante è anche ragione futura, imprevedi- bilità e incertezza. La sperimentazione del tempo, in tutte le sue argomentazioni, caratterizza la struttura complessa del pensiero, destinato a muoversi nel futuro, in cui vengono conglobati il presente e il passato. “L’avvenire non è ciò che viene verso di noi ma il punto, la mèta, verso cui noi procediamo” (G. Bachelard, L’intuiton de l’instant., cit., p. 69). La conoscenza complessa costruisce nel tempo risonanze degli istanti, ciò che nel lessico quotidiano si definisce come abitudine. L’abitudine non è collocata nello spazio o nella materia. “L’abitudine – sottolinea Bachelard – è troppo aerea per radicarsi, troppo immateriale per dormire nella materia. Essa è un gioco che continua, una frase musicale che è destinata a ripetersi, perché appartiene a una sinfonia in cui gioca un ruolo” (G. Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p. 69). Il conoscere si esprime nell’istante che lacera ed esplode ma anche nel timbro musicale, nelle relazioni sonore e ritmiche degli instanti. In tale contesto, la conoscenza è eco di un passato che appare voce consolidata e il futuro si segnala come anticipazione di vaghe melodie. L’abitudine è l’atto del conoscere che si riappropria della sua energia, non spazio continuo ma configurazione e costellazione, che segna la disimmetria tra passato e presente, tra certo e incerto. Quale differenza scorgere tra la conoscenza scientifica, la conoscenza comune, il sapere politico, l’atto creativo? Si tratta di forme di connessione o di identità plurali che si configurano come diverse possibilità di connessioni tra ritmi. Se l’istante coincidesse solo con il presente, non ci sarebbe possibilità di coscienza; esso, invece, si pone come interruzione, capace di tesaurizzare in se stessa il passato e di articolare il futuro. Uno scenario polivoco: rapporti che vengono rivisitati e aperture a nuovi legami, in un’ontologia aperta. Al centro dell’analisi assume pregnanza l’oggettività del ritmo temporale. L’istante è l’eco del passato, la voce che si ripresenta. In esso la razionalità è costantemente rinnovata, si rispecchia nel suo potenziale e, al contempo, delinea l’arborescenza di nuove forme. L’abitudine – al di là dell’immagine comune di ripetizione lineare e di sequenza ininterrotta di atti – appare come esercizio alla ragione, percorso multiforme che non si smarrisce nei suoi meandri ma che è presente a se stessa, attraverso una variegata polisemia. Interruzione di un viaggio, intrapresa di un 21 n.16 / 2006 altro cammino, selezione, decisione costituiscono non solo le categorie mobili del conoscere ma anche le particolari modalità di strutturarsi e di orientarsi nel mondo dell’etica, che è sempre attenzione alle pluralità, rifiuto delle identità uniche e della continuità, maschere in ultima analisi dell’egocentrismo e del nichilismo. La conoscenza è tanto più forte e solida quanto più si riconosce attraverso interruzioni, cesure, discontinuità, turbolenze. L’etica è orizzonte della libertà laddove evita le pastoie dello scontro o del dialogo e sottolinea la presenza di contesti plurali, a cui il soggetto appartiene nello stesso tempo e dove può esercitare libertà di scelta. Continuità e identità omologano la conoscenza, svuotano il conoscere della sua potenzialità autoriflessiva e distruggono la virtù della responsabilità come investitura della persona che prende decisioni. In questo scenario, l’istantaneità si fonde con una sorta di memoria intellettiva che permane anche nelle fratture e nelle torsioni, poiché il concetto possiede una struttura essenzialmente ritmica, temporale, manifestata dalla relazione tra elementi. L’attività etica si fonda sulle medesime morfologie ed è anticipazione degli esiti del futuro. Escludendo la mera applicazione delle norme o l’univocità di un giudizio riflettente, anticipa mondi e prospettive di vita attraverso la scelta. Nella dialettica dell’istante, il soggetto si rafforza sia sul piano conoscitivo sia su quello della libertà etica, poiché attraversa pluralità di situazioni disgiunte e dissonanti, mantenendo tuttavia la sua struttura di focus propulsivo e la sua capacità di individuare, ibridare, connettere. Il ritrovarsi della ragione, anche attraverso opere di desertificazione e ardite soluzioni morali, che non si limitano al mondo presente, ma postulano mondi futuri, rafforza le strategie di razionalità e la libertà del soggetto. Nella durata spaziale, la forza del pensiero procede da un passato solido ad un futuro, che gode della coerenza solo in virtù del passato. Nella discontinuità epistemologica, è il presente a rendere conto del vigore della ragione passata e della forza di quella futura, definendo le diverse diramazioni del logos. Precisione e oggettività caratterizzano l’emergenza della ragione, che riassume il passato e sceglie il futuro, mantenendo sempre la prerogativa di un’attenta autosorveglianza. Nel meccanismo fallace della durata, l’istante è consi- 22 derato come punto immobile, laddove invece esso si connota come continuo e duplice oscillazione tra pensiero e azione, tra conoscere e volere, tra memoria del passato e segnale del futuro. Rinascita dello spirito che riprende consapevolezza e gioia etica si dimensionano nel ritmo dell’attimo, dove si legano attenzione e abitudine, particolare e universale, relativo e assoluto. Ragione che ricomincia, pensiero che rinasce: “il problema è quello di una ragione che continui a ragionare: che non proceda per puri automatismi, finendo per girare a vuoto, per ridursi a un razionalismo senza pensiero, alla banale stupidità ma sappia accogliere quella singolarità che di volta in volta mette in crisi l’universalità delle sue leggi, fa fatica a trovare un posto nel suo sistema, non si lascia attraversare da una luce che vuole cancellarla in una trasparenza omogenea anziché farne risaltare la particolare piegatura, l’irriducibile opacità” (G. Berto, Illuminismo, in “Aut Aut” – luglio-settembre 2005, n. 327, p. 15. Il numero della rivista era dedicato al tema “Jacques Derrida. Decostruzioni”). Il problema sollevato da Bachelard sarà poi sviluppato e tematizzato con altri accenti da J. Derrida. Bachelard rileva come la ragione sia costante sforzo di riprendersi e ritrovarsi, attraverso un percorso che la pone a contatto con ciò che non si lascia ridurre. Solo nel continuo reinterpretarsi si manifesta l’essenza della ragione. Essa è forte poiché ricomincia. Non ha la certezza della continuità ma l’inquietudine delle cesure e la chiarezza delle riprese. E’ una ragione che lavora fianco a fianco delle ombre e delle opacità, che non si lasciano includere nelle sue categorie; è una ragione che non cerca soluzioni una volta per tutte. E’ una ragione che sfugge alla trasparenza, si moltiplica in percorsi tortuosi, evita le semplificazioni e mantiene il presente nella sua apertura al nuovo, nell’indeducibilità totale e nell’incertezza. Dunque, un pensiero che dona le possibilità del futuro, una razionalità etica, poiché fondamentalmente asimmetrica e lontana dal modello di reciprocità, aperta all’accidentalità del donare. L’istante concentra le relazioni del passato, emerge con tutti i percorsi della ragione, è germe che non deriva dal passato ma lo riattiva e nello stesso tempo feconda l’avvenire. Una conoscenza solitaria e aperta a ciò che non si lascia dedurre, alle trasgressioni, alle perturbazioni, traccia il percorso del limite, dell’iper- Graziella Arazzi La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard bolico, senza possibilità di sfuggire all’ignoto, alla decisione, ai risultati della decisione medesima. L’istante è asimmetrico nei confronti del passato, perché lo considera ma lo ignora; al contempo, risulta asimmetrico verso il futuro, perché lo annuncia ma non lo anticipa. La conoscenza non è un percorso obbligato, un cammino protetto da balaustre, configurandosi sempre come una deviazione che si allontana dal punto d’origine e che, nel suo dilagare, tuttavia lo rammemora. In altri termini, non è qualcosa che muove verso un futuro determinabile, presentandosi invece come luminosità ritmica e puntiforme. Ogni volta, la ragione ricomincia, senza paura di perdere la dignità, anzi rafforzando la sua armonia, mettendosi alla prova con il rischio, l’emergenza della singolarità, l’eccezione che – solo in una dimensione ingenua – paiono minacciare le sue possibilità di orientamento e di rimodulazione. Nell’istante, la chiarezza lascia il posto all’opacità, permette che la luce sia toccata dall’ombra, elimina la trasparenza di un logos lineare e univoco, pronta per essere trasmessa come sequenza di categorie. L’istante è groviglio del passato, configurazione di ciò che la ragione è stata. Nello stesso tempo, segna il rinascere del pensiero, al contatto con ciò che sfugge. Emerge un’assenza, un’alterità che svolge, tuttavia, il ruolo fondamentale di rendere il sapere consapevole di limiti e profondità. L’abitudine è abito della ragione, pronta a spogliarsi delle sue certezze per diventare attenta alle fughe, alle deviazioni, all’incertezza di una scelta, senza ridursi a vuoti schemi di appropriazione della realtà. 4. Dalla causalità efficiente alla causalità formale: il germogliare della conoscenza Aperture alla complessità vengono segnalate dagli snodi che - nel pensiero di Bachelard – caratterizzano una serie di saggi, appartenenti a diversi periodi. La trascrizione della seduta del 13 marzo 1937 sul tema La continuità e la molteplicità temporale registra la tavola rotonda, organizzata dalla società Francese di Filosofia e in cui Bachelard ha come interlocutori, tra gli altri, A. Lalande, I. Meyerson, D. Parodi. Nel dibattito, contro le totalizzazione dell’unicità e della continuità temporale, assumendo come contesto di indagine la biologia e il campo del vivente, l’autore sviluppa una serie di argomentazioni per caratterizzare quello che definisce come “essere complesso” (G. Bachelard, La continuité et la multiplicité temporelle, in “Bulletin de la Société Française de Philosophie”, XXXVII, 1937, p. 54). “Un essere complesso si sviluppa in una pluralità di tempi. In ciascuno di questi tempi non si presenta mai come un tutto unico e omogeneo” G. Bachelard, La continuité, cit, p. 55). La discontinuità caratterizza le funzioni vitali, poiché la vita si presenta quale struttura di alternanze, in cui il dialogo di essere e di non essere costituisce l’essenza. Il pluralismo dell’essere complesso si collega in termini necessari a quella che il filosofo sancisce come dialettica del ritmo. “Maggiormente un essere diventa complesso e maggiormente le sue funzioni si diversificano. Maggiormente si impone la differenziazione, con maggiore evidenza appare che una funzione agisce non per sempre, ma in tempi limitati e che la sua finalità approda al non funzionamento […]. Il riposo di una funzione è immediatamente il risveglio di un’altra” (G. Bachelard, La continuité, cit., pp. 55-56). Un essere complesso è quindi, essenzialmente, essere ritmico, contrassegnato da un sistema raffinato di alternanze, cesure e riprese. Ai fautori dell’unicità e del continuismo, Bachelard fa notare che solo in un percorso senza metodo, grossolano e senza attenzione sfuggono le connotazioni del vivente complesso, ossia la discontinuità e la molteplicità, che riassumono anche l’azione della psiche. Assumendo la lezione di P. Valéry, Bachelard sottolinea la natura accidentale del conoscere. L’intelletto è qualcosa che accade, un avvenimento, qualcosa di imprevedibile a tal punto da segnare il soggetto. “Qualche volta penso, qualche volta sono”, rimarca Valéry, sancendo una completa sostituzione dell’unicità e della coesione del cogito con il carattere ritmico del pensiero. Ne deriva una sorta di dialettica ontologica, che “deve incoraggiarci a moltiplicare le dialettiche temporali per spiegare il pluralismo psicologico” (G. Bachelard, La continuité, cit., p. 56). In un orizzonte certamente innovativo, lo spirito e la vita si configurano come due sistemi che operano per diastole e sistole, attraverso realizzazioni discontinue, “insieme di ritmi più o meno orchestrati” (G. Bachelard, La continuité, cit., p. 57). La dimensione olistica, ricorsiva e peculiare dell’au- 23 n.16 / 2006 toecoorganizzazione viene chiarita da Bachelard tramite una serie di metafore: “una corda è composta di fili, un filo è costituito da fibre, ma le fibre sono costituite da molecole. Ogni legame temporale è designato da un valore di insieme. Il legame diminuisce di forza quando l’insieme si depotenzia” (G. Bachelard, La continuité, cit., p. 58). Qualsiasi procedura per misurare il tempo vuoto e continuo è destinata al fallimento. La temporalità, dunque, appare come struttura di relazioni, fondate sul ritmo di funzioni. “Il tempo ha in ogni caso una dimensione correlativa, sintesi dell’osservatore e dell’osservato” (G. Bachelard, La continuité, cit., p. 59). Bachelard sembra aprire alla logica dei sistemi viventi e alle modalità di sistemi non banali, successivamente definite da H. von Foerster. In particolare, pare anticipare alcune formulazioni della futura teoria della riflessività. “L’osservatore che si trova, in olimpica indipendenza, al di fuori del quadro della sua osservazione, non esiste” sottolineerà più avanti P. Watzlawick (P. Watzlawick, Comunicazione e scienze umane, dattiloscritto della relazione al Convegno Internazionale di Studio “La comunicazione umana”, Istituto Gramsci Veneto, 19-20 settembre 1983, p. 10) . Nel processo di conoscenza, il soggetto non è estraneo all’oggetto che conosce ma appartiene al medesimo contesto. “In contrasto con la concezione predominante, l’analisi meticolosa di una osservazione rivela le caratteristiche proprie del suo osservatore” sosterrà – in continuità con le posizioni di Bachelard – F. J. Varela (F. J. Varela, A Calculs for Self-Reference, in “International Journal of General Systems, 1975, p. 24). Strutture autopoieitiche e dinamica di sistema vengono segnalate, dunque, dalla riflessione di Bachelard. La realtà è configurazione ritmica, correlata ai ritmi di conoscenza attraverso fasi di cambiamento che risultano sempre discontinue. Tra le vibrazioni del vivente, i ritmi della conoscenza e le scansioni di altre realtà si pone una connessione coevolutiva. Interruzioni e riprese caratterizzano i legami tra i diversi livelli ontologici. A sostenere il processo si configura un modello di causalità formale, che si rende visibile in avvenimenti discontinui. Cambiamenti di forma non seguono una traiettoria continua, bensì esplodono in istanti accidentali, rendendo visibile come il modello della causalità efficiente non sia più decisivo. Nell’interlocuzione con A. Lalande, 24 Bachelard sottolinea la pluralità di ritmi che caratterizzano la vita di idee, uomini e definisce il modello vibratorio come una metastruttura di coordinamento tra i molteplici e infiniti processi. I ritmi – rileva Bachelard – sono delle realtà oggettive. In tale orizzonte appare delinearsi quella pedagogia del tempo che ha il compito di costruire percorsi di coeducazione e di coapprendimento, mediante lo sviluppo di legami tra discipline, saperi, aree di creatività. La natura ritmica, discontinua, della realtà e della conoscenza, la priorità della causalità formale nei sistemi e nei processi viventi conducono a esplorare alcuni fattori che possono rinnovare l’istruzione e l’educazione, illuminando e portando in primo piano quella dialettica dei tempi, dell’istante, della discontinuità e delle cesure che connota l’articolazione dei processi di coevoluzione. Nel contesto della Philosophie du Non, Bachelard considera la dimensione della molteplicità e della discontinuità come linfa vitale per le dinamiche di evoluzione dell’apprendimento. “Il pensiero razionale ancorato alla linearità rischia la degenerazione” (G. Bachelard, La Philosophie du Non, cit., p. 127). Di qui la necessità di ipotizzare una pedagogia che educhi alla dimensione temporale, che orienti alla moltiplicazione dei legami, che formi e guidi alle articolazioni, alle cesure e alle riprese. Una prospettiva che l’autore riprende da A. Korzybski e che ritraduce in un percorso peculiare, dove biologia, logica, teoria della conoscenza appaiono sottosistemi temporali di un contesto di cui si registrano vibrazioni, articolazioni e possibilità di sviluppo. L’apprendimento favorisce la strutturazione di processi biologici e neuronali, tramite l’uso di un linguaggio e aperto e la sperimentazione di stili cognitivi divergenti. In particolare, l’educazione non-aristotelica, quale la che elimina la causalità lineare e potenzia il multiversum, la discontinuità e la pluralità dei sistemi, ha il fine di completare le strutture cerebrali, organismo aperto, che trae energia dal sistema complesso della conoscenza. Coevoluzione di processi, tra stratificazione dei concetti e potenziamento della psiche, dunque, in una sorta di anticipazione dell’epistemologia di Varela. La complessità richiede che il maestro debba apprendere insegnando, fuori del suo insegnamento, in un’apertura al futuro che conduce a eliminare la semplice trasmissione di Graziella Arazzi La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard nozioni. Una pedagogia che riconosca il cambiamento, la molteplicità di funzioni, la flessibilità di sistema appare in grado di riconoscere la valenza della non-identità, il rapporto con l’assenza, il non conosciuto, l’errore. Il maestro deve possedere la disponibilità ad accogliere il molteplice, a muoversi in rapporto a tempi e condotte diversificate. Tutto ciò implica il superamento della psicologia della forma per codificare in maniera sistematica “l’educazione alla deformazione”(G. Bachelard, La Philosophie du Non, cit., p. 132) . Qualsiasi processo formativo deve incorporare il modello dell’incrocio e dell’articolazione, conducendo i ragazzi all’intersezione dei concetti, al confronto, alla moltiplicazione delle idee. All’unicità delle nozioni si contrappone la pluralità delle nozioni. L’obiettivo dell’istruzione è quella di potenziare l’attitudine a una concettualizzazione arborescente, che definisce la pluralità dei significati di ogni modello scientifico. Educare all’arborescenza dei concetti vuol dire eliminare le stereotipie, creando condizioni di fecondità per lo sviluppo del pensiero. La logica non-aristotelica sviluppa la capacità di differenziazione, orienta alla scelta tra molteplici possibilità, orientando l’allievo a sviluppare una “concettualizzazione aperta, libera” , nettamente distinta da una concettualizzazione “chiusa, bloccata, lineare” (G. Bachelard, La Philosophie du Non, cit., 133). Tuttavia, per educare all’attività psichica aperta e per garantire lo sviluppo sistemico delle facoltà, bisogna formare gli educatori in un’ottica non-aristotelica. La scienza dei concetti aperti e articolati, dei saperi in prospettiva conferisce una dimensione temporale al pensiero e fornisce al soggetto una prospettiva di significato. Educare al contrasto, all’opposizione, differenziando le nozioni, problematizzandole, innesca un processo di fecondità delle strategie dell’apprendimento e delle connessioni neuronali, generando anche nuove reti semantiche e virtuosi circuiti di coappartenenza tra alunni e maestro. Pensare a parte – direbbe A. Koestler, per Bachelard si tratta di rompere il determinismo dell’intelletto. Creare collegamenti tra le funzioni cerebrali, eliminare abitudini di pensiero vuol dire percorrere quella strada della non-identità che risulta terapeutica anche per la formazione degli adulti. In che modo realizzare il processo? Insegnando la tecnica della segmentazione e dell’articolazione di concetti. Se infatti valutiamo soggetti con deficit intellettivi, possiamo osservare come uno dei parametri fondamenti del loro handicap sia soprattutto la perdita o l’assenza della facoltà di divisione e di scomposizione dei concetti così come l’incapacità di operare connessioni e legami tra le nozioni, in altri termini una scarsa strutturazione temporale delle funzioni logiche. Abituare alla deformazione, alla segmentazione, alla non–linearità del procedere concettuale significa garantire congiuntamente due condizioni: l’oggettività della conoscenza e la creatività della logica. Sbloccare i meccanismi di invenzione significa anche garantire un corretto sviluppo del potenziale biopsicofisiologico. I sistemi cognitivi e biologici coevolvono grazie ad un apprendimento che valorizza la mobilità, la dialettica, l’apertura dei concetti e degli stili d’indagine. Bachelard sembra riproporre quell’unicità di struttura tra psiche e mondo fisico che nel 1937 indentificava con la nozione di ritmo. Proprio nella seduta della Società Francese di Filosofia, l’autore, rispondendo alle obiezioni dei sostenitori della logica dell’identità, assume la posizione di Pirandello per spiegare la costruzione della personalità. “Per Pirandello – afferma – la costruzione della persona avviene per coincidenze, dissimili e disomogenee; e il processo di queste coincidenze elude la dinamica storica e non segue neppure una logica evolutiva, ma si esprime nel contatto di campi d’azione estremamente diversi” (G. Bachelard, La continuité, cit. p. 77). Di qui il modello dei tempi sovrapposti, intrecciati e sinergici, che configurano società, psiche e conoscenza. Nella costruzione della personalità intervengono fattori molteplici e diversificati. “Ci vogliono parecchi elementi per rendere visibile una personalità.” (G. Bachelard, La continuité, cit., p. 77), la cui evoluzione è segnata dalla discontinuità, punteggiata da sfumature ed elementi minuziosi. La formazione dei concetti - così come l’evoluzione della psiche - segue trame arborescenti, ricche di particolari, costantemente ricontestualizzate e aperte su una molteplicità di orizzonti. Per delucidare il processo, Bachelard trova un esempio calzante nell’opera drammaturgica di Ibsen. La scena si snoda in un mondo chiaro e coerente; all’improvviso, tra due porte, si gioca un brevissimo dialogo, lo scambio di parole o frasi paradossali e, in quel frangente, la personalità dei soggetti viene a galla. 25 n.16 / 2006 Istantaneità, specificità e dialettica rifiutano la logica lineare e continua del discorso, della conversazione, del trattato per affermare invece le categorie del pensiero visivo, i linguaggi del messaggio filmico, le cesure letterarie del frammento e del saggio. Se la narrativa vive nel frammento e nel flash, la logica si sviluppa nella contraddizione e la conoscenza scientifica si nutre della forma aforistica e saggistica. Ologramma, principio di ricorsività e di autoorganizzazione ancora una volta rappresentano il dizionario con cui Bachelard pare confrontarsi. In particolare, la natura relazionale e temporale degli oggetti, della conoscenza e del mondo conduce Bachelard a definire la soglia dell’elaborazione teorica per cui - come sosterrà più tardi P. Watzlawick - ciò che accade nell’ambito delle relazioni interumane non è più, quindi, un fenomeno secondario dell’uomo primariamente inteso in senso monodico ma, propriamente, l’essenza della coscienza umana. 5. Un dialogo fra epistemologia della relazione ed etica della scienza Il percorso tematico sull’avvio alla complessità trova un ulteriore tassello nel 1938, quando Bachelard scrive la prefazione all’opera di M. Buber, L’Io e il Tu. “L’io si risveglia proprio grazie al tu” (G. Bachelard, Préface à M. Buber, Je et Tu, trad. fr., Paris, Aubier, 1938, p. 8) Proseguendo la vocazione a scorgere la complessità, Bachelard rivela la crisi del modello di causalità lineare, superata dalla categoria di simultaneità e distinzione, che caratterizza l’incontro di due coscienze. “L’incontro ci determina - sostiene Bachelard – non siamo nulla prima di essere messi in relazione” (G. Bachelard, Préface, cit., p. 9). L’io e il tu non sono poli separabili, punti o centri da congiungere ma se mai appartengono all’ordine delle forze relazionabili traverso linee vettoriali. “Bisogna essere in due per comprendere un cielo blu, per dare un nome all’aurora” (G. Bachelard, Préface, cit., p. 11), afferma Bachelard, sottolineando come la categoria di reciprocità risponda alla tipologia della relazione. Tramite la relazione, il soggetto si rapporta alla comunità umana e al mondo delle cose. Alla conoscenza-monologo si sostituisce il dialogo, il calore della relazione e 26 dello scambio, in cui il riferimento dell’io al tu e viceversa fornisce senso al conoscere e all’etica. Uniti ma diversi, senza possibilità di omologazione e di sovrapposizione, l’io e il tu vivono una relazione che porta ognuno dei due membri di fronte all’alterità assoluta dell’altro e genera il processo di coesistenza e di coappartenenza. Lì, può nascere lo stile della conoscenza scientifica come comunità di condivisione, di contro alla concezione della scienza e della tecnica quali attività pratiche, azioni di sfruttamento del mondo delle cose. Il soggetto che si rapporta al tu non ha nulla da chiedere, ma si richiama all’assolutezza della relazione, in cui anche il tu si apre costantemente all’imprevedibile, nel solco di un’esperienza che supera il mondo empirico. Orizzonte dell’incontro e della relazione, l’io e il tu rimangono comunque distinti, pur nell’inevitabile richiamo reciproco. Emerge un’etica della complessità, capace di elaborare modelli di comunicazione e di comprensione dell’altro e pronta a caratterizzare l’illuminazione della coscienza attraverso l’esperienza di un altro cogito. Un allontanamento significativo dalle matrici cartesiane dell’identità e dell’ipseità del pensare e un tentativo di definire il conoscere come struttura della relazione, come fluido dell’intersoggettività che sostituisce il rapporto strumentale con le cose. Nell’io, il soggetto conosce ciò che anche il tu viene a definire. L’io è essenzialmente apertura alla relazione, all’essere con altri, con il tu. Isolamento e solitudine di un intellettuale, che riduce il suo pensiero a assimilazione del mondo, vengono superati dall’aurora di una scienza in cui l’incontro con l’altro, la reciprocità tra due soggetti, il riconoscersi l’uno attraverso l’altro rappresentano il cuore di una conoscenza superiore a quella empirica. Tutto il percorso si può sintetizzare come la nascita e il procedere di un pensare attraverso la coscienza di un altro uomo. Proprio lo slittamento dell’unitarietà del legame soggetto-mondo (che Bachelard definisce con il neutro cela, cosalità) alla complessità della relazione io-tu, in cui ogni elemento è se stesso e l’altro, conduce a evidenziare la totalità di una scienza che risulta insieme di relazioni. Assume rilevanza un percorso innovativo, in cui ciò che l’io costruisce è realizzato simultaneamente nelle altre coscienze. La tensione verso l’intersoggettività indica l’apertura alla relazione e sostiene la messa in atto di dinamiche di respon- Graziella Arazzi La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard sabilità. La conoscenza dell’io è la conoscenza di un soggetto attraverso l’altro soggetto. Tra l’io e il mondo si impone la dimensione fondamentale della responsabilità e della cura. Una dimensione sistemica, dove azioni e retroazioni sono sottolineate da una curva oscillatoria, da un andirivieni cognitivo che rende tutti i soggetti protagonisti del processo etico del pensiero. Il conoscere non afferra o totalizza il mondo ma si approssima alla realtà, attraverso la conoscenza di un altro. Confronto, distinzione nella relazione, scoperta e costruzione risultano sempre in forte tensione dialettica. Il soggetto conosce ciò che l’altro ha ridestato nel suo processo di coscienza. Essere con, pensare a parte sono due fenomeni inscindibili che indicano come l’invenzione scientifica sia scoperta dell’etica, riformulazione di mondi e di stili di coappartenenza attraverso il continuo rinvio all’alterità, di fronte alla quale si genera la coscienza e l’azione. Questo percorso segmentato, in cui Bachelard oscilla tra il 1937 e il 1940, si abbina a un’altra esplorazione delle tematiche della complessità, che emerge da un saggio concepito all’interno degli incontri Internazionali di Ginevra del 1952. L’intervento, sul tema La vocation scientifique et l’âme humaine, si pone di fronte alla questione della responsabilità etica della scienza. “E’ veramente la scienza responsabile dell’accentuazione del dramma umano?” (G. Bachelard, La vocation scientifique et l’âme humaine, in AA.VV., L’homme devant la science, Rencontres Internationales de Genève, Neuchatel, Editions de la Baconnière, 1952, p. 11). Bachelard individua come la posizione fenomenologica di M. Scheler, svalorizzando lo spirito scientifico e attribuendo alla scienza la dimensione della volontà di potenza, non riconosca l’intrinseca anima etica della scienza. “La vocazione scientifica non procede senza coraggio di fronte a un lavoro per natura difficile, senza la pazienza di tollerare scacchi” (G. Bachelard, La vocation, cit., p. 13): termini che connotano il percorso dello scienziato, destinato a condurre una vita drammatica, costantemente alle prese non solo con l’errore, ma con il confronto, la lotta, in un percorso problematico e oscuro. Il coraggio degli inizi è la dimensione che caratterizza il comportamento del ricercatore che, prima ancora che sul piano epistemologico, viene con- notato sul piano etico e dell’agire. Ad animare il ricercatore non è tanto il narcisismo della curiosità immediata quanto invece l’impegno costantemente rinnovato dell’uomo di scienza, che sperimenta percorsi tortuosi, dialettici, nella costruzione e nell’articolazione del sapere. Nelle opere epistemologiche, Bachelard tematizza il ruolo dell’errore e l’importanza della conoscenza approssimata, che costantemente provvede ad epurare le vie del sapere scientifico dal senso comune e dall’immaginazione immediata. Nel saggio del 1952, quasi in parallelo alle tematiche della città scientifica dibattute nel Razionalismo applicato (1949), affronta con stile inconsueto le relazioni tra etica, atteggiamenti scientifici e sistema della conoscenza scientifica. Proprio la fenomenologia -.secondo Bachelard – dovrebbe mettere in chiaro il carattere di tensione e di sforzo che anima il ricercatore scientifico, un lavoratore particolare che non segue mai un percorso rettilineo, una traiettoria segnata, ma è aperto a interruzioni, a quel processo in cui la cognizione è l’azione di una coscienza che si interrompe e che viene ripresa con difficoltà. Il pensiero scientifico – ben oltre un cartesianesimo che lo stringe nell’unicità del percorso lineare o di una visione strumentale che lo interpreta come governo dell’empiria – appare dunque come “uno dei più forti meccanismi di vettorializzazione e di dinamismo della psiche umana. E’ prospettiva mantenuta, prospettiva ritrovata, ricominciata, corretta, rettificata” (G. Bachelard, La vocation, cit., pp. 13-14). Bachelard non esita a paragonare il pensiero scientifico alla natura drammatica del coraggio e della perserveranza, denunciando la riduzione che Scheler, nell’opera del 1928, La posizione dell’uomo nel cosmo, compie, interpretando la scienza in continuità con i meccanismi degli animali non umani. Al filosofo tedesco rimprovera di bloccare la conoscenza nelle strettoie di un rigido strumentalismo e di non cogliere la continua cooperazione di epistemologia ed etica, di logos e spirito nel dinamismo complesso della storia delle scienze. La categoria dell’evoluzione lineare non fornisce il contesto per interpretare con esaustività il processo della scienza. Ciò che infatti anima il lavoro della scienza è la dimensione storica, l’accelerazione del divenire umano che è il modello della nostra epoca e in cui lo scienziato si trova immerso. “La vocazione scienti- 27 n.16 / 2006 fica diventa un esplicito invito al pensiero rapido al pensiero in accelerazione. Mette in movimento energie profonde” (G. Bachelard, La vocation, cit., p. 17). Il procedere storico della scienza è caratterizzato non tanto dalla continuità e dalla linearità quanto dal multiversum, dall’esplodere di tempi e spazi in direzioni diverse, dalla rapidità e dall’accelerazione, dallo slittamento e dallo spostamento che rompe con la causalità fissa e con il determinismo sequenziale: alla visione della scienza che abita nella storia subentra l’agire della scienza come motore propulsivo della storia medesima. Scienza e società si coappartengono e la scienza riesce anche a creare una sorta di struttura, in cui la società assume consapevolezza del suo dinamismo. Una posizione vicina a quella di Morin quando - in La Méthode IV - afferma che “cultura e società stanno in mutua relazione generatrice, e in questa relazione non dobbiamo dimenticare le interazioni tra individui, i quali a loro volta sono portatori/trasmettitori di cultura; tali interazioni rigenerano la società, la quale rigenera la cultura” (E. Morin, Le idee, cit., p. 21). La dinamica tragica, tortuosa che Bachelard attribuisce al conoscere viene registrata da Morin come complessità del conoscere. “Non è soltanto la conoscenza di un cervello dentro un corpo, e di una mente entro una cultura: è la conoscenza generata in modo bioantropo-cultrale da un intelletto/cervello in un hinc et nunc. Inoltre, non è soltanto la conoscenza egocentrica di un soggetto su di un oggetto, è la conoscenza di una soggetto che porta anche in sé anche geno-centrismo, etno-centrismo, socio-centrismo, cioè ha più centri-soggetti di riferimento” (E. Morin, Le idee, cit., p. 22). Visione ologrammatica e ricorsiva che Bachelard intravede e che Morin sintetizza in questi termini: “La cultura è nelle menti individuali, le quali menti individuali sono nella cultura” (E. Morin, Le idee, cit., p 23). Tra etica e scienza, il primato della relazione si esprime come reciproca inclusione, al punto che “le interazioni cognitive degli individui rigenerano la cultura, che rigenera tali interazioni cognitive” (E. Morin, Le idee, cit., p. 23). Nell’ottica di Bachelard, il lavoro dei ricercatori scientifici produce cultura e dinamiche sociali che condizionano la loro stessa operatività, configurando un procedere articolato, che vive di cesure, torsioni cambiamenti, balzi in avanti, riprese. In questo percor- 28 so a ramificazioni, imprevedibile e tanto più significativo quanto non predeterminato, lo spirito scientifico – che mette al bando l’autoreferenzialità a favore di un processo relazionale e sistemico – introduce non solo delle risposte ma anche nuovi tipi di problematizzazione. Ne deriva un percorso originale, dove l’invenzione dell’invenzione crea condivisione e stratificazione di conoscenze e “la scienza non solamente procede, ma sembra costantemente ricominciare, partire da nuovi inizi” (G. Bachelard, La vocation, cit, p. 19). Il dinamismo che conduce scienza e società a coappartenersi viene definito da Bachelard survitalisation, proprio a rimarcare quella specificità di interazione bio-antropo-socio-cultutrale che elimina il rischio della tecnica strumentale, dell’isolamento del cogito, della scissione tra vitalismo e razionalismo, tra psiche e vita. Dinamica del paradosso, che regge due estremi identici e diversi, certezza del conoscere e rischio del processo, pensiero libero e al contempo fortemente “integrato nella scienza dell’epoca” (G. Bachelard, La vocation, cit., p. 21). In modo analogo, la specializzazione non è frammentazione, parcellizzazione, scansione lineare ma si rapporta necessariamente alla totalità di un sistema. Lungi da essere mutilazione dello spirito, si presenta come espressione di una cultura articolata. Infatti, “qualsiasi specializzazione mette in moto dei pensieri che hanno le loro radici in campi di cultura allargati” (G. Bachelard, La vocation, cit., p. 22). Ogni studio specialistico non elimina dunque il sapere aperto ma si contestualizza proprio grazie al sapere complesso. In tale orizzonte, occorre rivalutare le categorie di rapidità, accelerazione, specializzazione, rischio, come parametri peculiari del procedere tortuoso e complesso della scienza. A gestire la mappa del discorso bachelardiano appaiono alcune coppie di opposti: evoluzione/storicità; razionale/alogico; pensiero libero/pensiero appartenente a una comunità definita; specializzazione/cultura aperta e per ultimo certezza/rischio. Se l’attività scientifica comporta il debordare necessario di tempi, l’invasione di altri luoghi e spazi rispetto al punto di partenza, vivendo nel principio dell’azione differita e della molteplicità temporale, “i suoi rischi sono molteplici” ma appaiono organizzati: “A ben vedere – sottolinea Bachelard – si può considerare un programma di ricerca come un’organizzazione dei fattori di Graziella Arazzi La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard rischio” (G. Bachelard, La vocation, cit., p. 24), compito cui risponde principalmente la vocazione scientifica. La rapidità della scienza non è considerata come negatività, poiché non si tratta di adeguare la società alla scienza ma di mettere in movimento - attraverso la scienza - le possibilità di cambiamento della società stessa. Scienza e società si richiamano vicendevolmente, sono in relazione di reciprocità. Accelerare i pensieri, garantire dinamismi psichici significa, in altri termini, valorizzare il destino etico della società, pluralizzare i punti di confronto, corroborare il senso di corresponsabilità, moltiplicare le possibilità dell’umanesimo declinato, che si prendere carico delle differenze, del mondo e delle altre specie. L’adesione alla città scientifica non avviene nel segno dell’universale cartesiano, che paralizza l’intelletto e ne esclude la struttura sistemica ma esplode come interumanismo e interrazionalismo, principi incarnati, logiche in atto, universalità concrete, attuazione della reciprocità conoscitiva ed etica. “La scienza continua la scienza nel momento stesso in cui si rinnova” (G. Bachelard, La vocation, cit., p.28). Un contesto complesso, quindi, in cui operano le forze di trasformazione e muta anche il concetto di insegnamento scientifico, che non avviene più nella segretezza delle aule scolastiche ma nelle articolazioni della società medesima. “Noi dobbiamo il nostro sapere ai nostri allievi” (G. Bachelard, La vocation, cit., p. 28). Il maestro è l’allievo dell’allievo, in un percorso dove accelerazione e intensificazione della vita si uniscono a percorsi di conoscenza etica che possono rovesciare il vecchio detto “la scuola deve preparare alla vita” nel nuovo programma di rispetto, reciprocità e ricchezza conoscitiva, racchiuso in una frase significativa: “la società ha come fine la scuola” (G. Bachelard, La vocation, cit., p. 29). Il continuo rinvio tra etica e scienza che Bachelard rileva nell’opera del 1952 rappresenta anche un ulteriore indizio di apertura alla complessità. Esso ci riporta alla definizione di frontiera scientifica declinata nell’intervento all’ottavo Congresso Internazionale di Filosofia, svoltosi Praga dal 2 al 7 settembre 1934. In quel contesto, intervenendo sulla Critique préliminaire du concept de frontière épistémologique, Bachelard afferma: “La frontiera scientifica non è tanto un limite quanto invece una zona di pensiero particolarmente attiva, un campo di mediazione e di relazio- ne. In direzione opposta procede, invece, la nozione metafisica di frontiera, che appare terreno neutro, senza possibilità di sviluppo, priva di significato” (G. Bachelard, Critique préliminaire du concept de frontière épistémologique, in “Actes du huitème Congrès International de Philosophie”, Prague, 2-7 septembre 1934, Prague, Comité D’Organisation du Congrès, 1936, p. 5). Tra i vari e differenti saperi si generano specularità, diffusione di linee di significato, coevoluzione. Non è difficile ritrovare la configurazione che Morin delinea, a proposito delle rotture, delle crepe, delle trasformazioni nel determinismo culturale, laddove introduce il modello dei brodi di cultura che “favoriscono contemporaneamente: a) l’autonomia relativa delle menti; b) l’emergenza di conoscenze e idee nuove; c) lo sviluppo di critiche reciproche” (E. Morin, Le idee, cit., p. 31). La frontiera epistemologica segna un arresto del pensiero, che immediatamente procede però verso un’altra deviazione: “più che di ostacolo in assoluto si dovrebbe parlare in termini di programma, più che d’impossibilità in termini di virtualità” (G. Bachelard, Critique, cit., p. 8). Diventa un valore positivo se si riesce a tradurre l’operatività di ogni scienza in una progettualità polisemica, in grado di sostenere rotture, deviazioni, trasformazioni, in altri termini se interviene una sorta di piano quinquennale, a lungo termine, della ricerca scientifica. La natura del conoscere come processo complesso introduce il modello della negoziazione integrativa dei saperi e delle decisioni. Limiti insuperabili segnalano un percorso conoscitivo male impostato e indicano l’urgenza di mettere in pratica una pedagogia che educhi al cambiamento, alla mescolanza, all’ibridazione dei concetti e alla traduzione dei modelli, all’utilizzo di processi di ricorsività e di reciprocità speculativa. Il decennio degli anni Trenta, per Bachelard, è contrassegnato dall’impegno delle categorie conoscitive e degli strumenti della riflessione scientifica in senso non cartesiano. Il registro utilizzato pare abbandonare il dizionario della causalità lineare per ritematizzare problemi e dinamiche all’interno del lessico della causalità formale. * Le traduzioni dei testi di Gaston Bachelard sono dell’autrice dell’articolo. 29 30 Mario Quaranta Edgar Morin: abitare eticamente la natura Focus: epistemologi eretici del ’900 1. Effetti della globalizzazione nelle istituzioni formative e nella cultura È opinione ormai consolidata che l'inizio del nuovo Millennio sia caratterizzato da una rivoluzione che coinvolge tutti i campi del sapere, della vita economica, civile, politica. È in atto un processo di globalizzazione che ha via via assunto un carattere irreversibile, e ha aperto una nuova fase nella vita dei popoli, delle nazioni, degli uomini di tutti i continenti; un processo accelerato in maniera esponenziale dalla diffusione dei media informatici. Molte e contrastanti sono state le interpretazioni della globalizzazione, degli effetti negativi o positivi che essa produce o può determinare a lungo termine, della possibilità o meno che si possa regolarne lo sviluppo, e così via. Ma su un punto concordano gli studiosi: la scienza e la tecnica sono decisive per lo sviluppo economico e nel confronto fra le diverse aree geopolitiche. Oggi si parla della tendenza in atto verso una “società della conoscenza”, ossia una società che non solo promuove la ricerca scientifica per far fronte alle sfide che impone un mondo globalizzato, ma considera la scienza l'elemento strategico dello sviluppo, il terreno in cui l'Occidente si gioca la sua stessa possibilità di mantenere l'egemonia nel mondo, specie rispetto alle sfide emergenti di Paesi come la Cina e l'India. La globalizzazione ha avuto effetti molto rilevanti anche nella cultura; essa ha trasformato più o meno radicalmente la struttura di discipline consolidate da una lunga tradizione come il diritto, la sociologia, l'economia; inoltre, ha provocato una ridefinizione di profes- sioni tradizionali e creato nuove professioni. E tutto ciò ha imposto all'attenzione il problema dei cambiamenti da introdurre nelle istituzioni formative come l'università. In questi ultimi decenni i Paesi occidentali hanno intrapreso delle riforme più o meno radicali dei sistemi scolastici tradizionali; in particolare, in tutti i Paesi dell'OCSE tali sistemi non sono più completamente centralizzati, e ciò non è connesso con l'esistenza di Stati federali, perché anche in Stati centralizzati si va affermando un modello di decentralizzazione dei poteri decisionali alle scuole. In altri termini, la sfida della globalizzazione impone ai sistemi formativi (in particolare all'università) una riforma culturale volta alla comprensione, prima di tutto, delle nuove caratteristiche dell'impresa scientifica in dimensione planetaria, e degli effetti che ciò determina nella stessa esperienza di apprendimento. L'apprendimento non si configura più come una semplice acquisizione di contenuti precostituiti in ambiti disciplianri delimitati secondo criteri statici, ma diviene essa stessa azione di interconnessione disciplinare e creazione di nuovi percorsi cognitivi. Per tale motivo la logica dei sistemi formativi deve adeguarsi alla nuova dimensione “globale” in cui operano, caratterizzata dal passaggio dalla stabilità e continuità all'instabilità e al mutamento continuo. Gli investimenti nell'istruzione e nella formazione si sono rivelati decisivi sia per lo sviluppo dell'economia di un Paese sia per avere un ruolo importante nella mondializzazione dei mercati. È ciò che hanno compreso tempestivamente quei Paesi oggi emergenti; ad esempio, la Corea del Sud 31 n.16 / 2006 è già diventata una potenza economica, ed è all'avanguardia mondiale nella produzione di componenti elettroniche. Nel campo dell'epistemologia e della filosofia abbiamo assistito all'eclissi di modelli razionalistici che hanno dominato nella cultura europea dal Settecento al Novecento: dal meccanicismo al positivismo, al neopositivismo fino ai post-positivisti, orientamenti diversi ma unificati da una stessa idea di fondo: che la razionalità scientifica sia in grado di fornire una conoscenza esauriente del mondo naturale e di quello umano, e conseguentemenete di progettare comportamenti individuali e collettivi razionali. In questa prospettiva la storia della scienza avrebbe dovuto rendere conto delle ragioni che presiedono allo sviluppo della scienza, alle rivoluzioni scientifiche e così via. Questi orientamenti sono stati abbandonati sia dalla critica epistemologica interna alla scienza espressa nel corso di quest'ultimo trentennio, in cui un ruolo critico decisivo ha svolto la teoria della complessità, sia da una nuova dislocazione dell'impresa scientifica nell'ambito della società. In altri termini, si può dire che sia le filosofie scientifiche sia la filosofia della scienza (o le epistemologie) hanno concluso il loro ciclo storico. Il neopositivismo ha delineato una filosofia scientifica che ha esercitato un ruolo essenziale nella cultura europea nel corso degli anni Trenta-Quaranta (e oltre, in Italia). Esso ebbe come obiettivo fondamentale l'analisi critica della conoscenza della natura, al cui interno procedette a demarcare le conoscenze che rispondono a problemi autenticamente scientifici e altre che rispondono a problemi per principio metafisici, ossia illusori. Secondo tale orientamento, il filosofo ha due compiti: formulare con rigore i problemi della scienza e dimostrare l'insignificanza di quelli metafisici, e a tale scopo dispone di due strumenti: l'analisi del linguaggio e la verifica delle proposizioni (principio di verificazione). Questa corrente si collega non solo al positivismo ma anche a Kant; precisamente alla dialettica della ragione, nella quale Kant mette in rilievo che la ragione formula problemi di cui non conosciamo (non possiamo conoscere) la risposta. Questo indirizzo, proprio perchè ha attribuito un valore conoscitivo alle sole proposizioni scientifiche, è stato considerato una “filosofia scientifica”. (Il suo 32 documento programmatico del 1929 ha per titolo: La concezione scientifica del mondo). Ora, questa immagine della scienza ritenuta capace di trasformarsi in sistema formalizzato chiuso, in grado di raggiungere un livello perfetto, ossia un assetto definitivo, è stata sottoposta a critiche radicali nel corso del Novecento, critiche che hanno posto in evidenza i limiti di un tale razionalismo dogmatico, della sua pretesa di determinare quali caratteri deve avere una teoria per poter essere qualificata come scientifica. Critiche analoghe sono state estese anche alla filosofia della scienza sorta dopo e in contrasto con il neopositivismo, il cui obiettivo fu di riflettere sulle scienze nella loro concrete e storiche manifestazioni, riconoscendo che esse hanno un loro linguaggio proprio e metodi diversi. In altri termini, l'oggetto della filosofia della scienza è il “fenomeno scienza” studiato nel suo sviluppo e nel suo interno intreccio fra disciplina e disciplina. Nella cultura italiana questa posizione è stata espressa da un gruppo di filosofi, fra cui ricordiamo: Ludovico Geymonat, Antonio Banfi, Lucio Lombardo-Radice, Francesco Barone. 2. I filosofi della complessità critici della “ragion classica” Un ruolo decisivo nella critica delle epistemologie dell'Otto e Novecento ha svolto in Italia il dibattito sul post-moderno, che ha caratterizzato in larga misura la cultura filosofica italiana durante il decennio 1980-1990, con le due varianti in cui si è espresso, il “pensiero debole” e il “pensiero della complessità”; esso ha avuto una notevole continuità di interventi e di contributi teorici, e ha portato fino alle estreme conseguenze la critica della “ragion classica”, ossia, nel campo epistemologico, del razionalismo approdato conclusivamente al neopositivismo e sue varianti. L'opera a più voci, La sfida della complessità (Milano 1985), costituisce la prima, organica sistemazione di questo nuovo orientamento. Esso può essere considerato il punto d'approdo di un ventennio (dagli anni Sessanta ai Settanta, e oltre) di ricerche e di discussioni su alcuni nodi teorici (filosofici ed epistemologici) fondamentali: dai dibattiti sulla dialettica, a quello sui modelli di razionalità, Mario Quaranta dalle discussioni sul programma scientifico di Marx ai rapporti tra scienza e potere (per citare i più noti). La teoria della complessità si configura, dunque, come il punto di confluenza e risistemazione di una molteplicità di motivi teorici, che vanno dalla critica alla tradizione filosofica razionalistica europea fino alla revisione di consolidati paradigmi storiografici di stampo idealistico. Il riferimento costante dei teorici italiani della complessità è stato il lavoro filosofico ed epistemologico di Edgar Morin; un filosofo che è stato, per così dire, “adottato” dalla filosofia italiana, secondo un modulo non nuovo nella cultura italiana. Basterà ricordare nel primo Novecento la presenza di Georges Sorel, il cui pensiero ha alimentato il dibattito teorico all'interno del socialismo ed è stato accolto da un orientamento politico importante come il sindacalismo rivoluzionario. La teoria della complessità ha avuto un notevole impatto sulla cultura italiana ed è apparsa, in larga misura, come la ratifica di una situazione ormai matura, che ha segnato il passaggio da una fase di critica della modernità caratterizzata dal rifiuto radicale d’ogni “ragion metafisica”, della sua pretesa di conoscere-dominare il mondo, a una fase propositiva, in cui ha fornito risposte nuove ai problemi tradizionali e ha individuato nuovi problemi. L'idea di semplicità, ha sostenuto Mauro Ceruti in Il vincolo e la possibilità (1985) è stato l'obiettivo perseguito dalla scienza e dall'epistemologia moderna da Cartesio ai neopositivisti. Tale modello epistemologico è fondato su un'idea di legge scientifica come luogo in cui si svela l'ordine nascosto (una posizione che già Anassagora espresse nell'affermazione: “Ciò che si manifesta è la visione di ciò che è nascosto”), e di un metodo capace di demarcare ciò che rientra e ciò che fuoriesce dalla razionalità scientifica. Il compito dell'epistemologia è stato quello di individuare il codice nascosto (la legge, appunto) per prevedere il futuro. Così, a una concezione causalistica dei fenomeni, Ceruti ne contrappone una “vincolistica”, secondo cui «la storia naturale si delinea come una storia di produzione reciproca di vincoli e di possibilità attraverso la coevoluzione di sistemi viventi (autonomi) e dei loro ambienti, e dei differenti sistemi viventi (autonomi) all'interno di particolari ecologie». I vincoli sono regole di un gioco che ci dicono ciò che può succedere, non ciò che necessariamente accadrà. Edgar Morin: abitare eticamente la natura La complessità, dunque, risponde all'urgenza di una riflessione volta non solo alla ricerca di nuove risposte alle vecchie domande, ma soprattutto a formulare nuovi tipi di domande, ossia nuovi modi di interrogare la natura. In questa direzione, la scienza è sì formata, come dice Galileo, di “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni”, ma le une e le altre non sono leggibili solo in termini deterministici, tanto che ora ciò che era considerato residuale, casuale, aleatorio, si è imposto come centrale nel discorso scientifico. La complessità, afferma Ceruti, è soprattutto una sfida, nel senso che provoca «un'irruzione dell'incertezza irriducibile nelle nostre conoscenze». È un’avventura della conoscenza, e «in questo senso il delinearsi di un universo incerto non è tanto il sintomo di una scienza in crisi, ma soprattutto l'indicazione di un approfondimento del nostro dialogo con l'universo». In altri termini, «le nuove strategie costruttive della conoscenza contemporanea, dichiara Ceruti, hanno messo in crisi l'idea che l'universo categoriale della scienza sia unitario, omogeneo al suo interno, fissato una volta per tutte». In tal modo le antinomie, i paradossi, le presunte insolubilità di certi problemi come i famosi sette “ignorabimus” di Du Bois-Reymond non sono, secondo questa prospettiva, l'espressione di un limite ultimo delle conoscenze umane, di uno scacco della ragione, dovuto al fatto che non possiamo dare un fondamento ultimo alla conoscenza scientifica, ma «appaiono piuttosto collocabili nelle matrici costruttive e nei meccanismi costitutivi stessi delle conoscenze». Secondo questa prospettiva, il problema epistemologico fondamentale non è più quello di trovare un momento di sintesi dei diversi punti di vista, ma «piuttosto quello di comprendere come punti di vista differenti si producano reciprocamente». Così, all'eclissi dell'immagine classica di una razionalità capace, attraverso sintesi sempre più ampie, di esaurire la comprensione del mondo, e di fornire regole di condotta certe perché commisurate a obiettivi predeterminati e razionalmente fondati, si contrappone l'immagine di una ragione “plurale”. In altri termini, la decostruzione dell'immagine di razionalità monolitica (che si è estesa poi alle altre categorie connesse, come quella di progresso e di tempo lineare) ha esaltato le differenze; differenze che non sono mediabili o unificabili da una logica 33 n.16 / 2006 dialettica, come quella hegeliana (e sue varianti), ma sono irriducibilmente costitutive dei vari campi della conoscenza. Il problema fondamentale non è, oggi, quello di rendere omologhe tali differenze, ma di accettarle e metterle in feconda interazione tra loro. L'epistemologia tradizionale, nelle sue diverse varianti, non ha più una presenza e incidenza nella cultura come negli anni precedenti; assistiamo piuttosto a una sua “accademizzazione”, a un interesse più marcato verso la storia dell'epistemologia, e soprattutto all'emergere di filosofie legate alle singole scienze: la filosofia della fisica, della biologia, della matematica, e così via. Non solo: si è allentato anche l'interesse per i modelli di storia della scienza, per il problema delle condizioni che determinano una rivoluzione e le caratteristiche della scienza “normale”; problemi che hanno alimentato il dibattito provocato dai post-positivisti. 3. Esigenza di una filosofia della natura Attualmente, dopo i dibattiti provocati nel campo dell'epistemologia dai post-positivisti, abbiano assistito se non a un'eclissi dell'epistemologia, a un venir meno di quella centralità che si era conquistata nella cultura europea e italiana. Le epistemologie tradizionali hanno dato via via risposte diverse e diversamente motivate sui caratteri specifici della razionalità scientifica, sulle ragioni del suo progresso, sui motivi di diversità o superiorità delle forme di conoscenza, sulle condizioni delle rivoluzioni scientifiche. Ma i diversi modelli di razionalità scientifica per rendere ragione dello sviluppo della scienza sono risultati insufficienti o inadeguati rispetto ai caratteri assunti dalla scienza odierna. Oggi la scienza è caratterizzata da uno sviluppo rivoluzionario permanente, non descrivibile in modi e tempi preordinati. Già Gaston Bachelard sottolineò, nell'opera Il materialismo razionale (1953), che nel corso dei primi trent'anni del Novecento c'erano stati così grandi scoperte scientifiche ed epistemologiche - Planck, Einstein, Heisenberg, Bohr, De Broglie -, per cui si poteva affermare che «dieci anni del nostro tempo valgono dieci secoli delle epoche anteriori». Nella seconda metà del secolo scorso abbiamo assistito a una ulteriore accelerazione dello sviluppo scientifico. Non solo: scoperte e innovazioni in un campo si riverbe- 34 rano in altri, contribuendo a modificare più o meno radicalmente i singoli saperi. Stiamo attraversando un momento in cui la scienza ha assunto un ruolo così decisivo nell'organizzazione economica e nella vita politica e civile di tutti i Paesi, da sollevare problemi del tutto nuovi rispetto ad alcuni decenni or sono. L'aspetto del tutto nuovo è oggi rappresentato dai rapporti che si stanno istaurando fra l'impresa scientifica nel suo complesso e la società. Per la prima volta l'umanità si trova a dover affrontare il problema della compatibilità dello sviluppo scientifico con le risorse esistenti sulla Terra; problema che impone soluzioni di enormi problemi economici, politici e culturali. In varie opere Morin ha affrontato questo problema, che via via è diventato uno dei centri della sua riflessione filosofica ed epistemologica. In Terra-Patria (1993) ha compiuto un'analisi impietosa dell'“era planetaria”, della sua agonia, delle nostre finalità terrestri, nella persuasione che «oggi il problema è sapere se le forze di regresso e di distruzione avranno la meglio su quelle di progresso e di creazione, e se non abbiamo superato una soglia critica nel processo di accelerazione/amplificazione, che ormai potrebbe condurci alla singolarità esplosiva». E più oltre: «La crisi planetaria è il nucleo dei processi incontrollati, i quali sono a loro volta il nucleo della crisi planetaria. L'ascesa delle minacce globali mortali è uno dei caratteri della crisi planetaria». Morin non è un catastrofista, la via di uscita che propone è un lavoro (politico, culturale, filosofico, ecc.) di lunga durata, cui debbono essere chiamati tutti gli uomini per passare a una nuova rinascita, «possibile ma non ancora probabile», ossia «la nascita dell'umanità, che ci farebbe uscire dalla preistoria dello spirito umano, che civilizzerebbe la Terra e che vedrebbe la nascita della società/comunità planetaria degli individui, delle etnie, delle nazioni». In altri temini, occorre proseguire nel processo di ominizzazione e civilizzazione della Terra. D’altra parte, tale sviluppo non è inscritto nella storia dell'uomo, perchè «il progresso stesso è toccato da un principio di incertezza»; è una scelta che può essere ragionevolmente compiuta se disponiamo «di principi di speranza nella disperazione»; la condizione in cui ora ci troviamo. Ed è a questo punto che Morin indica i principi di un possibile «vangelo della disperazione» che ci consenti- Mario Quaranta rebbe di «concepire una nuova tappa della ominizzazione, che sarebbe, allo stesso tempo, una nuova tappa della cultura e della civiltà». Ma di fronte alle catastrofiche previsioni cui va incontro la Terra se continua l'attuale modello di progresso delle società, della scienza e della tecnica, è sufficiente richiamarsi alla necessità di una modificazione antropologica dell'uomo, alla formazione di una “coscienza planetaria” capace di orientare l'uomo verso fini diversi da quelli che ha finora accettato e che sono stati socialmente stabilizzati da una lunga pratica sociale e culturale? A mio parere, i filosofi e gli epsitemologi dovrebbero concorrere ad elaborare una filosofia della natura in grado di far comprendere il significato dell'impresa scientifica, i problemi completamente nuovi cui l'umanità si trova di fronte. Viviamo in um mondo in cui le previsioni scientifiche sono perlopiù ignorate o non credute da larga parte degli uomini. Il messaggio ritenuto “catastrofista” che la scienza ci fornisce su un possibile esito di distruzione della vita sulla Terra, e che ha indubbie, solide ragioni scientifiche e fattuali, sembra non determinare, per regioni già individuate dagli studiosi, una modificazione nei comportamenti dei governi, e a maggior ragione dei popoli. Ed è indubbio che siamo di fronte al problema cruciale dei prossimi decenni. D'altra parte è anche vero che riconoscere un'attualità alla filosofia della natura può costituire un motivo di sorpresa e sollevare un atteggiamento scettico; si tratta, infatti, di un sapere che è assente da molti decenni nelle discussioni filosofiche. Nelle varie immagini della scienza veicolate nel corso del Novecento non c'è stato un grande spazio per la filosofia della natura; solo in questi ultimi anni sono stati pubblicati alcuni libri sull'argomento perlopiù di carattere storico. (Fra i più recenti lavori, ricordiamo quello di Pierre Hadot, Il velo di Iside. Storia dell'idea di natura (Torino 2006) e quello di Mario Alcaro, Filosofie della natura. Naturalismo mediterraneo e pensiero moderno, Roma 2006). Il razionalismo novecentesco ci ha fornito un'immagine della scienza in cui la filosofia ha avuto o una funzione ancillare, o metodologica, o di sintesi dei risultati delle scienze. «La metodologia contemporanea», afferma Nicola Abbagnano nella “voce” “Filosofia della natura” nel suo Dizionario di filosofia, «ha sempre più sottolineato l'illegitti- Edgar Morin: abitare eticamente la natura mità di astrarre le proposizioni della scienza dai loro contesti e di trovare in esse significati che vadano al di là di quanto i concetti stessi autorizzano. Da questa limitazione metodologica, il compito di una filosofia della Natura viene tagliato alla base». Dunque, secondo la prospettiva fino ad oggi dominante, la filosofia della natura non ha avuto una presenza significativa; essa è stata spesso “sostituita”, per così dire, dal problema del rapporto tra religione e scienza; un argomento, questo, presente in tutti gli orientamenti novecenteschi (Peirce, inizia il saggio L'ordine della natura del 1878, con questa affermazione: «Qualsiasi proposizione che concerna l'ordine della natura deve più o meno sfiorare la religione»). D'altra parte, rari e senza una grande eco sono stati i tentativi compiuti da alcuni filosofi nel corso del secolo scorso, di delineare una filosofia della natura. Un posto particolare va riservato a Gaston Bachelard il quale, accanto alla elaborazione di una epistemologia, ha pubblicato opere sull'acqua, la terra, l'aria, il fuoco, di cui fornisce un'interpretazione transdisciplianare, rivalutando così una possibile filosofia della natura, sia pure molto diversa da quella tradizionale. Inoltre, ricordiamo l'opera di Nicolai Hartmann, La filosofia della natura (1950), in cui l'autore attraverso un'analisi di concetti scientifici come quelli di tempo, forza, massa, estensione, ecc., cerca di scoprire il valore ontologico della razionalità scientifica. Più recentemenete, l'epistemologo Evandro Agazzi nell'opera Filosofia della natura. Scienza e cosmologia (1995) ha sostenuto che gli stessi risultati considerati non definitivi cui è giunta la scienza attuale, hanno posto in evidenza la leggitimità teorica della filosofia della natura, di cui traccia le caratteristiche fondamentali. Sul piano storico, possiamo dire che la filosofia moderna ha espresso sostanzialmente due modelli di filosofie della natura; il primo, caratterizzato da un “imperialismo della scienza”; il secondo da un “imperialismo della filosofia”. Il primo esalta la razionalità scientifica come l'unica, autentica conoscenza del mondo; il secondo assegna un posto privilegiato alla filosofia e uno subordinato alla scienza. Il primo è stato espresso dal meccanicismo, che ha esteso a tutta la natura il modello di conoscenza delle scienze fisiche (la meccanica); il secondo è rappresentato in modo eminente dalla Naturphilosophie romantica (Goethe e più ancora 35 n.16 / 2006 Schelling), ma soprattutto da Hegel, la cui Enciclopedia delle scienze filosofiche (1816) costituisce l'opera più organica in questa direzione. Una ripresa del discorso sulla filosofia della natura può iniziare, come hanno fatto i due studiosi citati, da una riflessione critica sui diversi modelli che la storia del pensiero filosofico e scientifico ha via via elaborato. In questo caso accenniamo alla posizione espressa da Moritz Schlick, il maggiore rappresentante del Circolo di Vienna, un movimento in cui è forte l'interesse per la filosofia della natura, come ha documentato Ludovico Geymonat nell'opera del 1934 La nuova filosofia della natura in Germania. Schlick nell'opera Lineamenti di filosofia della natura pubblicata postuma nel 1948, ma con materiali dei suoi corsi universitari dei primi anni Trenta, ha sostenuto la tesi che «la filosofia della natura non è scienza essa stessa, ma un'attività diretta alla considerazione del significato delle leggi di Natura». Il compito della filosofia della natura, afferma l'epistemologo viennese, è duplice: «1) produre una sintesi delle conoscenze acquisite, per assicurare una visione unitaria della natura; 2) fornire una giustificazione gnoseologica dei fondamenti della scienza naturale». Egli precisa che il compito fondamentale delle scienze naturali è quello di conoscere tutti i processi naturali, compresi i principi generali, per cui «non esiste nessun altro tipo di giustificazione precipuamente filosofica dei fondamenti». Ma anche accettando ciò, è possibile sostenere una possibile complementarità fra i due campi del sapere. Infatti, dichiara Schlick, «si possono distinguere due tipi d'interessi intellettuali, l'uno volto al controllo della verità delle ipotesi, l'altro orientato verso la comprensione del loro senso». A nostro parere, oggi è urgente mettere in evidenza proprio il senso della filosofia della natura, entro cui si colloca l'attività dell'uomo come parte integrante della natura. In altri termini, va stabilita una feconda alleanza tra scienza, filosofia e filosofia della natura. Ludovico Geymonat, che dopo la laurea in filosofia e in matematica, è andato a Vienna per seguire le lezioni di Schlick, nell'opera Scienza e realismo (1977) ha affrontato questo problema sostenendo due tesi: la prima, che l'uomo fa parte integrante della natura; «ovviamente è un fattore il quale possiede una propria specificità entro il processo anzidetto, sicchè l'intervento umano per 36 modificare la natura è a pieno titolo un intervento “dall'interno” e non “dall'esterno”». La seconda, che «il compito di elaborare una concezione dell'universo nuova, da sostituirsi a quelle ormai incompatibili con il nostro patrimonio scientificotecnico, spetterà a un altro tipo di studioso, che potremmo qualificare come scienziato-filosofo. L'importante è, comunque, che tale nuova concezione risulti aperta, flessibile, capace di fare ininterrottamente tesoro di tutte le rettifiche che la scienza le suggerisce». Ma chi ha posto in termini nuovi il problema di una filosofia della natura, stabilendo una rottura con le precedenti, è stato il filosofo Hans Jonas; la sua posizione può essere considerata essenziale nella ricostruzione delle riflessioni di Morin sulla natura. Jonas nell'opera Il principio responsabilità afferma che lo sviluppo della scienza e della tecnica ha raggiunto un tale livello, attraverso lo sfruttamento (ossia la distruzione) della natura, da mettere in pericolo la stessa sopravvivenza dell’umanità. Il progetto, o “sogno” di Francis Bacone, di creare un “regnum hominis” attraverso l’utilizzo della scienza e il dominio sulla natura, si è effettivamente realizzato, ma invece di un “regno” a misura d’uomo, abbiamo creato una situazione d’emergenza. La distruzione della natura è giunta al punto che sembra precedere una “situazione apocalittica”, la distruzione della natura, ossia le stesse condizioni d’esistenza sulla Terra. Altre volte ci siamo trovati di fronte a gravissime minacce, come la possibilità di una guerra atomica che se usata avrebbe distrutto la Terra; ma il pericolo della bomba atomica, dichiara Jonas, può essere eliminato attraverso accordi (di fatto è ciò che sta avvenendo). Diverso è l’odierno pericolo perché è incardinato nello sviluppo tecnologico che sembra irreversibile. Se ciò è vero, le etiche tradizionali, centrate sull’uomo, sui suoi comportamenti individuali o collettivi, risultano del tutto inadeguate alla situazione odierna: lo sviluppo straordinario della scienza ha dato un rilievo prioritario, afferma Jonas, all’«agire collettivo, nel quale l’autore, l’azione e l’effetto non sono più gli stessi; ed essa [scienza], a causa dell’enormità delle sue forze, impone all’etica una nuova dimensione della responsabilità, mai immaginata prima». In conclusione, ora occorre passare da un’etica antropocentrica, fondata sull’uomo, a un’etica Mario Quaranta planetaria, il cui imperativo è espresso da Jonas in questi termini: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita sulla Terra”. 4. Edgar Morin fra epistemologia e filosofia della natura Le “due tensioni” nel pensiero di Morin Ci soffermiamo, ora, su alcuni aspetti dell'opera di Morin La Méthode 1. La nature de la nature (1977) in cui l'epistemologo francese ha portato alle ultime conseguenze la sua critica dell'immagine della scienza della modernità, tracciando poi, accanto a un'epistemologia della complessità, i lineamenti di una possibile filosofia della natura integrata da una nuova etica espressa nell’ultima sua opera, Etica. Egli ha criticato le idee-guida fondamentali su cui si è retta finora la razionalità scientifica (il dubbio, il rapporto soggetto-oggetto, l'unità del sapere, ecc.); però, non ha parlato esplicitamente di una filosofia della natura; su tale argomento egli sembra a volte oscillare tra un'analisi rigorosa della struttura (logica e fattuale) delle scienze, nella persuasione che possano dare un contributo decisivo alla soluzione dei problemi dello sviluppo in un mondo globalizzato, e l'idea che per risolvere i problemi posti dalle emergenze planetarie, occorra soprattutto affidarci a una specie di rivoluzione antropologica dell'uomo, sempre più consapevole della situazione di emergenza in cui vive. Secondo Morin, ciò che ora occorre è un nuovo tipo di rivoluzione: «Essa è necessaria logicamente per salvare la vita, ma non è necessaria storicamente, e sembra anzi poco probabile. Non porterebbe a compimento l'evoluzione umana, ma darebbe il via a una nuova evoluzione. Trasformerebbe i principi di cambiamento. Questa idea di rivoluzione porta con sé l'idea di comunità radicale, perché dobbiamo far sì che continui la vita, e in particolar modo la vita umana». Morin nelle sue opere filosofiche smonta, per così dire, l'apparato categoriale su cui è fondata l'immagine della razionalità scientifica dell'Otto e Novecento e ne traccia una nuova, i cui nodi centrali sono stati sommariamente delineati nell'introduzione generale della prima opera de La Méthode 1. La nature de la nature, dal titolo Lo spirito Edgar Morin: abitare eticamente la natura della valle. In questo testo programmatico sono più esplicite le “due tensioni” presenti nel suo pensiero: l'esigenza di formulare un'epistemologia nuova che vada oltre le aporie di quelle tradizionali, e la necessità di tracciare una concezione della natura non attraverso il primato della razionalità scientifica o della filosofia, ma attraverso un'alleanza tra filosofia e scienza diversa da quella prospettata dal positivismo, dal neopositivismo e dal pragmatismo (per citare alcuni degli orientamenti principali ottonovecenteschi). Nel primo volume de La Méthode, Morin enuncia le idee direttrici della sua impresa culturale, su alcune delle quali ci soffermiamo brevemente. Esse sono: il problema del metodo; il rapporto soggetto-oggetto; il rapporto tra le cosidette “scienze dello spirito” e le “scienze della natura”, il problema dell'enciclopedia del sapere. Il problema del metodo Morin chiarisce subito il significato che intende attribuire al problema del metodo, e il riferimento è necessariamente a Cartesio, l'iniziatore della modernità la cui presenza si riscontra anche nei filosofi moderni e contemporanei. E proprio per questa presenza “ingombrante” l'anticartesianesimo ha una larga udienza nella cultura francese moderna e contemporanea. Basterà ricordare, fra gli epistemologi francesi, Gaston Bachelard, mentre nell'area anglosassone il riferimento più ovvio è Charles Peirce. Secondo Morin c'è un'aporia nel dubbio cartesiano, essa risiede nel fatto che esso «era certo di se stesso», mentre il dubbio per essere tale non può essere né assoluto né «purificato in misura assoluta». Occorre pertanto «mettere in dubbio metodicamente il principio stesso del metodo cartesiano»; la conseguenza cui la disamina di Morin perviene è che «non il chiaro e il distinto, ma l'oscuro e l'incerto» sono alla radice della conoscenza. Egli ha chiarito ulteriormente il significato del dubbio, il ruolo che svolge nella ricerca epistemologica e filosofica. «Nel cuore stesso della ragione, afferma, ritroviamo non la semplice certezza o il semplica dubbio, ma il dialogo/circuito credenza--dubbio. La ragione è fede nella conoscenza, ma è dubbio rispetto alle pretese assolute della conoscenza. La ragione non può sfuggire al circuito credenza-----dubbio, ma introduce in questo circuito le esigenze di chiarificazione e di spiegazione. Io ho fede nella ragione proprio perché porta in sé, 37 n.16 / 2006 in maniera intercomunicante, sia la fede nella conoscenza che il dubbio della conosceza». La critica del dubbio cartesiano ha un ruolo strategico nell'elaborazione della teoria della complessità di Morin; va peraltro sottolineato che anche in Cartesio il dubbio costituisce uno dei leitmotiv del suo pensiero. Esso assolve una funzione essenziale nell'opera Meditationes de prima philosophia (1641), uno dei capolavori della filosofia moderna. Prima di pubblicarla Cartesio la fece pervenire ad alcuni fra i principali filosofi e teologi del tempo, sollecitando le loro critiche e obiezioni; obiezioni che furono pubblicate con le risposte di Cartesio. Con queste risposte Cartesio si cimenta con i vari e motivati dubbi e obiezioni dei suoi interlocutori, cui egli risponde con una straordinaria capacità argomentativa e un approfondimento ulteriore del significato logico e ontologico del dubbio. Morin va oltre l'indicazione metodologica di Bachelard, il quale ha rivalutato il “non rigoroso” per renderlo compatibile o comunque coesistente con la razionalità umana. Secondo Morin non è sufficiente far rientrare nel processo della conoscenza il non rigoroso; occorre riconoscere che l'incerto, il confuso, il non rigoroso, appunto, ci consentono di esplorare nuovi territori. Esso è parte integrante della razionalità; anzi, esso è stato, in certo qual modo, il motore d'avvio di rivoluzioni scientifiche. Infatti, storicamente gli sviluppi più innovativi della scienza sono avvenuti proprio sulla base del “non rigoroso”: il disordine termodinamico, l'incertezza microfisica, il carattere aleatorio delle mutazioni genetiche sono all'origine dei più rivoluzionari sviluppi della scienza contemporanea. Anche Charles S. Peirce, fondatore del pragmatismo, sottolinea che all'inizio del processo conoscitivo c'è un dubbio che consente di raggiungere non una verità assoluta ma una “credenza”, dalla quale si parte per giungere a un’altra credenza. Nel suo saggio programmatico, Come rendere chiare le nostre idee (1878) egli definisce in questi termini la credenza: «Che cosa, dunque, è la credenza? Abbiamo visto che ha tre proprietà: 1) è qualcosa di cui ci rendiamo conto; 2) acquieta l'irritazione del dubbio; 3) implica lo stabilirsi nella nostra natura di una regola d'azione, o, per dirla in breve, di un abito. […] Ma dal momento che la credenza è una regola d'azione, l'applicazione della quale implica ulteriori dubbi e pensieri, nello stesso tempo in cui essa è un punto 38 d'arrivo, è anche un punto di partenza per il pensiero». In altri termini, le domande che sono alla base della nostra attività intellettuale sono e rimangono aperte perché la caratteristica della credenza è una costitutiva incertezza. La posizione di Morin è radicale; «oggi, afferma, si può partire soltanto nell'incertezza del dubbio». Ma allora, di fronte all'opzione cartesiana fra assoluto o scetticismo, quale è la nostra risposta? Morin respinge il dilemma; egli è fuoriuscito dall'anti-metodo ed è giunto a un nuovo metodo attraverso la scoperta del principio della complessità, per cui «il problema è ormai di trasformare la scoperta della complessità in metodo della complessità». Ossia: «apprendere ad apprendere, questo è il metodo». Il rapporto soggetto-oggetto La soluzione del problema del metodo richiede una dislocazione nuova del rapporto tra soggetto e oggetto, base della conoscenza. Secondo Morin c'è stata storicamente una specie di divisione di sfere di competenza tra la scienza e la filosofia: «La scienza si impossessa dell'oggetto, e la filosofia del soggetto»; le differenze fra gli orientamenti filosofici risiedono, pertanto, nella diversa soluzione che hanno dato a tale problema. La connessione tra mente e oggetto è stata ricondotta o all'oggetto fisico dall'empirismo e sue varianti, o alla mente dell'individuo dall'idealismo e sue varianti, o alla realtà sociale dal sociologismo. Tre soluzioni diverse ma unificate dall'attribuzione del primato a uno o all'altro dei termini (oggetto o soggetto). Contro la «dittatura della semplificazione riduttrice», Morin propone di «abbattere la dittatura della semplificazione disgiuntiva e riduttrice», e considerare il soggetto e l'oggetto due aspetti di una realtà unitaria. Egli critica radicalmente l'idea-base del razionalismo basato sull'epistemologia della fisica dell'Otto e Novecento, secondo cui l'obiettivo della conoscenza scientifica è di fornire un'immagine esatta della realtà, secondo quello che possiamo chiamare il “modello cartesiano”, fondato sulla netta separazione fra res extensa e res cogitans. Esso è alla base anche del materialismo nelle sue diverse varianti: c'è una realtà oggettiva e di fronte un soggetto; la conoscenza consiste nel fornire un'immagine via via più esatta di tale realtà oggettiva. E la “fotografia” che riusciamo a realizzare è tanto migliore quanto più prescinde dall'osservatore da Mario Quaranta cui è stata scattata. Al contrario, una delle ideeguida del pensiero di Morin è che l'osservatore e l'osservato (soggetto e oggetto) non esistono uno indipendentemente dall'altro. Da qui sorge una nuova teoria della conoscenza ove l’oggetto è l'insieme delle relazioni tra un osservatore e un osservato, secondo una concezione dinamica in cui «tutto è solidale». Rapporti tra “scienze dello spirito” e “scienze della natura”. Una delle idee centrali del testo programmatico di Morin Lo spirito della valle, è che «la scienza antropo-sociale ha bisogno di articolarsi sulla scienza della natura, e che quest'ultima articolazione richiede una riorganizzazione nella struttura del sapere». Egli affronta, dunque, l'arduo problema che attraversa tutto il Novecento, il rapporto fra le cosiddette “scienze dello spirito” e le “scienze della natura”. A titolo esemplificativo, per sottolineare l'importanza che ha avuto nella cultura europea tale problema, accenniamo alle posizioni espresse da due filosofi, Wilhelm Dilthey e Wilhelm Windelband, i quali vi hanno dedicato importanti opere che hanno avuto una notevole influenza nella cultura europea del Novecento, e a cui si richiama spesso lo stesso Morin. Dilthey formula una distinzione fondamentale tra le scienze naturali e le scienze dello spirito; le prime hanno per oggetto il mondo naturale, le seconde il mondo storico formato da individui; un posto privilegiato assume, dunque, la storia. Accanto alla storia ci sono le scienze della società, che studiano i “sistemi di cultura”, ossia la religione, il diritto, la scienza, e le “forme di organizzazione esterna della società”, ossia la famiglia, lo stato, la chiesa; forme che assolvono l’importante compito di assicurare la continuità del patrimonio culturale dell’umanità. Le scienze dello spirito hanno un carattere individualizzante; il loro oggetto è interno all’uomo nel senso che colgono l’uomo attraverso la sua “esperienza vissuta”, mentre le scienze della natura enunciano le leggi dei fenomeni naturali. Fra i due tipi di scienze c’è sì un rapporto di autonomia ma permane un collegamento, perché l’uomo mantiene rapporti indisgiungibili con la natura. I due modelli di scienza adoperano metodi diversi; le scienze della natura hanno a che fare con ipotesi Edgar Morin: abitare eticamente la natura collegate in una teoria e spiegano i fenomeni in termini causali, mentre le scienze dello spirito hanno a che fare con fenomeni complessi, e perciò non possono usare categorie troppo astratte e schematiche come quelle scientifiche. Le scienze dello spirito usano categorie che non spiegano ma comprendono l’“esperienza vissuta” degli uomini. Wilhelm Windelband non accetta la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito di Dilthey, distinzione che riproporrebbe quella tradizionale, di stampo metafisico, tra natura e spirito. Egli ne formula un’altra, tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche; una distinzione di carattere metodologico, che concerne non una differenza fra due tipi di conoscenze come in Dilthey, ma una diversità di fini. Le scienze monotetiche si occupano dei fenomeni naturali e hanno per fine la ricerca e la determinazione di leggi generali, quelle idiografiche colgono gli eventi particolari, ossia tendono a giustificare il carattere di unicità di ogni singolo evento, rilevandone l'autonomia dai vincoli naturali; esse si occupano in modo particolare dei fenomeni culturali. La più caratteristica scienza dello spirito è la storia, il cui compito principale è di conservare ciò che ha valore e abbandonare all’oblio ciò che ne è privo. Fra i due tipi di razionalità (scientifica e filosofica) non c’è, dunque, una netta distinzione, ma è comunque possibile avere una conoscenza razionale anche di avvenimenti unici, irripetibili, come quelli storici, dal momento che sono inseriti in uno sviluppo orientato finalisticamente secondo certi valori. Un'ultima considerazione. Sia i neokantiani sia gli storicisti riconoscono alle scienze naturali lo statuto di scientificità, e alla spiegazione scientifica un valore conoscitivo anche se circoscritto. La giurisdizione della spiegazione scientifica è solo nel campo dei fenomeni naturali, mentre quella filosofica è nel campo dei fenomeni umani. Di fronte a queste soluzioni, caratterizzate dalla separatezza dei campi del sapere, Morin sostiene la tesi che «la realtà antropo-sociale si proietta e si inscrive nel nucleo stesso della scienza fisica», secondo un processo circolare che richiede una diversa soluzione dell'altro problema strettamente conncesso con questo: il rapporto tra soggetto e oggetto, per cui si possa dire che «ogni scienza fisica dipende, in qualche misura (quale?), dalla realtà antropo-sociale». La risposta all'interrogativo è affi- 39 n.16 / 2006 data a un'analisi ravvicinata delle singole scienze, analisi che Morin ha compiuto nelle sei opere di cui si compone La Mèthode. La conclusione cui perviene è che «il circuito fisica-biologia-antroposociologia invade tutto il campo della conoscenza e richiede un sapere enciclopedico impossibile». Il problema dell'enciclopedia del sapere Morin fin dall'avvio della sua ricerca si trova di fronte a due “muri”: quello epistemologico e quello enciclopedico, che la cultura flosofica da Comte a Carnap ha tentato di unire attraverso un progetto di enciclopedia del sapere, in cui l'epistemologia definisce il criterio di scientificità delle singole scienze e l'enciclopedia assicura che l'edificio della scienza, fondatto su tale criterio, ha i caratteri della razionalità e della definitività. Che cosa è il Corso di filosofia positiva di Comte se non un'enciclopedia delle scienze del suo tempo, la cui maturità epistemologica è determinata dalla loro capacità previsiva? Le scienze “mature” sono sei e solo sei (matematica, astronomia, fisica, chimica, biologia, sociologia) le quali peraltro hanno interne articolazioni (l'acustica, l'ottica, la termologia, ecc.), e l'ultima scienza è la sociologia, la quale usufruisce del patrimonio metodologico delle precedenti e perciò si candida ad essere la scienza regina. Il compito che si è attribuito il filosofo francese è proprio quello di far pervenire la sociologia ad autentica scienza. L'altro, grande tentativo è stato compiuto dai neopositivisti che hanno iniziato l'impresa di una “Enciclopedia della scienza unificata”, fondata non più sul criterio della previsione come quella comtiana, ma sul linguaggio scientifico fondato sulla fisica (il fisicalismo). Un'impresa rimasta inconclusa, che ha via via fatto emergere i propri limiti. Morin rifiuta l'enciclopedismo come cumulazione di conoscenze e saperi in un sistema totalizzante, e delinea un'enciclopedia capace di «articolare ciò che fondamentalmente è disgiunto e che dovrebbe essere fondamentalmente connesso», con una scelta delle conoscenze cruciali, dei punti nodali, «delle articolazioni organizzative fra le sfere disgiunte». Si può dire che i sei volumi de La Méthode sono la realizzazione di questo nuovo modello di enciclopedia. L'opera La nature de la nature non è più fondata sul primato della scienza o su quello della filosofia, ma su un'alleanza fra scienza, epistemologia e filosofia. Nell'ultima opera di Morin, 40 Etica, si possono individuare i punti di congiunzione tra epistemologia ed etica, una congiunzione nuova rispetto a quelle precedentemente viste. L'esigenza di una filosofia della natura, come abbiamo già accennato, è presente in Terra-Patria (1993), ove il filosofo francese ha affrontato i problemi dell'era planetaria, della carta d'identità terrestre, dell'agonia planetaria, e così via. Ma è nell'ultima opera sull'etica che la proposta di Morin è più esplicita. Di fronte ai problemi sollevati dal disordine economico mondiale, da quello demografico, dalla crisi ecologica, egli riafferma sì il valore di una riforma radicale del pensiero per restaurare quella che definisce «la razionalità contro la razionalizzazione», ma è nell'Etica che compie il passo ulteriore e decisivo. 5. Approdo all'etica Il problema dei rapporti tra scienza ed etica è stato tra i più discussi e variamente risolti nella filosofia del Novecento: accenniamo brevemente ad alcune delle risposte che filosofi, epistemologi e scienziati di diversi orientamenti hanno dato a tale problema, per poi indicare la posizione espressa da Morin. La tendenza positivistica a fondare sistemi di morale sui risultati raggiunti dalle scienze ha trovato in George E. Moore, all'inizio del Novecento, il filosofo che ha confutato in termini persuasivi tale pretesa. Nell’opera del 1903, Principia ethica, Moore stabilì una distinzione fra etica e metaetica; l’etica si chiede che cosa è ‘buono’, la metaetica cosa intendiamo quando diciamo ‘buono’. L’etica ha un carattere normativo, ossia indica quale azione, fra le molte possibili, dobbiamo fare; la metaetica chiarisce i vari e diversi significati dei termini etici. Il termine ‘buono’, argomenta Moore, non è definibile perché è una nozione semplice, elementare, primitiva; essa è così evidente per se stessa, che non è sottoponibile a verifica, come invece le proposizioni scientifiche; pertanto le proposizioni etiche non possono essere provate né confutate. A una conclusione analoga è giunto Bertrand Russell, il quale nell'opera Religione e scienza (1936) sostiene che le norme etiche non hanno una genesi razionale o conoscitiva ma pratica, emotiva. Gli enunciati dell’etica non sono classificabili secondo le categorie del vero e del falso (categorie usate dalla scienza), ma sono espressioni di sentimenti Mario Quaranta che tendono a determinarne altri. All’etica, dunque, manca la dimensione cognitiva, che invece caratterizza la razionalità scientifica. Anche Emile Boutroux, teorico del contingentismo, ha affrontato questo stesso problema. Nello scritto La Scienza e la morale moderna o scientifica afferma che dove c’è la morale non c’è la scienza, e dove c’è la scienza non c’è la morale. In altri termini, la scienza è autonoma, ossia non è collegata né condizionata, né fondata su una morale: siamo di fronte a due forme di attività incommensurabili, rette da principi costitutivamente diversi. Sempre all'inizio del Novecento, il problema dei rapporti tra razionalità scientifica ed etica è stato affrontato dai filosofi pragmatisti, cui hanno dato risposte non univoche, pur nell'affermazione comune di una distinzione di fondo tra i due campi dell'attività umana. Secondo Peirce la scienza e la morale fanno parte di due distinti “universi del discorso”: la scienza studia i fenomeni naturali, la morale indica i fini che siamo disposti ad accettare come regole della nostra condotta. William James sostiene, fin nel saggio del 1884, Il dilemma del determinismo, che la scelta fra determinismo e indeterminismo non è di carattere scientifico; ci sono ragioni valide per sostenere l’una o l’altra concezione del mondo naturale. Inoltre, egli ritiene che l'alternativa determinismo/indeterminismo non costituisca un problema di scienza, ma di metafisica, ossia di visione del mondo. Ora, fra le due opzioni noi scegliamo quella che è più compatibile con una concezione filosofica fondata sulla libertà e sul pluralismo; una concezione che sostiene una visione positiva, ottimistica della vita, perchè «la vita merita di essere vissuta, qualunque cosa porti con sé». Ora, il determinismo, negando la libertà e affermando l’esistenza ineliminabile del male, offre un'immagine pessimistica della vita. Il bene e il male, dichiara James, sono i due poli di una tensione permanente della vita umana, e la legge morale si esprime nella volontà di procurare il maggior bene possibile. In conclusione, la scienza si fonda su fatti, su teorie verificabili; la morale su credenze che di per sè non traggono la loro validità da una verifica, anche se sono più o meno compatibili con la verità scientifica. Nel saggio Valore morale delle scienze naturali John Dewey dichiara che la morale ha propri metodi d’indagine e un campo circoscritto dell’e- Edgar Morin: abitare eticamente la natura sperienza entro cui i suoi metodi sono fecondamente usati. Egli rifiuta l’assolutezza dei valori etici; tutti sono «mezzi per l’arricchimento delle attività della vita». L’etica, come la scienza, è fondata sull’esperienza; il suo campo d’azione non si ferma al di qua della conoscenza (egli non è un intuizionista nè un utilitarista), né è al di fuori della razionalità. Non c’è una separazione tra fatti e valori, tra mezzi e fini; c’è, sì, una distinzione tra “è” e “deve”, ma ciò non esclude delle forme argomentabili nell’etica come nella scienza. Nei giudizi etici e in quelli scientifici c’è un medesimo procedimento logico: entrambi sono espressi in proposizioni generali e perciò controllabili, sia pure con procedure metodologiche diverse. Karl Jaspers ha dedicato saggi e capitoli di numerose opere ai rapporti fra scienza e morale. L’uomo, afferma nell'opera Psicopatologia generale del 1913, «è la possibilità aperta, incompleta e mai completabile. Perciò egli è sempre anche più ed altro di quanto ha realizzato di sé». La scienza produce risultati «irresistibilmente e universalmente validi», e per raggiungerli la scienza deve oggettivare il mondo, facendone qualcosa di nettamente distinto dal soggetto. La scienza vuole raggiungere l'esattezza; è la sua forza ma anche il suo limite, perché essa risulta «limitata a una sfera determinata del conoscibile», ossia alla sfera del mondo oggettivo. La scienza, dunque, ci fornisce sì conoscenze esatte ma non risponde al problema dell’esistenza umana. «La verità, afferma Jaspers, è qualcosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica», e solo la filosofia è in grado di fornire una risposta persuasiva. Edmund Husserl nell'ultima sua opera, rimasta incompiuta, La crisi delle scienze europee, fa datare la crisi della razionalità scientifica con la stessa nascita della scienza moderna, ossia con Galileo. Lo scienziato pisano ha segnato una svolta nella storia del pensiero, ma in una direzione che ha allontanato la scienza dall'uomo, perchè ha operato una matematizzazione della natura (il meccanicismo) sovrapponendo un mondo di essenze ideali al mondo dei fenomeni osservati. Così, se la scienza ha permesso all'uomo di enunciare leggi esatte, lo ha però condotto a una rottura con il mondo della vita, che è fluido, mobile, e perciò non si lascia imbrigliare in categorie di carattere quantitativo. Secondo Husserl, la scienza moderna è pertanto 41 n.16 / 2006 caratterizzata da questa profonda, incolmabile scissione tra ragione e vita. Da tale situazione si può uscire, facendo ricorso ad una nuova scienza, la fenomenologia, l'unica capace di darci un'autentica fondazione del sapere, in primo luogo delle scienze che ne costituiscono il tessuto connettivo. In acuni scritti brevi egli ribadisce il valore della razionalità scientifica, e si pone la domanda se la scienza renda felici gli uomini. Una domanda che appare retorica, perché una scienza che ha perso il telos originario non può rendere gli uomini “teoreticamente felici”. Occorre, allora, che la scienza rinunci all’illusione di un’autofondazione, e sia restituita alla filosofia, ossia alla fenomenologia. Fra gli scienziati che si sono soffermati sui rapporti tra razionalità scientifica e etica, ricordiamo Henri Poincaré, uno dei maggiori matematici ed epistemologi tra Otto e Novecento, teorico del convenzionalismo, e Albert Einstein. Poincaré ha pubblicato un acuto saggio su Scienza e morale ove respinge sia l’idea che la morale abbia (o debba avere) un fondamento naturale o metafisico, sia la credenza che la scienza possa diventare una “scuola di immoralità”, temevano alcuni critici cattolici perchè ci fornirebbe una conoscenza integralmente razionale del mondo, togliendo sempre più spazio al mistero. Secondo Poincaré la morale non è fondata su alcun valore assoluto, sia esso di carattere religioso o laico (come la patria, l’altruismo, e così via). La scienza non può nè creare nè distruggere la morale, perchè la morale è fondata sul sentimento. Ma allora, non c’è alcun rapporto tra razionalità scientifica e morale? C’è, ma indiretto, nel senso che la scienza ci fa “vedere”, o intravedere che al fondo della realtà c’è un’armonia determinata dalle leggi razionali che la sorreggono, e questa armonia è all’origine dell’amore per la verità che anima lo scienziato e il moralista. Infine, Poincaré sottolinea che sentimenti morali presiedono alla stessa pratica scientifica, e ciò in particolare ora, quando la scienza è diventata un’opera collettiva, e pertanto richiede una cooperazione e solidarietà fra tutti coloro che partecipano all’impresa scientifica, consapevoli di lavorare per il bene dell’umanità. In alcuni brevi scritti Albert Einstein ha preso una posizione sui rapporti tra scienza e morale. La scienza, afferma, ci fa conoscere i fatti, i rapporti che intercorrono tra loro. A tale proposito, egli accetta pienamente la cosiddetta “regola di 42 Hume”, secondo cui la ragione non ha competenza o giurisdizione sui fini e sui valori dell'azione. Ora, afferma Einstein, se «il significato dei fini ultimi» è precluso alla razionalità scientifica, tali fini però esistono; essi sono accertabili empiricamente anche se non hanno alcun fondamento razionale, perchè «nascono non da una dimostrazione ma da una rivelazione». Così, se è vero che le due caratteristiche fondamentali delle proposizioni scientifiche sono che esse sono o vere o false, e che i concetti che usa non esprimono emozioni, ciò non significa che il pensiero logico sia estraneo all’etica. La scienza non produce istanze etiche, né l’etica istanze scientifiche, però la logica consente all’etica di esprimere in termini coerenti le sue proposizioni. In conclusione, una volta scelto un assioma etico (una proposizione etica fondamentale), una scelta che è convenzionale, la logica ci consente di trarre tutte le conseguenze possibili. Dunque, “gli assiomi etici vengono scoperti e verificati in modo non molto diverso dagli assiomi della scienza”. Tutte queste posizioni sui rapporti tra scienza ed etica sono oggi in larga misura obsolete di fronte alle nuove sfide etiche poste dagli sviluppi odierni della scienza. Esse hanno avuto un'indubbia importanza storica nel periodo in cui occorreva difendere la razionalità scientifica senza subordinarla a obiettivi e fini estranei come potevano essere considerate posizioni etiche sostenute da Stati o istituzioni come le chiese. Nell'epoca moderna è emersa la scienza, che si è conquistata un proprio spazio, prima, e uno stabile insediamento nella società, poi, attraverso prolungate lotte, e soprattutto attraverso i risultati che ha ottenuto nell'interpretazione dei fenomeni naturali. Inoltre, questa difesa di una separatezza fra scienza ed etica è stata parte integrante di un laicismo che rivendicava una propria autonomia e valore. C'è, al fondo, l'acquisizione di un aspetto importante della morale kantiana, la quale, separando i valori morali dalla religione e dalla metafisica, è stata accolta e fatta propria da quel laicismo che contro la morale “metafisica” (cattolica) combatté una notevole battaglia. Non intendiamo, ora, esaminare l'opera di Morin, Etica, ma sottolineare la conclusione cui giunge dopo un'analisi che si snoda attraverso vari aspetti del problema etico, sia nella cultura sia nella vita Mario Quaranta attuale. Alla fine egli si richiama esplicitamente ai primi filosofi. Morin non è isolato in questa proposta, varie costellazioni teoriche della filosofia e della scienza contemporanee hanno proposto di interrogare i primi filosofi: da Husserl a Heidegger, da Popper a Schrödinger a Heisenberg, il riferimento attualizzante a quei filosofi è ritenuto essenziale (si veda il libro di Giuseppe Gembillo, La filosofia greca nel Novecento, Messina 2001). Essi sono stati i primi ad affrontare il problema della physis, delinenado una visione olistica della natura entro cui si colloca la vita dell'uomo. Anche in Morin ci sono frequenti richiami a quei primi pensatori; egli stesso afferma nelle prime pagine di Natura della natura che «l'oggetto principale di questo primo volume è la physis», per poi subito precisare che «la physis non è né uno zoccolo, né uno strato, né un sostegno. La physis è comune all'universo fisico, alla vita, all'uomo», come appunto sostennero i primi filosofi. E più oltre: «L'antica materia si inaridisce e si disaggrega, mentre si produce la nuova physis, figlia del caos. Così physis, cosmo, caos non possono più essere dissociati. Sono sempre compresenti gli uni in rapporto agli altri». Ma cosa significa ritornare, oggi, ai presocratici? ce lo dice lo stesso Morin proprio alla fine dell'Etica. Quei filosofi hanno compreso che occorre andare oltre la conoscenza (ossia la scienza) e raggiungere la saggezza. «La saggezza», afferma Morin alla conclusione della sua avventura intellettuale, «non può essere concepita che come il prodotto di una dialogica tra yin e yang e tra ragione e follia. […] Non è neppure il ‘giusto mezzo’ di Aristotele, ma il dialogo ad anello dei contrari. La saggezza deve suscitare un'arte della vita. Questa, nelle condizioni attuali, chiede una riforma della vita». Dunque, l'alleanza fra epistemolgia ed etica approda a una concezione della natura la quale può, per così dire, “reggere” al confronto con le grandi sfide dell'impresa scientifica. Quest'etica non indica, come quelle tradizionali, solo le regole delle nostre azioni (individuali e collettive), ma altresì (e forse, soprattutto) la nostra condotta verso la natura. È un'etica che indica le ragioni e le vie di una riforma della nostra vita, la condizione perché gli ostacoli, che sono enormi, sulla via della salvezza (nostra e della Terra in cui viviamo) siano superati. In altri termini, l'etica nell'era della globalizzazione deve indicare le vie per abitare eticamente la Terra; una Edgar Morin: abitare eticamente la natura condizione, questa, per assicurare la continuità della specie homo sapiens. Indicazioni Bibliografiche Abbagnano Nicola, Dizionario di filosofia, Utet, Torino 1998. Boutroux Emile, Problemi di morale e di educazione, trad. di Santino Caramella, Vallecchi, Firenze 1921. Ceruti Mauro, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano 1985. Dewey John, Rifare la filosofia, pref. di Armando Massarenti, trad. di Silvie Coyaud, Donzelli editore, Roma 1998. Einstein Albert, Opere scelte, a cura di Enrico Bellone, Boringhieri, Torino 1988. Geymonat Ludovico, Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano 1977. Husserl Edmund, L’idea di Europa, a cura di Corrado Sinigaglia, Raffaello Cortina, Milano 1999. James William, La volontà di credere, Libreria Editrice Milanese, Milano 1912. Jaspers Karl, La bomba atomica e il declino dell’uomo, trad. di Luigi Quattrocchi, il Saggiatore, Milano 1960. Morin Edgar - Anne Brigitte Kern, Terra-Patria, trad. di Susanna Lazzari, Raffaello Cortina, Milano 1994. ID., Il metodo 1. La natura della natura [1977], trad. di Gianluca Bocchi (Parte prima) e Alessandro Serra (Parte seconda e terza), Raffaello Cortina, Milano 2001. ID., Il metodo 6. Etica, trad. di Susanna Lazzari, Raffaello Cortina, Milano 2005. Peirce Charles, Come rendere chiare le nostre idee [1878], Massimo A. Bonfantini (a cura di), Peirce, Opere, Bompiani, Milano 2003. Poincaré Henri, Opere epistemologiche. Ultimi pensieri, a cura di Giovanni Boniolo, Piovan editore, Abano Terme 1989. Schlick Moritz, Lineamenti di filosofia della natura, in: Tra realismo e neo-positivismo, trad. di Eva Picardi, introd. di Ludovico Geymonat, il Mulino, Bologna 1974. Windelband Wilhelm, Preludi, trad. di Renza Arrighi, Bompiani, Milano 1947. 43 Ivan Pozzoni Giovanni Vailati e Mario Calderoni tra meta-etica, etica descrittiva e normativa Focus: epistemologi eretici del ’900 1 Giovanni Vailati nasce a Crema nel 1863. Di nobili natali si iscrive alla facoltà di matematica dell’università di Torino. Laureatosi in matematica, collabora nel 1891 alla “Rivista di matematica” diretta da Peano e l’anno successivo diviene assistente di Calcolo infinitesimale all’Università di Torino; nel 1899, volendo dedicarsi con massima libertà ai suoi vasti interessi culturali, abbandona la carriera universitaria e chiede di entrare nella scuola secondaria. In Toscana inizia a collaborare assiduamente al “Leonardo” e nel novembre del 1905 è nominato, su richiesta di Salvemini, membro di una Commissione reale destinata alla riforma delle scuole secondarie; nel 1908 si ammala, e trasferitosi a Roma, vi muore la sera del 14 Maggio 1909. Mario Calderoni nasce a Ferrara nel 1879; si laurea in Diritto, e, nel 1909, ottiene la libera docenza in filosofia morale all’Università di Bologna. Muore, ad Imola, a soli 35 anni. 44 1. Premessa Per affrontare un'analisi sul valore culturale del pragmatismo italiano1 è necessario orientare la nostra attenzione su campi tematici vailatiani e calderoniani considerati di minore interesse dalla storiografia moderna; solo con la fine del secolo scorso si è accentuata la tendenza a fornire una visione meno riduttiva dei nostri due pragmatisti, mediante studi sui contributi relativi ad aree come la semiotica (CAPUTO 1989, PETRILLI 1989 e AQUECI 1999), l'etica (LODIGIANI 1999), l'arte (BIANCO 1989) e le scienze sociali2, e attraverso ricerche collettive3. Intendiamo ora sottolineare aree di interesse e temi che riammettano i nostri autori nel novero dei filosofi novecenteschi, senza trascurare i contributi di Mario Calderoni, erede e continuatore della tradizione di ricerca vailatiana (POZZONI 2003). Ci sono temi e interessi caratteristici della filosofia analitica novecentesca che si mostrano centrali anche all’interno della riflessione culturale del pragmatismo italiano; Vailati ha intrattenuto ottime relazioni con filosofi come Brentano, Duhem, Mach, Peano e Russell, com’è oramai indiscutibile l’esistenza di scambi meno diretti con autori come Couturat, Frege, James, Moore. Vailati è uomo del Novecento, ed è forse l’unico autore italiano d’inizio secolo scorso, insieme all’erede Calderoni, a ricorrere in modo costante alla cultura filosofica americana. Presente nella narrazione dei nostri due autori è anche una decisa curiosità verso determinazione e analisi semantica di termini ed enunciazioni morali, orientata a coordinare meta-etica vailatiana e conclusioni naturalistiche mooriane o emotivismo ayeriano/ stevensoniano. Tentiamo ora di chiarire in che misura e in che maniera, senza errore ricostruttivo, i nostri autori siano classificabili come “analitici”4. 2. I riferimenti “analitici” in Vailati e Calderoni Molti sono i riferimenti del pragmatismo logico italiano alla nascente tradizione di ricerca analitica, e si tratta di ante-analitici di scuola tedesca (Brentano, Mach e Frege), italiana (Peano), francese (Poincaré, Couturat e Duhem) e britannica (Russell, Welby, Moore); altri sono i richiami d’interesse analitico rinvenuti dai nostri autori in scrittori meno recenti. All’interno dell’intensa attività di costoro si intersecano di continuo richiami moderni e riferimenti antichi. Gli antecedenti tedeschi della tradizione analitica novecentesca sembrano intrattenere con Vailati ampie relazioni culturali. Precursore del neo-positivismo del Wiener Ivan Pozzoni Giovanni Vailati e Mario Calderoni Kreis è Ernst Mach5, con cui Vailati tiene un fitto scambio di lettere, incentrato su discussioni inerenti la storia della scienza e la storia del metodo analitico. In una lettera del novembre 1896 Vailati sottolinea brillantemente come la diairetica aristotelica continui obiettivi e istanze analitiche della dialettica di Platone; Vailati scrive: «Ses efforts à dèterminer quelles sont les circonstances communes qui se rencontrent dans tous les cas dans lesquels une résistance donnée est vaincue par une force moindre qu’elle, me semblent parfaitement caractéristiques du processus réel de développement de la science. Il s’y montre digne disciple de son grand maître Platon qui définissait comme but de la recherche scientifique: “to see the one in the many”, en d’autres mots: constater des ressemblances, des analogies, des uniformités, des éléments constants enfin, et des invariants6». Per Vailati è un Aristotele continuatore di Platone a ricondurre la teoria delle idee a mero strumento analitico, liberandola dalla caratterizzazione metafisica e da residui di trascendenza (VAILATI 1906b, [vol.I, 368]). Oltre a sviscerare insieme a Mach l’analiticità aristotelica, è in relazione ad alcune tematiche dello studioso moravo che Vailati, attraverso la mediazione di Leibniz, sottolinea l’esistenza di un’area di contatto tra storia delle scienze e semiotica. Ciò è presente in una lettera del 1905, dove Vailati tenta di tradurre un concetto dell'opera di Mach Erkenntnis und Irrtum in chiave semantica asserendo che «votre conception de la loi comme Einschränkung der Erwartung me semble bien en harmonie avec la conception leibnitzienne des “propositions générales” comme des “négations de quelque fait ou coincidence entre deux faits”»7. Aldilà delle innumerevoli citazioni all’interno di articoli e contributi a riviste nazionali e internazionali, e aldilà delle recensioni dedicate a scritti machiani come Populär-wissenschaftliche Vorlesungen (VAILATI 1896, [vol.I, 141-143]), Erkenntnis und Irrtum (VAILATI 1905c, [vol.I, 153-156]), o altri meno rilevanti8, è ormai assodato come Vailati si sia accostato a un buon numero di materiali dello studioso austriaco9. Non c’è nessun motivo di dubitare che Mach, oltre ad avere influenzato il Wiener Kreis, sia stato in Italia saldo riferimento culturale di Vailati e Calderoni. Un altro rapporto che ha avuto una rilevante importanza per Vailati, è quello intrattenuto con Franz Brentano10; le lettere scambiate tra i due sono una trentina, e densissime di contenuti. Probante del costante accrescimento dell'interesse vailatiano verso tematiche analitiche è un’asserzione contenuta in una lettera del 1908 a Brentano: «I suoi cortesi incoraggiamenti mi hanno fatto grande piacere e mi sono di stimolo a continuare in quegli studi sui rapporti tra linguaggio e pensiero, ai quali mi sento sempre più attratto a dedicarmi, riconoscendoli sempre di maggior importanza per la vera critica della conoscenza scientifica e filosofica (VAILATI 1971, 311)». Da tale breve notazione - occultata all’interno della vastissima riflessione culturale vailatiana - si desume come Vailati si sia accostato all’istanza analitica solo successivamente alla maturazione di interessi di storia della scienza e teoria della conoscenza. La vita culturale di Vailati sembra un cammino inarrestabile sulla strada dell’elaborazione di un metodo idoneo a chiarire antecedenti teorie e ambiti di ricerca. Oltre all’indicazione di Brentano come modello rilevante della svolta analitica vailatiana, in tali lettere restano interessanti i richiami ad autori vicini a Brentano come Marty11 e von Meinong12. Vailati e Brentano riescono ad introdurre, attraverso l’intermediazione di Amato Pojero, redditizie relazioni culturali, assecondate dal trasferimento a Firenze dello studioso austriaco. Esistono molte citazioni su Brentano all’interno di articoli e contributi vailatiani a riviste e bollettini; meritevoli di nota 2 Cfr. i non recentissimi BOBBIO (1963) e SEGRE (1963). Per una recente rivisitazione dell’orientamento economico vailatiano si consulti il ricco BRUNI (2000). 3 E’ il caso di DE ZAN (2000) e del recentissimo MINAZZI (2006). Più recente ancora è il contributo di FERRARI (2006). 4 D’ora in avanti i riferimenti testuali a Calderoni saranno indicati in base a CALDERONI (1924, voll. I e II) e i riferimenti testuali a Vailati saranno indicati – a meno di avviso contrario- in base all’edizione, curata da M.Quaranta, VAILATI (1987, voll. I-II-III). 5 Per una visione mirata della riflessione culturale machiana si vedano i recenti CANTELLI e ROSSI (1995) e BLACKMORE (1992). Per uno studio sulle incidenze delle concezioni machiane sull'analitica viennese si consulti l’ottimo FERRARI (2000). 6 Cfr. VAILATI (1971, 113). E successivamente l’intento "analitico" di Aristotele è confrontato con l’intento "analitico" di Platone nell’articolo Per un’analisi pragmatistica della Nomenclatura Filosofica (VAILATI 1906, [vol.I , 73-80]). 7 Cfr. VAILATI (1971, 125). La raccolta dei documenti vailatiani curata da Lanaro nel 1971 non è molto recente; una minuziosa attività di raccolta delle lettere vailatiane è attualmente in 45 n.16 / 2006 atto a Crema sotto l’attenta direzione del Prof. M. De Zan (Centro Studi Giovanni Vailati). 8 Cfr. VAILATI (1901a, [vol.I, 148- 152]) e la Prefazione vailatiana al volume di MACH (VAILATI 1909, [vol.I, 157- 159]). 9 Cfr. RONCHETTI (1998), 259 (estratti) e 445 (biblioteca). 10 Cfr. MODENATO (1993). Per l’intera riflessione culturale brentaniana si veda l’intensa letteratura secondaria introdotta da A. Marocco e riassunta nell’interessante studio MAROCCO (1998). 11 Cfr. VAILATI (1971, 285287). Marty è considerato fondatore del neoPositivismo svizzero (SPINICCI 1991). 12 (VAILATI 1971, 305). F. D’Agostini asserisce che molti riconoscono costui «come uno dei padri del pensiero analitico» (D’AGOSTINI 1997, 228); Vailati dedica una recensione alla sua scuola in VAILATI (1905d, [vol.I, 345]). 13 Cfr. RUSSELL: «Nella mia attività filosofica vi è una svolta fondamentale: negli anni 18991900, adottai la filosofia dell'atomismo logico e il metodo di Peano nell'ambito della logica matematica. Ciò rappresentò una trasformazione tanto grande da rendere il mio lavoro precedente, a eccezione di quello puramente matematico, irrilevante rispetto a tutto ciò che feci in seguito» (1995, 46 sono l’articolo Sulla portata logica della classificazione dei fatti mentali proposta dal prof. Franz Brentano (VAILATI 1901b, [vol.II, 87-91]), che inciderà in maniera intensa sulla teoria calderoniana della volizione, e la visualizzazione diretta di un buon numero di scritti (RONCHETTI 1998, 378 - biblioteca). Nemmeno in merito a Brentano è lecito dubitare che costui, oltre ad avere influenzato direttamente Husserl e Marty e von Meinong, abbia inciso in maniera indiretta anche sul pragmatismo italiano. Per concludere l’esame delle relazioni tra Vailati e l’ante-analitica di scuola tedesca è necessario notare come esista una traccia di scambi di lettere tra Vailati e Frege; l’autore tedesco è citato insieme a Russell in numerose lettere vailatiane indirizzate all’amico Vacca. Da tutto ciò risulta in modo certo che ci sia stata una incidenza dell’ante-analitica di scuola tedesca sul pragmatismo italiano. Sul versante italiano è altrettanto incontestabile l’incidenza di un autore di fama internazionale come Peano. Gli esordi accademici vedono Vailati stretto collaboratore di costui; egli pubblica i suoi primi lavori di logica nella “Rivista di matematica” e collabora alla stesura del noto Formulario; inoltre, egli è anche membro attivo della scuola di matematica simbolica torinese (Pieri, Burali-Forti, Padoa, Vacca). La rilevanza analitica di Peano, che in scritti come Arithmetices principia nova methodo exposita e Formulario di matematica sostiene l’idea dell’analisi simbolica come unico strumento idoneo alla risoluzione delle antinomie matematiche, è riconosciuta da un analitico del calibro di Russell. Costui ammette senza riserve che simbolismo matematico e serietà metodica di Peano abbiano avuto un'indubbia ascendenza sulle sue stesse modalità di ricerca e indirettamente sulle modalità di ricerca dell’analitica britannica successiva13. Benché il debito culturale vailatiano nei confronti di Peano sia notevole, non rimane traccia di un consistente scambio di lettere tra i due autori; i riferimenti vailatiani alle relazioni con Peano e con la scuola torinese restano tuttavia immortalati nelle numerose lettere inviate a Vacca. Gli accenni a Peano e alla scuola matematica torinese sono in toto encomiastici; Vailati annovera Peano nel «numero di quelli tra i nostri migliori scienziati che rivolgono la loro attenzione a ricerche di indole filosofica»(VAILATI 1902b, [vol.I, 5]) e definisce in modo efficace il metodo simbolico della scuola torinese: «Ce n’est pas un des moindres avantages du symbolisme logique adopté par Peano et ses collaborateurs, que de rendre possible l’énonciation des prémisses fondamentales de chaque branche des mathématiques sous une forme extrêmement réduite et simplifiée, dépouillée de tout élément accessoire, et susceptible, par cela même, d’assumer les interprétations les plus variées et les plus hétérogènes (VAILATI 1907, [vol. I, 388])». Oltre che nell'ampio saggio La Logique Mathématique et sa nouvelle phase de développement dans les écrits de M.J. Peano (VAILATI 1899a, [vol.II, 172- 185]), è con il brillante articolo Pragmatismo e logica matematica (VAILATI 1906c, [vol.I, 67-72]) che attraverso un serrato confronto tra scuola torinese e tradizione di ricerca statunitense (Peirce, James) è definitivamente asserita la rilevanza internazionale di Peano. Gli estratti e i testi contenuti nella biblioteca vailatiana relativi a Peano e alla sua scuola sono innumerevoli; e ciò conferma l’incidenza dell’ante-analitica italiana sul pragmatismo italiano. Per l’influenza del convenzionalismo francese di Poincaré, Boutroux, Duhem, Couturat e Le Roy sulla riflessione vailatiana e calderoniana si mostra necessaria una breve introduzione storica. Non è corretto considerare tale tradizione di ricerca ottocentesca come un diretto antecedente culturale dell’analitica novecentesca; il convenzionalismo francese storicamente sta all’ante-analitica ottocentesca, come la cosiddetta new epistemology14 sta all’analitica novecentesca. Vailati, come successi- Ivan Pozzoni Giovanni Vailati e Mario Calderoni vamente Popper, è trait d’union tra metodo analitico e teoria/storia delle scienze d’inizio secolo scorso, in cui s'intrecciano istanze filosofiche e interessi scientifici. Con Poincaré o Duhem i contatti diretti sono o inesistenti o assai limitati (DE ZAN 2004a, 10); con Couturat l’affermazione dell’esistenza di relazioni dirette (VAILATI 1971, 193) resiste all’irrintracciabilità dei correlati documenti cartacei. Più che diretta la conoscenza vailatiana dei francesi è di seconda mano. Mentre di Poincaré il nostro autore sembra evidenziare unicamente il contributo di storico della scienza (VAILATI 1905e, [vol.I 355-358] e VAILATI 1906d, [vol.I, 359- 360]), la recensione all’articolo La théorie physique15 di Duhem e la rilettura attraverso Couturat della semantica leibniziana riavvicinano il filosofo cremasco a tematiche marcatamente analitiche. Lo strumentalismo scientifico di Poincaré scaturisce insieme all’anti-atomismo semantico duhemiano in un contestualismo scientifico e semantico molto vicino ai moderni contestualismi di Quine e Davidson; e aldilà dei discorsi sul metodo deduttivo e di una teoria convenzionalista della definizione, la riflessione leibniziana è valorizzata in relazione alla tesi della critica all’astrazione nelle costruzioni teoretiche, secondo cui sarebbe necessario tradurre enunciazioni formulate con termini astratti in enunciazioni formulate con termini concreti. Vailati scrive a tale proposito: «La lutte engagée par les nominalistes contre les universaux se présente, en un certain sens, comme un cas particulier de celle que poursuivent les pragmatistes contre l’abus des phrases qu’on construit avec eux. Le procédé qu’ils se proposent d’appliquer à ces dernières est tout à fait analogue à celui qui est préconisé par Locke et par Leibniz, lorsqu’ils conseillent de traduire toute affirmation, où on leur substitue les concrets qui leur correspondent16». Da Leibniz e Locke tale conveniente tendenza al “concretismo” si è trasmessa a rilevanti autori moderni come Mill, Marx e Feuerbach. Per la ricerca vailatiana il richiamo dell'epistemology ottocentesca a Leibniz è occasione di molti stimoli. Più decisiva nei confronti dell'evoluzione dell'analitica vailatiana è l'incidenza dell'ante-analitica britannica. Innanzitutto c'è un comune riferimento (caratteristico anche di James) alla tradizione rappresentata da Berkeley, Locke e Hume; oltre a formulare l'acuta teoria aletica delle “attese di sensazioni” (Berkeley) tanto cara a Calderoni, e ad estendere alle scienze morali metodi simili ai metodi matematici (Locke), tale fortunata tradizione di ricerca introduce una nuova scienza semantica17 e una innovativa nozione di analisi idonea a metter sotto esame termini ed enunciazioni della teoria della conoscenza18. Poi c'è un richiamo a temi d'interesse comune; è nota l'attenzione di Russell nei confronti dell'analisi simbolica di Peano, e altrettanto noti sono i contatti diretti intercorsi tra il logico britannico, uno dei fondatori dell'analitica moderna, e Vailati. La lettera scritta da Calderoni a Vailati nel gennaio del 1903 è sintomatica di una vicendevole incidenza tra atomismo russelliano e contestualismo calderoniano. Tra l’altro è scritto: «Qui in casa di Berenson (il critico d’arte che forse avrai sentito nominare) ho trovato Russell, cognato di lui, persona che si occupa di filosofia e specialmente di filosofia delle matematiche, e che conobbe te (e forse anche me) al Congresso di Parigi del ‘900. Te ne ricordi? Abbiamo lungamente discusso: egli conosce tutti i tuoi lavori e ti ammira moltissimo, sebbene non vada d’accordo con te, mi pare, nella questione dei postulati nella matematica. In morale è uno scettico e non ha fatto che criticarmi: ma gli ho dato il mio lavoro, dove forse capirà più chiaramente le nostre idee» (VAILATI 1971, 648). Benchè Russell riconosca senza esitazioni l’ascendenza di Peano, non sembra ammettere nei suoi scritti relazioni culturali altrettanto dirette con altri autori italia- 14); e successivamente «Fu al Congresso Internazionale di Filosofia di Parigi del 1900 che io mi resi conto dell'importanza di una riforma logica per la filosofia della matematica. Fu durante l'ascolto della discussione tra Peano di Torino e gli altri filosofi intervenuti che me ne resi conto. Prima di allora non conoscevo il suo lavoro, ma rimasi molto impressionato dal fatto che, in ogni discussione, egli dimostrava maggiore precisione e maggiore rigore logico di chiunque altro […] Furono tali opere a dare l'impeto alle mie successive teorie sui princìpi della matematica» (1995, 60). 14 Per una esauriente introduzione alla new epistemology si consultino GIORELLO (1999) D’AGOSTINI (1997) 15 Cfr. VAILATI (1905f). Non inserita nell’edizione curata da M.Quaranta, tale recensione è rinvenibile nell’ormai classico VAILATI (1911). 16 Cfr. VAILATI 1907, [vol. I, 384]). Calderoni sulle orme del maestro continua: «Un’altra sorgente di illusioni dello stesso genere ci presenta il processo di spiegazione, in quanto esso ci porta a considerare come dei “perché” sufficienti dei fatti, che si tratta di spiegare, asserzioni in cui non si fa che rienunciarli sotto altra forma […] Dei pericoli inerenti a questa tendenza non hanno mancato di occuparsi i filosofi. Tra i 47 n.16 / 2006 rimedi migliori è quello suggerito da Locke e da Leibniz, quando consigliano di tradurre ogni affermazione, in cui figurano parole «astratte», in un’affermazione equivalente dove siano loro sostituiti i concreti corrispondenti; regola di cui il pragmatismo non è in sostanza che una amplificazione e un completamento» (CALDERON 1909, [vol. II, 150]). 17 Cfr. VAILATI (1905g, [vol. I, 349-354]). Vailati descrivendo l’Ars Combinatoria di Leibniz la riconnette da lontano alla Doctrine of signs di Locke: «Di questa “Caratteristica Generale” (Ars Combinatoria di Leibniz) – il cui concetto ha qualche analogia con quello della scienza preconizzata da Locke con nome di Semiotica» (or the “Doctrine of signs”) nell’ultimo capitolo dell’Essay on Understanding- tanto l’algebra ordinaria, quanto la logica sillogistica avrebbero solo rappresentato dei rami particolari, accanto ad altre specie di rappresentazione simbolica…». 18 Cfr. CALDERONI (1909, [vol. II, 145]). Tale brano è una citazione dall’antecedente articolo di VAILATI (1905h, [vol. I, 19]). 19 PETRILLI scrive: «Vailati si mette in contatto epistolare con Welby nel 1898 dopo aver letto il libro di questa ultima Grains of sense […] i due studiosi discutono, fra l’altro, della natura della definizione, del suo contributo o meno all’avanzamento 48 ni. Due lettere indirizzate a Russell da Vailati (DE ZAN, 2004b, 44- 45) sottolineano i comuni interessi matematici e la comune tendenza anti-kantiana; il filosofo cremasco dedica l'esordio dell'articolo La più recente definizione della matematica alla validità della dottrina matematica (VAILATI 1904, [vol.I, 7- 12]) russelliana, e nella totalità dei suoi scritti continua a citarlo come serio matematico. Non c'è reale interesse verso la filosofia di Russell, allora indirizzata sulla strada della critica alla metafisica idealista bradleyiana e verso il realismo mooriano; con i Principles of Mathematics l'idea russelliana del metodo analitico è ancora allo stato embrionale. Oltretutto estratti e libri di Russell sono assai scarsi nella biblioteca vailatiana. Molto simile è la dimestichezza con Moore; non si ammette l'esistenza di relazioni culturali dirette tra Vailati e Moore, e non viene esclusa l'eventualità di scambi di lettere o di visite con Whitehead (DE ZAN 2004a, 17). Gli scritti vailatiani non sottolineano mai la collaborazione di Whitehead alla stesura dei Principles of Mathematics, né costui viene mai citato direttamente; a commento dei Principia ethica di Moore è invece dedicato l'articolo La ricerca dell’impossibile (VAILATI 1905a, [I, 59-66]). Benché ridotta ai minimi termini, sussiste senz'altro una seria conoscenza vailatiana dell'attività matematica di Russell e Whitehead e finanche quella etica di Moore. Meno ridotte si mostrano le relazioni culturali tra Vailati e Welby. Nella loro assidua discussione - come è stato rilevato19- sono toccati tutti i temi d'ambito semiotico: teoria della definizione, analisi simbolica, indeterminatezza, senza dimenticare come una incidenza non convenientemente evidenziata tra trattazione semantica della Welby e l’articolo The meaning of meaning scritto da Ogden e Richards20, che indirizzerà in modo evidente conclusioni e idee dell’emotivismo radicale ayeriano e dell’emotivismo moderato stevensoniano, avvicini Vailati alla dimensione metaetica dell'analitica moderna. Con la semioticista britannica il nostro autore evidenzia un’indiscussa inclinazione verso esiti e conclusioni del positivismo milliano, che ritiene eccellere nei confronti dei positivismi continentali. Vailati scrive: «As you have seen perhaps from my pamphlets, I am a fervent admirer of the English classical philosophical school, in particular of J.S. Mill, whom I believe to be by far the most exact and profound writer of the century on philosophical subjects. His influence on continental thought seems to me to be underrated by the actual philosophical authorities in England; they seem to me not sufficiently to realize the great advance represented by Mill's writings, vis-à-vis of those of the German metaphysicians of the school of Kant (VAILATI 1971, 136); e di nuovo valorizza la forza educativa dell'analisi, asserendo: «I believe the exposition and classification of verbal fallacies and, above all, their caricatures (in jeux de mots), to be one of most effectual pedagogic contrivances for creating the habit of perceiving the ambiguities of language (VAILATI 1971, 141)». Lo scritto What is meaning? (1903) della Welby è citato nell’interessante articolo I tropi della logica (VAILATI 1905b, [vol.I, 21]), in cui Vailati abbozza un metodo strettamente contestualistico di analisi delle metafore e dei simboli connessi ai discorsi tecnici; i due scritti Sense, meaning, and interpretation (1896) e Grains of sense (1897) sono citati nella celebre prolusione vailatiana al corso di Storia della meccanica Alcune osservazioni sulle questioni di parole nella storia della scienza e della cultura (VAILATI 1899b, [vol.II, 55 e 70]). I tre scritti della studiosa britannica sono contenuti, in un caso con dedica, nella biblioteca vailatiana. L’influenza dell’ante-analitica britannica sui due pragmatisti italiani è evidente. La storiografia meno recente ha introdotto una tendenza a sacrificare un riscontro esteso dei riferimenti culturali vailatiani all’esame minuzioso delle relazioni tra Ivan Pozzoni Giovanni Vailati e Mario Calderoni costui e la filosofia americana21 o tra costui e il positivismo continentale22. La centralità dell’esame storico delle relazioni vailatiane con Peirce, James e il positivismo, strettamente connessa in sede ricostruttiva alla discriminazione tra “leonardiani mistici” e “leonardiani analitici” mostra tutta la sua riduttività se riferita in via esclusiva ad un tentativo di classificazione dell’analiticità vailatiana e calderoniana. Qualora ci si limiti a voler differenziare i nostri da autori con i due iconoclasti fiorentini Gian Falco (Giovanni Papini) e Giuliano (Giuseppe Prezzolini), bastano i riferimenti alla cultura americana e al positivismo italiano e continentale; se si desidera invece raffrontare l’attività vailatiana all’intero orizzonte culturale d’inizio secolo scorso, tali scarni richiami si avviano a diventare ricostruttivamente inutili. Benché resti incontrovertibile l’esistenza di una stretta relazione feedback con i leonardiani Gian Falco e Giuliano e positivismi (DI GIOVANNI 2005, 35 ss), l’accostamento ad una linea ricostruttiva che, basandosi unicamente sull’oramai obsoleta dicotomia Peirce/ James, trascuri ascendenze e incidenze decisive di Mach/Brentano, di Peano, del convenzionalismo francese e della semantica britannica sulla tradizione vailatiana e calderoniana, rischia di mostrarsi estremamente riduttivo. Vailati è in stretto contatto e dibatte con tutta l’ante-analitica d’inizio secolo scorso, sia di matrice austro-tedesca (Mach e Brentano), sia di scuola italiana (Peano e circolo torinese), sia di derivazione francese (convenzionalismo), sia di radice britannica (Russell e Welby); e tale sconcertante mole di scambi culturali e comunanze di temi conduce ad annoverare Vailati tra i rari iniziatori italiani dell’analitica novecentesca. della conoscenza; inoltre della metafora, dei falsi problemi ed equivoci posti dalla scienza e dalla filosofia a causa del cattivo uso del linguaggio, e della necessità di una revisione dell’impostazione degli studi per rimediare a un errato uso linguistico» (1989, 93). In merito a Calderoni si veda il mio (POZZONI 2006a). 20 Cfr. OGDEN e RICHARDS (1975). Per costoro è conveniente introdurre una netta distinzione tra due usi comunicativi: uso simbolico atto a descrivere e uso emotivo idoneo a suscitare sentimenti e desideri. 21 3. L'etica in Vailati e Calderoni La curiosità di Vailati e Calderoni nei confronti di come si determini il senso di, (enunciazioni e discorsi morali) li accosta alle tradizioni di ricerca meta-etiche novecentesche del naturalismo mooriano e dell’emotivismo ayeriano/stevensoniano. È una ricostruzione di Calderoni a mettere in evidenza con la massima chiarezza l'audacia dei discorsi vailatiani sulla morale. L’attenzione verso la meta-etica nasce nei nostri due autori da alcune domande sulla validità e il valore della conoscenza morale. Due sono i momenti della narrazione meta-etica di Calderoni: I Postulati della Scienza Positiva ed il Diritto Penale (CALDERONI 1901, [vol.I, 33-167]), caratterizzato dall’influsso travisato dello scritto vailatiano (citato) Sulla portata logica della classificazione dei fatti mentali proposta dal prof. Franz Brentano, e Disarmonie economiche e disarmonie morali (CALDERONI 1906, [vol.I, 285-344]), modellato invece sullo scritto vailatiano La distinzione fra Conoscere e Volere (VAILATI 1905i, [vol.I, 55-58]). Nel primo testo (la tesi di laurea), un inaccorto Calderoni non mostra di metabolizzare in toto i concetti della meta-etica vailatiana; Vailati mutua due idee dalla trattazione contenuta nei brentaniani Psychologie vom empirischen Standpunkte e Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis: l'interesse nei confronti della distinzione tra stati mentali e il desiderio di connettere modelli di enunciazione a classi di stati mentali. Secondo Vailati, Brentano mette in rilievo come esistano tre ordini di stati mentali: a] idee, aleticamente neutre; b] credenze, suscettibili di verità/falsità e c] valutazioni, aleticamente neutre. Il filosofo cremasco arricchisce tale intuizione brentaniana riconducendo i tre ordini di stati mentali a tre modelli di enunciazione: a] enunciazioni analitiche («definizioni»); b] enunciazioni descrittive/osservative («affermazioni […] che esprimono il grado del nostro assenso, o del nostro dubbio») e c] enunciazioni valutative («Werth-Urtheile»). Vailati, da buon Per una esaustiva trattazione delle incidenze della filosofia statunitense su Vailati e Calderoni si vedano i due articoli HARRIS (1963) e SILVESTRI (1989). 22 Generale è la trattazione delle relazioni tra Vailati e Positivismi in DAL PRÀ (1984); una discreta ricostruzione delle relazioni tra Calderoni e i Positivismi è attribuibile a LANARO (1979). Recente è POZZONI (2006b). 23 Cfr. PONTARA (1979). L’autore considera il nichilismo etico di Vailati e Calderoni come un sotto-insieme dello scetticismo in etica. 24 Cfr. CALDERONI (1901, [vol. I, 116]). Costui riferendosi allo studio Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis di Brentano sembra introdurre un’idea meta-teorica di etica 49 n.16 / 2006 come scienza normativa hard totalmente contraria sia all’idea vailatiana di etica e sia all’idea di etica a cui il nostro autore aderirà con lo scritto Disarmonie economiche e disarmonie morali (etica normativa soft). Per una esaustiva trattazione dell’etica calderoniana si consulti POZZONI (2004). 25 Cfr. VAILATI (1905I, [vol. I, 56-57]). Vailati introduce una distinzione netta tra valenza emotiva e valenza normativa. Funzione del discorso etico sarebbe comunicare desideri e tendenze. Il riferimento finale alla descrizione di stati d’animo sembra una svista inidonea a vanificare il tenore dell’emotivismo vailatiano. 26 L’intricata frammentarietà dell’orizzonte metaetico analitico d’inizio e metà del secolo scorso è chiarita in BAGNOLI che – a chiusa della ricostruzione accurata dell’etica analitica viva in tale momento storico – asserisce: «Come si è visto, fin dalle investigazioni filosofiche di Moore i filosofi analitici si scontrano con il problema di conciliare le aspirazioni all’oggettività dei giudizi etici con la loro capacità di guidare l’azione. Tali caratteristiche sembrano suggerire soluzioni metaetiche opposte» (2002, 320). 27 Per una attuale e definitiva trattazione della is-ought question si consulti il monumentale CELANO (1994). 28 50 Cfr. HARMAN (1977). ricercatore sulle «terre di nessuno» (EINAUDI 1971, XXIII), assecondando l’intima connessione tra scienze della mente e semiotica intuisce come la teoria brentaniana della mente sia adatta a costruire una esaustiva teoria delle enunciazioni; e in tale ambito sono da sottolineare due ottime osservazioni. Da un lato, l’intuizione secondo cui l’in-aleticità (insuscettibilità a stime di verità/falsità) di idee e di valutazioni sia condizione della loro insensatezza (non subordinabilità a stime di senso); dall’altro, il fatto che la diversa modalità ontica delle tre forme enunciative non tolleri il “salto” da un modello enunciativo all’altro. Il nostro autore è strenuo sostenitore di una sorta di nichilismo etico23 caratterizzato dalla decisa adesione alla cosiddetta norma di Hume. Calderoni nei Postulati non mantiene la direzione del maestro; sembra arrivare ad esiti naturalistici e obiettivistici molto simili alle conclusioni mooriane nel momento in cui asserisca che lo «scopo della morale è di determinare i fini che l’uomo deve porsi nell’operare»24 e consideri i fini umani come verità morali. Nello scritto successivo, Disarmonie, cambiano totalmente i modi calderoniani di intendere l’etica; ed è uno scritto vailatiano del 1905 (La distinzione fra Conoscere e Volere) ad essere motore di tale cambiamento. Mentre nella riflessione antecedente Vailati si limita ad abbozzare l’idea dell’insuscettibilità delle enunciazioni morali a stime conoscitive, in tale articolo giunge ad asserire in maniera diretta l'insensatezza delle enunciazioni morali, la loro illocutorietà emotivo/sentimentale e l'insussistenza dei disaccordi morali. È sintomatico un brano vailatiano assai denso di intuizioni: «La differenza tra l’un caso [credenze] e l’altro [valutazioni] si può brevemente caratterizzare dicendo che, mentre nel primo le nostre affermazioni implicano, direttamente o indirettamente, delle previsioni su ciò che avverrà o avverrebbe se date circostanze si verificassero, nel secondo invece si esprime soltanto il nostro desiderio che date circostanze si verifichino o no, e la nostra disposizione ad agire in modo da provocarle o impedirle. Mentre per le prime ha vigore quello che i logici chiamano il principio di contraddizione - in quanto, se due persone sono di diverso parere e prevedono, l’una che avvenga, e l’altra che non avvenga, uno stesso fatto, esse non possono avere ragione ambedue -, nel secondo caso invece lo stesso non si può dire. […] Mentre infatti le prime indicano delle vie e dei mezzi a cui è possibile ricorrere per realizzare qualche fatto che non esiste ancora, le seconde si limitano a descrivere un nostro stato di coscienza o di fatto, che riconosciamo come presente. Le prime si riferiscono non a ciò che vogliamo ma a ciò che potremmo fare se volessimo»25. Il brano contiene tre idee rilevanti, che diventeranno tematiche ricorrenti nella letteratura calderoniana da Disarmonie in poi (CALDERONI 1907, [vol.II, 20-21], 1910, [vol.II, 190-191] e 1911, [vol.II, 341-342]). Per Vailati - a differenza di Moore -, a] non esistono verità morali se unicamente “attese di sensazioni” siano suscettibili di conoscenza e se unicamente credenze siano suscettibili di verificazione, e se ancora la cosiddetta norma di Peirce sia da intendere come criterio di verificazione e di senso insieme, allora le enunciazioni della morale non saranno enunciazioni strettamente sensate. Poi, sottendendo mere decisioni («choses»), b] le enunciazioni morali, come in Calderoni, hanno forza illocutoria emotivo/sentimentale; Vailati, a commento di alcuni brani della tesi di laurea calderoniana asserisce infatti «l’attribuire maggior pregio a un fine piuttostochè a un altro, il preferire, per usare la frase ormai divenuta classica del Nietzsche, una data “tavola di valori” ad un’altra, l’aderire a una concezione della vita e dei suoi scopi piuttosto che ad un’altra, non è affare di scienza o di ragionamento, o, in tutti i casi, non di sola scienza né di solo ragionamento, ma è qualche cosa che riguarda il carattere, il temperamento, i sentimen- Ivan Pozzoni Giovanni Vailati e Mario Calderoni ti, i gusti, il particolare modo di essere di ciascun uomo o di ciascun popolo. […] La propensione, infatti, o la ripugnanza, ad assumere l’utilità generale come unico criterio di giustizia non dipende tanto dal fatto di possedere o non possedere determinate cognizioni, quanto dal fatto di essere o no suscettibili di determinate preoccupazioni morali o sentimentali» (VAILATI 1902a, [vol. I, 289]). E infine v’è c] una visione della contraddizione tale da circoscriverne l’efficacia unicamente alle credenze e da non assicurare consistenza e validità ai disaccordi morali. Intuizione dell’insensatezza dei discorsi morali, riconoscimento dell’illocutorietà emotivo/sentimentale di essi e visione della contraddizione volta ad escludere l’esistenza di disaccordi morali inseriscono la riflessione culturale vailatiana nella metaetica di un considerevole settore26 del movimento analitico novecentesco. Pur in un universo variamente contraddittorio di teorie meta-etiche, l’esordiente movimento analitico novecentesco è caratterizzato da una rilettura divisionista della is-ought question27, in modo da mostrare assai radicata l’osservazione successiva di un autore come Putnam: «La scienza ci dice - o ci viene detto che la scienza ci dica - che viviamo in un universo fatto di sciami di particelle, di molecole a spirale di DNA, di calcolatori, e di cose esoteriche come buchi neri e stelle a neutroni. In un universo simile, come potremmo sperare che i nostri valori abbiano un senso o un fondamento?» (PUTNAM 1990, 142). L’iniziale comune critica anti-metafisica conduce di norma ad accettare la tesi dell’immunity from observational testing delle enunciazioni morali28, con coerente disconoscimento della sensatezza del discorso morale29. La dimestichezza con l’attività culturale della Welby avvicina il pragmatismo italiano alla corrente emotivista della meta-etica analitica novecentesca. Sulla scia del riconoscimento dell’immunity è Ayer, mediatore tra analitica britannica mooriana e conclusioni schlickiane, a difendere l’idea della derivazione emozionale di tutte le enunciazioni morali, asserendo: «La presenza del simbolo etico nella proposizione non aggiunge nulla al suo contenuto fattuale. Così, per esempio, se dico a qualcuno: “Hai agito male rubando quel denaro”, non sto dicendo nulla di più che se avessi detto semplicemente: “Hai rubato quel denaro”. Aggiungendo che questa azione è male, non faccio nessun’altra affermazione in proposito. Vengo semplicemente a mettere in evidenza la mia disapprovazione morale del fatto. È come se avessi detto “Tu hai rubato quel denaro”, con un particolare tono di ripugnanza, o lo avessi scritto con l’aggiunta speciale di alcuni punti esclamativi. Il tono di ripugnanza o i punti esclamativi non aggiungono nulla al significato letterale dell’enunciato. Servono solo a mostrare che in chi parla l’espressione dell’enunciato si accompagna a certi sentimenti»30. È ancora tale autore ad elaborare in nuce la tesi dell’inesistenza dei disaccordi morali31. Le conclusioni ayeriane sulla necessità di subordinare l’etica ai metodi delle scienze della mente e delle scienze sociali (Ayer 1961, 145) ricordano vivamente moniti e indicazioni vailatiani in merito alla convenienza di studiare i meccanismi mentali investiti della costruzione delle così dette «tavole di valori» di nietzscheiana memoria. L’emotivismo radicale di Ayer è moderato in seconda battuta dall’intervento dell’emotivismo combinazionista stevensoniano; aderendo alla tesi mooriana secondo cui all’interno dell’everyday life sarebbe assurdo sostenere l’inesistenza di concreti disaccordi morali, Stevenson formula una definizione di “disaccordo” basata sulla distinzione tra disagreement in belief e disagreement in attitude32. Per Stevenson fondamento dei disaccordi morali è innanzitutto il «disaccordo di tendenze»33. Le enunciazioni morali, come in Hare34, sono combinazioni di costituenti diversi: un elemento descrittivo e un elemento emotivo; vista l’eccellenza dell’elemento emo- L’esistenza di tale tesi analitica è riconosciuta anche in MACKIE (2001) e in WILLIAMS (1987, 165 ss). 29 Tra tutti si veda il caso del Wittgenstein iniziale. Questo autore scrive «[…] ora vedo come queste espressioni prive di senso erano tali non perché non avessi trovato l’espressione corretta, ma perché la loro mancanza di senso era la loro essenza peculiare. Perché, infatti, con esse io mi proponevo proprio di andare al di là del mondo, ossia al di là del linguaggio significante. La mia tendenza e, io ritengo, la tendenza di tutti coloro che hanno mai cercato di scrivere e parlare di etica o di religione, è stata di avventarsi contro i limiti del linguaggio» (WITTGENSTEIN 1967, 18). Per costui l’etica all’interno di un orientamento referenziale della semantica è un discorso senza senso. . . 30 Cfr. AYER (1961, 136). Il centro dell’emotivismo radicale di Ayer consiste nell’asserzione di come termini enunciazioni e discorsi etici non siano altro che comunicazioni di interiezioni cariche d’emozione. 31 Ayer scrive: «[…] Sosteniamo che in realtà non si discute mai di questioni di valore. Può essere che a prima vista quest’ultima suoni una asserzione molto paradossale. E’certo che la gente si impegna di fatto in dispute comunemente considerate relative a questioni di valore. Ma 51 n.16 / 2006 esaminando la situazione più da vicino in ogni caso del genere noi troviamo che la disputa non riguarda realmente una questione di valore, ma una questione di fatto […]» (1961, 139). 32 Per una breve storia della distinzione tra disaccordi di credenza e disaccordi di tendenza all’interno della riflessione meta-etica stevensoniana si veda innanzitutto l’accenno in STEVENSON (1959) e successivamente la riformulazione in maniera sistematica della medesima tesi nella sezione iniziale del libro di STEVENSON (1962). 33 Si consulti lo scritto stevensoniano The nature of ethical disagreement riedito in STEVENSON (1963) 34 Hare invece intende un enunciato morale come combinazione tra un neustico direttivo e un frastico descrittivo. Per una chiara definizione dei termini descrittivo-valutativi si veda lo scritto hareiano Descriptivism riedito in HUDSON (1969). 35 Cfr. STEVENSON (1962, 71). Lo stesso C.S. Nino intuisce in toto tale caratteristica dualità semantica stevensoniana delle enunciazioni morali sostenendo: «Secondo Stevenson, un giudizio morale come “questo è buono” potrebbe essere tradotto da quest’altro: io lo approvo, approvalo anche tu”. La prima parte avrebbe significato descrittivo, ossia darebbe delle infor- 52 tivo o tendenziale sull’elemento descrittivo o credenziale termini, enunciazioni e discorsi morali, a detta di Stevenson35, non saranno suscettibili di conoscenza. Stevenson, a differenza di Ayer, si avvia sul cammino dell’insensatezza senza calcare la strada dell’inesistenza dei disaccordi morali. Funzione del discorso morale è, come in Vailati, comunicare emozioni ad un destinatario, causandone una reazione emotiva36. L’idea della inconoscibilità delle enunciazioni morali, la tesi dell’inesistenza dei disaccordi morali o almeno la netta distinzione tra disaccordi di credenza e di valore, e l’attribuzione ai discorsi morali di una illocutorietà emotiva e sentimentale sono elementi atti a costituire un trait d’union evidente tra tradizione di ricerca vailatiana e un buon numero di autori del movimento analitico novecentesco. Benché all’interno di un contesto tanto frammentato come l’orizzonte meta-etico novecentesco, non riesca a consolidarsi una decisiva conformità teoretica tra riflessione vailatiana e intero movimento analitico, si assiste all’interesse di entrambe le tradizioni di ricerca verso i temi comuni della conoscenza morale, della illocutorietà e dell’esistenza dei disaccordi morali. L’esistenza di una comune curiosità meta-etica è sintomo di una certa continuità culturale tra tradizioni diverse. Vailati e Calderoni restano analitici ante litteram con riserva. Mentre è caratteristico dell’intera analitica esordiente sacrificare etica descrittiva e normativa alla valenza meta-etica dell’analisi, i due italiani «simili in questo a falciatori», asservono l’analisi meta-etica alle conclusioni scientifiche dell’etica. Precorrendo la svolta etica connessa alla crisi interna al mondo dell’analitica della concezione anti-metafisica dell’universo, i nostri due autori sia all’interno dei lavori etici calderoniani (Du rôle de l’évidence en morale (CALDERONI 1904a, [vol.I, 205206]); De l’utilité “marginale” dans les questions d’etìque (CALDERONI 1904b, [vol.I, 207-208]); Disarmonie economiche e disarmonie morali) sia nelle recensioni vailatiane a tali studi, riconoscono come l’attività dello studioso di morale non si esaurisca nell’analisi dei o sui discorsi morali. Vailati e Calderoni ammettono che al di fuori della meta-etica sussistano tre ulteriori rami della ricerca etica (meta-teoria etica; etica descrittiva; etica normativa)37. La meta-teoria etica è intesa come discorso sulle funzioni e sullo statuto dell’etica; etica descrittiva ed etica normativa sono intese come discussioni sul funzionamento effettivo e ideale di sistemi morali. La scienza etica – a detta di Calderoni38- sottende uno statuto analitico/descrittivo e normativo soft, è caratterizzata da un modello di analisi economicistica delle “choses” umane indirizzato a rendere l’insieme delle tavole dei valori individuali simile ad un immenso mercato economico e si mantiene ad una certa distanza da kantismo e utilitarismo etici. La curiosità della tradizione analitica novecentesca è invece diretta in via esclusiva verso meta-etica e meta-teoria etica, e sino alla Rehabilitierung der Praktischen Philosophie analitica della metà del secolo scorso (Nozick; Baier; Gauthier; Nagel; costruttivismo korsgaardiano) v’è una totale dimenticanza di etica descrittiva e normativa all’interno del movimento39. Precorrendo interessi meta-teorici e meta-etici novecenteschi e mantenendo invariati interessi sette-ottocenteschi verso l'etica descrittiva (illuminismi e positivismi) e normativa (kantismo e utilitarismi), Vailati rivela una narrazione etica caratterizzata da autonomia ed innovazione. Più vicina alle conclusioni della Rehabilitierung der Praktischen Philosophie di tarda analitica americana e teoria critica tedesca, l’analisi etica del pragmatismo italiano si mostra come un moderato correttivo nei confronti di alcuni cliché etici del movimento analitico meno recente. Ivan Pozzoni Giovanni Vailati e Mario Calderoni 4. Alcune conclusioni Da una ricostruzione della collocazione dei nostri due autori nella storia della cultura moderna discendono i motivi della scarsa “fortuna” della tradizione vailatiana e calderoniana all'interno dell'orizzonte culturale italiano novecentesco. Tale scarsa fortuna ha come cause l'estremo inserimento vailatiano nel contesto della comunità internazionale di studiosi d'inizio secolo scorso, e l'estrinsecazione di interessi tanto moderni da non essere nemmeno intesi dall'arretrato e ristretto circolo accademico nazionale. Guardare fuori e avanti è una dimensione caratteristica della riflessione culturale del pragmatismo italiano, non comune ad altre tradizioni di ricerca ad essa coeve. Più che indirizzarsi all'estero o al futuro, la filosofia italiana d'inizio Novecento tende a chiudersi entro i confini nazionali (nazionalismo filosofico) o a ricercare in maniera scarsamente innovativa modelli anteriori e inattuali (conservatorismo filosofico). Benché si riferisca alle interessanti meditazioni di Rosmini e Gioberti, il trascendentalismo cattolico di Mamiani, Conte e Alfani, ne vanifica la rilevanza teoretica, abbandonandosi a sterili discussioni sull'arte oratoria e a inutili sermoni moralistici (GARIN 1966, [vol. I, 1-2]). Il positivismo italiano, con Tarozzi, Troilo e Marchesini, tende a moderare naturalismo e meccanicismo deterministici ardigoiani mediante l'introduzione di un accorto umanesimo o riducendo tale dottrina a mero metodo scientifico. L'idealismo meridionale di Vera, De Sanctis, Spaventa e le posizioni di altri autori meno rilevanti (Omodeo, Fazio Allmayer, Orestano, Guastella, etc.) sembra totalmente rivolto a conciliare storicismo vichiano e idealismo tedesco; Croce e Gentile - i cui meriti internazionali devono rimanere indimenticati -, nei loro neo-idealismi restano ancorati ad interessi e autori dell'idealismo meridionale40. Le tradizioni di ricerca che rinunziano a nazionalismo e conservazione e che si mostrano radicalmente innovative come il pragmatismo, l'irrazionalismo di Michelstaedter, l'idealismo marxiano di Labriola o il modernismo, accolgono scarsi consensi all'interno dell'accademia italiana e saranno riconsiderate unicamente dalla metà del secolo scorso in avanti. Il pragmatismo italiano è invece orientato verso l'Europa e oltre. Guarda fuori, creando e consolidando strette relazioni culturali con tradizioni di ricerca di matrice austro-tedesca (Mach e Brentano), francese (convenzionalismo), britannica (Russell e Welby) e americana (Peirce e James). Guarda avanti, affrontando problemi nuovi e introducendo soluzioni caratteristiche del successivo movimento analitico: Post-analytic Philosophy, new epistemology, ermeneutica, contestualismo americano e teoria critica tedesca. In conclusione, la sensibilità verso tematiche e interessi assai recenti rende Vailati e Calderoni uomini del Novecento e autori molto vicini al movimento analitico novecentesco; necessità di un accostamento multi-culturale alle domande dell'uomo, ricerca di modalità retoriche vicine allo stile delle scienze, riconoscimento della riflessività del discorso filosofico, intuizione della valenza clinica dell'analisi, idea della inaleticità delle enunciazioni morali e dell'inesistenza dei disaccordi morali, attribuzione di valore emotivo ai discorsi morali, si mostrano tutte caratteristiche atte ad includere Vailati e Calderoni come iniziatori della successiva tradizione di ricerca analitica novecentesca. Riconoscimento della mera introduttività della tecnica analitica, ricorso alla storia delle scienze o al raffronto tra metodi diversi, attenzione verso contesto storico e tradizione, e curiosità verso etica descrittiva e normativa sono invece caratteristiche atte ad inserirli a pieno titolo nella rilettura critica introdotta dal movimento recente contro idee e nozioni dell'analitica esordiente. Poco fortunata in Italia, la tradi- mazioni sull’atteggiamento di chi parla, mentre la seconda parte (“approvalo anche tu”) avrebbe un significato emotivo, ossia sarebbe volta a suscitare un certo atteggiamento nell’interlocutore» (NINO 1996, 321-22). 36 Cfr. STEVENSON scrive: «[l’uso dei termini e delle enunciazioni etici innanzitutto] …is not to indicate facts, but to create an influence. Instead of merely describing people’s interests, they change or intensify them […]» (1959, 268). 37 La distinzione in base all'uso tra etica normativa, etica descrittiva e meta-etica è situazione oramai consolidata all'interno della dottrina moderna. Si veda NINO (1996, 311-312). Problema centrale della meta-etica è – secondo Nino- il dilemma della fondazione razionale dei valori etici attraverso analisi semantiche dei termini e delle enunciazioni etiche. Problema essenziale dell’etica normativa sarebbe invece il dilemma dell’indicazione di criteri idonei a valutare norme e istituzioni. Problema centrale dell’etica descrittiva infine sarebbe il dilemma della descrizione di valutazioni individuali all’interno di società in un dato momento storico. Problematica – successivamente alle critiche rivolte da Quine alla distinzione analitico/sintetico inizia ad essere intesa la distinzione tra etica normativa ed etica descrittiva. Per una esaustiva ricostruzione 53 n.16 / 2006 della situazione si veda WHITE (1981, sez. I). 38 Cfr. CALDERONI (1906, [vol.I, 292]). La ricostruzione dell'etica calderoniana come una scienza etica analitico/ descrittiva e moderatamente normativa è comune a MORI (1979, 368 e 371). 39 Per determinate motivazioni storiche considerate in D’AGOSTINI (1995, 188) una simile svolta etica si manifesta nello stesso momento in diverse tradizioni di ricerca (Ermeneutica; Teoria critica; Post-strutturalismo e Post-modernismo). 40 La relazione tra idealismo meridionale ottocentesco e neo-idealismo novecentesco – secondo Garin - è biunivoca. Come l’idealismo italiano ottocentesco contribuisce, con l’inizio del secolo successivo, alla fondazione del neo-idealismo italiano di Croce e di Gentile; così il neoidealismo contribuisce alla riconsiderazione culturale delle “dimenticate” riflessioni filosofiche dell’idealismo italiano ottocentesco. Garin scrive: «[…] se De Sanctis e Spaventa furono fattori importantissimi della formazione di Croce e di Gentile, essi figurano tra le componenti più notevoli della coscienza italiana del ‘900 attraverso il ripensamento e la diffusione che se ne ebbero sotto il segno, appunto, del Croce e del Gentile […]» (1966, [vol.I, 18]). 54 zione del pragmatismo italiano assume ruolo di trait d'union, oltre che tra positivismi e neo-positivismo, tra cultura americana e ante-analitica ottocentesche, in una sorta di contaminazione tra tradizioni diverse continuata nel secolo scorso con l'International Encyclopaedia of Unified Science tra strumentalismo americano (Dewey) e analitica (Wiener Kreis) o con la successiva riflessione rortyiana tra neostrumentalismo americano (Goodman, Putnam) e analitica contestualista (Quine, Davidson, Sellars). Vailati, come Morris o Rorty, si presenta, dunque, come un abile e innovativo moderatore della tradizione analitica novecentesca. 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A dir la verità, la risicata affermazione della coalizione sorta dalle ceneri della Grande Alleanza Democratica (GAD), ben lungi dal potersi addebitare al gap non colmato rispetto al dinamismo mediatico di Berlusconi, per un verso ha immediatamente problematizzato i successi nelle realtà precedentemente amministrate dalla Casa delle Libertà (CdL) (Piemonte, Liguria, Lazio, Puglia, Calabria, Abruzzo), d’altro canto, sopite le polemiche strumentali, impone di rileggere gli avvenimenti con superiore distacco e obiettività. Il caso della Puglia si presenta emblematico soprattutto perché maturato avendo alle spalle il travagliato esperimento da parte dello schieramento infine risultato vincente di convocare elezioni primarie aperte alla base elettorale per la scelta del candidato Presidente, e perché il risultato scaturito il 16 gennaio 2005 ha evidenziato segnali di continuità, ma altresì di rimarchevole frattura, nel bene e nel male, con l’atmosfera condensata nella cosiddetta “primavera barese”, trasformata, vedremo nel paragrafo terzo quanto a torto oppure se a ragione, in “primavera pugliese”. Insomma, intendiamo con il presente contributo concorrere a (ri)definire i tratti maggiormente interessanti e innovativi della mobilitazione registrata in occasione delle primarie pugliesi, anticipazione di quelle poi svoltesi per indicare in Prodi il legittimato candidato alla Presidenza del Consiglio, inserendone l’evento all’interno di un ciclo elettorale favorevole al centrosinistra sin dal 2004 e valutando se e in che misura l’effetto mobilitante si sia riverberato sugli orientamenti elettorali dei pugliesi nel 2005 e nel 2006. 2. La crisi del metodo negoziale tra partiti Il crollo della cosiddetta “Prima Repubblica”, Repubblica dei partiti (Scoppola 1997), e le trasformazioni intervenute in questi ultimi anni in un quadro politico 58 Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia che sembra suggerire un’infinita e incompiuta transizione, ha reso centrale il tema della selezione dei candidati alle cariche elettive. In particolare, il sistema uninominale maggioritario di collegio impiegato nelle elezioni parlamentari del 1994, 1996 e 2001, con il suo corollario di quota proporzionale da ripartirsi mediante voto attribuito a liste bloccate con soglia di sbarramento del 4% (ma solo per la Camera), diventata poi la base per la riforma approvata alla vigilia delle elezioni del 2006, ha evidenziato che la selezione dei candidati da sottoporre al giudizio degli elettori transita, alternativamente, per le trattative dei vertici partitici e le lunghe negoziazioni interne alle singole forze, con un coinvolgimento della base militante, tra l’altro in perniciosa contrazione, pressoché nullo. Detto altrimenti, l’annosa crisi del metodo negoziale tra partiti oggi inacidisce la propria portata rispetto al passato non soltanto per il loro più defilato ruolo, per la loro debilitata credibilità, ma perché, laddove vi è una carica per la quale il corpo elettorale è chiamato a pronunciarsi direttamente, crescono le aspettative da parte dello stesso di poter far convergere la propria indicazione su un candidato di valore. In tale ottica, una sola soluzione appare dotata della virtù di arrestare l’accartocciamento in scelte debolmente in sintonia quanto meno con la base elettorale di riferimento e sorde a ogni istanza di apertura verso nuovi settori della società civile, al fine di infrangere l’avvitamento intorno a pratiche di stanca perpetuazione di equilibri oligarchici, di classi politiche aliene dall’idea stessa di una salutare circolazione: quella di allargare il gruppo di persone chiamate a scegliere il candidato (selectorate),chiamando in causa la base degli iscritti o addirittura tutti i simpatizzanti, stabilendo preliminarmente regole che disciplinino tale accesso al voto (Giaffreda 2006, 135). Senza lasciarsi tentare da frettolose comparazioni con l’esperienza degli Stati Uniti d’America, dove, come è noto, risulta più efficacemente oliato il meccanismo della selezione mediante il coinvolgimento della base dei candidati alle principali cariche elettive, non appaia un appiattimento su grammatiche ingegneristicamente soffocatrici del dibattito più squisitamente politico l’accurato disciplinamento di un momento di consultazione quale le primarie si propongono di essere, giacché, dall’individuazione dei seggi alle modalità per rendere pubblica la propria candidatura, tutto può concorrere a favorire scelte in un senso o nell’altro, come del resto efficacemente evidenziato, per l’esperimento pugliese, da alcuni studi (Milella 2005; Gangemi-Gelli 2006). Va senza indugio rifuggita l’illusione che le primarie, elevate a trait d’union tra le aspettative partecipative dei girotondi, delle liste civiche, dei movimenti dei consumatori, possano esaurire le esigenze di rinnovamento del sistema politico che in tutte le proprie componenti raccoglie sentimenti di sfiducia pericolosamente diffusi, mettendo a repentaglio l’accettazione dei paradigmi liberal-democratici. Come infatti rimarcato da Giuseppe Cotturri, l’entusiasmo, pur comprensibile, per un pionieristico esperimento mobilitante come quello delle primarie, manifesta “scontentezza e effervescenze diffuse” (Cotturri 2005b, 28), a cui non si offre una risposta che scuota il primato dei poteri delegati, ma semplicemente una chance d’intervento sulla costituzione di rappresentanze istituzionali. Evocando una forma più alta di democrazia meramente sul piano rappresentativo, si rischia di rimanere impigliati nell’equivoco appostato dietro l’obiettivo di rendere efficacemente complementari poteri popolari diretti e sistemi di rappresentanza, mentre il malcontento registrato da tutte le rilevazioni indichereb- 59 n.16 / 2006 be piuttosto che il tessuto connettivo per rigenerarli deve essere fornito da un’altra componente di sistema, che le esperienze di cittadinanza attiva avrebbero reso sufficientemente matura: la democrazia partecipativa, specialmente in ambito locale, dove timidi esperimenti di stampo consultivo hanno ormai fatto il proprio tempo (Cotturri 2005b, 28, 38). Se lo schema che contempla forme compiute di democrazia partecipativa può forse suscitare le perplessità di coloro i quali, sebbene rimangano distanti da scivolamenti oligarchici, intravedono nella limitata qualificazione dell’opinione pubblica ad affrontare problemi tecnologici complessi (inadeguatezza della competenza civico-deliberativa; Privitera 2001, 155) e nella ridotta disponibilità di tempo del cittadino medio una delle ragioni portanti dell’idea stessa di rappresentanza elettorale, non possono dimenticarsi gli sforzi compiuti da chi nelle primarie ravvisa almeno una leva per incidere sulle pretese della classe politica, sul suo arroccamento attorno a posizioni di potere persino in spregio ai risultati concretamente conseguiti dal partito o dallo schieramento, costringendola a un confronto più serrato con le idee e i sentimenti della base. Entro tale cornice si inserisce lo schema di primarie elaborato da Gianfranco Pasquino già all’indomani della sconfitta patita dall’Ulivo nel 2001, per accelerare un processo di ravvivamento e rinnovamento programmatico in previsione delle scadenze elettorali per cariche monocratiche amministrative a vario livello (Pasquino 2002b). Esperienza di mobilitazione concepita dall’accademico la cui sorgente viene individuata nell’esplicita richiesta in tal senso di un numero di firmatari ragionevolmente congruo (un centinaio), e che, sulla scorta di quanto verificato nel corso degli anni al di là dell’Atlantico, svolge almeno quattro funzioni: a) una funzione esplicita, costitutiva, consistente nello scegliere il candidato alla carica per la quale si è reso possibile, utile e necessario consentire all’elettorato di esprimersi direttamente e decisivamente; b) una funzione di sollecitazione e mobilitazione dell’elettorato, in special modo se politicamente attento e consapevole; c) una funzione consistente nel favorire la critica all’incumbent, al titolare della carica, non risultando sufficienti, non da ultimo perché prive di spettacolarità, quelle mosse nelle sedi congressual-parlamentari. Dopotutto, qualora non sia previsto esplicitamente un limite al numero dei mandati, la circolazione delle leadership, e soprattutto la creazione di precondizioni che garantiscano la qualità delle leadership stesse, non può prescindere dal conferimento agli elettori del potere di scegliere non soltanto rappresentanti e governanti, ma anche coloro che ambiscono a diventare rappresentanti e governanti, quest’ultimo costituendo un interrogativo democraticamente altrettanto rilevante di quello condensato nel classico “quis custodiat custodes?” (Pasquino 2006, 24); d) una funzione di proposizione programmatica, la maggior parte delle volte graduale, di temi e soluzioni, offrendo la possibilità di incominciare a valutare e sondare le reazioni degli elettori, non soltanto quelli del proprio schieramento, con il fondamentale corollario di scremare le candidature, eliminando chi, ancorché apprezzabile e moralmente probo, si dimostri ricettore di un consenso eccessivamente ristretto già all’interno dei sostenitori di un partito o di una coalizione. L’electability si erge pertanto immediatamente a fattore discriminante, a condizione necessaria per poter entrare nella fase della campagna elettorale nutrendo ragionevoli possibilità di vittoria (Pasquino 2004). 60 Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia 3. L’intempestività della Puglia Per inquadrare l’onda lunga nella quale si inserisce l’esito delle primarie e delle elezioni regionali è necessario compiere il proverbiale passo indietro, quanto meno cercando di intuire se i più rilevanti risultati maturati nella tornata amministrativa del 2004, contestuale alle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, costituiscano la traduzione elettorale delle intenzioni di rinnovamento innescate dalla cosiddetta “primavera pugliese”. Uno sguardo alla storia politico-sociale recente della Puglia conferma effettivamente la sua natura intempestiva, l’inclinazione quasi antropologica ad arrivare tardi sulla palla (Romano 2005, 218). Si pensi che il suo capoluogo, Bari, ha saltato a pie’ pari la stagione aurea dei “nuovi Sindaci”, vivendo una breve e intensa parentesi di fermento civico solamente nel 2004, quando il rinnovamento dell’amministrazione comunale è coinciso con l’impossibilità per il primo cittadino uscente di ricandidarsi e con la convergenza dell’opposizione di centrosinistra su di un candidato sostanzialmente imposto ai partiti dalla società civile, anche attraverso il decisivo ricorso a una Convenzione che nel noto magistrato locale Michele Emiliano ha scrutato i lineamenti di un personaggio in grado di dialogare tanto con la borghesia quanto con i ceti popolari delle periferie più degradate. Tale duttilità, nemica della chiusura nella classica turris eburnea, ha di primo acchito stimolato, non aiutato a rifuggire, le perplessità di chi lo vedeva in odore di antipolitica e con un’immagine pubblica esplicitamente ritagliata sul contorno di uomo d’ordine, di Sindaco-sceriffo alla Rudolph Giuliani1, che nell’incarico amministrativo avrebbe senz’altro saputo trasferire gli apprezzamenti collezionati in ambito professionale nella lotta contro la criminalità organizzata (Cozzi 2005, 74-76). A difesa di Emiliano, del suo sforzo di diventare orecchio sensibile della città, malgrado alcune riserve non pienamente chiarite sulla stampa locale, si schierarono immediatamente i principali rappresentati della società civile, preoccupati piuttosto che i partiti potessero e volessero bloccarne l’azione, rivendicando quote di potere variamente distribuite, incrinando di conseguenza quel rapporto con la gente lentamente edificato sul dialogo, sconosciuto alla pratica politica della nuova sinistra al punto da essere impropriamente confuso per populismo (Cassano 2004). Bari aveva mancato il turno di rinnovamento rintracciabile nella rinascita di molte città del Mezzogiorno, non certamente per aver scelto, in controtendenza con il resto d’Italia, un primo cittadino espressione dello schieramento di centrodestra, bensì per aver sonnecchiato anche di fronte allo sfaldamento del sistema di potere che nel contesto urbano riproduceva gli equilibri della Prima Repubblica, e per aver poi riposto un po’ acriticamente fiducia in Di Cagno Abbrescia, figura estranea alla vita politica, ma imprenditore sollecitato a candidarsi dal “Ministro dell’Armonia” Tatarella, missino di lungo corso ritrovatosi a ereditare, gestendolo sapientemente anche per i ritardi organizzativi di Forza Italia sul territorio, il patrimonio elettorale della defunta DC e degli altri partiti conservatori. Laddove il 1993 aveva rappresentato per quasi tutte le metropoli italiane l’occasione per porre fine a esperienze amministrative edificate sulla corruzione, sulla collusione con la criminalità organizzata, sulla rottura della formula penta o quadripartitica, a Bari, anche a causa di un più ovattato susseguirsi di scandali, il 1 Convinzione stata rafforzata dall’essere stato proposto come candidato anche da Alleanza Nazionale. 61 n.16 / 2006 2 Nel decennale della scomparsa di Pietro Leonida Laforgia, anche il Sindaco Michele Emiliano indicherà nell’esperienza di quell’avvocato socialista sui generis, che aveva immaginato di traghettare la “Bari da bere” verso un nuovo modello di città, il primo vagito della primavera che egli tenta di incarnare (Emiliano 2005). 62 Consiglio comunale eletto nel 1990 si trascinerà convulsamente fino alla scadenza naturale del mandato, esercitandosi in rapsodici tentativi di apertura al PCIPDS e ai Verdi, resi possibili soprattutto per gli sforzi dell’ala sinistra della Democrazia Cristiana. Nel 1995, dunque, in una città che sin dall’anno prima ha potuto reinterpretare la propria anima conservatrice e pragmatica senza le ormai fuorvianti etichette di partiti (specialmente quelli laici) assai distanti dall’originario patrimonio valoriale, le elezioni comunali giungono in un clima di “normalità”, senza aver alle spalle particolari richieste popolari, ma quasi come se si trattasse di conferire nuova morfologia politica a quanto acceduto nei mesi precedenti. Stabilizzando, insomma, le posizioni rivendicate dal melmoso “partito dei parvenu”, formato dalle seconde e terze linee delle forze azzerate da Tangentopoli (Romano 2003, 111). In tale atmosfera, che si prolunga nel tempo, favorendo nel 1999 la rielezione trionfale di Di Cagno Abbrescia, appare forzata la lettura di chi riconduce già a quegli anni lo sviluppo di un inedito fervore civile, invero esteso anche ad altre zone della regione, ma che a Bari avrebbe segnato la traduzione in atto dell’accumulo lento e progressivo di un sentimento di frustrazione di una fetta dell’opinione pubblica, profondamente turbata da una straordinaria sequenza di eventi drammatici, a partire dall’incendio doloso del Teatro Petruzzelli nel 1991 (Cassano 2005; Chiarello 2005). Episodi senza dubbio laceranti, ma che, nonostante gli esempi forniti da altre realtà cittadine (a Venezia il teatro “La Fenice”, andato in fumo nel 1997, viene ricostruito a tempo di record), tardano a scuotere l’immobilismo della società civile locale, ristretta nel numero e debolmente sensibile a una cultura non occasionale dei beni comuni. E anzi, l’impropriamente magnificata alba della “primavera” che si affaccerà nel 2004, resa possibile da Giunte parzialmente anomale come quella del democristiano Dalfino nel 1990-‘91 e del pidiessino Laforgia nel 1993, ritardano colpevolmente le pressioni esercitate per lo scioglimento anticipato del Consiglio comunale, zeppo di personaggi plurinquisiti e ridotto a un immobilismo testimoniato nella ridottissima durata di Giunte affastellate senza logica2. A ben vedere, allora, la grammatica dei luoghi ridiventa materia di studio quando la Giunta Di Cagno Abbrescia, inizialmente a cifra rotondamente tecnica e poi dai notevoli inserti politici dopo la crisi del “secondo anno”, sfrutta adeguatamente i fondi statali stanziati per i Giochi del Mediterraneo previsti nel 1997 per dotare la città di impianti sportivi all’avanguardia, e fondi europei per ripensare la città vecchia, rendendola pedonale e riaprendo a una più serena opportunità di passeggio le piazze limitrofe al quartiere murattiano (Di Cagno Abbrescia 2004). Forse adagiandosi sul mimetismo nei confronti di assai più celebri esempi di movida notturna, ma comunque segnando una svolta rispetto ad ataviche lentezze amministrative. Certo, particolarmente in coincidenza con il secondo mandato (1999-2004), il passo della Giunta Di Cagno Abbrescia, nonostante il tentativo di indicare una continuità nell’azione e nelle competenze dei singoli componenti, si fa più incerto, inciampando su temi, come quello di Punta Perotti, che ne screditano l’azione pubblica e, anche al di là della superficialità dello sguardo dei media, sempre tentato dal sensazionalismo, favoriscono l’affioramento di comitati e associazioni la cui attività si incentra su singole issues, legate essenzialmente alla qualità della vita e dello sviluppo urbano (Chiarello 2005, 151). A tematiche, insomma, ambientali anche in senso lato e aventi per oggetto beni immateriali comuni, Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia quelli sui quali la classe dirigente locale, spesso per la presenza di conflitti di interesse – riguardanti in primis lo stesso Di Cagno Abbrescia –, non aveva voluto intervenire, preferendo garantire, secondo canoni sviluppisti sorpassati, il sistema economico a essa più intimamente collegato3. La diffusione dell’associazionismo a Bari contrasta palesemente con la tesi di Banfield sul familismo amorale (Banfield 1976) e avvicina il Mezzogiorno alle altre aree del paese, favorendo un processo di omogeneizzazione culturale (Chiarello 2005, 155-156). Invero, come rilevato dagli stessi magnificatori di tale cambiamento, determinanti sono risultati fattori di contesto abbastanza trasversali a tutto il Mezzogiorno, consistenti nell’incremento di risorse discrezionali (livello di istruzione e di reddito) disponibili ad alcune categorie particolarmente interessate al rinnovamento sociale. Con la differenza che una simile propensione all’azione collettiva ha trovato lievito in una favorevole “struttura delle opportunità politiche” che a Bari può ricondursi esclusivamente a un capitale associativo costituito da soggetti spesso interessati a intervenire sulle fradice strutture di sbocchi professionali (e cioè economici) locali, senza invece trovare sponde dialoganti sul versante politico tout court, popolato da soggetti sconosciuti ad ampia parte della cittadinanza e incapaci, con iniziative di opposizione e proposizione, di ritagliarsi un qualsiasi ruolo pubblico malgrado lo sbarco in regione delle grandi testate nazionali (Corriere della Sera e Repubblica), che attraverso le edizioni locali, pur tra mille ambiguità, hanno spalancato ai pugliesi nuove finestre per la costruzione di una coscienza di luogo, scardinando i tradizionali monopoli informativi legati a filo doppio con i poteri costituiti e a essi funzionali. Se la primavera pugliese che sboccia nel 2004 ricorda da vicino quella vissuta a Palermo e a Catania (e che replicava compiutamente la breve esperienza di fine anni Ottanta), a Napoli, a Salerno, nel capoluogo barese essa si poggia senz’altro sui meriti delle associazioni di cittadinanza attiva (si pensi a “Città plurale”), ma l’altrimenti determinante freno dei partiti viene travolto da variabili esogene influenti in ugual misura rispetto a quelle endogene. Con le prime intendiamo riferirci alla crisi del Governo Berlusconi, all’erosione del consenso mietuto da Forza Italia nel 2001, indicatrice della predisposizione di molti elettori a votare altrimenti, se posti dinanzi a una credibile offerta politica della coalizione di centrosinistra (Persichella 2004). Segnalando che, lungi dal poter essere sbrigativamente ascritta alla destra, pur radicata in molte zone, Bari lascia trasparire un opportunismo filo-governativo poco incline a sposare una causa per ragioni ideali e con fedeltà matrimoniale. Se a ciò si aggiunge, sempre rimanendo nel recinto delle predette variabili esogene, l’impossibilità per Di Cagno Abbrescia di sfruttare il fattore incumbency, presentandosi per un terzo mandato consecutivo, l’evanescenza del candidato designato dal centrodestra a succedergli, nonché il ritardo nell’ufficializzazione del suo nome rispetto allo strabordante anticipo con cui si era mosso Emiliano, forse si libera da un’aura miracolistica la vittoria di quest’ultimo al primo turno, accompagnata dall’exploit della lista civica di sostegno chiamata con il proprio nome a forza più suffragata per il Consiglio comunale. Non che le variabili endogene abbiano ricoperto un ruolo trascurabile, ma lo schema della campagna elettorale, mutuato dalle azioni dell’associazionismo locale con i “cantieri d’ascolto”, i “forum tematici” ecc., ha sperimentato forme di coinvolgimento diretto della società civile persino nella definizione del programma, potendo contare anche su strumenti comuni- 3 La “saracinesca” sorta sul Lungomare all’altezza di Punta Perotti, e poi abbattuta in più riprese nel corso del 2006, era un complesso di palazzi costruiti in violazione della distanza minima dalla costa per opera dell’impresa edile dei Matarrese, famiglia proprietaria del Bari calcio e di cui è conosciuta la carriera politico-dirigenziale di Antonio, a lungo deputato dello scudocrociato, poi approdato all’UDC dopo una fulminea sosta in Forza Italia, e tornato qualche mese fa al timone della Lega Calcio di serie A e B. 63 n.16 / 2006 cativi quali ancora non si erano visti in città per le precedenti elezioni. A dimostrazione, quindi, dell’imprescindibilità del ricorso a un’efficace e capillare impegno pubblicitario, che amplifica la propria capacità di penetrazione nell’elettorato, specialmente in quello meno fidelizzato, se coadiuvato dalla garanzia offerta dal candidato di mantenere, soprattutto in caso di successo, quell’estraneità ai palazzi del potere e al personale politico che gli consentono di domandare il voto senza lasciarsi ingabbiare da etichettature partitiche eccessivamente marcate, e anzi solleticando il potere decisionale dei singoli con spot televisivi in grado di veicolare messaggi semplici attraverso coinvolgenti tormentoni. Particolarmente azzeccato, anche perché ampiamente concessivo alla resa dialettale dell’italiano, quello del “Metti a Cassano !”, ambientato in una modesta abitazione nella quale i membri di una famiglia stanno assistendo con entusiasmo a un incontro di calcio trasmesso in televisione. La telecamera inquadra una parete dove spicca San Nicola, un’immagine monarchica (!), dei girasoli (i cui semi saranno distribuiti nei mercati dai volontari dei comitati) e una fotografia di Mario Mancini, noto e amato attore del teatro vernacolare barese, fra i protagonisti dello spot. Gli spettatori gridano a squarciagola “Metti a Cassano!”, affermato talento calcistico cittadino allora in forza alla Roma, chiaramente rivolgendosi all’allenatore, presunto colpevole per l’andamento non brillante del match, il quale, nonostante tutto, tergiversa nel dare un’opportunità al giovane calciatore, come viceversa suggerisce essere finalmente possibile lo slogan: “Questa volta scegli tu chi mettere in campo”. In occasione delle elezioni, cioè, puoi fungere tu elettore da allenatore, schierando la formazione secondo te migliore, votando il Cassano della situazione, vale a dire Emiliano, schierandoti a favore di Bari, come suggerito tra l’altro dai manifesti 6x3 (Bitetto 2005, 133). La società civile barese si attiva dunque sulla fiducia nei confronti di un personaggio che rivendica al proprio curriculum professionale l’abitudine e quindi la capacità di stare in mezzo alla gente, facendosi megafono di un messaggio attraverso cui si critica il monopolio degli interessi privati, che anche Lobuono incarnerebbe, in quanto imprenditore schiettamente intenzionato a fungere da continuatore della linea sposata da Di Cagno Abbrescia, ma con il quale la polemica non è mai inasprita, anzi ostentando un’amicizia e una confidenza (Emiliano lo chiama sempre con il diminutivo “Gigi”) che stemperino e archivino i timori di chi, tra i ceti benestanti cittadini, non nasconde perplessità circa l’estraneità del candidato di centrosinistra a certi ambienti e a certe convenzioni. 4. L’onda della primavera Conseguito l’inaspettato risultato di Bari, e vedendolo coincidere con la conquista di tutte le cinque amministrazioni provinciali, con il Municipio di Foggia e con una discreta rimonta nelle europee che conduce i due schieramenti a fronteggiarsi da vicino, l’onda della primavera pugliese ambisce al traguardo delle elezioni regionali fissate per l’aprile del 2005. La sfida viene individuata nel capitalizzare il favorevole trend nazionale e la spinta propulsiva che le nuove amministrazioni avrebbero saputo garantire, quanto meno sotto il profilo d’immagine, rispetto alla gestione verticistica del potere di cui Fitto si stava rendendo protagonista, oscillando tra la tentazione di cercare 64 Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia democristianamente il consenso anche a scapito della fluidità amministrativa e l’appiattimento su di un’immagine berlusconiana, con la propria giovane età messa al servizio di ripetute e pubbliche dichiarazioni di stima del Cavaliere, disposto a riconoscerne la centralità a livello nazionale senza mortificarne l’autonomia, ma indisponibile a garantirgli una ribalta a costo zero, come accadde quando lo indicò quale sua “protesi” in Puglia, non da ultimo per ricordare al giovane politico che le sue eclatanti affermazioni personali (come quella alle europee del 1999) non erano riconducibili esclusivamente al carico di preferenze “personali”, ma andavano tarate sul valore aggiunto del simbolo di Forza Italia, del quale Fitto, sebbene strumentalmente, si era servito. Figlio di un politico democristiano salentino di primo piano, Salvatore, prematuramente deceduto a causa di un incidente stradale nel 1988 quando era Presidente della Giunta Regionale, Raffaele Fitto aveva raccolto l’eredità paterna già nelle elezioni del 1990, ricoprendo persino una carica assessorile, diventando poi nel 1995 Vice Presidente del tecnico Distaso e, terminata per consunzione tale esperienza, trovando la convergenza del Polo sulla sua candidatura nel 2000 con la scena politica ormai stabilizzata nei suoi connotati. La strategia tatarelliana di “andare oltre il Polo” raccogliendo organicamente attorno al centrodestra una parte delle professioni intellettuali che altrimenti sarebbero rimaste senza casa o addirittura si sarebbero avvicinate allo schieramento avverso, aveva dato i propri frutti, e la parentesi del docente universitario Distaso poteva lasciare il posto a una guida classicamente politica, attraverso la quale Forza Italia rivendicasse, forte del responso delle urne, quella primazia che AN, in linea con i risultati in tutta la penisola, non era riuscita a conservare dopo gli exploit del ’94-’95. Nel 2000, tra l’altro, si procede per la prima volta all’elezione diretta del Presidente della Regione (mentre nel 1995 il suo nome era solamente indicato associandolo a uno schieramento), in base a quanto previsto dalla legge n. 1/99, sprezzantemente definita “tatarellum” da Giovanni Sartori. Fitto, molto più capace di organizzare la campagna elettorale rispetto al suo competitor Sinisi, vince con largo margine, ma la sua affermazione, in sintonia con l’esito complessivo delle elezioni, che provocano a Roma le dimissioni di D’Alema dalla Presidenza del Consiglio, risulta parzialmente offuscata da un preoccupante calo nei votanti, in caduta libera da anni, che a stento riesce a superare il 70 %, contraendosi di 5,6 punti percentuali rispetto al 1995 (Lattarulo 2000). Nel 2005 si tratta per il centrosinistra di catalizzare il malcontento generato dalla riforma sanitaria e dal nuovo piano ospedaliero, passi compiuti dalla Giunta di centrodestra in direzione di una razionalizzazione delle risorse umane ed economiche, ma dall’altissimo costo sociale, costringendo sia alcune centinaia di operatori sanitari a compiere lunghi spostamenti per raggiungere il posto di lavoro, sia prevedendo la chiusura di reparti e strutture che avrebbero costretto la popolazione a degenze lontano da casa. Non c’è semplicemente l’esplosione di una protesta che a Fitto, in qualità di incarnazione simbolica delle politiche della CdL, rimprovera di ridurre aziendalisticamente un servizio sociale fondamentale entro angusti binari di compatibilità con i princìpi dell’efficienza di mercato. Infatti, le proteste che si sviluppano spontaneamente, spesso senza trovare supporto politico nell’opposizione consiliare, sfidano la maggioranza soprattutto sul terreno del mancato coinvolgimento delle parti sociali e delle organizzazioni del terzo settore, obiettando pubblicamente che perdono di credibilità le prese di distanza nei 65 n.16 / 2006 confronti del governo nazionale su provvedimenti sfavorevoli alla Puglia, peggio quando adottati su pressione della Lega Nord, se lo stile decisionale viene poi integralmente mutuato da quello nazionale, scavando fossati di dimensioni crescenti persino tra l’esecutivo regionale e la maggioranza dei consiglieri. Problema molto simile a quello verificatosi a Bari, che lascia incancrenire una delle più gravi contraddizioni del caracollante sistema politico esistente. Nella misura in cui esso è composto da forze con debole collante ideologico e programmatico, e soprattutto nella misura in cui l’inadeguatezza a raccogliere, rielaborandole, le istanze di determinate categorie sociali conduce alla creazione di liste locali, provinciali, regionali, la subordinazione delle assemblee all’esecutivo patisce più che la separazione dei poteri in sé, la difficoltà per gli eletti senza stabili riferimenti politici alle spalle di tutelare gli interessi degli elettori senza scadere nella difesa di egoismi microlocalistici o corporativi. Tali interessi non possono infatti essere ragionevolmente utilizzati come merce di scambio con il titolare della carica monocratica, salvo esporlo all’esplosione di una lunga serie di richieste di pari portata, che ne minerebbero l’autorevolezza, fondamentale dote in presenza di un congegno elettorale che permette il voto disgiunto, ossia la possibilità per l’elettore di scegliere il candidato Sindaco o Presidente dello schieramento A e un partito di quello B, legando tuttavia l’esito delle elezioni alla performance del candidato, non a quella dei partiti. Ecco in che senso, negli ambienti dei militanti di base del centrosinistra, e soprattutto della galassia di associazioni ricreative e ambientaliste, si stava facendo largo la convinzione che per battere Fitto fosse necessario un nome che evocasse un profilo diametralmente opposto a quello del Governatore in carica, per di più favorito da una cospicua disponibilità di risorse economiche, personali e coalizionali, che gli avrebbero consentito di sostenere l’urto di una campagna protratta per mesi. Un solo nome avrebbe probabilmente tacitato il malcontento serpeggiante: quello di Vincenzo Divella, industriale della pasta, al vertice della Camera di Commercio di Bari, vicino al centrosinistra senza essere organico ad alcun partito, indicato dai sondaggi a lungo commissionati dai quotidiani e dalle forze politiche come probabile vincitore su Fitto. Divella, in effetti, avendo il proprio radicamento in terra di Bari e al tempo stesso possedendo un nome ormai famoso su scala nazionale, colmava una lacuna territoriale altrimenti insostenibile, in considerazione del fatto che la provincia del capoluogo, ancora non spezzata con la Bat, raccoglieva un numero di elettori che, a meno di straordinarie performance nel resto della regione, si sarebbero rivelati decisivi per contrastare Fitto, meglio piazzato nel Salento. Ma su Divella gravava un’ipoteca non indifferente. La vittoria che lo aveva portato alla presidenza della Provincia l’anno precedente, tra l’altro a coronamento di una campagna elettorale spesso condotta in tandem con Emiliano, non avrebbe potuto essere archiviata senza contraccolpi, salvo il testimoniare, neppure troppo indirettamente, da parte della coalizione, il ricorso strumentale a un candidato dal prestigio irrintracciabile tra le proprie fila, e da parte del Divella la riduzione a vacua retorica del programma sottoposto alla valutazione degli elettori, non essendo trascorso neppure un anno dalla perentoria affermazione elettorale per poter “giustificare” il tentativo di passaggio ad altra carica rivendicando realizzazioni concrete e mantenendo intatto il consenso. 66 Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia Sull’impasse in cui si trovò il centrosinistra volle intervenire in prima persona Emiliano, candidando Francesco Boccia, giovane Assessore comunale al Bilancio, dal corposo curriculum accademico ma sconosciuto ai più. Con tale smania di protagonismo, ancorché giustificata come tentativo di favorire la trasmigrazione dello spirito del 2004 nella competizione regionale, il Sindaco di Bari riuscì nell’ardua impresa di incrinare gravemente il rapporto con la cittadinanza. Non solamente con larghi settori di quella società civile che l’aveva sostenuto per governare la città e che adesso interpretava il suo atteggiamento come manifestazione di ebbrezza da potere, diametralmente opposta allo spirito che avrebbe dovuto presiedere alla “primavera pugliese”. Ma anche con ampie fasce popolari che ne avevano premiato l’indipendenza dai partiti, e che nella sua presa di posizione decifravano in filigrana il tradimento della capacità di soggiacere alle scelte di coalizione, convergendo più organicamente su una scelta di campo senza possibilità di lettura equivoche, giacché le proposte programmatiche di cui Boccia avrebbe dovuto farsi sostenitore gli avrebbero imposto ripetute prese di distanza da Fitto, senza tuttavia garantire un’effettiva proposta alternativa e senza garantire una presa sugli indecisi in considerazione dell’inesistente radicamento sul territorio4. È da tale aporia che si apre la strada verso le primarie. Inizialmente sotto forma di braccio di ferro con il quale Rifondazione comunista intese sfidare il resto della coalizione proponendo ufficialmente Vendola, anche al fine di reclamare pari dignità tra tutte le espressioni del centrosinistra, testando così le reazioni delle forze più moderate. Nella costruzione della GAD, infatti, l’immediata rivendicazione di Bertinotti consistette nel pretendere che anche il partito più “estremo” dell’alleanza, nella fattispecie il proprio, non risultasse aprioristicamente escluso da posizioni di rilievo con la scusa che la competizione elettorale si giocasse esclusivamente al centro e che i candidati a cariche elettive rilevanti dovessero appunto risultare dotati della capacità di garantire buona presa su quell’elettorato. Fattosi dunque avanti Vendola, deputato di lungo corso nonostante la giovane età, tra i fondatori del PRC e in prima fila nella lotta contro tutte le mafie, tanto da vivere perennemente sotto scorta, il ripiegamento dei partiti cardine della coalizione, e dei DS in special modo, sul nome di Boccia, mise in luce l’intenzione di sbarrare la strada a uno stravolgimento degli equilibri interni alla coalizione, piuttosto che il convinto appoggio all’economista. Ma, come repentinamente emerso tra i militanti del partito, decisamente più “a sinistra” della dirigenza, il nome di Vendola, appoggiato tra l’altro dai Verdi, incarnava la possibilità di affrontare elettoralmente Fitto senza abdicare a princìpi percepiti non negoziabili, tra cui la legalità, che, particolarmente al Sud, trascende per gran parte del popolo progressista impegnato nell’associazionismo, nel volontariato, l’eventuale iscrizione a un partito, e assume quali propri riferimenti personaggi carismatici di varia appartenenza, tutti però schierati esplicitamente contro il racket, contro l’usura, talvolta persino a costo di prendere le distanze da colleghi di partito. Di fronte alla mancata rinuncia da parte di uno dei due contendenti a farsi da parte, e in considerazione della follia politica consistente nel correre separatamente per la presidenza della Regione con un sistema elettorale a turno unico, venne accettata dalla maggioranza della GAD l’idea di celebrare “primarie ristret- 4 Nominato dal Sindaco assessore tecnico, pur essendo originario di Bisceglie, quale indice di popolarità poteva vantare Boccia nel resto della Regione ? 67 n.16 / 2006 5 Il Regolamento è riportato integralmente nel sito www.perlulivo.it. te”, allargando il selectorate rispetto alle proposte originarie – che intendevano coinvolgere solamente gli eletti ai vari livelli istituzionali dei partiti del centrosinistra – a una platea inclusiva dei dirigenti e dei rappresentanti della associazioni, giungendo in tal modo a circa duemila delegati, convocati per il 13 dicembre 2004 alla Fiera del Levante, con l’obiettivo di definire innanzitutto il programma da sottoporre agli elettori e in seguito il candidato. Così, tuttavia, le primarie sarebbero rimaste un meccanismo blindato ex ante e funzionale alla ratifica di un’incolmabile distanza tra i vertici dei partiti e una base più effervescente. Ancora una volta avrebbe dovuto rilevarsi uno iato che rende i partiti del centrosinistra particolarmente deboli e stagnanti, se considerati singolarmente, tanto da produrre incessantemente scissioni e rimescolamenti vari per creare realtà in grado di intercettare quella frangia di elettorato che individua nel complesso della coalizione il quid pluris per la propria collocazione nel centrosinistra, come del resto testimoniato dalle positive performances nel 1996 e nel 2001 nei collegi uninominali rispetto a quelle della scheda per la copertura proporzionale del 25% di seggi alla Camera (Maraffi 2006, 199). I lavori dell’assemblea si arenarono però in merito al meccanismo per la scelta del candidato e il compito, secondo polverosi schemi da “Prima Repubblica”, fu riservato a summit “romani”, a seguito dei quali, un non troppo nascosto asse tra Prodi e Bertinotti, concepito al fine di arrestare l’avvitamento su sé stessa dell’area moderata della coalizione, facilitò la decisione di indire primarie aperte a tutti gli elettori, secondo modalità che sarebbero state definite nel giro di qualche giorno da una commissione presieduta da Arturo Parisi, d’intesa con le forze politiche regionali. Tale ritrovo di “saggi” produsse un Regolamento composto da 12 articoli, fissando la data della selezione domenica 16 gennaio 2005, con possibilità di espressione del voto dalle ore 9 alle 22 in uno dei 112 seggi sparsi sul territorio (art. 3 Regolamento)5. Una considerazione si impone a questo punto: paradossalmente, il via libera alle primarie è giunto da una decisione centralistica e inequivocabilmente partitocratrica. Se fosse passata la linea della “primavera pugliese”, senza intendere giudicarla, vi sarebbero state primarie ristrette. L’adozione delle primarie che si sono effettivamente tenute è frutto di una lunga serie di circostanze favorevoli (Romano 2005, 225), i cui esiti inintenzionali non depongono particolarmente a favore della confusa classe politica regionale, la cui miopia è stata testimoniata da una partecipazione che non semplicemente è andata oltre le più rosee aspettative, ma che ha travolto l’intento malcelato di coinvolgere sì gli elettori, senza però esagerare. 5. La funzione delle primarie Gianfranco Pasquino ha acutamente rintuzzato le preoccupazioni che dirigenti di partito e operatori di mass media eterodiretti continuano a manifestare ogniqualvolta si affacci la possibilità di accrescere l’influenza dei cittadini nei processi elettorali con consultazioni trasparenti e competitive. Due perplessità si fanno largo con puntuale frequenza. La prima consiste nell’additare i cittadini quali soggetti “ignoranti”, dalle visioni strategiche di corto respiro, almeno in parte potenziali vittime di artate manipolazioni provenienti sia 68 Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia dalla parte politica “amica” che da quella “avversa”, particolarmente interessata, per esempio in occasione delle primarie, a che si affermi un candidato ritenuto sulla carta più debole. La seconda si fonda sul timore che le primarie possano rivelarsi un “cavallo di Troia” per temibili incursioni populiste, delle quali non di rado si farebbe megafono la società civile (Pasquino 2006, 27). Obiezioni deboli e contraddittorie, specialmente se interpretate innescando puntualmente il refrain che elogia la saggezza del popolo in occasione di elezioni che promuovono in assemblee parlamentari o consiliari professionisti della politica di dubbia moralità e/o competenza. Timori, per di più, che fingono di scordare i risultati che concretamente si registrano in occasione di ripetuti appuntamenti elettorali, nei quali, con l’Italia protagonista di primo piano, settori non marginali degli aventi diritto restano ammaliati da sirene populiste generate anche da partiti strutturati piuttosto tradizionalmente. I cui vertici, dunque, testimoniano con ravvicinata frequenza l’incapacità di arrestare la recessione democratica impropriamente riducibile all’appariscente manifestazione delle Nuove Destre (Mastropaolo 2005, 169). Si badi: il vento populista che soffia a intervalli sempre più ravvicinati, tanto da suscitare dubbi sull’esistenza di una qualche soluzione di continuità, se per un verso può suggerire l’urgenza di ripensare i tratti costitutivi di ciò che viene etichettato come “populismo”, d’altro canto, al fine di evitare sbrigative autoassoluzioni, può incontrare nel disciplinamento delle primarie un primo ostacolo, e nella più allargata introduzione di limitazioni temporali di mandati elettivi un’ulteriore strategia “procedurale” per contrastare la chiusura oligopolistica del mercato politico, il cui nesso con l’umiliazione dell’anima “sostanziale” della democrazia può a stento essere negato. Ovviamente, la generalità di una norma produce quasi inevitabilmente effetti indesiderati, per esempio precludendo la rielezione di un Sindaco capace o, eventualmente, di un parlamentare ligio al proprio dovere, riducendo di fatto le possibilità di scelta degli elettori (Pasquino 2006, 28). Ma il discorso andrebbe allora ampliato ai partiti, che restano immarcescibilmente le principali agenzie di canalizzazione e organizzazione del consenso popolare negli appuntamenti elettorali, domandandosi se la loro apertura alle primarie possa diventare una disposizione statutaria o se debba rimanere occasionale testimonianza di un momento di crisi dal quale auspicare una sferzata rinvigorente agitando quello strumento che interviene sul reclutamento e la selezione dei candidati a varie cariche. Certamente le primarie non sono un farmaco in grado di debellare i conflitti fra partiti cronicamente litigiosi, come pure talvolta sembra verificarsi nel breve termine, né vanno ridotte a mero artificio tecnico per passare agli elettori una “patata bollente”, il compito di sciogliere i nodi attorno ai quali i partiti restano imbambolati. Se la funzione cruciale delle primarie consiste nel favorire, mediante una procedura dalle regole semplici e chiare, che facilitino l’espressione del voto da parte degli elettori e che prevedono meccanismi di arresto contro candidature di mero folklore, prevedendo la raccolta di un certo numero di firme, una selezione tra due o più candidati (cfr. paragrafo 2), non può trascurarsi che si tratta pur sempre di un marchingegno ad altissima politicità, come l’esperimento pugliese si è incaricato di dimostrare. Incidere su modalità di selezione di candidati che apparivano fino all’alba del 69 n.16 / 2006 giorno precedente intangibili, significa riattivare il rapporto tra destinatari della politica (i cittadini-elettori) e i decisori (i partiti), sottraendo a questi ultimi l’esclusiva pertinenza di una scelta altrimenti limitata al loro diretto e paternalistico intervento. Le primarie consentono di scomporre la logica binaria decisori/destinatari delle decisioni che, qualora le candidature siano già tutte stabilite dai partiti, s’infiltra comunque proprio nel momento principe dell’esercizio democratico del voto. «Ai cittadini viene richiesto con le primarie non di esprimere una preferenza di “schieramento” (destra-sinistra) ma un giudizio di pertinenza sul candidato» (Gangemi-Gelli 2006, 26). Nel considerarli capaci, competenti di esprimersi, una risorsa da attivare per legittimare un candidato per la competizione elettorale, a essi, soprattutto nel caso che le primarie siano convocate da tutti i partiti o dagli schieramenti rilevanti, viene offerta l’opportunità di incidere decisivamente su una selezione attraverso cui poter scongiurare, nel momento elettorale vero e proprio, un voto “turandosi il naso”, l’insoddisfatta costrizione a un consenso “per esclusione”, per vaghissimo posizionamento valoriale. Le primarie stimolano gli elettori a raccogliere un numero di informazioni sui candidati superiore a quanto farebbero se le candidature fossero già preconfezionate dai partiti, consentendo di maturare le proprie competenze individuali su questioni politiche che altrimenti non avrebbero sollecitato alcun approfondimento. Ma soprattutto le primarie favoriscono la socializzazione e la discussione molecolare su temi economico-sociali sopiti, generando la stipulazione tra candidati ed elettori di un nuovo patto, che impone ai primi di procedere a un processo di agenda-setting inclusivo di suggestioni e proposte raccolte dai cittadini coinvolti o confermando, per la più autentica circolarità dell’interscambio, l’assurdità della tesi appoggiata da coloro che individuano in accurati sondaggi un realistico surrogato delle primarie. Anche il più affidabile campione, trattato con eccelsa perizia metodologica, non garantisce che l’intervistato si produca in risposte che ne evidenzino una precedente sollecitazione su disparate issues, esattamente ciò, al contrario, a cui aspirano primarie concepite con un moderato periodo di attivo confronto tra i candidati. Un sondaggio fotografa (dovrebbe rappresentare) il già dato, le primarie stimolare il divenire. Tra l’altro, la spinta a una dialettica tra elettori non necessariamente distanti per autocollocazione sull’asse destra-sinistra accresce la certezza che l’esito delle primarie, anche qualora sortisse sorprese poco gradite a potentati di varia consistenza, più difficilmente che in caso opposto lederebbe la complicità tra elettori e partiti, auspicabilmente senza dover prevedere una dichiarazione ufficiale dei candidati, dei partiti, o di tutti, di impegno ad accettare il risultato proclamato da una Commissione di Garanzia, come viceversa fissato nero su bianco dall’articolo 1 del Regolamento per le primarie pugliesi. Siffatta previsione, ancorché finalizzata a tutelare con la terzietà di una norma il vincitore, rimane un’anomalia regolamentare che impegna non più che moralmente gli sconfitti, non potendo da questi esigersi formale certificazione sul comportamento in seguito tenuto nella cabina elettorale, il voto rimanendo «libero e segreto» come da articolo 48 della Costituzione. Anche quest’ultima ipotesi, non troppo “di scuola”, sintetizza un esito “sottoprodotto” delle primarie, che costituisce il motivo principale di interesse per le stesse e che sfugge alla misurazione mediante parametri numerici e applicazioni 70 Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia di modelli tecnici di previsione, poiché è l’esito proteiforme del processo e non può essere previsto al di fuori dell’azione (Gangemi-Gelli 2006, 26). Si consideri che proprio il case-study pugliese ricopre tuttora una centralità non prevista originariamente senza dubbio per l’esito sorprendente, ma proprio in considerazione del fatto che tale esito si è inverato per le torsioni che hanno trasformato le primarie rispetto a quanto previsto in origine, innescando esperimenti di mobilitazione che hanno palesato la necessità di riconfigurare il tema della partecipazione. L’evidenza del loro effetto di trascinamento, amplificata con comprensibile entusiasmo dall’attuale Presidente regionale (Rossi-Vendola 2005, 22), consente di confermare le ipotesi formulate prima dell’effettivo svolgimento, attribuendo loro il ruolo di una policy in grado di fungere da fattore strategico e necessario di innesco di domande che altrimenti sarebbero rimaste latenti. Di conflitti persino, come confermerebbe la tendenza all’attivazione in tali appuntamenti degli elettori “estremi”, dalle preferenze “intense”, cognitivamente ed emozionalmente più interessati a dinamizzare esperimenti associativi mediante i quali mettere in circolo richiami netti su questioni di inequivoco interesse collettivo, motivati a pesare quanto più possibile negli equilibri interni a uno schieramento, al fine di conquistare preventivamente rendite di posizione che attenuino il ridimensionamento della loro forza che il voto andrà in seguito a sancire. 6. Il 16 gennaio 2005 Il 16 gennaio 2005 partecipano alle elezioni primarie in Puglia 79.296 elettori. Con poco più di 40 mila voti a favore si afferma Nichi Vendola (50,9 %), sconfiggendo Francesco Boccia, che aveva condotto una propaganda di basso profilo, cercando di accreditare un’immagine di affidabilità, veleggiando sulla certezza di dover semplicemente attendere la formalizzazione di una sicura investitura popolare. Ex post factum sarebbe facile ironizzare sulla sicumera con la quale molti dirigenti di partito avevano sopravvalutato la propria capacità di influenza sull’espressione del voto, troppe volte preoccupandosi di come trasformare una copiosa partecipazione dei cittadini nella certificazione della sintonia tra vertice e base, piuttosto che segnalare una maturità democratica da apprezzare di per sé stessa, non in quanto eventuale conferma della bontà delle indicazioni fornite. Non a caso, quando prese corpo l’affermazione di Vendola, DS e Margherita si astennero dal commentare in dettaglio la sconfessione dei propri vertici, preferendo contribuire a compattare la GAD battendo sul tasto dell’imprevisto afflusso di votanti nei 107 Comuni in cui erano stati allestiti i seggi, improvvisamente dunque attribuendo l’appropriato valore alla partecipazione, tanto più che nel caso di specie la peculiare natura di mero diritto partecipativo rende la rilevazione dell’affluenza alle urne una scala di valutazione qualitativamente diversa dalla fattispecie del voto, diritto ma anche dovere (art. 48 Cost.). Quale interpretazione fornire delle primarie, e del loro risultato? Ci sembra sia possibile canalizzare la congerie di ragioni che ne hanno marcato in grassetto i tratti lungo due direttrici: una, attenta a fattori di impatto sistemico-organizzativo-procedurale; l’altra, puntata sul circuito comunicativo tra candidati ed elettori, con tutte le correlate strategie di mobilitazione, ecc. Entrambe, 71 n.16 / 2006 tuttavia, consentono di aderire allo schema che enfatizza, come premessa d’obbligo, il capillare desiderio di partecipazione, tanto più evidente nella misura in cui si rapporti l’afflusso ai seggi, in una giornata di rigido inverno, con i dati sul tesseramento ai partiti del centrosinistra, attestato – morti e ignari iscritti compresi – attorno alle 60 mila unità (Giaffreda 2006, 150). Considerando che solamente una ridotta quota di costoro può essere ascritta alla militanza attiva, diventa inconfutabile l’apporto garantito dai simpatizzanti, dai rappresentanti dell’associazionismo e della società civile, con madornale confusione equiparati dalla Margherita e dai vertici degli altri partiti schierati a favore di Boccia con la maggioranza silenziosa e tutto sommato accondiscendente (Amendola 2005). Demolita così empiricamente, sia pure in parte, la tesi sartoriana sul particolarismo minoritario dei militanti, che sembra adombrare l’insofferenza del cattedratico per l’esito delle primarie, militanti apparendo in effetti sinonimo di “iscritti a Rifondazione”, e dunque minoranza radicale per definizione, oltre ogni possibile verifica (Sartori 2005; contra Pasquino 2005), le primarie hanno evidenziato la scollatura tra la nomenklatura partitica e gli umori profondi dell’elettorato di centrosinistra. In questo senso il caso di Bari costituisce effettivamente un precedente, tutto lo schieramento avendo dovuto convergere alla fine, obtorto collo, sul nome di Emiliano, promosso, come precedentemente accennato, dalla stampa locale e dalla cittadinanza attiva. 6.1 Fattori organizzativi, procedurali 6 Nel quale, accorpando la Bat, la percentuale di votanti alle primarie sul totale è risultata pari al 38,99 %. 72 L’affermazione di Vendola, garantita da poco più di mille voti oltre quelli di Boccia, si fonda in larga misura sul consenso ottenuto a Bari e provincia, dove il deputato del PRC ha raccolto 17 delle 40 mila preferenze complessive, con una performance (55,7 %) che gli ha consentito di contenere la differenza risultata a favore di Boccia nelle altre quattro province. Successo sostanzialmente uniforme quello di Vendola nel capoluogo e nell’hinterland, rilevabile anche scomponendo la provincia di Bari al fine di procedere a uno screening dei dati che metta in gioco la sesta provincia, la costellazione della Bat. Anche tra gli ulivi di Barletta (soprattutto), Andria, Trani e dintorni il rendimento di Vendola è stato talmente positivo da far registrare uno scarto di voti (854) in grado di ammortizzare pienamente il successo di Boccia nel foggiano (Milella 2005, 1192). In considerazione del peso specifico del territorio barese6, non può trascurarsi che l’indice di copertura dei seggi per elettore, ossia la proporzione di elettori con almeno un seggio nel proprio comune di residenza, ha raggiunto il picco proprio qui (93,9 %) e il minimo nel leccese (47,6 %), zona della regione rivelatasi più ostica per Vendola sotto ogni punto di vista (Giaffreda 2006, 144). Ragioni dovute non da ultimo alla peculiarità del Salento, disseminato di comuni dalle ridottissime dimensioni, che ha tuttavia alimentato a posteriori, nell’entourage dello sconfitto, il dubbio che la gestione dell’evento sia stata affetta da una micidiale miscela di superficialità e dolo, onde favorire un esito finale che depotenziasse l’adesione acritica dei militanti locali alle indicazioni di partito, per poter quindi ridimensionare le pretese di D’Alema, notoriamente di casa tra Gallipoli e Casarano, dove aveva avuto il proprio collegio elettorale sin dal 1994. Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia Obiezione non del tutto peregrina, anche se il trasporto organizzato in particolare dalla Margherita ha pur sempre sortito l’effetto di rendere il totale dei voti validi alle primarie nel brindisino e nel leccese la percentuale più alta (rispettivamente il 10,7 e il 12,8 %) sui voti ottenuti dai partiti di centrosinistra in occasione delle europee del 2004 (Giaffreda 2006, 148). Dato che insomma sembra ridimensionare gli appigli degli sconfitti alla tattica “vittimista”, sottolineando piuttosto la pigrizia mobilitatrice dei partiti “moderati” e, ancor di più, la congenita debolezza del candidato Boccia, incapace di risalire la classifica di popolarità nei confronti di Vendola. Anche in virtù di tale considerazione, appare di modesto spessore la denuncia in base alla quale, soprattutto nella realtà cittadina di Bari, si sarebbero recati alle urne noti iscritti o simpatizzanti del centrodestra, “infiltratisi” al fine di favorire, per quanto nelle loro possibilità, la vittoria di Vendola, imprudentemente reputato un candidato sicuramente perdente contro Fitto. Il risultato conseguito da Vendola non solamente a Bari, dove ha severamente sconfitto Boccia persino nel quartier generale della Margherita, nella centralissima Via Calefati, ridimensiona qualsiasi intervento “avversario”, favorendo inoltre la considerazione per cui l’esperienza delle successive elezioni di aprile dovrebbe aver debellato futuri interventi di disturbo. Il dato politicamente rilevante consiste piuttosto nell’aver sancito una pesante sconfitta per Emiliano, sponsor di Boccia, incapace di garantire al proprio assessore un’affermazione nella città conquistata appena qualche mese prima, testimoniando quanto – e tra il proprio elettorato di riferimento in misura preoccupante – le prime scelte effettuate nell’amministrazione della cosa pubblica, con il contorno di consulenze d’oro elargite con scarsa attenzione ai bilanci e al rigore promesso, abbiano eroso nel volgere di pochi mesi la fiducia nei suoi confronti. E comunque il tentativo di gettare fango sul risultato delle primarie si sfarina di fronte all’impossibilità di rilevare attendibilmente se e quanta parte delle scelte a favore di Boccia abbia avuto alle spalle una radicata convinzione, oppure sia stata favorita dall’espressione di una sorta di voto strategico da parte di elettori di centrosinistra che in Boccia abbiano individuato un candidato dotato di un’electability pensata più debole per Vendola. Un ultimo fattore organizzativo merita attenzione. Sui 112 seggi distribuiti nella regione, ben 34 (il 30,36 % del totale) erano costituiti da sezioni del PRC, anche per l’avversione più marcata verso evanescenti tipologie di “partito leggero”, privo di luoghi di incontro e di dibattito. Certo è che l’aver potuto giocare “in casa” un numero superiore alla media di match con regole mai sperimentate prima ha prodotto l’ineguagliata situazione di un’affermazione di Vendola in 30 di questi 34 seggi (l’88,23 %), con uno scarto di voti talmente ampio da aver concorso in misura rilevante alla costruzione del successo finale. Questo ha infatti preso corpo, malgrado la vittoria di Vendola in meno seggi di Boccia (53 a 59), grazie alla capacità di capitalizzare le proprie affermazioni nei contesti ambientali più “favorevoli”. 6.2 Stile comunicativo e sostegni al candidato Vendola Dovendo risalire la china, rispetto alla forza dell’appoggio garantito ufficialmen- 73 n.16 / 2006 te a Boccia dalle forze più rilevanti della coalizione, Vendola ha evidenziato una migliore e rizomatica capacità di copertura del territorio con il proprio messaggio, potendo mettere a frutto la notorietà acquisita al fine di impiegare più efficacemente le doti comunicative. Boccia, viceversa, che pure non ha disdegnato la partecipazione a decine di iniziative pubbliche, potendo contare sull’ampio supporto logistico dei numerosi partiti di riferimento, ha scontato il fattore “notorietà”, senza riuscire a porvi rimedio, nel brevissimo volgere della campagna per le primarie, con una comunicazione politica altrettanto efficace rispetto a quella di Vendola. In considerazione della striminzita durata della campagna, questo ha strategicamente investito tutto sulla scommessa di rendere pulsante “La Puglia nel cuore”, sfibrandosi, come nelle sue corde, in quasi cento iniziative attraverso le quali emozionare e, coinvolgendo molti giovani, indicare l’opportunità di costruire anche in Puglia un futuro di speranza, non di cinica rassegnazione. Alla nascita dei comitati locali spontanei che in Vendola hanno intravisto una figura in grado di dare gambe al desiderio di prolungare la “primavera pugliese”, sfilandola dall’imbuto della sua riduzione a etichetta appannata di una svolta immediatamente “normalizzata”, è corrisposta, da parte di Boccia, la volontà di privilegiare incontri su tematiche economiche, senza rinunciare ad approfondimenti insidiosi per molti cittadini, onde accreditarsi dell’aura di “tecnocrate” dotato di un bagaglio di competenze che il tessuto produttivo locale avrebbe appoggiato nel confronto con un politico “generalista” come Fitto. Non a caso sfidato (nell’ottimismo delle intenzioni iniziali) facendo leva su uno slogan, “La Puglia per tutti”, chiaramente finalizzato a supportare, con il materiale cartaceo distribuito e con i manifesti affissi, una lenta ma inesorabile demolizione delle politiche pubbliche del Governatore uscente. La propaganda di Boccia si è però rivelata poco focalizzata sulle più innovative forme di comunicazione, come quella garantita da Internet, viceversa sfruttata senza indugi e ritardi da Vendola, intenzionato a caratterizzare anche mediante il web uno stile partecipato e orizzontale, maggiormente disposto a un incontro con ristretti gruppi di cittadini e ostile al datato appoggio fornito da politici “romani” con la loro presenza diretta, che ha creato la perversa situazione di un candidato (Boccia) in cerca di notorietà appoggiarsi a politici di caratura nazionale senza radicamento in Puglia e ignari dei problemi del territorio. Vendola ha applicato a ogni incontro una affabulazione, con un percorso di passione e interesse che non è arrivato immediatamente al merito “tecnico” delle proposte, pur risultando in parziale controtendenza con le schematizzazioni della politica-spettacolo. Egli non ha cercato di bruciare le tappe della risposta politica e istituzionale, preferendo stimolare la partecipazione (Cristante 2005, 76). Il suo stile comunicativo è stato orgogliosamente puntato sulla matrice popolare della propria appartenenza, perché da tempo gli era ben chiaro che se la partecipazione politica si cristallizza sui segmenti centrali della società, come accaduto con l’indebolimento della presenza organizzata dei partiti di massa, gli effetti di tale partecipazione esclusiva e in fondo anche escludente finiscono per favorire soprattutto i loro interessi, rafforzare le loro posizioni e accrescere così le disuguaglianze sociali (Biorcio 2003, 49). La strategia di Boccia è invece sembrata accettare l’inesorabilità di tale trend, contro cui Vendola ha sostanziato il proprio infaticabile impegno per attivare inediti processi di formazione di identità collettive che sfruttassero a fini aggregativi caratteristiche trasversali ai tradi- 74 Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia zionali cleavages in grado di consolidare la formazione di partiti e persino movimenti sociali, cercando di trasformare l’occasione delle primarie, a prescindere dal loro esito, in un’offerta esplicita di azione collettiva verso portatori di domande e rivendicazioni latenti, tra cui quel composito pluriverso di soggetti dalle caratteristiche eterodosse come Vendola stesso. Comunista, poeta, cattolico e omosessuale dichiarato, il suo profilo identitario plurale da anni lo aveva reso un comunicatore anomalo, sperimentatore di formule originali attente a mai pescare da un’unica fonte o tradizione e anche per questo a proprio agio in mezzo alla gente più che in televisione, dove si sconta l’immane fatica di far passare la voce di un’anomalia (Cristante 2005, 81). A doti personali del candidato Vendola, come la ricordata notorietà e il carisma, si sono aggiunte dunque variabili tecniche, come la più efficace comunicazione, e “partitiche”, ossia la compatta mobilitazione dei suoi sostenitori, a cui aggiungere, in special modo per le conseguenze che ne scaturiranno in sede di effettiva campagna elettorale, i significativi appoggi ricevuti sia nel mondo politico che in quello associativo. Per anni rimasto il principale esponente parlamentare di tutta la sinistra a mantenere, nonostante il ruolo dirigente nel partito, un contatto fisico continuo con gran parte del territorio pugliese, ergendosi a patrimonio comune anche per fasce non residuali dell’elettorato diessino e del Pdci, Vendola ha guadagnato il sostegno di Pietro Folena, transitato solo successivamente dalla Quercia a Rifondazione, ma, soprattutto, decine di dichiarazioni di appoggio in spregio alle indicazioni dei relativi partiti. Citiamo, fra tutti, il peculiare caso dei Comunisti italiani, pronunciatisi con la segreteria regionale a favore dell’astensione dalle primarie, ma la cui ambigua scelta è stata ampiamente sconfessata in decine di realtà locali, dove gli iscritti si sono attivati a favore del “compagno Vendola”, anche al fine di non smentire con i fatti la linea imposta dal Segretario nazionale, Diliberto, sempre spesosi a favore di una prospettiva unitaria della sinistra e contro duelli favoriti dalla “sindrome del divorziato” per la ferita aperta dalla scissione del 1998. Vendola ha altresì captato immediatamente il favore delle associazioni ecologiste, anche quando non collaterali ai Verdi o al PRC, per la centralità riservata nelle proprie battaglie alla tutela, talvolta un po’ scomposta, dell’ambiente su delicate questioni quali l’emergenza rifiuti o la spina del rigassificatore a Brindisi, o, ancora, sull’inquinamento prodotto a Taranto dall’Ilva. Egli, infine, è stato amichevolmente sostenuto dall’avanguardia dell’associazionismo cattolico maggiormente attivo nel sociale, pescando quindi in maniera non trascurabile tra le fila di un elettorato potenzialmente di riferimento per Boccia attraverso il tramite della Margherita. In particolare, il sostegno fornito dalle associazioni contro le mafie, la droga, e la sensibilità, coerentemente cristiana, verso i poveri, i carcerati, hanno sortito un effetto di trascinamento per i cattolici laicamente scevri da pregiudizi retrogradi, garantendogli un consenso che ha sfilato a Boccia prima e a Fitto poi fondamentali pietre angolari per l’edificazione degli attesi successi. 7. Il voto regionale Se aderiamo alla tesi di Albert Hirschman, il quale, malgrado rifiuti di rapportar- 75 n.16 / 2006 si all’individuo razionale della dottrina economica generalmente accettata, sostiene che «gli atti di consumo, e come questi gli atti di partecipazione agli affari pubblici, sono intrapresi perché ci si attende che procurino soddisfazione, e tuttavia, in realtà, generano anche delusione e insoddisfazione» (Hirschman 1995, 18), allora il caso delle primarie pugliesi, nonostante lo spirito unitario che le aveva pervase sia tra gli organismi dirigenti dei partiti che tra gli elettori, pone un interrogativo generale, ma ancor più interessante vista la vittoria dell’“estremista” Vendola: come impedire che tra l’elettorato potenzialmente di riferimento, che ha scelto o ha guardato con maggior simpatia Boccia, si insinui il distruttivo germe della delusione, soprattutto per il timore che il successo della risicata maggioranza destini l’intera coalizione a sicura sconfitta contro l’incumbent, Fitto ? Si considerino le aspettative nutrite dagli individui nell’elaborare il progetto di fare una determinata cosa. Collocandosi in tale prospettiva, si potrebbe concludere che, trattandosi di una esperienza senza precedenti del genere per i pugliesi, ed essendosi registrata un’affluenza inattesa, la delusione per gli sconfitti sia risultata attenuata nonostante e oltre le immediate strette di mano tra Vendola e Boccia e le garanzie di lealtà della minoranza. Riprendendo alcune suggestioni di Pasquino, si può ragionevolmente concludere che il grande entusiasmo da parte degli elettori di centrosinistra per le primarie possa aver sopito la delusione degli sconfitti sia nel caso pugliese che in occasione di quelle dell’ottobre successivo, perché con quello strumento sarebbe stata risolta l’annosa questione della leadership. Non si dimentichi, infatti, che su scala nazionale, ancora alla vigilia delle primarie, la costituita Unione non era riuscita del tutto a legittimare Prodi come leader indiscusso capace di tenere insieme tutti i partiti della coalizione, come invece, sin da prima delle vittoriose elezioni del 2001, era evidente per gli elettori della CdL con Berlusconi (Pasquino 2002a, 131). L’inserimento delle primarie regionali entro una cornice politica complessiva segnata da un’opposizione movimentista senza sconti al Governo Berlusconi in carica, attraversata da una tensione etica ripetutamente delusa dalla moderazione venata da tentazioni compromissorie dei vertici partitici, anche a causa della già accennata difficoltà di comporre coerentemente le variopinte anime del centrosinistra, avrebbe dunque alleviato il malcontento dei sostenitori di Boccia per la scelta di Vendola, sia in considerazione delle linee programmatiche indicate per il governo della Regione, per esempio molto nette in tema di lavoro precario, non combattuto invece in sede parlamentare con altrettanta decisione, accentuando di conseguenza la dissonanza cognitiva tra i partecipanti alle primarie. Il superiore estremismo degli elettori della GAD, poi Unione, rispetto alle classi dirigenti dei partiti, ha accentuato la pervasività della dissonanza cognitiva, vale a dire l’autoinganno nel quale si rifugiano le persone che hanno effettuato una scelta o fatto un acquisto, evitando ogni informazione “dissonante”, cercando in ogni modo di confermare la bontà della scelta collettiva, anteponendo il successo collettivo alle scelte personali, anche al fine di sentirsi pienamente protagoniste di tale esito. Ciononostante rimane incontestabile che Vendola ha ottenuto più voti nelle elezioni laddove era andato meglio alle primarie, e meno in quei paesi in cui era risultato più forte Boccia. In verità, anche qualora permanga qualche dubbio sull’eventuale malessere di taluni elettori più “moderati”, la peculiarità del sistema elettorale adottato imporrebbe una verifica empirica sulle schede che si concentri su due tipologie di 76 Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia voto. Considerato che la mera selezione di un partito sulla scheda elettorale trasferisce automaticamente il voto anche al candidato Presidente della coalizione, al più consentendo di scegliere esclusivamente quest’ultimo, potrebbe costituire motivo di interesse verificare se i voti andati alla Margherita o all’Udeur siano privi di un’esplicita indicazione per Vendola in misura rilevamentemente superiore alla media. Un secondo tipo di analisi avrebbe potuto riguardare il ricorso al voto disgiunto, onde verificare quale o quali partiti in particolare nel centrosinistra siano stati oggetto di preferenza invece destinata a Fitto come candidato presidente. Il tasso del voto personale per Vendola, comunque, segnala un’evidente capacità del candidato della GAD di penetrare tra le maglie dell’elettorato, conquistandolo sorprendentemente più di Fitto, Governatore uscente di uno schieramento dalle più ostentate pulsioni presidenzialiste. Mentre infatti la vittoria del centrosinistra conteggiando esclusivamente i voti di lista è ridotta a 4.500 voti (1.064.410 a 1.059.869), il margine di distacco si è leggermente ampliato in virtù dei voti personali collezionati da Vendola (101.126), quasi diecimila in più dell’avversario (91.536), sconfitto pertanto proprio sul terreno presupposto più congeniale. E sconfitto soprattutto per l’elevata personalizzazione del voto nel barese (escludendo la sesta provincia), dove Vendola ha raccolto il 40,98 % dei voti maggioritari a proprio favore (41.439) in tutta la Puglia, staccando talmente Fitto da non consentire a quest’ultimo di recuperare nonostante l’eccellente rendimento nel basso Salento (25.078 voti personali). Vittoria nel complesso di misura, maturata pur non raggiungendo il 50 % dei voti validamente espressi, favorita dalla transumanza del partito dei Pensionati dal centrodestra alla GAD e dalla formazione di una neo Democrazia Cristiana (la DCU), nonché vittoria in merito alla quale rimarcare quattro elementi, che analizzeremo sinteticamente ma puntualmente: a) la capacità di Vendola di mantenere intatto, se non addirittura di incrementarlo, l’entusiasmo generato dalle primarie, con l’inattesa partecipazione del 16 gennaio; b) la vittoria di Vendola come paradigma del riscatto del Politico impegnato a intraprendere una sfida per l’egemonia, rifiutando il compito di gestire l’esistente mediante scelte annacquate, per sfuggire al rischio della precipitazione del neutralismo impolitico; c) la capacità di innescare un effetto traino a favore dei partiti di sinistra, pur in una gestione dell’immagine mai schiacciata sulla propria appartenenza; d) l’abilità nell’impostare una campagna elettorale i cui effetti ne hanno accentuato la personalizzazione, in parte contraddicendo lo sforzo di coinvolgere orizzontalmente i cittadini, e ridimensionando l’illusione di chi, passando in rassegna il voto del 3 e 4 aprile, nei suoi esiti scorgerà l’irreversibile tramonto del berlusconismo. 7.1 Sfruttare il momentum I comitati spontanei, quelli di “partecipazione democratica”, hanno sostenuto con entusiasmo raramente rintracciabile in occasioni elettorali la candidatura di Vendola. Sorti persino all’estero, essi si sono contraddistinti nella quasi totalità dei casi per specializzazione tematica (ad esempio sul Parco dell’Alta Murgia), 77 n.16 / 2006 per appartenenza categoriale (gli “artisti per Nichi”), e/o per l’impegno sui temi generali della partecipazione politica (i comitati per la cittadinanza attiva). Tale intensa mobilitazione, come suggerito da alcune letture degli avvenimenti, sarebbe stata stimolata da un senso di responsabilità nei confronti del candidato: l’aver contribuito in prima persona a designarlo, spezzando ossidati bilanciamenti nel centrosinistra, ha condotto i suoi sostenitori della prima ora a condividere il destino elettorale e quindi a mettersi attivamente in gioco per tutta la durata della campagna, in una sorta di “chiamata di correità” (Romano 2005, 230). L’apporto dei comitati sia nella definizione di taluni punti programmatici che nell’azione di propaganda ha consentito allo staff di Vendola di limitarsi a fungere da struttura di collegamento tra i numerosi candidati, specialmente con un costante aggiornamento del sito Internet. Dinanzi infatti a partiti ormai abituati a procedere in ordine sparso, tanto più che il proprio risultato era chiaramente legato al consenso personale che sarebbero stati in grado di catalizzare i loro esponenti, a partire dai consiglieri uscenti, la funzione di coordinamento del comitato elettorale di riferimento ha permesso di ottimizzare l’impiego di molte risorse umane, garantendo a tutte le esperienze periferiche, nessuna esclusa, la presenza di Vendola in almeno un’occasione. 7.2 Vittoria del Politico Aprendo una crepa nel sistema blindato dell’ideologia del neutralismo speculare delle proposte elaborate in sede politica rispetto al senso comune, o al più distorcendolo per accordi sottobanco, le primarie sono state trasformate da Vendola nell’occasione mediante la quale farsi visibilmente soggetto di una visione che alla Politica ridotta ad amministrazione dell’esistente cerca di sostituire idee forti, riconoscibili, reali prospettive di mutamento. Vendola riesce su Boccia prima e su Fitto poi perché, rigettando, quanto meno sul piano retorico, velleità sbiaditamente riformiste del versante più conservatore della coalizione, esplicitamente considera limitata la capacità umana di immaginare il cambiamento sociale, e sceglie di battere la via che riconduce i fattori del mutamento entro lo schema forse semplicistico, ma non privo di sicura efficacia, di proporre su alcune tematiche cruciali l’opposto dello stato presente, invece di qualcosa di sfumatamente diverso, costringendo in tal modo Fitto ad arroccarsi, persino al di là delle intenzioni, sulla difesa rigida dello status quo, aggravata dall’omogeneità della maggioranza che lo ha sostenuto con quella parlamentare. Con un’anomalia, tra l’altro. Quella della Lega, reificazione partitica della tentazione padana di un’Italia a due velocità. Sfruttando l’esacerbamento di un malcontento che in passato Fitto non aveva esitato a direzionare contro le riforme costituzionali perorate dal centrosinistra e che adesso, con le iniziative secessioniste, andava a toccare le corde più profonde dello stato d’animo meridionale segnato dalla deprivazione, perennemente inclinato alla rivendicazione lacrimosa rispetto a quanto sarebbe stato strappato al Mezzogiorno “povero” dal resto del paese “benestante”. Maliziosamente tentato di fare delle regioni meno sviluppate discariche a cielo aperto da ricompensare con un po’ d’elemosina. Vendola ha evocato le paure più recondite dei suoi corregionali, al fine di mutare in orgoglio quel ribellismo da frustrazione verso chi sta meglio del Sud, pro- 78 Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia mettendo al Mezzogiorno di poter scegliere una versione di sviluppo alternativo, storicamente compresso sino al punto di coincidere nell’immaginario collettivo con il galleggiamento nell’arretratezza della rete ferroviaria locale, con la cronica mancanza d’acqua in alcune zone della Puglia per la trasformazione in scelte antieconomiche, in perfetta coerenza con l’ideologia neoliberista, della necessità di mettere mano alle condutture dell’Acquedotto Pugliese. Secondo le oleografie alle quali si dedicano i quotidiani (Merlo 2005), Vendola ha pervicacemente cercato di presentarsi come un leader gentile e delicato, un Masaniello sui generis, sfruttando a proprio favore la statura molto meridionale e la timidezza accentuata dai capelli a caschetto. 7.3 L’effetto traino per la sinistra della candidatura Vendola La candidatura di Vendola e l’immediato supporto, quasi di stampo militare, fornitogli dagli attivisti del PRC e da altri settori dell’associazionismo collaterali al partito o comunque tutt’altro che ostili allo stesso, gli hanno consentito di favorire un’eccellente affermazione di Rifondazione, attestatasi con il 5,1 % quale terza forza della GAD, senza che il risultato andasse a scapito del Pdci, cresciuto, rispetto al 2000, dal 1,7 al 2,3 %, a confermare che la disposizione dell’elettorato a muoversi, sia pure quasi esclusivamente entro le coalizioni, sia la prova patente dell’errata convinzione assolutistica nutrita dai ferventi sostenitori della priorità di conquistare il “centro”. Il crollo della Margherita al 7,1% dal 12,3 % ottenuto nel 2000 da Popolari e Democratici, non compensato da una significativa crescita dell’Udeur (3,3 % rispetto al 2,8 %), anzi coincidente con il ridimensionamento di Forza Italia (anche a voler sommare i consensi della lista di Fitto si registra un calo dell’1,8 %) e con la lievissima crescita dell’UDC, ha segnato, certamente con pretesa marginale, un recupero dei partiti “laici”, e delle liste socialiste oltre tutte le altre. Il “fattore DC” nel nuovo sistema partitico, pur mantenendo un’indubbia persistenza rispetto al passato, è risultato ammaccato, anche se affidiamo al tempo la lucidità di giudicare se ciò concerna più il piano simbolico che quello reale. Vendola è riuscito a non trasformare la scelta di Rifondazione di essere pienamente associata alla GAD prima e all’Unione poi in appiattimento su posizioni di “governo” costrette a misurarsi con le scelte ancora equivoche del centrosinistra, garantendo una proiezione pubblica di partito anche “di lotta” e tuttavia attento a demolire con i propri comportamenti il persistente pregiudizio di chi lo giudica “anti-sistema”. Annodando il rapporto lasco, che nel 1996 aveva dato vita, in sede elettorale, alla “desistenza”, Rifondazione, a seguito di una decennale opera di tessitura degli organismi dirigenti regionali, tra i più sensibili a tessere trame di organica collaborazione con l’Ulivo, non foss’altro che per far fruttificare un discreto patrimonio di consensi in Capitanata e nell’entroterra barese, con pochi eguali nel Mezzogiorno profondo, ha potuto far leva sul carisma di Vendola, ritornando persino ad affacciarsi nell’underclass, da anni orientata a destra. E anzi, il consenso indirizzato al solo Vendola, al di là degli “errori” nell’espressione del voto e come effetto più immediato della campagna elettorale, consente di rilevare che l’ostilità nei confronti dei “comunisti”, agitata ossessivamente da Berlusconi, sia 79 n.15 / 2006 di sicuro impatto tra gli elettori più fidelizzati del centrodestra, ma possa attenuarsi quando l’evocazione del “pericolo rosso” appostata dietro la falce e martello risulti “coperta” dall’investimento sull’immagine del candidato, in grado di trasmettere una coesione unitaria dello schieramento a proprio sostegno, lavorando per infrangere la perversa circolarità di una propria dipendenza dal partito di riferimento, che ne farebbe collimare le sorti. La vera sconfitta delle regionali è così risultata “La Primavera pugliese”, in grado di raggranellare appena il 2,6 %, e soprattutto in evidente sofferenza per non aver saputo liberarsi del proprio imprinting “baricentrico”, legato ai nomi di Emiliano e Divella, il primo specialmente in debito di consensi. Nell’incapacità di trasformarsi in lista d’opinione più diffusamente radicata sul territorio, essa ha inteso il proprio appoggio a Vendola come sostegno a un personaggio in grado di indicare, in ciò al pari dell’Emiliano impegnato nella campagna elettorale per il Comune di Bari, una capacità di “stare tra le gente” innovativa per l’aristocratico centrosinistra pugliese, sebbene oggetto di una strumentale intensificazione a ridosso delle elezioni, come analizzeremo adesso. 7.4 La campagna elettorale Mentre nel 2000 il centrosinistra aveva scelto un candidato “centrista” (Giannicola Sinisi, come nel 1995 con Luigi Ferrara Mirenzi), nel 2005 sono stati i suoi elettori a preferire un cambio di rotta, puntando su Vendola, deputato dal 1992, abile oratore, impegnato, come già accennato, in battaglie difficili e minoritarie, non sempre garanzia di ritorni elettorali, come quella contro la criminalità organizzata. Ma che ciò rappresentasse un problema per la rassicurazione dell’elettorato moderato, verso il quale altrimenti Fitto avrebbe rischiato di sfondare, è stato chiaramente evidente nella campagna elettorale di Vendola. Egli, per di più, doveva vincere il pregiudizio che accompagna molti cittadini nei confronti degli omosessuali e si è ritrovato a combattere contro un tradizionalismo indisposto ad accettare l’autenticità valoriale del suo cattolicesimo, giudicato in alcuni ambienti clericali “incompatibile” con tendenze sessuali “anormali”. Sconfiggere in un sol colpo l’essere comunisti, gay e praticanti rappresentava uno scoglio appuntito che esempi rassicuranti garantiti dall’estero non aiutavano a inabissarsi, e non solamente perché nell’Italia meridionale il tutto avrebbe potuto rivelarsi un limite insormontabile. Curata dall’agenzia barese “Proforma srl”, che si era già occupata con successo della campagna elettorale di Emiliano, quella comunicativa di Vendola ha privilegiato registri lessicali diretti, senza imboscarli dietro frasi di circostanza, tatticamente adoperate per guadagnare il favore degli indecisi. Contro i pregiudizi ideologici e sessuali che rischiavano di ricoprire, per quanto si fosse abili nel loro contenimento, un peso decisivo nel determinare il vincitore, Vendola ha agito su due piani contemporaneamente: a) si è impegnato senza reticenze in una modalità comunicativa ecumenica, con la quale ha guidato tutta la coalizione in campagna elettorale, anche al fine di dimostrare di possedere quelle indispensabili capacità di coordinamento che il mero impegno parlamentare richiede in misura inferiore e per dimostrare di riuscire a imporre l’attenuazione dei toni delle proposte che non avrebbero 80 Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia avuto il consenso da parte di tutte le liste a suo sostegno (Cristante 2005, 78); b) attraverso i curatori della campagna, ha capovolto a proprio favore gli aggettivi con i quali gli avversari erano soliti apostrofarlo più spesso, con il non misconosciuto intento di demolire un linguaggio, quasi un gergo, alimentato dal quarto potere, ma il cui senso è diametralmente alternativo a un utilizzo libero da precomprensioni distorte. La sua “diversità” è stata manipolata per farla diventare elemento di rottura con il disastro regionale (“Diverso: da quelli che oggi governano la Puglia”). Oppure l’estremismo associato alla propria appartenenza politica è stato trasformato in un modo d’essere “estremista” sì, ma “nell’amore per la Puglia”. Autobollandosi nella cartellonistica come “pericoloso”, “sovversivo”, adducendo però nelle didascalie spiegazioni positive, Vendola ha cercato di stabilire un’interazione con il lettore-cittadino, la necessità di misurarsi con un pensiero depurato dai tipici lustrini della convention. Assecondando tale tattica, sono risultate depotenziate le accuse che il centrodestra, ma non esclusivamente, era solito muovergli proprio con tali portati di durezza. Anche gli spot di Alessandro Piva, tentando di denudare i guasti del modello pugliese propugnato da Fitto, hanno puntato l’indice contro la modernità rivendicata per la Puglia dal centrodestra, evidenziando che, grattando sotto la superficie, si presentava un groviglio di drammatici problemi irrisolti, per disinnescare i quali era necessaria un’alternativa, della cui possibile applicazione Vendola si faceva garante verso lo spettatore. Vendola ha insomma demitizzato il proprio estremismo, l’appartenenza a un partito sul cui nome Berlusconi ha costruito, sin dalla “discesa in campo”, il fronte di una paura sociale evocando lo spettro della continuità con un totalitarismo tragico che la storia ha in Occidente archiviato. Raccogliendo alcuni aggettivi usualmente associati a una connotazione politica “radicale”, “estrema”, Vendola è arrivato persino a ironizzare sul portato allarmante, facendo leva su un malcontento nei confronti della politica attuale che fende trasversalmente tutti gli elettori, per dimostrare che la durezza di certe prese di posizione non può essere banalmente ricondotta a una collocazione tra le forze politiche incompatibile con la pretesa di diventare il vertice istituzionale regionale. È lo spazio politico che si è modificato negli ultimi anni, contraendosi in una gelatinosa consonanza di policies tra gli schieramenti che soffoca tutte le voci dissenzienti rispetto ai dogmi liberisti e monetaristi. Egli ha sfruttato il rapporto con la madre sul versante della rassicurazione, al fine di evidenziare quanto la propria dichiarata omosessualità, – che gli aveva prontamente garantito in fase di confronto per le primarie l’appoggio di Franco Grillini e dell’Arcigay e che lo aveva fatto partecipare al Gay Pride di Bari senza remore – non possa finire tra le volgari considerazioni di alcuni avversari politici, ma sia parte della proiezione pubblica di un uomo il quale, come tutti, mantiene un legame di infinita tenerezza con la mamma, tanto più nel Mezzogiorno supremo riferimento per la famiglia. Nei manifesti elettorali Vendola le si appoggia delicatamente, girando lo sguardo quasi a voler ritagliare per la propria emozione una dimensione residualmente privata, mentre la madre sorride gioiosamente all’obiettivo. Si è cercato di solleticare la condivisione di un rapporto con la genitrice attorno al quale si rompono i rigidi schemi politici, rivolgendosi quindi potenzialmente a tutti i pugliesi. Strategia elettorale volta a rafforzare l’idea comune che la Mamma riesca a smussare ogni asperità, ogni peculiarità esclu- 81 n.16 / 2006 7 Tesi sostenuta con decisione dallo stesso neo-Presidente (Vendola 2005b) 82 dente, nei suoi confronti ritrovandosi una perfetta coincidenza nei comportamenti di un omosessuale come Vendola con quelli di qualunque elettore, per sfilare a quest’ultimo l’alibi del comodo ricorso immotivato al pre-giudizio. Normalizzare la diversità, le inclinazioni annidate tra i versi delle proprie poesie, ha significato anche far passare attraverso i media l’immagine autorevole di un candidato adeguatamente capace di rivaleggiare in stile sartoriale con le impeccabili tonalità scure di Fitto, i cui completi blu ne hanno definito contorni mimeticamente replicanti di Berlusconi, a cui l’ex Governatore continua a essere associato, talvolta con ostentazione eccessiva. Se da un lato, pertanto, Fitto non ha rifiutato la ricerca di una connotazione che potesse delinearne la piena autonomia da un governo della Repubblica in evidente crisi di consenso, confezionando una lista civica, “La Puglia prima di tutto”, che sin dal nome intendeva prendere le distanze dall’accondiscendenza di Forza Italia, dell’UDC e di AN nei confronti della Lega, impostandone il colore prevalente sull’arancione, dall’altro Vendola si è autonomizzato dalla declinazione forzata che altri avrebbero voluto darne, attraverso la madre garantendo sulle proprie personali capacità, mentre su Fitto, che pure non aveva rinunciato a farsi fotografare con la mamma intenta a schioccargli un bacio, è rimasto sempre aleggiante il ricordo del padre. Nell’inevitabile oscillazione tra il codice materno e quello paterno, reciprocamente esclusivi, il primo produce una società dei fratelli – la cui sottesa solidarietà rappresenta per il Mezzogiorno l’unica credibile strategia di salvezza –, mentre il secondo genera la società dei mercanti e dei predoni, come ha rilevato Pietro Barcellona sulla scia di Pasolini e Fornari (Barcellona 2006, 42). In considerazione di tutto ciò, quando solleviamo alcune perplessità circa la conclusione di Cotturri in merito al significato della vittoria di Vendola come certificazione del superamento del berlusconismo7, intendiamo sottolineare l’importanza ricoperta dalla campagna elettorale, dalle strategie di marketing politico veicolate con spot e cartelloni, non persuadendoci affatto che queste siano risultate secondarie rispetto allo sforzo di organizzare significativi appuntamenti di confronto e scambio di idee (Cotturri 2005a). Sarebbe impossibile imporre al cittadino-elettore-consumatore una strategia che pretenda di localizzare la scelta politica nelle sezioni di partito, nelle piazze o nei mercati e non anche in televisione o con abili fotografi e truccatori. Quel che la campagna per le primarie e quella per le elezioni regionali hanno evidenziato è l’esigenza di somministrare con grande perizia all’attento consumatore dosi di fidelizzazione verso un candidato da trasformare necessariamente in leader, con un coinvolgimento non eccessivamente impegnativo ma che non sia angustamente sacrificato nel passivo ascolto di un comizio. I fautori della democrazia partecipata fanno da alcuni anni largo all’idea di autoistituzione: non ci si illuda che esista un popolo già formato da rispecchiare, ma, à la Castoriadis, vi è un processo continuo e mai concluso di costruzione partecipata e discorsiva del bene comune, della verità e della stessa identità dei singoli, disposti, però, se necessario, a delegare i propri poteri per farsi rappresentare da politici e cittadini comuni non ricompresi entro tradizionali categorie di appartenenza. Una vittoria elettorale non può essere figlia, tra l’altro nata – come nel caso di Vendola – da una gestazione parecchio inferiore ai nove mesi, di cambi improvvisi di idee e di mentalità, ma queste possono al massimo risultare liberate da Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia schermi coprenti mediante tecniche manipolatorie e accordi elettorali. Coglie pertanto nel segno Onofrio Romano quando scrive che «Vendola è stato capace di dare cittadinanza a dimensioni espunte da anni dalla sinistra politica e monopolizzate da Berlusconi: ha somministrato alla sinistra alcune dosi omeopatiche di berlusconismo, che il codice riformista si ostina a schernire. Ha dato voce ai moti profondi dell’anima. Ha emozionato. Ha commosso» (Romano 2005, 236237). A conti fatti, il vero antiberlusconiano è stato Fitto, inchiodato dal suo strapotere sull’esigenza di non tradire la pratica di governo democristiana appresa in famiglia. 8. Conclusioni «Il fatto che la Puglia sia una regione di regioni costituisce […] un vantaggio, perché esistono più tradizioni» che oggi trovano uno spazio prima loro negato. Il declino relativo di Bari e il successo di Lecce e del Salento possono essere decifrati in tale ottica (Botta 2004, 20). Nella vita, in fondo, tanto più in una realtà globalizzata che impone di ripensare i modelli di sviluppo dominanti nel passato, è importante sia per i singoli che per le collettività diventare sempre qualcosa di diverso, di nuovo. Vendola ha saputo interpretare più abilmente di Fitto questa esigenza in sede di campagna elettorale, sintonizzandosi sui più frammentati e polverizzati umori dei giovani, utilizzando con maggiore efficacia e disinvoltura Internet, cogliendo senza tentennamenti che, dinanzi all’impossibilità di considerare specifici ceti sociali quali punti di forza di un partito, diventa fondamentale lavorare su fratture di genere, sulle coorti d’età, sempre proponendosi in prima fila per affrontare tutte le emergenze esistenti e che rendono penosa la vita dei pugliesi in un’ottica di problem-solving. Un ruolo senza dubbio centrale è stato ricoperto dalla società civile, un serrato confronto con la quale, costringendo il retrivo ceto politico del centrosinistra a smuovere il proprio immobilismo, si è alla fine rivelato un elemento di cambiamento, fornendo un prezioso apporto nelle vittorie che hanno costellato il biennio 2004-2006. Sicuramente la reciproca maturazione ha contribuito a mettere in evidenza la composizione proteiforme del sistema politico regionale, nel quale i partiti sono solamente uno dei pilastri, ancora necessario, indispensabile, ma tutt’altro che sufficiente. Basterebbe pensare alle decine di comitati che hanno sostenuto Vendola, al pari degli artisti che, garantendogli il proprio appoggio, hanno portato in tante piazze momenti di spettacolo gratuito, accessibile a tutti, fino a una vera e propria maratona di chiusura della campagna elettorale che ha contribuito a inorgoglire tanti pugliesi per la centralità guadagnata in un evento a cui decine di mass media hanno dedicato la propria attenzione. Ciò ha tuttavia testimoniato l’impossibilità di sottrarre alla comunicazione la centralità che al suo ruolo è garantito da quest’epoca, e, soprattutto, di evidenziarne pienamente la mistificazione a cui essa si accompagna: «presentarsi sotto le insegne del progressismo democratico, mentre costituisce la configurazione compiuta dell’oscuramento populistico» (Perniola 2004, 6). Sottraendosi a ogni 83 n.16 / 2006 8 E che contraddice la meritocrazia di taglio imprenditoriale garantita come stella polare delle proprie scelte a tutti i media a vittoria appena conquistata (Vendola 2005a). 9 Quando la CdL, in Puglia, ha sconfitto l’Unione sia alla Camera (51,54 % a 48,29 %) che al Senato (51,89 % a 47,86 %). 84 determinazione, aspirando a essere contemporaneamente una cosa, il suo contrario e tutto ciò che sta in mezzo tra i due opposti, essa manifesta il proprio totalitarismo pervasivo nella ricerca di comprendere persino l’antitotalitarismo (Perniola 2004, 9). Essa immerge tutto nell’immediato, dissolvendolo nell’istante, riducendolo a un vitalismo che si esaurisce in un’infinita sequenza di momenti saturi. L’estrema consumabilità del messaggio nel labirinto mediatico della videopolitica, che non tollera una memoria troppo lunga, lo proietta a barcamenarsi ambiguamente tra slogan che garantiscano visibilità e polisemia (Prospero 2001, 31). Le primarie non sono sfuggite a tale trappola, e ovviamente non ne è risultato indenne il loro esito, nonostante l’interpretazione benevola che potremmo suggerire affiancando alle scelte propagandistiche ufficiali lo sforzo di coinvolgimento della cittadinanza nel contribuire a progettare il futuro condiviso. Anche in ragione di siffatto sforzo ha deluso tante aspettative la formazione di una Giunta “Bari-centrica”, di profilo inferiore alle attese, solcata da alcune profonde contraddizioni, ancora irrisolte, come l’esclusione di uno degli alleati, il Pdci, aggravata dall’equivoco di volergli dare in quota uno degli assessori scelti direttamente dal Presidente. Prosternazione a una logica da manuale “Cencelli” che ha ricondotto i propositi vendoliani della vigilia ad affievolirsi nella sapiente regia per il proprio partito nell’occupazione sistematica e famelica delle cariche pubbliche, in adesione a una pratica di spoil-system che rende il turnover innescato in questi anni vorticoso come mai si era visto nei decenni passati8. La nuova Giunta, peraltro, ha dovuto misurarsi, fuori dagli schemi delle promesse elettorali, con ben noti problemi, come quello dei rifiuti e quello energetico, assumendo nella prima fase della propria esistenza atteggiamenti equivoci e troppo spesso reticenti rispetto alla chiarezza garantita in campagna elettorale, così contribuendo a una rapida erosione dei consensi, come verificatosi nelle politiche del 20069. La “primavera” ha già ceduto il passo all’autunno del malcontento ? Riferimenti bibliografici Amendola, G. (2005), “I partiti non capiscono più i loro popoli”, in Corriere del Mezzogiorno, 20 gennaio, p. 1. 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La fonte documentaria di Arrighi è costituita da una corrispondenza fra organismi massonici, che si trova presso l’archivio del Grande Oriente di Francia, di notevole interesse ai fini della ricostruzione della biografia del più autorevole esponente del pensiero federalista italiano del Novecento. Alla fine di questo scritto, viene fornita la trascrizione della parte essenziale della prima delle quattro lettere e le altre tre lettere. Il 21 marzo 1935 il venerabile della loggia o atelier “La parfaite harmonie” scrisse al Grande Oriente di Francia informandolo che: “il fratello Silvio Trentin attualmente librario a Tolosa, al n. 46 della via Languedoc, ha manifestato il vivo desiderio di assistere ai lavori della R. L. la Parf. H. Le referenze più serie sono state presentate dai nostri f.[rères] Costeodat e Rabary tutti e due della P. H. Referenze morali, ben inteso. Il f. Trentin è di una vasta cultura e renderà dei servizi. D’altra parte questo f. esiliato per le sue opinioni ed atti antifascisti ha un urgente bisogno di aiuto morale. Egli si trova solo, smarrito, un po’ scoraggiato. Il nostro dovere urgente è quello di dargli tutto il nostro appoggio. Il f. Trentin ha dichiarato che egli era stato iniziato alla L.[oggia] Darwin di Pisa – (Ven. il professore Pozzolini). Entrato in sonno nel 1906, egli domandò di riprendere la vita Massonica attiva nell’ottobre 1925, nel momento in cui fu depositato il progetto di legge Rocco per lo scioglimento della F.[amiglia] M.[assonica] Italiana. Egli fu allora collegato al G. O. [Grande Oriente] di Roma. Il f. Trentin è nato l’11 Novembre 1885 a San Donà di Piave – Venezia. Io vi prego M.Ill. F., se voi ne avete la possibilità, di farmi conoscere se le dichiarazioni del f. Trentin sono esatte e d’altra parte, se il nostro At.[elier] può, senza creare qualche spiacevole precedente, accettare questo fratello alle sue riunioni. Io vi sarò molto obbligato di farmi conoscere il vostro parere nel più breve termine di tempo” (Archivio del Grande Oriente di Francia, cartella Tolosa). Trentin si era iscritto al primo anno della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pisa due anni prima della entrata nella loggia pisana, il 9 dicembre 1904. Agli inizi del Novecento la massoneria era ancora in Italia l’organizzazione di tutte le forze che sostenevano e davano coesione allo Stato. L’adesione di Trentin alla massoneria, l’unico partito reale ed efficiente creato dalla borghesia italiana che sta avendo in quegli anni, quelli dell’uomo politico piemontese Giovanni Giolitti, il suo massimo sviluppo, è coerente con le tradizioni risorgimentali della sua famiglia e la sua formazione scolastica. Alla scuola elementare, in quarta e in quinta, è stato allievo del maestro Secondo Ciceri influenzato dal pensiero democratico di Giuseppe Mazzini. Al ginnasio-liceo Marco Foscarini di Venezia ha avuto come docente il conte Pietro 87 n.16 / 2006 Orsi, autore di un’opera di storia italiana di orientamento liberale ed anche anticlericale, nella quale aveva espresso, fra l’altro, una critica severa nei confronti di Carlo Tivaroni, notissimo esponente del radicalismo veneto (Orsi, 1901 - Per alcuni riferimenti al ruolo culturale di P. Orsi a Venezia, M. Isnenghi 1984). Orsi era a Venezia uno dei dirigenti dell’Unione democratica, un’organizzazione che nel 1912 si era fusa con il partito radicale (Piva, 1977, 26). A Venezia il partito radicale, espressione dei ceti intermedi, era caratterizzato in senso fortemente anticlericale. L’anticlericalismo era una posizione condivisa anche da molti liberali e socialisti nei confronti dei quali, soprattutto dei primi, il partito radicale rivolgeva delle proposte di alleanza politica ed elettorale. L’anticlericalismo aveva anche la funzione di dividere i moderati laici dai moderati cattolici. Il partito radicale raccoglieva un certo consenso non soltanto dei ceti medi in città ma anche in provincia, a Portogruaro e a San Donà di Piave, da parte della borghesia agraria impegnata, mediante capitali propri e mediante i consorzi di bonifica, nella lunghissima, complessa e difficile operazione della bonifica delle paludi (Fassetta, 1977) La famiglia Trentin possedeva dei terreni agricoli. Trentin, pur non appartenendovi, era molto vicino allo strato della borghesia agraria protagonista delle bonifiche delle paludi del Basso Piave ai margini della laguna di Venezia. Nelle note sulla politica agraria del fascismo, pubblicate su “Giustizia e libertà” del 1938, Trentin esprime il suo legittimo orgoglio per la tradizione veneta delle bonifiche, quella del Magistrato alle acque e dei consorzi della Repubblica di Venezia. Egli esalta i sacrifici sostenuti dai contadini, che spesso morivano molto giovani per bonificare le terre; inoltre difende i risultati ottenuti nella bonifica dalla legge Baccarini del 25 giugno 1882. I suoi primi saggi giuridici, pubblicati anche prima della laurea, sono dedicati ai consorzi di bonifica, una storica istituzione creata nella prima metà del Cinquecento nella Terraferma veneta dalla Repubblica di Venezia nella quale si realizzò, almeno in parte, il principio della sussidiarietà. Tuttavia al congresso regionale veneto delle bonifiche, che si svolse a San Donà di Piave dal 23 al 25 88 marzo 1922, Trentin presentò, oltre alla relazione, una mozione che fu duramente contrastata dagli agrari bonificatori per due richieste in essa contenute nei punti 3 e 7, relative al diritto di ispezione del Governo nelle bonifiche private e alla responsabilità dei proprietari terrieri per la malaria contratta dai loro braccianti quando essi fossero stati inadempienti nel provvedere alle misure profilattiche (Sulla diffusione della malaria nel Sandonatese e nel Veneto, P. Sepulcri 1936). Trentin appartiene alla classe dei proprietari terrieri ma per il suo reale e coerente umanitarismo non esita ad entrare in conflitto con esponenti autorevoli della classe dirigente del suo ambiente di appartenenza. Per Trentin la bonifica umana, cioè quella delle condizioni di vita dei braccianti, è veramente lo scopo prioritario della bonifica idraulica ed agricola. Egli supera di gran lunga la filantropia del pensiero e della tradizione massonica. La radicalità della sua posizione umanitaria assunta nel convegno del marzo 1922, quando egli è ancora nella prima fase del suo pensiero, quella liberal-democratica, è un precedente importante che consente di capire la dura critica del capitalismo monopolistico e finanziario e della proprietà privata che fece parte, agli inizi degli anni Trenta, delle sue nuove posizioni politiche e filosofiche espresse nelle due opere decisive della “svolta” dell’autonomia e quindi del federalismo: Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione (1933) e La crisi del diritto e dello stato (1935). Nell’agosto 1924 il consiglio nazionale del Partito fascista non solo ribadì, con un ordine del giorno presentato da E. Bodrero, l’incompatibilità tra l’appartenenza al PNF e alla massoneria, ma pose tra gli scopi principali del fascismo la lotta contro di essa, cioè contro la vecchia classe dirigente postrisorgimentale (De Felice, 1966, 679-670). Una forte presenza massonica caratterizzò non solo la Democrazia sociale, che era la formazione politica originaria e di provenienza di Trentin, ma anche l’Unione nazionale, una organizzazione politica coerentemente antifascista che ha avuto come esponente più autorevole Giovanni Amendola, alla quale Trentin aderì nel novembre 1924 in un periodo di piena crisi delle opposizioni antifasciste (Carocci,1956, 166) Elio Franzin Dopo il delitto di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), Mussolini, con il suo discorso del 3 gennaio 1925, diede inizio ad una nuova fase del fascismo ponendo alcune delle premesse politiche e giuridiche per la sua trasformazione da governo in regime, ridimensionando e liquidando gli esponenti del vecchio stato conservatore e laico. Il 19 maggio 1925 con 304 voti a favore fu approvata alla Camera dei deputati la legge contro le associazioni segrete cioè la massoneria, che era stata la principale organizzazione del vecchio stato laico. Il 16 maggio era intervenuto contro il provvedimento anche Antonio Gramsci ben consapevole della svolta nella storia dello stato italiano rappresentata dalla liquidazione della massoneria (Gramsci, 1971, 75-85). Nello stesso mese il nome di Trentin apparve nella seconda lista dei firmatari del “Manifesto degli intellettuali” redatto da Benedetto Croce. Il 5 novembre furono arrestati, con l’accusa dell’organizzazione di un attentato a Mussolini, l’exdeputato Tito Zaniboni del Partito socialista unitario e il generale Luigi Capello legato agli ambienti della massoneria (De Felice, 1968, 139-147). La responsabilità della preparazione dell’attentato del Gran Maestro della massoneria di palazzo Giustiniani non fu dimostrata al processo, anche se indubbiamente alcuni ambienti massonici erano stati a conoscenza del progetto di Zaniboni che prevedeva prima l’attentato a Mussolini e poi l’instaurazione di un governo militare. Zaniboni aveva progettato, contemporaneamente all’attentato a Mussolini, anche l’intervento di gruppi di azione nell’Italia settentrionale. Mussolini ne approfittò per decidere lo scioglimento di tutte le logge della massoneria di palazzo Giustiniani, della quale Capello era uno dei maggiorenti, e la sorveglianza di quelle di piazza del Gesù. Secondo Antonio Gramsci, “col colpo Zaniboni si è chiuso una ciclo della storia del nostro paese, il ciclo apertosi con l’occupazione delle fabbriche”. Egli riteneva che l’episodio Zaniboni spiegasse l’atteggiamento di molti partiti, come ad esempio quello repubblicano e quello socialista massimalista, i quali avevano delle illusioni nei loro “strani progetti e metodi di lotta” (Gramsci, 1971, 476, 478) Il 24 dicembre 1925 fu approvato il decreto legge n. 2300 il quale privava gli impiegati dello stato Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa della libertà politica. Esso all’articolo 1 concedeva al governo la facoltà di dispensare dal servizio i funzionari pubblici di ogni ordine e grado che per “ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori di ufficio” non diano “piena garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri o si pongano in condizioni di incompatibilità con le generali direttive del Governo”. In seguito all’arresto del 5 novembre di Tito Zaniboni e del generale Luigi Capello, a Venezia si intensificarono le aggressioni fasciste nei confronti della massoneria, ed anche dei docenti antifascisti di Ca’ Foscari. È molto probabile che l’intimidazione personale, raccontata da Vittorio Ronchi, subita da Trentin da parte di uno squadrista che gli impedì di tenere lezione a Ca’ Foscari e della quale egli informò inutilmente il prefetto, si sia verificata dopo l’approvazione della legge antimassonica del 19 maggio 1925 (Ronchi, 1975, 47-48 - Per la biografia di V. Ronchi, D. Casagrande 2000). Il 7 gennaio 1926 Trentin inviò al direttore del R. Istituto universitario di Ca’ Foscari le sue dimissioni da professore stabile di diritto pubblico. Il 2 febbraio 1926 lasciò l’Italia assieme alla sua famiglia per recarsi nella località di Pavie a tre chilometri di Auch nel dipartimento del Gers (Languedoc) dove acquistò una azienda agricola. Trentin fu introdotto in alcuni salotti ed ambienti radicali e massonici della regione dal giornalista italiano Luigi Campolonghi che amministrava le proprietà francesi del giornalista milanese Della Torre. Per la sua cultura ed il suo impegno politico conquistò ben presto una notevole popolarità nella regione, ma la sua gestione dell’azienda agricola acquistata si concluse in modo negativo. Riuscì poi a farsi assumere come semplice operaio nella tipografia Bouquet di Auch dalla quale fu licenziato nel maggio 1934 per aver partecipato ad uno sciopero. Agli inizi del 1935 comprò una libreria a Tolosa ed iniziò la nuova attività (Arrighi, 2004). Gli anni dell’esilio non furono certamente facili sul piano personale ma non lo furono neanche sul piano politico. Fino al 1930 gli articoli, i saggi e le opere di Trentin hanno come argomento esclusivo il fascismo. Una di esse, Dallo statuto albertino al regime fascista contiene una ricostruzione, notevole sul piano storico, della evoluzione graduale 89 n.16 / 2006 dello stato italiano sul piano costituzionale (Trentin, 1983). La tesi generale sostenuta da Trentin è quella della continuità e del rafforzamento del carattere liberale dello stato unitario italiano che, improvvisamente e per una fortuita concomitanza di circostanze accidentali, viene eliminato dal fascismo. È sostanzialmente la stessa tesi di Benedetto Croce, espressa nella sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915 pubblicata nel 1928. È una tesi storiografica rifiutata dalla grande maggioranza delle forze politiche dell’emigrazione antifascista, estranee alla classe dirigente liberale e impegnate in una ricerca sulla storia di lunga durata dell’Italia e sui limiti strutturali del Risorgimento. In un momento di grande difficoltà di ogni genere, professionale, psicologica e politica, nell’inverno 1933-1934, Trentin intensifica la sua amicizia con Emilio Lussu, praticandolo quotidianamente ad Auch. Lussu è un federalista che, come Trentin, ha partecipato quale interventista alla Prima guerra mondiale e ha diretto in prima persona in Sardegna una formazione federalista, il Partito sardo d’azione. L’influenza di Lussu è stata uno stimolo decisivo per l’autocritica di Trentin che nei suoi primi scritti, seguendo l’insegnamento del suo maestro Giovanni Vacchelli, ha esaltato il ruolo dei Comuni come modello per la democrazia ma ha rifiutato la tesi regionalista. Il 1933 è l’anno della svolta politica di Trentin che pubblica le sue Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione individuando nell’autonomia il principio fondamentale della futura Costituzione della Repubblica italiana, la cui realizzazione è resa possibile da una rivoluzione economica con obbiettivi simili a quelli della rivoluzione russa. Trentin è decisamente antieconomicista sul piano economico, e laico ma antimaterialista su quello filosofico. L’enunciazione del principio dell’autonomia, contenuta nelle Riflessioni, è stata ripresa, citando il brano, anche in due opere successive da Trentin che ha voluto così sottolineare l’elemento fondante e fondamentale della sua concezione del federalismo. Peraltro, Trentin era consapevole della insufficienza della enunciazione del principio dell’autonomia nell'opera del 1933 e della necessità di risalire alle fonti del principio dell’autonomia e cioè al pensiero giusnaturalista di Grotius, Kant e Rousseau. 90 Nell’inverno 1933-1934 Trentin stava portando a termine la stesura de La crisi del diritto è dello stato (Trentin, 2006), la sua opera filosofica principale, iniziata probabilmente nel 1931 (anno in cui comincia a ricevere il sostegno economico da parte del professor Fritz Fleiner), nella quale Trentin ha illustrato il principio dell’autonomia, base del federalismo, la cui realizzazione è resa possibile da un programma economico di ispirazione socialista. Secondo Trentin, la rivoluzione economica socialista ha una carattere strumentale rispetto al principio dell’autonomia che ha un valore assoluto. È una posizione esattamente opposta a quella sostenuta dai partiti della Internazionale comunista, per i quali i diritti e le libertà sostanziali, quelli economici, sono prioritari nella scala dei valori rispetto ai diritti ed alle libertà cosiddette formali. Il 15 maggio 1934 si riunì il Consiglio generale della Concentrazione antifascista, alla quale non partecipavano i comunisti, che venne sciolta. Trentin, per la prima volta, assunse una parte di responsabilità nel movimento. Nello stesso mese, Trentin perdette il modesto lavoro di operaio in tipografia. Più o meno nello stesso periodo, l’insurrezione operaia di Vienna venne abbandonata al proprio destino dalla socialdemocrazia europea. Poco dopo in Francia, nel giugno, cominciò a formarsi il Fronte popolare. Gli articoli scritti nel 1934: Bisogna decidersi, Rivoluzione e ceti medi, sono scritti da un uomo politico molto critico nei confronti del socialismo riformista e deciso a partecipare al Fronte popolare ma anche a mantenere una differenziazione assoluta rispetto al partito comunista pur non escludendo delle alleanze. In Rivoluzione e ceti medi vi è una citazione di Trotsky, di dura critica ai socialisti riformisti, che Trentin condivide. Ma il nucleo centrale delle sue posizioni nell’estate del 1934 è ben altro. La sua autocritica di ex-combattente della Prima guerra mondiale, spinta al punto più estremo, secondo la quale la gioventù repubblicana e democratica si è posta al servizio degli speculatori dell’interventi, è in relazione con la lettura di Lenin e con le analisi del capitalismo svolte dal rivoluzionario russo. Trentin ritiene che il capitalismo sia giunto ad un nuovo stadio caratterizzato dalla concentrazione Elio Franzin della produzione e delle imprese e che questa sia la causa della sua crisi. La negazione del ruolo autonomo dei ceti medi nella rivoluzione antifascista deriva dal cambiamento dei ceti medi nella rivoluzione e la critica al socialismo riformista è la conseguenza sul piano politico della lettura della nuova fase del capitalismo che, a volte, è accompagnata anche da una interpretazione “catastrofista” della crisi capitalistica. Non bisogna dimenticare che Trentin non è un economista. È un giurista che studia l’economia mondiale e ne ricava delle conseguenze sul piano politico. È del tutto infondata, a mio avviso, l’affermazione di F. Rosengarten sulla influenza del pensiero di Trotsky su quello di Trentin negli anni della”svolta” (F. Rosengarten, 1980) È perfettamente comprensibile che, alla fine del 1934, in una situazione di pesanti difficoltà economiche e di forte discontinuità politica e filosofica, perfino di crisi psicologica, Trentin abbia sentito anche l’esigenza di affermare la continuità di uno degli elementi della sua storia ed identità personale, ossia la partecipazione alla vita di una Loggia massonica francese, tipica organizzazione di ceti medi. Egli aveva ricevuto una formazione laica di matrice risorgimentale ma anche il suo laicismo ha avuto successivamente una evoluzione in relazione al superamento del liberalismo mediante l’affermazione del principio dell’autonomia e del federalismo operato con La crisi del diritto e dello stato. La Loggia La Parfaite harmonie di Toulouse verso la metà degli anni Trenta non è caratterizzata soltanto dal laicismo. Dopo il gravissimo attacco di massa al Parlamento del 6 febbraio 1934, organizzato dalle organizzazioni antiparlamentari di destra ed anche filofasciste, la Francia si divide. Il 9 febbraio La Parfaite harmonie si schiera su posizioni antifasciste chiedendo la creazione di gruppi di difesa proletaria contro il fascismo. Nel marzo all’Università di Toulouse si verificano degli scontri fra studenti fascisti e antifascisti. Alcuni docenti vengono attaccati dalla stampa di destra e la Loggia interviene in loro difesa. Nel novembre essa si schiera contro il progetto di riforma costituzionale del presidente G. Doumergue. Trentin nell’opera Alle origini del fascismo (1931), Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa successiva alla firma dei Patti Lateranensi (11 febbraio 1929) da parte del regime fascista e del Vaticano, traccia un profilo molto semplice del ruolo della Chiesa. La Chiesa è impegnata in una eterna lotta contro lo spirito e il senso della libertà; è un potere che ha la pretesa di imporre dogmaticamente le sue regole nelle relazioni della vita sociale. Manca da parte di Trentin qualsiasi analisi storica dei cambiamenti interventi nell’Ottocento e nel Novecento nel rapporto fra il Vaticano e la vita economica, gli Stati, le masse popolari, i partiti. I Patti Lateranensi sarebbero semplicemente l’incontro di due autoritarismi malgrado le riserve sul fascismo precedentemente espresse da Pio XI (Trentin, 1988, 162-166). Ben diversa è la capacità di analisi che dimostra un altro esule antifascista, Palmiro Togliatti, nel suo saggio Fine della questione romana nel quale si individuano i cambiamenti della Chiesa per superare la distanza che la separava dal mondo capitalistico, per assimilare una parte del metodo liberale ed anche di quello socialista. I Patti Lateranensi rispondono anche all’esigenza dello stato italiano di superare la ristrettezza originaria delle sue basi sociali. Cona la firma dei patti, afferma Togliatti, “Mussolini, come al solito, realizza un successo in quanto conduce a termine con spregiudicatezza quello che altri avevano intuito, preparato, incominciato a tradurre in atto”. (Togliatti, 1929, 17-28). Nel successivo saggio La libertà e le sue guarentigie (1932), dedicato agli amici di “Giustizia e Libertà”, Trentin prevede nella futura Costituzione italiana l’affermazione del principio della laicità, mediante la separazione della Chiesa dallo Stato e l’organizzazione della scuola, di ispirazione risorgimentale. Egli riprende, non per caso, lo stesso termine guarentigie usato nella legge del maggio 1871. E’ ancora un uomo molto legato alle tradizioni laiche e laiciste del Risorgimento. (Trentin, 1985, pp. 90-93). La crisi del diritto e dello stato, l’opera della svolta autonomista e federalista, segna una modificazione, un cambiamento anche del suo laicismo. D’accordo con Francois Gény, Trentin riconosce il ruolo dei Padri della Chiesa, dei teologi e dei canonisti nella trasmissione della nozione di diritto naturale, poi laicizzata a partire dalla fine del sedicesimo secolo. Egli cita l’affermazione di Gény 91 n.16 / 2006 secondo il quale il fondamento della civiltà occidentale è la tradizione greco-latina-cristiana, la quale si è costantemente mantenuta nel senso di un diritto naturale uscito dalla natura e dalla ragione, poi laicizzato e come tale indipendente dalla rivelazione e dai suoi dogmi religiosi, i quali possono confermarlo e svilupparlo ma non potrebbero né supplirlo né assorbirlo. Alla conclusione de La crisi, quando afferma la necessità di una rivoluzione fondata sulla dignità dell’uomo, sulla ripresa dall’origine del processo di formazione dello statuto della vita sociale, Trentin cita i Vangeli. Al ritorno a San Donà di Piave, avvenuto il 6 settembre 1943, i suoi compaesani vollero che Trentin incontrasse subito pubblicamente, appena attraversato il ponte sul Piave, l’arciprete del paese monsignor Luigi Saretta, già diretto collaboratore del vescovo della diocesi di Treviso Giacinto Longhin, uno dei principali protagonisti della vita sociale sandonatese dal giugno 1915 il quale negli anni successivi alla Prima guerra mondiale aveva polemizzato spesso e duramente con la massoneria. La caduta del fascismo stava riorganizzando in modo nuovo anche a San Donà le relazioni fra gli schieramenti politici (Autori vari, 2004; Parrocchia del Duomo di San Donà, 2004). DOCUMENTI I 25 mars 1935 194660 A la Grande Loge de France TT.CC.FF. Une de nos Loges de l’0. de Toulouse nous signale la situation mac. du F. Silvio TRENTIN, sujet italien, actuellement libraire, 46 rue de Languedoc a Toulouse. Le frère TRENTIN est né à San Donà di Piave (Venise), le 11 novembre 1885 ; il a déclaré avoir été initié, il y a fort longtemps à la L. Darwin (Ven.: il F. professeur POZZOLINI). Entré en sommeil dès 1906, il aurait repris l’activitè au mois d’Octobre 1925, lorsque fut deposé le projet de Loi Rocco, tendant à la dissolution de la franc-mac. italienne. Il fut alors rattaché au G. O. de Rome. Finalement il dut quitter l’Italie, et il se fixa à Toulouse. Le F. TRENTIN a formulé le désir, auprès de quel- 92 ques-uns de nos FF. de prendre part, en qualité de F. visiteur, aux travaux d’une de nos loges de l’O. de Toulouse. Nous vous serions très obligés de bien vouloir nous faire connaitre si, par l’intermédiaire de vos Loges italiennes, il serait possible de controler les déclarations du F. TRENTIN, et d’avoir des renseignements précis à son sujet. Veuillez agréer, TT.CC.FF., l’assurance de nes sentiments frat. et dévoués. LE CHEF DU SECRETARIAT II RITO SCOZZESSE ANTICO ACCETTATO GRANDE LOGE DE FRANCE 8, Rue Puteaux O. de Paris, le 4 avril 1935 E.V. Au GRAND ORIENT DE FRANCE TT.CC.FF. Comme suite à votre pl. du 25 mars, concernant le F. Silvio TRENTIN, j’ai la faveur de vous donner ciaprès copie de la lettre que nous recevons de notre L. ITALIA NUOVA. « En réponse à votre pl. du 28 Mars dernier concernant le F. Silvio TRENTIN, j’ai la faveur de vous faire connaitre que les déclarations que ce F. a faites à une des LL. de l’Orient de Toulouse sont tout à fait exactes. Il s’agit d’un F. de toute confiance, d’une probité et d’une honneteté absolues. Il est digne de la plus haute considération. Le F. TRENTIN a tous sacrifié: situation, richesse, bonheur pour la cause de la liberté. Son caractère, sa vie privée et tout ce qu’il accomplit soit comme professeur de droit, soit comme deputé, font de lui un parfait macon». Veuillez agréer, TT. CC. FF., l’expressione de mes sentiments frat. Le Grand – Secrétaire Firma illeggibile Elio Franzin Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa III 6 AVRIL 1935 194660 A LA L. LA PARFAITE HARMONIE O. DE TOULOUSE TT.CC.FF : A la suite de votre pl. du 21 mars écoulé, relative au F. Silvio Trentin et à sa situation maconnique, nous nous sommes adressés à la GRANDE LOGE DE FRANCE, en la priant de nous faire savoir si, per l’intermédiaire de ses Loges italiennes, il était possible de controler les déclarations du dit F. TRENTIN. LA GRANDE LOGE DE FRANCE vient de me communiquer la lettre qu’elle a recue à ce sujet de sa L. ITALIA NUOVA, et je m’empresse de vous donner copie ci-dessous: «En réponse à votre pl. du 28 mars écoulé, concernant le F. SILVIO TRENTIN, j’ai la faveur de vous faire connaitre que les déclarations que ce f. a faites à une des LL. de l’Orient de Toulouse sont tout à fait exactes. Il s’agit d’un F. de toute confiance, d’une probité et d’une honnetteté absolue. Il est digne de la plus haute considération. Le F. TRENTIN a tout sacrifié: situation, richesse, bonheur pour la cause de la liberté. Son caractère, sa vie privée et tout ce qu’il a accompli, soit comme professeur de droit, soit comme deputé, font de lui un parfait macon». Veuillez agréer, TT.CC. FF., l’assurance de mes sentiments frat. et devoués. LE CHEF DU SECRETARIAT Riferimenti bibliografici AA.VV., (2004), Monsignor Luigi Saretta. Atti del convegno per il 40° della morte, San Donà di Piave ARRIGHI, Paul (2004), Silvio Trentin in Francia, dall’antifascismo in Guascogna agli esordi della Resistenza a Tolosa, in : L’antifascismo italiano tra le due guerre :alla ricerca di una nuova unità, a cura di M. 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TRENTIN, Silvio (2006), La crisi del diritto e dello stato, a cura G. Gangemi, Gangemi editore, Roma. 93 n.16 / 2006 94 Elio Franzin Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa 95 n.16 / 2006 96 Elio Franzin Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa 97 n.16 / 2006 98 99 Lidia Lo Schiavo Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 284. Il Sestante Potrebbe essere considerata soltanto come l’ultima “migrazione” , in ordine di tempo, del tema del repubblicanesimo da un settore disciplinare all’altro, quindi dalla storia del pensiero politico, da cui ha inizio il suo percorso nel dibattito storico-politologico contemporaneo, alla filosofia politica, alla teoria politica, per approdare infine alle Relazioni Internazionali. Probabilmente però, nell’intenzione di Nicholas Onuf, comunemente considerato il fondatore dell’approccio costruttivista nelle scienza politica internazionale, vuole essere molto di più. Seguendo per un momento il filo tracciato dalle posizioni (post-strutturaliste) più radicali, nell’ambito del variegato panorama della teoria costruttivista, in tema di critica della modernità politica, possiamo meglio comprendere quale impatto abbia il ricorso da parte di Onuf alla categoria del repubblicanesimo nell’affrontare i temi centrali della teoria generale delle relazioni internazionali. Il primo dato che emerge si riferisce all’analisi dei caratteri fondanti del processo di strutturazione dello spazio politico moderno, definitosi, attraverso la costruzione del sistema territoriale di Stati, intorno alla fondamentale cesura tra interno/esterno, cioè tra pacificazione all’interno dei confini nazionali e condizione permanente di anarchia in ambito internazionale. Secondo la teoria post-strutturalista, questa architettura si cristallizza in una duplice temporalità. Quella propria della politica interna, in cui opera la 100 dimensione del mutamento sociale, e quella della politica internazionale di cui si postula una condizione di anarchia permanente, quindi immutabile. Sul piano epistemologico, questa duplice temporalità si traduce nella pressoché totale esclusione della variabile del mutamento dall’analisi della politica internazionale. In questo quadro il riferimento al Repubblicanesimo, qui inteso come onda lunga del politico nella civiltà occidentale (dall’età pre-moderna a quella moderna a quella tardomoderna), viene utilizzato da Onuf dapprima come grimaldello (la pars destruens) attraverso cui de-costruire questa architettura culturale e politica, poi come prisma, punto di osservazione privilegiato per l’analisi dei processi di trasformazione della politica internazionale in questa fase storica. Per ciò che riguarda invece la pars construens, si tratta di capire in quali termini il repubblicanesimo (ovvero, come si vedrà, il costruttivismo nell’accezione di Onuf) implichi una concezione inclusiva dello spazio politico, in grado di sostituire al dualismo tra politica interna e internazionale, tra locale e globale, tra continuità e mutamento, la dualità inclusiva della “politica interna del mondo”, della società civile globale, del “glocale”. Questa dualità viene ricomposta nella visione postmoderna del rapporto tra micro e macro, tra “agente e struttura” (nei termini giddensiani). Questo rapporto ha natura riflessiva ed è esemplificato dal carattere ricorsivo di una relazione di mutua costituzione processuale di questi stessi ter- Lidia Lo Schiavo Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought... mini. Quanto alla vicenda storica del repubblicanesimo nella modernità politica, secondo Onuf, è possibile fare riferimento ancora ad una duplice temporalità, stabilita in questo caso dalla determinazione del prius e dal posterius che conseguono ad una fondamentale cesura, quella cioè che sancisce la fine (apparente) di questa stessa vicenda, quando nel XVIII secolo il repubblicanesimo moderno lascia spazio alla vittoria del liberalismo, affermatasi sia in termini ontologici che epistemologici. Apriamo qui per ciò che riguarda quest’ultimo punto, solo un breve spazio di riflessione. La vicenda del pensiero politico occidentale si accompagna all’affermarsi della epistemologia positivista con i suoi modelli esplicativi-predittivi della realtà politica. Quanto al problema ontologico, entrando per questa via nel vivo del dibattito teorico delle Relazioni Internazionali contemporanee, si può cominciare col dire che il progressivo stabilizzarsi della istituzione fondamentale delle moderne relazioni internazionali, ovvero la sovranità, implica l’affermarsi di una sistema – liberale – dei rapporti tra Stati, garante di una convivenza di stampo lockeano, che si stabilisce cioè tra “rivali” e non più tra nemici, à la Hobbes. Il senso di questa distinzione tra tipologie di rapporti, cioè tra un modello di mera coesistenza hobbesiana e uno di cooperazione lockeana, è stato individuato da un altro costruttivista, Alexander Wendt, autore di un approccio “stato-centrico” alla politica internazionale, e artefice della distinzione tra cultura hobbesiana e cultura lockeana, ovvero kantiana, considerate costitutive della stessa struttura del sistema internazionale. Ebbene, secondo Wendt, il motore del mutamento della politica internazionale consiste nei processi di identificazione e di socializzazione tra Stati, che esemplificano il ciclo istutizionalizzazione-mutamento-istituzionalizzazione. Ciò avviene nella cornice costituita dalla struttura della politica internazionale, costruita processualmente attraverso il raw material fatto di idee, di contenuti intersoggettivi condivisi (oltre che delle componenti materiali cui quei contenuti intersoggettivi danno significato). La struttura, intesa come il core ontologico della politica internazionale, è dunque culturale e cogni- tiva, in quanto costituita da un insieme di norme, identità e interessi condivisi. Se questa è la rappresentazione della politica internazionale secondo l’approccio costruttivista, la visione consolidatasi con l’affermarsi del paradigma neorealista prima e neo-liberale poi nelle Relazioni Internazionali, approda a conclusioni ben diverse. Sul piano ontologico si consolida infatti il paradosso costituito dal modo di concepire il rapporto tra attori statali, in quanto egoisti razionali, e la dimensione della socialità pur presente nel sistema internazionale. Le posizioni neorealiste condividono con quelle neo-liberali gli assunti razionalistici relativi al comportamento degli attori statali la cui identità è data, nel senso che risulta esogena rispetto ai processi di interazione. Quanto alla struttura, stando ad una delle più recenti ed eleganti formulazioni teoriche neorealiste (quella di Waltz), esse figurano al più come un insieme di condizioni di costrizione, che si limitano cioè a riflettere la “posizione” delle unità (definite in termini di distribuzione delle capacità materiali) nel sistema internazionale. In questo senso la struttura diventa determinante per il comportamento degli attori. Stando a questa concettualizzazione, da una parte, gli Stati sono attori egoisticamente orientati, autonomamente in grado di definire i loro interessi, dall’altra il loro comportamento viene condizionato deterministicamente dalla struttura del sistema internazionale, che li rende, per così dire, reattivamente passivi. In più passaggi della sua argomentazione Onuf etichetta uno specifico modo di intendere la politica internazionale riconducendolo alla visione dei cosiddetti “weak liberals”. Il senso debole della loro posizione teorica consiste nel porsi di fronte al “paradosso” senza poterlo sciogliere. Nell’essere consapevoli, cioè, delle implicazioni dell’assunto centrale della visione “realista”, ovvero convenzionalista della politica che solo il recupero delle matrici repubblicane delle relazioni internazionali può avviare a soluzione. Il problema del rapporto tra condizione di autonomia degli attori statali e delle loro reciproche relazioni nella “società internazionale”, rimanda, secondo Onuf, ad una sorta di regresso infinito alla ricerca degli elementi di priorità logica e ontologica dei termini di questo 101 n.16 / 2006 rapporto. Nella visione liberale (in particolare quella forte o realista tout court) gli individui (in questo caso gli Stati) creano la società spinti da una motivazione egoistica, quindi spinti da una logica strumentale. Al contrario, in termini repubblicani, la società non è puro artificio (leggi convenzione) ma è prioritaria nel senso forte secondo cui l’attore e l’azione sociale sono possibili e acquistano senso solo in presenza della cornice della socialità. A chiarire i caratteri della posizione dei weak liberals può servire ricordare che essi hanno in comune, con la visione realista, la concezione anarchica, stato-centrica della politica internazionale. Sul piano analitico questa visione si concreta nel considerare identità e interessi degli Stati come variabili esogene, e nell’attribuire un ruolo ancillare alle istituzioni della politica internazionale, considerate come variabili intervenienti ed assunte nella funzione di riduzione dei costi di transazione nella cornice dei rapporti tra Stati, o come veicoli di informazione e di monitoraggio per l’avvio ed il mantenimento di processi cooperativi. L’idea di istituzioni della politica internazionale intese in senso forte viene avanzata dall’approccio costruttivista, nel sostenere che le costruzioni intersoggettive (idee, informazioni, interessi ovvero il modo di percepire e definire bisogni e “desideri”) vengono incorporate e veicolate come DNA strutturale nelle stesse istituzioni. In questo senso, esse sono costitutive degli attori e dei processi, si configurano come le componenti cognitive ed “etiche” fondamentali della politica internazionale, mentre veicolano tanto i meccanismi di conservazione della struttura, quanto i processi di mutamento. Il paradosso viene sciolto, in termini costruttivisti, sulla base del processo di mutua costituzione di agente (gli attori statali) e struttura (il sistemasocietà internazionale). Questo rapporto, come sottolinea Onuf, in particolare, implica che non può darsi attore sociale senza contesto sociale strutturato da regole. È a questo punto che emerge la specificità della posizione di Onuf rispetto ad altre voci presenti nell’approccio costruttivista. In questo senso, il mondo sociale è un universo di enunciati linguistici, ovvero di norme (rules) che costituiscono processualmente agente e struttu- 102 re/istituzioni. Si tratta di norme di carattere costitutivo (per capirci, come lo sono per il gioco degli scacchi le regole che lo definiscono) e di norme con funzione regolativa (prescrittive di comportamenti). Il carattere costitutivo delle regole ha una dimensione pratico-cognitiva (l’agire diviene possibile e acquista significato in forza di esse), e politica (le regole decidono chi ottiene cosa, quando e come). Un insieme di regimi, saldati tra loro da regole “secondarie” di riconoscimento e di mutamento (in grado di garantire il raccordo tra insiemi di regole ed i processi di mutamento in ciascun specifico ambito), costituiscono la stessa dimensione sociale. In questo contesto, la società internazionale può essere considerata semplicemente come il regime più ampio e inclusivo, di cui gli Stati (e non solo) sono membri. Vale la pena a questo punto ricordare la definizione stipulativa del concetto di regime riconosciuta nelle RI: un insieme di principi, di norme, regole e procedure decisionali, implicite o esplicite, su cui convergono le aspettative degli attori in un determinato settore della politica internazionale. Emerge in questa definizione la concezione liberale dei rapporti tra Stati, secondo la quale le norme esercitano una valenza esclusivamente regolativa, irreggimentando le preferenze di attori auto-interessati e garantendo la formazione di cornici istituzionali per la gestione di determinate aree problematiche. Il carattere costitutivo delle regole viene fatto emergere invece dall’approccio costruttivista, secondo il quale i regimi sono parte integrante delle pratiche di costruzione sociale della politica internazionale, ovvero dei processi di socializzazione e di identificazione degli attori. In particolare, essi sono in grado di indurre gli Stati ad elaborare identità collettive anziché egoistiche. Ad esempio, ciò è quanto accade all’interno delle “comunità di sicurezza”, in cui cioè la cooperazione governata da regole può mutare in senso altruistico l’orientamento degli attori. Sin qui abbiamo discusso del problema definito dal rapporto tra attori e sistema sulla base dell’assunzione implicita che fa degli Stati gli attori della politica internazionale per antonomasia, nel senso che politica e Stato, ovvero sistema di Stati, si sovrappongano fin quasi ad esaurire lo spazio della politi- Lidia Lo Schiavo Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought... ca. A questo riguardo può essere utile fare riferimento ancora a Wendt ed alla sua analisi dello Stato come identità corporata. Lo Stato come attore unitario risulta dalla stratificazione di una serie di componenti che Wendt prende in considerazione rispettivamente sub specie “identità corporata”, identità tipo, identità di ruolo e identità collettiva. Lo Stato è in altre parole la risultante di un cluster di componenti in “equilibrio omeostatico”. Vi è, quindi, secondo Wendt una componente minimale imprescindibile, molto “sottile” e generalizzabile in una visione “trans-storica” della statualità, ed una forma contingente che connota diversamente nella storia le diverse forme. Lo Stato di Wendt, dunque, è in primo luogo uno Stato weberiano, cioè una organizzazione per il monopolio della violenza fisica, ma è anche uno Stato marxiano, nel senso che esso esemplifica la “struttura della autorità politica”, e risulta dalla relazione di mutua costituzione del complesso “società-stato”, ovvero uno stato nell’accezione pluralista, da cui risulta imprescindibile la dimensione della società (nazionale). Per Wendt queste tre diverse concettualizzazioni danno ciascuna una diversa risposta al problema di come non sia possibile raggiungere una soddisfacente definizione dello Stato (seppure minima, come egli si propone) se non in connessione con la società, in quanto interdipendenti, e tuttavia al tempo stesso distinguibili. Cambia per ciascuna concettualizzazione, sia il modo di considerare lo Stato come referente, sia i termini del rapporto tra società e Stato. La visione weberiana è quella che indica come oggetto di riferimento un “attore organizzato”, in grado di esercitare poteri e funzioni a servizio della società (in primo luogo la sicurezza) dalla quale sarebbe, prima ancora che concettualmente, ontologicamente distinto. Speculare a quella weberiana è la visione pluralista, che, come sottolinea Wendt, “riduce” lo Stato ai gruppi di interesse ed agli individui in una società. In questo caso non si riconosce ad esso alcuna identità autonoma, se non quella incarnata dal governo e dai gruppi di potere che lo formano. Nella teoria marxista, il referente non è lo Stato né la società ma lo è la “struttura”, dal momento che né l’uno, né l’altra possono sussistere senza la struttura dell’autorità politica che li costituisce. Tale struttura di autorità è costituita dall’insieme delle norme, regole e principi finalizzati alla gestione del conflitto ed al “governo” della società, oltre che alla distribuzione di sacrifici e risorse. Da queste concettualizzazioni scaturiscono le proprietà costitutive dello Stato-attore nella visione di Wendt. In questi termini, sovranità e monopolio dell’uso legittimo della forza gravitano nel polo weberiano della costellazione di elementi che costituiscono lo Stato, mentre la società, identificata con un patrimonio di regole e di conoscenza condivisa entro determinati confini, delinea il polo pluralista; il territorio, ovvero il radicamento territoriale sembrano collocarsi tra questi due poli. Il complesso dei rapporti di interazione tra società e Stato, mediati dalla struttura di autorità, definiscono la configurazione marxiana. La visione di insieme che ne risulta, la definizione minima di cui Wendt è alla ricerca, è quella che considera lo Stato come un attore organizzato immerso (embedded) in un ordine istituzionale, “legittimato” dalla sovranità e autorizzato all’esercizio della forza in un dato territorio. Tuttavia da questa definizione emerge un dato che giustifica l’etichetta di “realista” (oltre che Statocentrica, a livello sistemico) o “costruttivista neoclassico” che viene attribuita a Wendt nell’ambito dello stesso approccio costruttivista. Sembra infatti che egli, sebbene riconosca alla società potenzialità di auto-organizzazione, incentri la sua visione dei rapporti stato/società secondo una dinamica prevalentemente top-down, di governo della società da parte dello stato. Queste premesse definitorie servono a Wendt per procedere nell’individuazione di quattro diversi modi di intendere lo Stato come attore, attraverso il concetto di identità. L’identità corporata (corporate identity) – alla quale più si avvicina, secondo Wendt, la visione weberiana –, assunta dagli attori individuali, membri delle organizzazioni, come l’idea del tutto in riferimento alla quale agiscono le parti (gli individui), è quella che implica una visione “antropomorfica” dello Stato. L’identità tipo (type identity) è quella che esemplifica la forma di Stato nel senso del tipo di regime, del principio di legittimità politica. Con l’identità di ruolo ci si sposta decisamente dal lato della “fisicità” a quello 103 n.16 / 2006 della socialità. Il ruolo (role identity), ovvero la posizione di ciascun attore-Stato è quello che viene attribuito a questo dai suoi simili. Infine l’identità collettiva (collective identity) implica il definirsi di processi di cooperazione in un ambiente di socialità, sia pure “anarchico”, in cui si avvia la trasformazione delle identità da egoiste ad altruiste, quando cioè si delinea un processo di carattere cognitivo in cui la linea di distinzione tra Self/Other, finisce con l’assottigliarsi e venir meno. Ciò tuttavia può avvenire in aree circoscritte e specifiche della politica internazionale e si accompagna a tendenze che contrastano questo processo. Da queste premesse dovrebbe essere emersa la salienza dell’operazione di de-costruzione/ricostruzione della modernità politica condotta da Onuf sub specie “repubblicanesimo”. La specificità della concezione repubblicana-costruttivista della politica internazionale consiste nella capacità di risolvere la tensione implicita nel paradosso che scaturisce dall’assunzione (realista ma anche neoliberale) secondo cui lo Stato è da considerarsi come un attore indipendente dal contesto sociale, una sorta di traslato dell’homo oeconomicus, che tuttavia, a dispetto di questo assunto, vive immerso in un mondo di socialità, a partire dallo stesso principio “individualistico” di sovranità, che di fatto opera come una regola di riconoscimento reciproco, come insieme di significati e aspettative intersoggettivi nell’ambito della comunità di Stati. Da questo paradosso scaturisce anche la tensione implicita nella moderna spazialità politica (fondata sui confini territoriali) che si articola lungo la polarità tra locale e globale. Questa tensione si registra anche nel nucleo fondante del patrimonio normativo e istituzionale del sistema di Stati, ovvero nel rapporto tra inviolabilità dei confini e principio di solidarietà, quindi tra divieto e richiesta di intervento per il “bene comune”. Da questa ambiguità scaturisce il carattere della sovranità come “ipocrisia organizzata” (per citare una felice espressione di Krasner). Questa ipocrisia viene cioè istituzionalizzata, da una parte attraverso la costante riaffermazione, sul piano dei principi, della inviolabilità dei confini statuali e, dall’altra, sulla base dell’altrettanto costante interferenza nel riservato dominio di ciascuno Stato. 104 L’obiettivo potremmo dire programmatico assunto da Onuf, è quello di recuperare i frammenti, i “legati” (legacy) del repubblicanesimo nel pensiero e nelle istituzioni della modernità politica occidentale, di contestualizzarli storicamente ma anche di mostrare quanto “sostanziale” sia la loro presenza nel mondo di oggi. Questo perché il repubblicanesimo continuerebbe a innervare la stessa concezione liberale dei rapporti tra Stati e ad esprimere tutta la sua salienza nella teoria politica internazionale, della quale Onuf vuole portare alla luce i fondamenti storici (historical underpinnings). Procede in questa direzione svolgendo, come si vedrà, un’interessante operazione concettuale di scavo rispetto ai principali elementi fondanti della modernità politica, dal principio di sovranità, a quello di costituzione, a quello di società internazionale fino alla dottrina della pace democratica. L’indagine compiuta ha l’obiettivo di mostrare come il repubblicanesimo, muovendosi lungo un percorso sotterraneo nel corso della modernità, non solo ha continuato a permeare di sé (to color) il pensiero politico moderno, ovvero liberale, ma ha finito con il riaffiorare in veste costruttivista alla fine di questo percorso, nella politica internazionale dell’età postmoderna. Può essere utile a questo punto descrivere brevemente l’architettura dell’analisi costruita da Onuf. Il testo viene diviso in tre parti fondamentali. La prima affronta per così dire trasversalmente gli elementi centrali del pensiero repubblicano, così come individuati dall’autore attraverso una prima operazione di definizione lessicale del termine-concetto e degli elementi che lo connotano. La seconda parte è utilizzata per l’analisi dei “legati” atlantici del repubblicanesimo, mentre la terza (e ultima parte) ne prende in considerazione l’eredità continentale. Alla prima di queste storie, il politologo riconduce il pensiero di Machiavelli, Harrington, Montesquieu, Hume, Rousseau, dei teorici della Rivoluzione americana, quindi di Vattel (il quale, come puntualizza l’autore, non viene incluso nella narrazione del momento machiavelliano di Pocock in quanto fa parte di un’altra storia, quella della politica internazionale). Alla seconda schiera l’autore riconduce Grozio, Altusio, Leibniz, Wolff e Kant. Lidia Lo Schiavo Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought... Per ciò che riguarda la parte iniziale, il primo complesso tema ad essere affrontato è quello posto dal modo di concettualizzare natura (nature) e convenzione (convention), ovvero physis e nomos, nell’ambito del pensiero aristotelico. La continuità del rapporto postulata tra politica e natura, tra razionalità politica e razionalità sociale (il bios politikos), implica che la polis venga ricondotta all’ordine della natura e che, al tempo stesso, la pratica politica venga considerata come un’arte (quindi come un’attività intenzionale). In questo senso la polis va distinta dalla politeia, ovvero dalla costituzione pratica e dal modo di governare la città in concreto. Nel prosieguo dell’analisi, vengono presi in considerazione il tema del mutamento politico, il valore della stabilità e del conflitto nella politica (tema centrale nella mediazione machiavelliana del repubblicanesimo), il concetto di virtù civica, di dovere, di bene comune. In questo contesto, si dà spazio anche alla vicenda della costruzione del lessico della modernità politica. In particolare per ciò che riguarda lo slittamento nell’uso del termine respublica (e degli altri termini che, nella ricostruzione di Onuf, ne condividono il campo semantico, come quello di civitas ovvero anche di commonwealth) dal riferimento alla forma istituzionale del politico in generale a quello ad una specifica forma di governo. Dunque, per ciò che riguarda la prima accezione, si affermerà il neologismo moderno “Stato”, mentre il termine repubblica diviene recessivo. Viceversa, il termine repubblica entra a far parte a pieno titolo del lessico politico moderno e contemporaneo in relazione alla definizione della forma dei regimi politici. Per quanto riguarda invece la specificità della dimensione internazionale, Onuf fa riferimento rispettivamente alla concezione di Wolff (repubblicano continentale) ed a quella di Vattel (rappresentante della versione “atlantica”), segnatamente per ciò che concerne l’idea di civitas maxima e quella di Europa (l’insieme delle nazioni europee), costituitasi come “Repubblica” in forza dello sviluppo delle relazioni di commercio e dell’ottemperanza all’insieme delle regole “volontarie” del diritto internazionale “pubblico” (in cui viene dato sempre più spazio al diritto pattizio dei trattati). Lo specifico dell’eredità di Vattel, nella vicenda atlantica del Repubblicanesimo moderno, consiste nella sua lettura della vicenda internazionale, i cui protagonisti sono le nazioni europee sovrane e la loro capacità di “cooperazione”, tendente verso la costruzione di una “società internazionale” (ovvero la repubblica delle nazioni europee). In particolare, Vattel ha proposto una configurazione dei rapporti tra nazioni sovrane come di per sé giuridici, sulla base di una dottrina in cui non si riconosceva soluzione di continuità tra Stato di natura e Stato di diritto, non veniva separato il diritto dalla morale ed erano considerati giuridici anche gli obblighi non sanzionati. Gli Stati come “persone libere” possono giudicare “secondo coscienza” cosa i doveri naturali richiedono loro e, quindi, ciò che può essere fatto o non fatto. Nell’ottica di Vattel, la società politica “ben ordinata” è quella che si fonda sulla costituzione formale, attraverso cui una nazione si costituisce in Stato, dopo che attraverso il “compact” un popolo si è fatto nazione. E tuttavia, secondo Onuf, Vattel sarebbe stato forse eccessivamente ottimista nel ritenere che la regola dell’equilibrio europeo, del balance of power, sarebbe stata in grado di assicurare la convivenza pacifica, dal momento che tale equilibrio era fondato sulla regola della competizione tra Stati. Del resto, ricorda Onuf, la Rivoluzione francese e gli eventi che ne seguirono, posero fine alla pur breve storia della Repubblica delle nazioni europee, mentre si consolidava il sistema di Stati, già scaturito dalla logica westphaliana. Da quanto detto sin qui risulta dunque che la tradizione atlantica del repubblicanesimo nella teoria internazionale lascia emergere in modo più netto la sfera della socialità. In questo senso, amplia il legato atlantico in tema di costituzione della società internazionale, la concezione costruttivista espressa da Onuf nei termini dei processi di costruzione sociale della politica internazionale. Per quanto riguarda invece il repubblicano continentale Wolff, la sua idea di civitas maxima può essere ricondotta, secondo Onuf, alla tradizione aristotelica della concezione dello spazio politico, dal momento che, come afferma l’autore, Wolff ha fatto riferimento ad una rappresentazione spaziale costruita per ordini e gradi, estesa in una sequenza ascendente di diverse “associazioni” collocate 105 n.16 / 2006 su più livelli, fino alla magnitudo civitatis, comprendente l’umanità intera (totum Genus humanum). La civitas maxima di Wolff tuttavia, non esaurisce l’eredità del repubblicanesimo continentale; a questo contesto Onuf riconduce il tema della società civile internazionale, considerata come sistema di bisogni, della dottrina della pace democratica (si pensi alla società civile kantiana), edell’epistemologia positivista. Tra i “temi vatteliani”, centrale, come si è detto, è il concetto di sovranità. La ricostruzione condotta da Onuf in questo caso è sia concettuale che lessicale. Non manca in questo caso il riferimento al metodo skinneriano di indagine del pensiero politico compiuto “in contesto”, ovvero nella cornice storico-politica in cui si sviluppa uno specifico linguaggio politico. In particolare, secondo Onuf, l’evoluzione di tale fondamentale istituzione della politica internazionale, va letta nella cornice della più ampia serie di “discontinuità epistemiche” scandite dalle fasi del processo di modernizzazione. Se, come ha affermato Onuf, “il mondo e le parole si costituiscono reciprocamente”, allora diventa particolarmente saliente l’indagine “intertestuale”, condotta dall’autore, del termine-concetto sovranità, di cui egli scandaglia le componenti. In particolare, la vicenda della sovranità viene qui ricostruita in prima istanza attraverso la ricognizione degli “antecedenti”, derivanti dalla concezione pre-moderna della politica, a partire dall’età classica. Questi vengono individuati rispettivamente nella “maestà” (majestas), in quanto della componente valoriale, “sacra” del potere politico, nell’imperium (la garanzia del rispetto della legge e l’amministrazione del territorio), nel diritto (rule), ancora, nella fiducia come collante dei rapporti sociali (public trust). In questo contesto, il processo di evoluzione dell’istituzione sovranità funge, nell’ottica costruttivista, da prisma per osservare i processi di mutamento della politica internazionale. Per ciò che riguarda tale dimensione diacronica, secondo Onuf, occorre leggere queste vicende seguendo la triplice trama delle interrelazioni tra l’uso del termine, il significato attribuitogli e la realtà socio-politica cui esso è riferito. Al consolidamento moderno della sovranità segue la sua 106 implosione, e la conseguente frammentazione delle sue componenti, in età postmoderna. Così ad esempio, la componente sacrale-valoriale sembra ora configurarsi non più appannaggio degli Stati ma di gruppi religiosi (musulmani ma anche cristiani), che contestano dal di dentro e dall’esterno l’auctoritas statale. L’elemento relativa alla allocazione delle funzioni amministrative subisce ora un duplice processo di de-concentrazione territoriale, a livello locale e sopranazionale, attraverso la redistribuzione delle funzioni tra diversi livelli di competenza. Il riferimento è al costituirsi delle strutture di governance sopranazionale ed all’assottigliarsi della linea di separazione tra pubblico e privato. Ancora (tra i temi vatteliani), Onuf indica il “principio di intervento” per il bene comune; nulla di più controverso probabilmente in questa fase storica, in cui il lessico delle “tecnologie” di esportazione della democrazia sembra aver assunto una forte caratterizzazione egemonica. La terza ed ultima parte del testo è dedicata alla enucleazione dei “legati” continentali, per continuare con la metafora proposta dall’autore. Qui in primo luogo figura il tema epistemologico nello studio della politica internazionale, condotto attraverso la distinzione di livelli analitici in cui Onuf scorge, come si è detto, l’eredità della costruzione geometrica dello spazio politico moderno. Questa impalcatura analitica pone su una linea di continuità la concezione moderna della territorialità (caratterizzata da un’organizzazione accentrata dello spazio, sia in termini cognitivi che amministrativi, coerente con la concettualizzazione di un unico punto prospettico nelle arti visive), e la rappresentazione dell’individuo come io cartesiano, resosi, per così dire immune dagli effetti dei processi di costruzione sociale della realtà (cognitiva e politica). Per ciò che riguarda l’eredità kantiana, Onuf fa riferimento alla dottrina liberale della pace democratica. Al di là delle diverse articolazioni assunte da questa tesi (che si distingue fondamentalmente nelle due versioni, monadica, secondo la quale gli Stati democratici sono sempre e comunque poco inclini a ricorrere alla forza, e diadica, per cui si ritiene che gli Stati democratici non combattono tra loro ma solo con gli Stati non-democratici), l’accento è posto sulle premesse liberali costi- Lidia Lo Schiavo Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought... tuite dal cosiddetto triangolo kantiano - commercio/diritto internazionale e ordinamento repubblicano (interno) - considerato come garanzia di cooperazione pacifica tra stati. In questo contesto, quelle che Onuf ha raccontato, come si è detto, sono “due storie” del pensiero repubblicano - una “atlantica”, l’altra “continentale” – che indica, metaforicamente, come due fondamentali “capitoli” del più ampio e complesso macro-testo costituito dai processi di modernizzazione (qui assunti nell’accezione weberiana). Se è vero che Onuf utilizza l’opera di Pocock come criterio guida lungo tutto il suo percorso di analisi, pure si possono notare alcune differenze che contribuiscono a determinare la specificità del repubblicanesimo à la Onuf. Quanto alle differenze, queste emergono in particolare, in relazione al diverso metodo con cui la vicenda del repubblicanesimo è stata ricostruita nel dibattito storico e filosofico. Nella storia delle dottrine politiche, l’opera di Pocock e la sua tunnel history svolgono un ruolo determinante nel prosieguo del dibattito. Ma in questo ambito disciplinare non si fa riferimento ad un repubblicanesimo di tradizione continentale nei termini utilizzati da Onuf, che lo considera infatti come una sorta di liberalismo in senso debole, distinguibile, se così può dirsi, dalla corrente atlantica del repubblicanesimo, sulla base del riferimento alla natura, ad un ordine politico iscritto in essa. Se infatti la tradizione giusnaturalista e contrattualista ha un carattere specifico, questo consiste proprio nel diverso ruolo che la “natura” assume come referente, ovvero come esperimento mentale, per la ricostruzione della sfera politica. Questa tradizione si fonda sulla negazione dello Stato di natura, secondo il modello hobbesiano che ha carattere dicotomico e chiuso (o lo stato di natura o lo stato civile). Il modello aristotelico tradizionale ha invece carattere plurimo, gradualistico, aperto, nel senso che il passaggio dallo stato prepolitico allo stato politico, avviene per un naturale processo di estensione dalle società minori alla società maggiore, per effetto di cause naturali e non per un atto di volontà razionale. D’altra parte, nell’ambito della storia del pensiero politico, il discrimine tra le tesi à la Pocock e quelle à la Skinner, è costitutito dalla posizione assunta rispetto al rapporto di continuità-discontinuità del pensiero politico moderno con la “politica aristotelica”, dal ruolo più o meno ampio attribuito alla “mediazione” del pensiero di Machiavelli, e dall’influenza riconosciuta alle elaborazioni filosofiche e storiche romane. La distinzione tra le due sponde dell’Oceano serve invece ad Onuf anche per far emergere che, nella declinazione atlantica del repubblicanesimo, uno dei temi ricorrenti è costituito dal riferimento alla dimensione del mutamento, mentre nella versione continentale prevale una concezione statica della politica. Questa a sua volta sfocia altresì in una postura epistemologica che finisce con il sostituire il “metodo” scientifico all’ontologia della realtà sociale, finendo cioè con l’assimilare la rappresentazione architettonica del mondo come una costruzione spaziale collocata su più livelli, con la distinzione delle diverse unità di analisi. Al contrario la dimensione dello spazio nel repubblicanesimo di matrice “atlantica” viene risolta nella costruzione federalistica, alternativa all’architettura spaziale geometrica westphaliana e alle dinamiche centralizzatrici che la caratterizzano. L’intera vicenda storica del repubblicanesimo va ricondotta, come argomenta l’autore, nel più ampio ambito dell’analisi dei meccanismi del processo di modernizzazione. Nell’alveo di questo macro-processo, sono riconoscibili i processi di razionalizzazione dell’autorità politica (che, nel linguaggio di Onuf, sono indicati dal prevalere delle regole di tipo “direttivo”, ovvero amministrativo), la differenziazione dei ruoli e delle funzioni, l’ampliamento della partecipazione politica sub specie politica di massa. Per ciò che riguarda la politica internazionale, in età postmoderna, questi processi contribuiscono alla costruzione di una “società civile globale”, in cui si esprime al massimo livello la dinamica della differenziazione funzionale. Per Onuf questa nuova declinazione della struttura della politica internazionale esprime, nell’ambito dell’eredità continentale, il trionfo dell’accezione hegeliana della società civile, intesa come “sistema dei bisogni” (system of needs). Questo sistema ha un carattere omogeneizzante; come un “lattice” pervasivo ingloba in sé gli Stati, insieme a una “miriade” di associazioni sorte ad ogni livello di 107 n.16 / 2006 questa struttura dalla natura mutante, polimerica. Questo lo stato dell’arte. Ma dal momento che l’obiettivo di Onuf è quello di “guardare avanti”, dopo aver proiettato lo sguardo indietro, rimane, in senso prasseologico, un compito da svolgere per il repubblicanesimo riaffiorante, quando cioè la sovranità è in crisi ed il mondo westphaliano cristallizzatosi nel XVIII secolo, si trasforma. In questo senso, occorre tornare al lessico repubblicano del vivere civile, della partecipazione, del perseguimento del bene comune per rendersi conto, cioè, che la mera espansione del “lattice” della differenziazione funzionale fino al disegno di una società globale, non è sufficiente a costruire una società politica, un nuovo ordine politico “repubblicano”. Infatti, questo sistema globale, o se si vuole, questa “società in rete” che si regge sui nodi costituiti dalle città globali, si configura come una società includente (o se si vuole pervasiva), ed escludente al tempo stesso, costruita intorno al paradosso di un’umanità simultaneamente più unificata e più frammentata. Al contrario, una concezione tocquevilliana-gramsciana della società civile globale (e si noti che il pluralismo associativo viene ricondotto da Onuf all’eredità atlantica del repubblicanesimo), pur presente in altri contributi che arricchiscono l’attuale dibattito sul tema nelle Relazioni Internazionali, probabilmente è quella che più si avvicina all’idea del repubblicanesimo sostenuta in questa sede da Onuf. L’accezione fatta propria da Onuf della società civile internazionale serve ad esemplificare un aspetto dei processi di mutamento della world politics nella fase attuale. In questo senso la lettura di Onuf si aggiunge al quadro analitico in via di consolidamento che fa riferimento a questa categoria interpretativa in modo sempre più articolato. Tanto da poterci consentire una sintesi dei diversi frames teorici proposti in relazione ai diversi aspetti della complessa “realtà” in evoluzione della politica internazionale che gli studiosi ora indicano con il termine società civile internazionale. In realtà vengono utilizzate tre aggettivazioni diverse, con qualche scostamento di significato tra l’una e l’altra o, come più spesso avviene, con l’indicazione di un diverso referente. In un caso, infatti, quello seman- 108 ticamente più ampio, la “società civile internazionale” è sovrapponibile al concetto di world politics. La nuova condizione esistenziale dell’umanità cui essa è riferibile è quella determinata dai processi di globalizzazione, ed è identificabile attraverso la cifra qualitativa della “politica interna del mondo”. Né il “sistema internazionale”, né la società internazionale, fatti di Stati, esauriscono la complessità della vita politica internazionale. Ad un ampliamento della soggettività politica internazionale, si accompagna l’inserimento, la “compressione” degli Stati in questa cornice più ampia e più complessa. Questa visione della società civile internazionale è anche quella che conduce al superamento dell’idea di anarchia internazionale. Il riferimento alla società civile transnazionale esemplifica la condizione di interdipendenza transnazionale e la sempre maggiore interpenetrazione tra arene politiche, nazionale, transnazionale, internazionale. In questo contesto, l’analisi del crescente protagonismo degli attori della società civile, dalle organizzazioni non governative ai movimenti globali, mette in luce i processi di mutamento della sfera politica internazionale. Vi è chi riconduce alla dimensione interpretativa della società civile transnazionale sia il processo di trasformazione dell’ontologia della politica internazionale determinatosi con la fine della guerra fredda, sia l’articolarsi di un “activist stratum”, di attori collettivi in grado di agire nella sfera transnazionale tematizzando issues globali. La “società civile globale” si configura invece come il referente più ampio, e riassorbe in sé le due precedenti definizioni. In questo quadro viene identificata un’agenda della politica della società civile globale, che spazia dalle questioni ambientali, alle cosiddette missioni umanitarie, alla politica dei diritti umani, alle proteste messe in atto dagli attivisti globali, alla costruzione di campagne internazionali per obiettivi specifici (si pensi alle mine antiuomo, o alla politica di genere). Si identificano altresì “posizioni” specifiche nella “sfera pubblica internazionale” che si definiscono essenzialmente nelle diverse sensibilità e livelli di consapevolezza della globalità dei problemi. Vi sono quindi in letteratura, accezioni più o meno ampie della società civile globale. Il discrimine – proprio quello individuato da Onuf – tra processi Lidia Lo Schiavo Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought... di estensione globale funzionale (dalle dinamiche economiche, alle organizzazioni trans-governative e intergovernative, alla definizione di aree di cooperazione economica, tecnologica, organizzativa nei regimi internazionali), e l’emergere della consapevolezza globale, nei termini di una sociologia della condizione globale, indica la linea di divisione tra i due modi di interpretare la politica internazionale in questa fase storica. Una prima linea interpretativa fa riferimento ad una fase di transizione (la società civile globale in senso debole), caratterizzata da sopravvivenze del precedente “ordine” e le manifestazioni di uno incipiente. La seconda linea interpretativa usa la cifra del mutamento di paradigma (la società civile globale in senso forte), facendo appello all’uso di rinnovate capacità interpretative. A questo si aggiunge il contributo della teoria normativa delle relazioni internazionali che si traduce nella definizione dell’obiettivo del mutamento della politica internazionale nel senso della costruzione della democrazia internazionale. È a questa dimensione prasseologica che è riconducibile una parte della operazione concettuale condotta da Onuf, che per questa via si avvicina in qualche misura ai costruttivisti riconducibili all’alveo della teoria critica. In questo senso la politica globale può essere “riformata” attraverso un sempre più ampio processo di networking transnazionale (di cui si registrano le prime manifestazioni, sulla base delle esperienze dei movimenti dei new globals, che si mobilitano secondo il macro-frame della globalizzazione dal basso). La possibilità di riforma dell’indirizzo della politica globale viene riconosciuta, nell’analisi di un altro costruttivista, Robert Cox, nel sorgere di un postmoderno “nuovo principe” (questa volta collettivo) quindi di una nuova “sfera pubblica”, che scaturisca dalla connessione delle società civili e politiche nazionali per il perseguimento di obiettivi politici globali, anzi glocali, e per la conduzione di un’azione di contrasto alle spinte disgregatrici, populiste, fondamentaliste, violente che, in questa fase, stanno dettando l’agenda della politica globale. D’altra parte, a questo quadro è possibile aggiungere che, una lettura del repubblicanesimo che consenta di attribuire un ruolo di primo piano al contributo di Vico, consente di valorizzare la società civile, intesa non solo come sfera distinta dallo Stato (nel senso della tutela delle libertà individuali) ma anche come dimensione precipua della partecipazione politica messa in atto da parte di identità collettive indipendenti dallo Stato, a riprova dell’autonomia della dimensione della socialità anche a fronte del processo di spoliticizzazione della società che ha accompagnato la formazione dello Stato moderno. Né il riferimento al termine glocale, né il richiamo al pensiero di Vico possono tuttavia rimanere indicati semplicemente in modo poco più che evocativo. In particolare, l’uso del termine glocale ricorre in modo sempre più frequente non solo nella letteratura specialistica, rischiando per questa via di diventare un termine presente nel linguaggio comune. Tuttavia, alla frequenza dell’uso non si accompagna necessariamente il rigore concettuale. Anzi! Spesso viene utilizzato come espressione di sintesi per indicare questioni complesse, che rimangono non esplicitate. Brevemente proveremo dunque a far chiarezza, sulla base di una ricostruzione delle condizioni in cui questo termine viene impiegato. A questo proposito, può essere utile tornare alla distinzione tra il piano ontologico e quello epistemologico. Il glocale, cioè, può essere utilizzato per indicare la condizione di complessità dei mondi-divita globalizzati, come termine centrale nel lessico di una “sociologia della cultura globale”, o come sintesi delle trasformazioni dell’organizzazione sociale e politica. Nell’uno e nell’altro caso si tratta di due assunti che hanno una serie di implicazioni. In un contesto in cui i confini perdono salienza politica e culturale (o assumono paradossalmente una salienza esasperata), in cui lo Stato vede ridursi le sue funzioni di regolazione entro i confini delle società nazionali – denazionalizzazione – ovvero il monopolio dell’esercizio e del controllo di queste stesse funzioni – destatalizzazione – (quando cioè la funzione del government si dilata nei suoi scopi e nella gamma dei soggetti legittimati ad esercitarla, spostandosi cioè verso la governance). Un mondo glocale è anche quello in cui i flussi di risorse materiali e simboliche tendono a non obbedire più a sequenze e percorsi ordinati dal gioco a somma zero del rapporto territo- 109 n.16 / 2006 riale e culturale tra centro e periferia, ma seguono traiettorie più complesse. Queste si irradiano lungo una nuova “struttura della centralità” geopolitica, ora reticolare. Flussi di persone, di denaro, tecnologici costituiscono la nuova “struttura” della globalità. Flussi di immagini e informazioni e costruzioni intersoggettive di comunità immaginarie cambiano “dal di dentro” la natura della località; i paessaggi cognitivi globali come complessi di significati condivisi, sono situati, globali ma costruiti in contesti specifici. Il riferimento al piano epistemologico è quello che ci permette di seguire un percorso potremmo dire evolutivo negli studi sulla globalizzazione. Potremmo cioè ricondurre il termine glocale ad una seconda stagione di questi studi. Quella cioè in cui ci si libera da un approccio dicotomico nella visione dei problemi per adottarne uno inclusivo. Si dà corso ad una visione della complessità in cui cioè eventi “paradossali” possono essere ricondotti ad una comune cornice interpretativa. Questa cornice interpretativa si muove sul piano cognitivo attraverso l’uso di coppie di termini. La globalizzazione può essere cioè spiegata come il risultato di una serie di compresenze, tra la condizione di incertezza e quella di consapevolezza, di estensione ed approfondimento dei processi sociali, di dimensione globale e locale, di inclusione ed esclusione. Si tratta dunque di abbandonare una concezione interamente omogeneizzante dei processi di globalizzazione (il lato della standardizzazione funzionale) o interamente frammentante (il lato degli etnicismi, dei nazionalismi, dei comunitarismi), come nel caso di interpretazioni riassumibili nei termini di “Jihad versus Mcworld”. Piuttosto si può pensare a processi di istituzionalizzazione globale del locale (per esempio attraverso la definizione di standard minimi di diritti che vengono adottati localmente) e di incorporazione o traduzione locale del globale. L’idea della interpenetrazione e della complementarietà di globale e locale, di “incorporazione selettiva” del primo da parte del secondo e della creazione di una nuova località ridefinita globalmente sta al cuore della proposta interpretativa del glocale individuata da Robertson, e si avvicina alla sintesi proposta da Rosenau con il neologismo “fragmegration” (in relazione alla compresenza di 110 dinamiche di frammentazione e di integrazione nella cornice della world politics). Ancora sotto il profilo epistemologico si tratta di fare riferimento ad una nuova stagione, iniziata nei primi anni ’90, nella teoria sociale, quella che è segnata da una sua “spazializzazione”. Il recupero della salienza dello spazio rispetto al tempo come categoria interpretativa della realtà sociale è la conseguenza dell’abbandono delle grandi narrazioni sull’unidirezionalità della storia, su una sua concezione come “meccanismo efficiente”, in grado di passare da una condizione di equilibrio all’altra. La teoria sociale si spazializza ed è così in grado di guardare rispettivamente alla modernità ed alla globalità come a costellazioni complesse di processi, non seguendo la linea teorica che considera la globalizzazione come “conseguenza” della modernità, senza sottrarsi all’analisi delle relazioni che intercorrono tra le due costellazioni. Il riferimento allo spazio e al tempo rimanda all’uso di altri termini-concetti che possono essere ricondotti alla “glocalità”. La glocalità presupporrebbe infatti il costituirsi di una nuova natura della località, considerata come il risultato di processi di estensione delle relazioni sociali nello spazio e nel tempo e del loro ricollocarsi in mutati contesti “locali”. Il riferimento al quadro teorico proposto dagli studi internazionalistici in campo politologico e sociologico non sarebbe completo se non si prendesse in considerazione il concetto di interdipendenza transnazionale (che nella sua accezione debole è riferito alle crescenti “emissioni” che attraversano i confini di una data comunità e divengono una variabile di cui tener conto nei processi di regolazione sociale, mentre nella sua versione forte indica il formarsi di una società globale sempre più integrata, diversa cioè da una costellazione di società “internazionalizzate”) costituisce il sostrato di una condizione di “connettività complessa”, di “compressione” spazio-temporale, ottenuta con “l’annullamento dello spazio per mezzo del tempo”. Da questa scaturirebbe una condizione generalizzata di prossimità, nel senso del diffondersi della percezione della tendenziale condizione di “unicità” del mondo. Nelle prime battute della nostra lettura del testo di Lidia Lo Schiavo Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought... Onuf abbiamo fatto cenno ad una “vittoria” del liberalismo nel suo rapporto con il repubblicanesimo, proposta dall’autore come frame interpretativo del percorso storico del pensiero politico occidentale. A questo punto del nostro discorso, questo riferimento ci consente di introdurre i termini vichiani del discorso repubblicano. Onuf include l’idea di una “vittoria” del liberalismo nel contesto della vicenda storica e politica del moderno sistema di Stati in cui, per un lungo tratto di questo percorso, politica e statualità non erano completamente sovrapponibili. La dimensione del politico era cioè più ampia e inclusiva. In questa ottica allora il posto che Onuf riserva al repubblicanesimo nella sua analisi della politica internazionale e della conoscenza di questa è duplice. Da una parte infatti mette in evidenza che le istituzioni “interne” degli Stati, dalla costituzione all’idea di libertà, sono legati del “republican ways of thinking” [Onuf, 1998, 3], dall’altra che questa stessa eredità non è facilmente rinvenibile nel “pensiero internazionale”. Questo perché essa è divisa in “molti pezzi” (several pieces) e che gli internazionalisti hanno difficoltà a ricondurre ad un quadro coerente proprio perché manca loro il riferimento comune al “repubblicanesimo” come concezione politica ma anche cognitiva, nel senso costruttivista della costruzione sociale della conoscenza, accanto alla costruzione intersoggettiva della realtà sociale. Come dire che diverse forme di regolazione della vita associata, politica, economica, etica e cognitiva si intrecciano nei processi di interazione sociale. Per Onuf il recupero-rilettura del passato serve come acquisizione di consapevolezza per il presente. In questo contesto, ci sembra di poter affermare che con il riferimento a Vico, che pure Onuf omette nella sua ricostruzione, può essere utile a chiarire il senso del riferimento dello stesso Onuf al carattere inclusivo della concezione della politica repubblicana e costruttivista. Per Vico infatti la “socialità” preesiste alla istituzione dello Stato. La società civile è lo spazio della libertà e della partecipazione politica. Si costituisce come ambito autonomo, pluralistico quindi non neutralizzabile nella sua dimensione conflittuale, né amministrabile dall’alto, attraverso l’organizzazione burocrati- ca dello Stato. Sotto il profilo cognitivo, l’idea vichiana delle diverse forme che può assumere il rapporto capo/gregari, Stato/società civile, rimanda ad una concezione “democratica” della logica, che non esclude cioè i gregari “dalla produzione di senso che conta”, quella cioè che definisce l’agenda della politica ed il modo di interpretare e dare significato alla realtà. Rispetto alle altre “migrazioni” da un contesto disciplinare all’altro, come si accennava, la ricostruzione della vicenda del repubblicanesimo operata da Onuf presenta indubbiamente caratteri di specificità rispetto alle modalità utilizzate nel dibattito politologico interno. Rimane tuttavia la convergenza degli “obiettivi” oltre ad una certa vicinanza lessicale. Anche in questo caso, infatti, si tratta di ricostruire una tradizione di pensiero e, per questa via, di ricercare una diversa fondazione del pensiero politico moderno. In questo contesto, Onuf è costretto, se così può dirsi, a tenere in conto anche la peculiarità dell’evoluzione disciplinare delle Relazioni Internazionali, nell’analisi della politica internazionale. In questo campo, infatti, le RI sono storicamente le ultime arrivate. In questo caso, la “tradizione” è quella tracciata del diritto internazionale, a partire dall’età della sua “fondazione mitica” – riconosciuta nell’opera di Grozio (repubblicano continentale) secondo la lettura di Onuf – in cui sono riconoscibili due componenti fondamentali (appunto tradizioni), quella giusnaturalista e quella giuspositivista. Le Relazioni Internazionali, fin dal loro atto di fondazione accademico tra il primo e il secondo dopoguerra, hanno intrapreso immediatamente un’operazione “ideologica” di fondazione. In questo caso i “realisti” hanno guardato a Tucidide, a Machiavelli e ad Hobbes come ai padri fondatori della disciplina. Tuttavia, la costruzione di questa linea di continuità viene revocata in dubbio non solo dai costruttivisti à la Onuf, ma anche al di fuori delle Relazioni Internazionali. Già la lettura pocockiana, ma soprattutto skinneriana del lessico politico moderno, mette in luce la differenza del pensiero politico di Machiavelli e di Hobbes. La costruzione geometrico-politica hobbesiana persegue l’obiettivo di neutralizzare il conflitto, di “derubricare” la dimensione politica ad ammini- 111 n.16 / 2006 strazione delle cose. Al contrario, la politica è interpretata da Machiavelli attraverso la categoria del conflitto, inteso come manifestazione del vivere civile e della libertà, ovvero della partecipazione responsabile, contro la minaccia della corruzione. Ebbene, la disciplina internazionalistica riconosce i propri natali in tre tradizioni fondamentali. Quella machiavelliana, (realista e neo-realista), quella grotiana (liberale), e quella kantiana (solidaristacosmopolitica). Tali tradizioni generano, secondo Onuf, delle aporie, presenti nell’approccio neoliberale (riconoscibili in particolare nella versione istituzionalista dei weak liberals). In questo ambito infatti se la dimensione istituzionale e delle regole viene inserita come variabile nei modelli esplicativi del comportamento degli attori, rimangono invariate le premesse ontologiche (lo Stato come egoista razionale) su cui si fonda tale visione della politica internazionale. In forza di queste premesse ontologiche, infatti, l’identità degli attori sociali viene assunta come variabile esogena, mentre alle norme e alle istituzioni si riconosce un mero ruolo regolativo della politica internazionale. Quanto affermato sin qui contribuisce a spiegare almeno in parte le ragioni della difficile convivenza, per così dire, tra relazioni internazionali e filosofia politica (international ethics), tra teorie esplicative e teoria normativa. Questa impasse potrebbe tuttavia essere superata in due modi. In prima istanza distinguendo tra livelli diversi di problematicità e complessità della politica internazionale, per cui solo in relazione ai massimi problemi concettuali (quali il fondamento e la natura del sistema internazionale) è possibile porsi domande di carattere normativo. Oppure facendo appello alla lettura costruttivista della politica internazionale, posto che in questo caso gli elementi normativi sono riconosciuti come parte integrante dello stesso processo di costruzione sociale della realtà. Anche se in questo caso occorre sottrarsi al rischio di sovrapporre indebitamente l’interpretazione della realtà sociale condotta da chi agisce (first order interpretation) a quella del ricercatore (second order intepretation), di chi cioè osserva a sua volta una realtà già interpretata. Quanto al tipo di “trattamento” del concetto repubblicanesimo operato da Onuf, oltre alla distinzione delle due 112 vicende, atlantica e continentale, rispetto al discrimine fondamentale individuato nell’ambito del dibattito sul repubblicanesimo in ambito teoricopolitico, Onuf sembra assumere una posizione peculiare, riconducendo la tradizione aristotelica alla sola componente continentale del repubblicanesimo. Nella storia del pensiero politico la distinzione fondamentale è posta tra tesi continuiste e discontinuiste nella ricostruzione del pensiero repubblicano, ovvero tra chi, come Pocock, postula una linea di continuità tra aristotelismo e repubblicanesimo, e chi, come Skinner, ritiene che l’elaborazione dell’ideologia repubblicana nell’età dell’umanesimo civile italiano, non avesse dovuto attendere il recupero di Aristotele, utilizzando piuttosto le elaborazioni storiche e filosofiche romane (teoria neo-romana). In questo ambito disciplinare, il campo semantico è stato costruito intorno a tre fondamentali figure. A partire da Pocock, centrale è stato il ruolo di Quentin Skinner e poi di Pettit, mentre Habermas da una parte ed i comunitaristi dall’altra, hanno contribuito ad articolare e arricchire tale dibattito. Habermas ha legittimato la sua posizione nei termini di una “terza via” tra individualismo liberale e comunitarismo di matrice aristotelica, per ciò che riguarda la pensabilità del politico e del rapporto individuo-società. Per i comunitaristi la riconduzione del repubblicanesimo ad una forma di aristotelismo politico (tesi continuista) è stata, se così può dirsi, funzionale alla contrapposizione con l’individualismo liberale, così come lo è stata la tesi della discontinuità per i costituzionalisti liberali, e per lo stesso Habermas (a sostegno della proposta deliberativa-procedurale di democrazia). La terza figura fondamentale nel dibattito “interno” sul Repubblicanesimo, è, come è noto, quella di Philip Pettit, in particolare per ciò che riguarda la critica della concezione liberale della libertà negativa, intesa come “non-interferenza”. L’alternativa proposta da Pettit è quella della libertà come “nondominio”, in quanto esclude tutte le forme di dominazione e di arbitrio. Questa digressione, sul diverso modo di organizzare il dibattito nella ricerca storiografica e nella teoria politica rispetto alla modalità seguita da Onuf nell’ambito delle RI, da una parte ci consen- Lidia Lo Schiavo Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought... te di comprendere quale sia stato il ruolo del dibattito sul repubblicanesimo nella teoria democratica e nella scienza politica nell’ultimo trentennio del secolo appena trascorso, dall’altra contribuisce a far emergere la specificità di questa ricostruzione nel campo della scienza politica internazionale. Ciò è quanto, almeno in parte, abbiamo cercato di chiarire sin qui. Concludiamo questo percorso con una riflessione sull’operazione concettuale affrontata da Onuf, utilizzando altresì questo spazio per inserirci nel dibattito su uno dei temi cruciali degli studi internazionali, affrontati sia attraverso l’analisi dei processi decisionali, sia con la riflessione sulle linee di tendenza dell’indirizzo politico globale. La componente ricostruttiva dell’analisi condotta del politologo non esaurisce il senso della sua operazione intellettuale. Vi è, come si è detto, anche una componente normativa, rispetto alla quale Onuf mette in evidenza il contrasto tra i due mondi che costituiscono la politica globale in questa fase storica. Da una parte, il mondo liberale delle transazioni economiche, dell’interdipendenza, dei sempre più veloci e intesi processi di comunicazione, della prosperità e della pace, dall’altra quello che resta del “mondo dei territori”, caratterizzato da insicurezza, povertà e guerra. Il primo mondo è anche quello della società civile globale, di cui, nel prossimo futuro, verrà messa in gioco la capacità inclusiva. La posta in gioco consiste cioè nella possibilità che possa o meno aprirsi una finestra di opportunità in senso democratico nella politica globale. Si tratta di capire cioè quali siano i margini per la realizzazione di un’agenda normativa qui espressa attraverso il lessico della concezione repubblicana della politica, quindi mediante il linguaggio della partecipazione, della cittadinanza e dell’empowerment. Al momento, rispetto a quest’agenda, l’estensione globale dei processi funzionali, economici, comunicativi, costituisce solo una parte, peraltro sempre più spesso segnata da contraddizioni, del processo di costruzione di un nuovo ordine politico globale. 113 Silvia Bedin Il deficit democratico dell’Unione europea: tra politics e policy Il Sestante Nel ripercorrere le tappe del processo d’integrazione spesso si afferma come le prime comunità siano figlie della seconda guerra mondiale in quanto nate dall’esigenza di superare la rivalità francotedesca causa dei mali dell’Europa nei primi anni del novecento; tuttavia, è leggendo l’autobiografia di Monnet che si può cogliere il senso profondo di tale affermazione, che si capisce come l’integrazione europea si basi su convinzioni ed idee maturate nel corso delle esperienze di una vita, quella di Jean Monnet appunto, che ha fatto della costruzione di una nuova Europa un imperativo morale ed una filosofia d’azione nella convinzione che la riflessione non potesse essere separata dall’azione (Monnet 1978, 29). Tale è stata la sua influenza nell’informare il progetto comunitario che, come vedremo, autori quali Featherstone riconducono alla sua filosofia le radici del deficit democratico. Testimone ed attore della costruzione dell’Europa, ideatore del metodo comunitario, promotore della federazione europea, sono quindi solo alcune delle definizioni a cui possiamo ricorrere per descrivere vita e ruolo di Monnet nell’Europa del dopoguerra. Da tali considerazioni nasce l’idea di anteporre all’analisi puntuale del deficit una riflessione sulla vita e sulle esperienze di colui che è stato definito l’architetto delle Comunità. Nato a Cognac nel 1888 da una famiglia di commercianti, si dedica fin da giovane all’attività di famiglia, il commercio del cognac, che lo porta a viaggiare e a conoscere nuovi mondi e realtà, dapprima Londra quindi l’America e il Canada. Sarà tuttavia l’esperienza 114 della Prima Guerra Mondiale a segnare il punto di partenza, “l’anno zero”, della sua filosofia dell’azione resa nelle formule: «unità di vedute e di azione; concetto d’assieme; messa in comune delle risorse» (Monnet 1978, 51). Libero da pregiudizi e ricordi del passato, egli comprende che la guerra nella quale ci si stava imbattendo sarebbe stata diversa dalle precedenti e avrebbe richiesto pertanto nuove forme di organizzazione ed una revisione del concetto di alleanza. Seguendo il principio che avrebbe caratterizzato anche le sue azioni future, «prima avere un’idea, poi, cercare l’uomo che abbia il potere di realizzarla», e nella convinzione secondo cui l’autorità è legittima nella misura in cui è utile, Monnet individua nel presidente del Consiglio Viviani l’uomo che ha il potere di realizzare la sua idea e, tramite un amico di famiglia, riesce ad esporgliela (Monnet 1978, 41). Nasce così, dalla necessità della guerra, il fulcro della filosofia monettiana che si riassume nella proposta di mettere insieme dei paesi per realizzare un obiettivo comune ripartendo le responsabilità in funzione delle capacità di ciascuno o, nel caso in questione, «organizzare degli organi comuni capaci di valutare le risorse dell’Intesa, di suddividerle e di equilibrare i carichi» (Monnet 1978, 42). La creazione nel 1916 del Wheat Executive, ovvero della Commissione esecutiva per il grano quale istituzione interalleata per la gestione comune, fu il primo successo registrato da Monnet che corrobora la sua idea secondo la quale gli uomini sono portati ad accordarsi nel momento in cui si accorgono che hanno degli interessi in comune. Silvia Bedin Commentando la sua filosofia Monnet dirà «gli avvenimenti avrebbero dimostrato che questa filosofia relativa soprattutto a ciò che è necessario è più realistica di quella che considera soltanto ciò che è possibile» (Monnet 1978, 136). Soffermandosi sulle pagine dedicate alla narrazione di quei giorni, si nota come vi sia un termine su cui Monnet torna più volte con insistenza, necessità: «…solo la necessità costrinse a stabilire qua e là interventi e controlli» (Monnet 1978, 43); «…non ci sarebbero stati sviluppi se non fossero stati stimolati da urgentissime necessità finanziare…» (Monnet 1978, 44), etc. Ripercorrendo con attenzione le tappe fondamentali della vita di Monnet, si evince come il tema della necessità sia una sorta di fil rouge dell’intera narrazione, ma anche come essa venga designata motore ed ispiratrice del processo di integrazione: «l’artefice della federazione non sarebbe stato un uomo, ma sempre la stessa potenza astratta e multiforme che si impone a tutti gli uomini: la necessità» (Monnet 1978, 313). Tale potenza astratta è quindi, secondo la lezione che Monnet ci tramanda, motore della storia e pre-condizione per il cambiamento al punto che, quando essa viene a mancare, si registra un ritorno allo status quo preesistente. Come possono tali riflessioni incidere sull’analisi del deficit democratico dell’Unione europea? Punto di congiunzione, tra Monnet ed il deficit, è la necessità; in altre parole, il metodo elaborato da Monnet per l’integrazione dell’Europa deve essere adottato e può funzionare proprio perché vi è un deficit democratico. Come durante la prima guerra mondiale i comitati interalleati sono nati e hanno potuto funzionare in ragione delle necessità della guerra, così la nuova Europa ideata da Monnet nasce e prospera dapprima sulla necessità di pacificare i rapporti tra Francia e Germania, successivamente sulla necessità di risolvere il deficit di legittimazione democratica. La federazione europea non nascerà quindi da un processo di costituzionalizzazione, ma da tentativi successivi di affrontare le necessità contingenti e i problemi del momento all’interno di “un’organizzazione collettiva e [attraverso] una consultazione collettiva” (Monnet 1978, 194), ovvero all’interno di quadri e norme d’azione condivisi che le istituzioni comuni Il deficit democratico dell’Unione europea avranno contribuito a creare (Monnet 1978, 337). Seguendo la tesi di Monnet della necessità quale federatore dell’Europa, possiamo leggere il trattato di Maastricht e le innovazioni in esso contenute, dall’introduzione della cittadinanza europea alla procedura di co-decisione e dall’estensione del metodo di voto a maggioranza qualificata alla predisposizione della moneta unica, quali azioni volte ad affrontare necessità contingenti. Ricapitolando, le riflessioni formulate a partire dal pensiero di Monnet ci portano a considerare il deficit quale realtà ineluttabile e componente intrinsecamente legata alle sorti dell’integrazione; tuttavia, per valutare quanto forte sia tale legame, necessitiamo di una definizione del problema medesimo, di una panoramica su studi e riflessioni aventi ad oggetto il deficit dell’Unione europea. Tre sono le linee interpretative principali ricavabili dalla letteratura in materia. Realtà complessa e multisfaccettata, il deficit democratico si presta infatti a diverse e, a volte contrastanti, declinazioni: ad autori che imputano alla costruzione europea un deficit di democrazia, si affiancano autori che le attribuiscono un deficit di democraticità ed autori che mettono in discussione tanto l’esistenza di un deficit, quanto l’opportunità di interventi istituzionali volti a politicizzare l’Ue. Molteplici sono d’altraparte le accezioni e le spiegazioni a cui gli studi del primo filone ricorrono per definire le lacune democratiche dell’Unione: le responsabilità del metodo Monnet; la tecnocrazia; la debole legittimazione democratica di cui l’Unione gode in termini di partecipazione e rappresentatività; la disaffezione e l’ininfluenza dei cittadini europei; lo squilibrio istituzionale; la mancanza, a livello nazionale, di un dibattito sull’Unione e, a livello europeo, la mancanza di politics; l’assenza di una cultura politica democratica. Settorialità delle analisi, mancanza di una definizione chiara ed universalmente accettata del fenomeno nonché di un comune frame di riferimento, sono quindi i principali problemi che si incontrano, accingendosi allo studio delle presunte carenze democratiche dell’Ue. Per quanto attiene, in particolare, alla mancanza di consenso, tanto sulla natura quanto sull’accezione di deficit, essa può trovare una spiegazione nelle diverse occasioni di 115 n.16 / 2006 democrazia che vengono applicate alla realtà sovranazionale (Pasquino 2000, 15), rendendo così necessaria la ricerca di una definizione di democrazia ed in particolare di una definizione empirica della stessa che, individuando elementi essenziali e caratteristiche base, ci consenta di discernere tra un regime democratico e non. Così, se il nostro modello di riferimento è la democrazia parlamentare, definiremo il deficit quale «…mancanza o sottosviluppo delle istituzioni e dei meccanismi della democrazia parlamentare» (Majone 2003, 31). Pur privilegiando la dimensione empirica, non possiamo tuttavia prescindere dal dover-essere della democrazia, dalla prescrizione; come ci insegna infatti Sartori, «ciò che la democrazia è non può essere disgiunto da ciò che la democrazia dovrebbe essere. Una esperienza democratica si sviluppa a cavallo del dislivello tra dover-essere ed essere, lungo la traiettoria segnata da aspirazioni ideali che sempre sopravanzano le condizioni reali» (Sartori 1994, 12). La ricerca di una definizione ideale di democrazia non deve tuttavia essere concepita come il tentativo di individuare un assioma, una verità inconfutabile e definitiva che fissi un limite allo sviluppo democratico. Condividendo infatti la concezione di Dahl (2002, 10) della democrazia quale prodotto della storia, nonché la tesi della processualità della stessa, non possiamo che concepire la definizione ideale quale ottimizzazione piuttosto che massimizzazione democratica, come fa Sartori. Ideale e fattuale, normazione ed implementazione sono, o dovrebbero essere, entrambe componenti fondamentali della teoria democratica in quanto, «senza l’accertamento la prescrizione è "irreale"; ma senza l’ideale una democrazia "non è" (…). La democrazia ha in primo luogo una definizione normativa; ma non ne consegue che il dover-essere della democrazia sia la democrazia e che l’ideale democratico definisca la realtà democratica» (Sartori 1994, 12). Partendo da tali premesse e attraverso il contributo di un allievo di Sartori, Leonardo Morlino, possiamo classificare i criteri democratici in due macro-settori: da un lato, i criteri prettamente empirici, dall’altro i criteri che ci aiutano a rilevare lo scarto tra l’essere e il dover-essere, tra l’ideale 116 democratico e la sua realizzazione. Mentre i primi sono funzionali ad una definizione minima di democrazia, e quindi all’individuazione e alla classificazione di un regime come democratico sulla base di un semplice riscontro empirico, i secondi rilevano la soglia oltre il minimo: la valutazione della qualità e della maturità di un regime democratico. Suffragio universale, elezioni libere e ricorrenti, presenza di più di un partito, alternative e diverse fonti di informazione, sono gli elementi minimi che, Morlino docet, un regime deve almeno possedere per essere qualificato come democratico. Viceversa, competizione e responsività sono «centrali per valutare la distanza di un regime reale da una democrazia ideale, ma marginali per giudicare un paese come una democrazia reale (…). In altre parole, se competizione e responsività sono quasi inesistenti, ma vengono garantiti concretamente diritti e libertà e, dunque, vi è partecipazione e possibilità reale di dissenso, non siamo forse in un regime democratico?» (Morlino 2003, 20). Alla luce di siffatti ragionamenti, laddove nel sistema politico europeo fossero rintracciabili i criteri minimi individuati dall’autore, non dovremmo forse concludere che l’Unione rientra nel novero dei regimi democratici? Precisiamo tuttavia che una sua classificazione quale democrazia non implicherebbe una valutazione, né positiva né negativa, sulla sua democraticità. Infatti, mutuando le parole di Sartori, «qualsiasi regime, il cui personale politico "controllante" viene scelto tramite elezioni libere, competitive, e non fraudolente, è da classificare come democrazia. Non sarà per questo buona, né altro; ma democrazia è: supera la prova che fa da prova» (Sartori 1994, 134). Ricordiamo come per l’autore l’indizione di libere elezioni costituisca il criterio principe ed il discrimine fondamentale tra democrazia e non. Indipendentemente dalle valutazioni sulla possibilità-opportunità di ricondurre l’Unione nel novero delle democrazie, non possiamo non evidenziare come il ragionamento di Morlino possa portare ad una rivalutazione del deficit. Infatti, se riconosciamo nell’Ue un sistema democratico, sulla base della definizione minima dell’autore, non possiamo che concludere che la mancanza di responsività e di competizione, imputate spesso al sistema Silvia Bedin sovranazionale, sono indici di un deficit di democraticità, piuttosto che di democrazia. Gli eventuali aggiustamenti volti ad aumentare la capacità di risposta dell’Unione alle esigenze ed ai bisogni dei cittadini come i tentativi di introdurre una maggiore competizione partitica o elettorale, non sarebbero quindi tanto funzionali ad accrescere la democrazia europea quanto a colmare il divario tra l’essere e il dover-essere della stessa contribuendo ad una maturazione del sistema democratico sovranazionale. Ad un’analisi della democrazia quale coordinata di riferimento e pietra di paragone per poter valutare le eventuali o presunte lacune attribuite all’Unione non può che seguire una ricostruzione storicoconcettuale del deficit quale riflessione a partire da, ed attraverso le diverse declinazioni, interpretazioni e connotazioni attribuite al fenomeno. Una prima possibile lettura individua nel metodo Monnet le premesse del deficit democratico dell’Unione nonché il responsabile di meriti e demeriti, pregi e difetti della Commissione europea che, assieme al Parlamento, sono le istituzioni su cui si concentra il dibattito in materia. Sostenitore assieme a Schuman, di un’Europa funzionalista, l’architetto delle Comunità europee, Jean Monnet, riteneva che l’Unione europea potesse essere costruita solo attraverso integrazioni settoriali «solo in questo modo, e cioè attraverso successive, parziali e graduali cessioni di sovranità a nuove Istituzioni indipendenti dagli Stati, si possono porre le basi di una nuova struttura del potere in Europa, che possa garantire una nuova ‘casa comune’ agli Europei» (Olivi 2001, 28). Fu così che si arrivò alla creazione della prima Comunità europea, la CECA, per la quale i padri fondatori pensarono che, dopo le atrocità della seconda guerra mondiale, i vantaggi per le popolazioni europee, in termini di pace e prosperità, fossero e sarebbero stati, delle giustificazioni sufficienti ed autoevidenti per avviare il progetto integrativo; di qui l’esclusione dei cittadini ed il loro non coinvolgimento nelle decisioni di realizzare il, e nell’evoluzione del, processo medesimo. Esemplificativa è la constatazione di come i passi avanti nell’integrazione, guidati dalle dinamiche del mercato comune e dall’evoluzione del diritto Il deficit democratico dell’Unione europea europeo, siano stati realizzati attraverso negoziati poco pubblicizzati e senza un effettivo coinvolgimento dei cittadini degli Stati membri. Solo che nel lungo periodo tale approccio, presupponendo un’insicurezza collettiva e un successo economico continui, si è dimostrato incapace di procedere oltre un certo limite: se dopo la Seconda Guerra Mondiale i cittadini hanno accettato favorevolmente l’avvio del processo integrativo consci dell’utilità e dei vantaggi che la Comunità europea avrebbe loro portato, oggi, quegli stessi cittadini sono sempre più scettici verso il progetto europeo, non ne capiscono più l’utilità né le finalità, essendo venute a mancare le premesse di necessità su cui si fondava l’approccio iniziale. Se infatti la pace, in Europa, sembra ormai un bene scontato, il benessere lo è sempre meno, soprattutto dopo il rallentamento del boom economico. Sono inoltre cambiate, negli ultimi cinquant’anni, le necessità, i bisogni e le paure dei cittadini europei. Ormai in cima a tutto troviamo l’insicurezza sociale, la globalizzazione, il terrorismo internazionale, il difficile rapporto con l’Islam. Di fronte a questi cambiamenti, l’Unione è restata immobile, imprigionata tra gli egoismi nazionali e i tentennamenti dei leaders politici che sembrano mancare dell’immaginazione, della fantasia, nonché del coraggio necessari per far progredire l’Unione. Avendo impostato lo sviluppo dell’integrazione su una legittimazione di tipo tecnocratico, che trova nei successi – quali la pace; il mercato unico; l’affermazione delle quattro libertà fondamentali; l’euro; etc. – la sua ragion d’essere, il “metodo Jean Monnet” si è rivelato tanto più controproducente quanto più l’incomprensione dei fini dell’Unione europea e il meccanismo del blameshift, che fa configurare l’Europa quale responsabile di disagi e mali nazionali, hanno portato a mettere in discussione l’efficienza dell’Unione stessa (Weiler 2001, 63). Ricapitolando, le critiche di tecnocrazia, opacità e depoliticizzazione mosse all’Unione ed in particolare al suo esecutivo, la Commissione, deriverebbero dalla filosofia di Monnet che può essere riassunta, secondo l’analisi di Featherstone (Featherstone 1994, 150), nell’idea pragmaticofunzionalista dei piccoli passi e nel gradualismo 117 n.16 / 2006 incrementale. D’altra parte, lo stesso autore, riconosce come non vi fossero alternative possibili a quella intrapresa dai padri fondatori; se, infatti, la via federale non fosse stata accettata, l’ipotesi di un’Europa guidata dai soli Governi nazionali avrebbe condannato il progetto europeo a progressi limitati. L’esistenza dell’odierno deficit democratico sarebbe quindi imputabile a Monnet e alla sua visione "of a Europe united by a bureaucracy" basata sul coinvolgimento e la "conversione" alla causa europea delle élite piuttosto che delle masse; scrive infatti Monnet: «We believed in starting with limited achievements, establishing de facto solidarity, from which a federation would gradually emerge. I have never believed that one fine day Europe would be created by some great political mutation, and I thought it wrong to consult the peoples of Europe about the structure of a Community of which they had no practical experience. It was another matter, however, to ensure that in their limited field the new institutions were thoroughly democratic; and in this direction there was still progress to be made....the pragmatic method we had adopted would....lead to a federation validated by the people’s vote; but that federation would be the culmination of an existing economic and political reality, already put to the test» (citato in Featherstone 1994, 159-160). Monnet, non solo afferma la necessità di una costruzione de facto, prima ancora che de jure, dell’Europa nella convinzione che non sia possibile istituzionalizzare ciò che deve ancora essere costituito, ma privilegia la strada di un gradualismo incrementale. Mutuando la definizione di Luigi Bobbio (2004, 33), il modello incrementale presuppone un aggiustamento in itinere dei fini a seconda dei mezzi disponibili, privilegiando «i piccoli passi» alle «grandi riforme» nella convinzione che sia possibile conseguire notevoli mutamenti in modo graduale. L’incrementalista è in sintesi colui che aspira «a ciò che è di volta in volta concretamente possibile, piuttosto che perseguire ciò che è astrattamente desiderabile». Così, negli intenti di Monnet, la federazione è la meta, il traguardo finale del processo integrativo, che tuttavia si raggiungerà gradualmente, come d’altra parte futura è la 118 prospettiva di un Parlamento europeo. Privilegiando infine, una conoscenza di tipo ordinario basata sull’esperienza, Monnet ritiene che non sia opportuno coinvolgere e consultare «the peoples» sul processo d’integrazione nei confronti del quale «they had no practical experience». Nonostante l’impostazione tecnocratica ed elitista, non manca il riferimento alla necessità che le nuove istituzioni siano democratiche, anche se si rinvia la soluzione del problema a futuri ed imprecisati progressi. Nell’affrontare problemi ed obiettivi che di volta in volta si pongono alla sua attenzione, Monnet privilegia un approccio empirico, operativo, basato cioè su casi concreti che fungono da esempio per dimostrare la teoria che sottostà all’azione. Accanto al tema della necessità troviamo anche quello dell’azione: «…bisognava agire empiricamente, partire da alcuni casi concreti per dimostrare col loro esempio che…» (Monnet 1978, 43); «…bisognava mettere a punto un certo numero di misure concrete… le nostre strutture erano pragmatiche…» (Monnet 1978, 67); o, ancora, «…bisognava cominciare con realizzazioni che fossero allo stesso tempo più pragmatiche e più ambiziose, e attaccare le sovranità nazionali con più audacia su un aspetto più limitato» (Monnet 1978, 205). Approccio pragmatico e filosofia dell’azione costituiscono i punti di forza del metodo ideato da Monnet il cui successo, in settori contingenti e circostanze peculiari, lo porta tuttavia a sopravvalutarne le capacità di risoluzione, come si può evincere dalla proposta di unire Francia e Gran Bretagna, al momento della crisi di Dunkerque nella Seconda Guerra mondiale, in un’unione indissolubile basata sulla fusione dei parlamenti e dei popoli; in questo caso egli abbandonava, spinto da una necessità che era solo logica ma non politica (la Francia preferì a quel momento Petain a De Gaulle) la ritrosia dei piccoli passi per promuovere e sostenere un’integrazione top-down, guidata dall’alto e realizzata mediante fusioni al vertice. Tecnocrazia, elitarismo, ma anche sopranazionalità sono le parole chiave per comprendere il pensiero e la strategia di Monnet nonché i "responsabili" di meriti e demeriti, punti di forza e debolezza, del- Silvia Bedin l’attuale Commissione europea. Se da un lato la scelta della sopranazionalità e la volontà di superare vincoli e costrizioni dell’intergovernativismo sottostanno all’ideazione dell’Alta Autorità e giustificano la ritrosia di Monnet circa la creazione di un Consiglio dei Ministri – anche se alla fine le pressioni dei governi belga e olandese, fermi nella decisione di istituire un’istituzione che garantisse un controllo sulle decisioni adottate dall’Alta Autorità, fecero capitolare Monnet che dovette accettare la creazione dell’istituzione intergovernativa – dall’altro, l’approccio tecnocratico ed elitista spiega la natura di quella che è oggi la Commissione e l’esclusione dell’uomo qualunque dal progetto di integrazione sovranazionale. Cuore del pensiero monettiano, scrive Radaelli (1999, 520), è poi il ruolo riconosciuto ad esperti e gruppi di interesse nella formulazione delle politiche sovranazionali, favorendo e promuovendo un government with the people, piuttosto che by the people. L’importanza dei gruppi di interesse, soprattutto nella fase iniziale di formazione della proposta legislativa, è tale che Marco Mascia li paragona ai partiti politici: «…il gruppo di interesse economico è essenziale al funzionamento del sistema dell’integrazione europea come il partito politico lo è rispetto ai sistemi nazionali democratici» (Mascia 2001, 128). Ricordiamo in particolare il ruolo giocato da esperti nazionali e gruppi di interesse nella fase di elaborazione della proposta legislativa. Come ricorda Panebianco (2005, 88) le proposte di policy vengono infatti elaborate all’interno delle DG da funzionari che si avvalgono delle conoscenze e delle informazioni tecniche di soggetti esterni quali i gruppi di interesse. Esclusi, almeno direttamente dal gioco politico fino al 1979, data delle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, restano invece i cittadini. Come sottolineano infatti Wallace e Smith «la strategia di Monnet consisteva in un gradualismo trainato dall’élite, con l’aspettativa che il consenso popolare sarebbe cresciuto col tempo. In un simile approccio indiretto all’integrazione politica, il fatto di attirare le organizzazioni di interesse - dell’impresa, del lavoro e degli enti amministrativi nazionali - era una priorità assai più sentita del coinvolgimento diretto di un pubblico all’epoca ancora poco Il deficit democratico dell’Unione europea informato» (citati in Radaelli 1999, 521). Riassumendo, la ricetta di Monnet prevedeva un mix di tecnocrazia ed interessi economici quali basi per costruire coalizioni transnazionali che sostenessero la costruzione europea (Featherstone 1994, 155). Ulteriore ingrediente dell’universo deficit è la legittimità democratica o meglio il deficit di legittimità, intesa quale input-legitimacy, ovvero quale partecipazione e rappresentatività. Questo aspetto del deficit legge, nell’astensionismo registrato in occasione delle elezioni per il rinnovo del legislativo sovranazionale, nella diversa funzione delle elezioni europee, attraverso le quali non si esprime la volontà collettiva del popolo europeo né si conferisce al Parlamento il compito di formare l’esecutivo e, in sintesi, nel diverso funzionamento del sistema politico europeo rispetto all’alter ego nazionale, le cause delle lacune democratiche dell’Unione europea. L’avvio del dibattito sulla legittimità democratica del processo di decision-making, delle strutture di governance nonché, dell’intero processo di integrazione, può essere fatto risalire ad una decina di anni fa, alla crisi che ha accompagnato negli anni ‘90 la ratifica del Trattato di Maastricht sull’Unione europea. Vi sono tuttavia autori, tra i quali Giraudi (2005, 27), che fanno risalire la nascita del problema alle controversie tra la Corte di giustizia europea e le Corti costituzionali italiana e tedesca. Quest’ultime, infatti, rivendicavano il diritto di esercitare il sindacato di costituzionalità delle leggi, anche nei confronti del diritto comunitario direttamente applicabile, ritenendo che il sistema comunitario, in ragione della debole rappresentanza politica diretta, non fosse in grado di assicurare che le disposizioni comunitarie non ledessero i diritti fondamentali riconosciuti dai rispettivi Stati. Fino alla metà degli anni ‘80, sottolinea Höreth (1998, 4), il problema della legittimità democratica dell’Ue non sussisteva; si riteneva, infatti che la sua legittimità fosse indirettamente fornita dagli Stati Membri e dai loro Parlamenti: non erano forse stati quest’ultimi ad autorizzare la ratifica dei Trattati europei? La costruzione europea non era forse stata approvata democraticamente attraverso le procedure costituzionali degli Stati membri? 119 n.16 / 2006 Il fallimento del referendum sul TUE in Danimarca e l’esito non incoraggiante seppur positivo, di quello in Francia (entrambi nel 1992) – lo scarto tra i "si" e i "no" fu infatti minimo 51% vs. 49% – segnano dunque la fine di un periodo positivo nella storia dell’integrazione durante il quale l’assenza di critiche e dissensi al progetto europeo era stata letta come indice di popolarità e di successo del processo medesimo. Non dovrebbe tuttavia stupire che si cominci a parlare dell’esistenza di un deficit democratico proprio in concomitanza dell’adozione del Trattato di Maastricht che, come è ben noto, segna un importante passo avanti nella storia dell’integrazione: pensiamo all’introduzione della cittadinanza europea; della procedura di co-decisione; del pilastro dedicato al settore della giustizia e degli affari interni e a quello dedicato alla politica estera e di sicurezza comune o, ancora, all’estensione del metodo di voto a maggioranza qualificata e alla predisposizione della moneta unica. Nel momento in cui l’Unione acquisisce funzioni e caratteristiche tipicamente statali diventa più pressante la questione su come armonizzare gli standard comunemente accettati di governance democratica, con il trasferimento di prerogative nazionali verso il livello europeo (Rittberger 2003, 3). Era inimmaginabile, sottolinea Höreth (1998, 9), che l’acquisizione da parte dell’Ue, di competenze rappresentanti il fulcro della sovranità statuale potesse continuare ad essere legittimato indirettamente. Si avverte, ad un certo punto, la necessità di un maggiore coinvolgimento dei parlamenti nazionali, di una ripartizione più equilibrata dei poteri tra le istituzioni sopranazionali, nonché di un sostegno popolare diretto. Sostegno che tuttavia tarda a realizzarsi, come dimostrano la crisi aperta in occasione della ratifica del Trattato sull’Unione Europea o, per arrivare ai nostri giorni, le difficoltà a ratificare il Progetto di Trattato per una Costituzione Europea rappresentate dai “no” di Francia ed Olanda in occasione dei referendum sulla Costituzione svoltesi rispettivamente il 29 maggio e il 1 giungo 2005. Dobbiamo tuttavia ricordare che vi sono diverse interpretazioni della crisi aperta a Maastricht. Infatti, ad autori che vi leggono una crisi di legitti- 120 mità si affiancano autori, tra cui Peterson, che riconducono la difficile ratifica del trattato a problematiche più prettamente "quotidiane" quali: «gli effetti impopolari delle politiche di austerità necessarie per rispettare i parametri legati alla realizzazione dell’unione monetaria; le conseguenze che l’allargamento ad est avrebbe provocato, con la relativa riduzione dei fondi strutturali; l’incapacità dell’Unione (…) di affrontare in maniera efficace la crisi della mucca pazza» (Panebianco 2005, 93). Per questi autori, quindi, la crisi aperta nel 1992 va letta come una contestazione del modo in cui veniva condotto il processo di costruzione europea, non tanto come un ammonimento a colmare le lacune democratiche dell’Unione. In linea con quest’ultima declinazione, l’analisi di Pasquino (2000, 7) legge il deficit democratico attraverso la discrepanza tra la partecipazione elettorale alle elezioni nazionali e a quelle europee, ovvero, in termini di partecipazione ed influenza dei cittadini medesimi. Secondo l’autore, sono due i requisiti minimi che un’istituzione deve rispettare per essere considerata accettabilmente democratica: l’elettività e la responsabilità. Requisiti che, seppur presenti, non pregiudicano «eventuali valutazioni qualitative, ad esempio, democratico, ma di bassa qualità, ovvero deficitario» (Pasquino 2000, 7). Applicando questi due criteri alle principali istituzioni comunitarie – Parlamento, Commissione e Consiglio dei ministri – solo il primo sembra, almeno formalmente, rispettarli. Come si spiegano allora le critiche mosse da alcuni autori al Pe? Come conciliare l’elettività del legislativo sopranazionale con le tesi che lo vogliono deficitario? Pasquino prova a superare tale contraddizione facendo derivare il deficit dalla natura nazionale delle elezioni europee e dalla disaffezione che sempre più i cittadini dimostrano in occasione del rinnovo del corpo legislativo (Pasquino 2000, 8). Quella che potrebbe sembrare una contraddizione rispecchia la realtà dei fatti: non solo, sottolinea l’autore, in occasione delle elezioni sopranazionali si contrappongono liste di partiti nazionali su scala nazionale, ma anche le tematiche sottoposte agli elettori non sono davvero europee. Le elezioni europee finiscono così per fungere da "banco di prova" per testare il consenso o il dissenso nei Silvia Bedin confronti dei politici nazionali. Si può così spiegare come l’aumento dei poteri del Parlamento europeo sia stato accompagnato da una crescente disaffezione che si è poi riflessa in una crescente diminuzione della partecipazione alle elezioni. I progressi realizzati, la sua maggiore influenza sul processo legislativo ed il controllo delle altre istituzioni non sono stati quindi sufficienti a far crescere l’interesse per il Pe e per la sua elezione che rimane nell’immaginario collettivo, un’istituzione secondaria e non rilevante. Le carenze democratiche del Parlamento europeo sarebbero quindi, sulla base di quanto fin qui affermato, imputabili ai partiti e alla loro scarsa capacità di offerta e di attrazione, giustificata tenendo presente che il loro interesse è per la politica nazionale piuttosto che per quella europea. A corroborare quanto fin qui affermato è la constatazione della mancata nascita di veri e propri partiti transnazionali europei che rispecchia come schemi interpretativi e sistemi di appartenenza, tanto della classe dirigente quanto del cittadino medio, siano ancora nazionali. Tuttavia Pasquino introduce una nota di ottimismo e di speranza per il futuro nel momento in cui ricorda come «…il Parlamento Europeo, per quanto possa apparire democraticamente deficitario, (…) ha acquisito maggiore potere politico rispetto alle altre istituzioni e maggiore legittimità democratica da parte dei cittadini attraverso la sua elezione popolare diretta» (Pasquino 2000, 9). Inoltre, «è possibile e persino probabile che quanto più il luogo delle decisioni politicamente rilevanti si sposti dai livelli nazionali al livello europeo tanto più gli stessi partiti nazionali si rendano conto della necessità di spostare le loro risorse a quel livello e quindi di mobilitare i loro elettori su tematiche europee, nel frattempo diventate più comprensibili per i loro elettori e ancora più influenti sulla loro vita quotidiana» (Pasquino 2000, 9). Adottare un’interpretazione che legge nella poca legittimazione del Parlamento, a sua volta determinata dalla bassa percentuale di elettori che concorrono a inviare i loro rappresentanti a Bruxelles e nel poco potere politico effettivo (Pasquino 2000, 8), le principali cause del deficit dell’Unione europea, porta a privilegiare quali possibili vie di uscita Il deficit democratico dell’Unione europea quelle riforme istituzionali che consolidano il legame tra cittadini ed istituzioni. Consolidamento che, seguendo un’impostazione parlamentarista, trova una risposta al deficit nel rafforzamento del ruolo del Parlamento. Riconoscendo al legislativo sopranazionale il diritto di dare vita all’esecutivo e, perché no?, di scegliere la squadra di governo tra i parlamentari stessi, si rafforzerebbe la sua funzione di controllo dell’esecutivo e, al contempo, si accentuerebbe l’importanza delle elezioni europee con il risultato di attribuire loro una forza ed un significato propri, rimediando alla sensazione che esse non siano altro che mero terreno di scontro tra le forze politiche nazionali. Viceversa la proposta di riconoscere ai cittadini il diritto di eleggere direttamente l’esecutivo risponde ad una logica presidenzialista e permette di perseguire contemporaneamente due obiettivi: il maggior coinvolgimento degli elettori e la rivitalizzazione dei partiti. L’eventuale futura elezione diretta della Commissione europea incentiverebbe inoltre la costruzione democratica di una leadership politica che, puntando alla rielezione, sarebbe favorevolmente propensa a perseguire interessi e preferenze degli elettori nonché a rendere conto del proprio operato, aumentando così la sua accountability (Pasquino 2000, 16); anche se, in questo contesto, sembra più opportuno paralare, di responsability, definita da Pellizzoni, quale dovere e capacità di rispondere, ma anche quale possibilità di attribuire un’azione al suo agente (citato in Gelli 2006, 16). Riassumendo, la soluzione prospettata passa per una politicizzazione tanto della Commissione quanto, del Parlamento, spesso accusati di privilegiare, quale modus operandi, la ricerca del consenso che differisce dall’esperienza nazionale del conflitto. Secondo Caporaso invece, le radici del deficit democratico andrebbero ricercate nello squilibrio tra istituzioni legislative e governative, tanto a livello europeo quanto nazionale. Se da un lato, il trasferimento di nuove competenze decisionali a Bruxelles ha determinato una perdita di potere decisionale dei parlamenti nazionali, rafforzando il potere degli esecutivi, dall’altro non c’è stato un rafforzamento del Parlamento europeo sufficiente 121 n.16 / 2006 e proporzionale al trasferimento del potere decisionale o, nelle parole di Williams, «la perdita di accountability verso i parlamenti nazionali non è stata compensata dall’aumento di accountability verso il Parlamento europeo» (Caporaso 2004, 81). Infine, la percezione collettiva di un Parlamento sovranazionale e delle relative elezioni, quali secondari, non rilevanti ed ininfluenti giustificano la crescente disaffezione ed apatia che i cittadini europei dimostrano nei confronti delle istituzioni sovranazionali. Tecnocrazia, mancanza di legittimità democratica e squilibro istituzionale, delle analisi proposte, informano d’altraparte la chiave di lettura che la stessa Unione, nel suo sito internet, propone: «Il deficit democratico è una nozione invocata principalmente per sostenere che l'Unione europea e le sue istanze soffrono di una mancanza di legittimità democratica e sembrano inaccessibili al cittadino a causa della complessità del loro funzionamento. Il deficit democratico rispecchia la percezione secondo cui il sistema istituzionale comunitario sarebbe dominato da un'istituzione che cumula poteri legislativi e di governo, il Consiglio dell'Unione europea, e da un'istituzione burocratica e tecnocratica che non ha un'effettiva legittimità democratica, la Commissione europea» (www.europa.eu.int). La letteratura sul deficit non si esaurisce tuttavia nella valutazione della dimensione tecnocratica o in quella della mancata legittimità democratica; essa propone, infatti, quali ulteriori e complementari chiavi interpretative: la mancanza, a livello nazionale, di un dibattito sull’Unione e, a livello europeo, la mancanza di politics, rilevata da Schmidt, infine, la mancanza di cultura politica democratica, rilevata da Weiler. Dalla mancanza di una classe politica europea discende, nelle riflessioni di Schmidt (2003), l’impossibilità di sanzionare i leaders sovranazionali per il loro operato, continuando così a giudicare gli eletti nazionali anche in relazione a materie sulle quali non esercitano più alcun controllo. A ciò si aggiunge il rischio di una crescente de-politicizzazione e di un decrescente coinvolgimento dei cittadini nella politica, quali conseguenze delle tematiche su cui si realizza lo scontro elettorale a 122 livello nazionale ed europeo: mentre le elezioni nazionali si focalizzano su tematiche risolvibili solo attraverso un coordinamento sopranazionale – quali, l’immigrazione, la crescita economica, la sicurezza alimentare – le elezioni europee, tendono a focalizzarsi su issues che possono essere risolte solo a livello nazionale dagli attori statuali quali le riforme istituzionali. I cittadini si trovano così ad esprimere le loro preferenze su questioni che poi saranno trattate ad un livello diverso da quello per il quale hanno votato. D’altra parte l’incomprensione dei cittadini circa l’impatto che Unione ha sul funzionamento delle loro democrazie deriva dalla mancanza di un dibattito sui cambiamenti prodotti dall’integrazione europea. I leaders nazionali hanno infatti preferito enfatizzare l’idea tradizionale di una democrazia nazionale, piuttosto che riconoscere i cambiamenti prodotti dall’integrazione e ridefinire il concetto e le pratiche della democrazia medesima. La crisi democratica che tanto l’Unione quanto i suoi membri stanno vivendo è invece, nell’analisi di Weiler, imputabile ad una crisi di cultura piuttosto che di istituzioni. Detto altrimenti, la mancanza di una cultura politica democratica è più rilevante di assetti e procedure istituzionali. In un contesto quale quello europeo, dove vi è un Parlamento cresciuto «senza acquisire l’abitudine al potere democratico, soprattutto in relazione alla funzione di controllo sull’esecutivo» (Weiler 2001, 60), e dove, per molti anni, si è soprasseduto all’importanza di trasparenza, rappresentatività ed accountability, si è realizzato quello che Weiler definisce il "paradosso del successo". Il conseguimento di successi e la realizzazione di finalità importanti diventano fonti di legittimazione, «malgrado il fatto che la legittimazione tramite il processo e il discorso politico democratico sia così scarsa» (Weiler 2001, 64), disincentivando al contempo una legittimazione fondata sulla partecipazione. Tale ricchezza, ma al contempo complessità concettuale si compone poi dei contributi di coloro che, partendo dall’ipotesi secondo cui l’Unione sarebbe una democrazia potenziale, sostengono come essa sia affetta da un deficit di democraticità piuttosto che di democrazia, considerando le carenze della stessa come limiti di un sistema poli- Silvia Bedin tico ancora incompiuto piuttosto che componenti congenite dello stesso. Di tale avviso Pasquino: «…per coloro che ritengono che l’esistenza del deficit democratico dell’Unione Europea venga eccessivamente e inopportunamente enfatizzata, il circuito [istituzionale] non è affatto privo di potenzialità e neppure di effettività democratica. Al contrario, configura un assetto complessivo che consente rappresentanza e decisionalità, controllo e responsabilità tutt’altro che limitate e disprezzabili, in special modo in un sistema politico che rimane incompiuto. In questa prospettiva, se di deficit democratico è utile continuare a parlare, allora bisogna farlo sapendo che il termine non indica affatto assenza di democrazia, ma segnala i limiti della democrazia esistente a livello europeo» (Pasquino 2000, 15). Richiamando i ragionamenti iniziali, ricordiamo come l’analisi di una democrazia consti di due diversi steps: l’accertamento che un dato regime sia effettivamente democratico e la successiva valutazione della qualità democratica dello stesso. Quest’ultima fase di controllo circa la "bontà democratica" di un regime riguarda quindi solo quelle democrazie che, in base alla definizione minima di Morlino, si caratterizzano per essere tali, laddove cioè siano presenti e garantiti suffragio universale, elezioni libere e ricorrenti, più di un partito, pluralità delle fonti di informazione. Solo per questi regimi si procederà ad analizzare lo stadio di realizzazione dei due principi fondanti una democrazia ideale: libertà ed eguaglianza. «Una buona democrazia ovvero una democrazia di qualità [è infatti] quell’assetto istituzionale stabile che attraverso istituzioni e meccanismi correttamente funzionanti realizza libertà ed uguaglianza dei cittadini» (Morlino 2003, 228). Ne deduciamo che possiamo attribuire la qualificazione di "buona democrazia" a quel regime che: •sia ampiamente legittimato e generi soddisfazione; •garantisca libertà ed uguaglianza per i cittadini; •consenta ai governati di controllare come, e in che misura, libertà ed uguaglianza siano perseguite e realizzate, ma che consenta anche di monitorare l’applicazione delle norme vigenti, nonché di permettere ai cittadini di valutare la responsabilità degli eletti in relazione alle decisioni e alle scelte compiute. Il deficit democratico dell’Unione europea La misurazione della qualità democratica o, democraticità, ci riconduce quindi al tema dell’ideale democratico e alla tensione verso quest’ultimo. In controtendenza rispetto agli autori analizzati, Moravcsik non condivide né l’eccezionalità riconosciuta all’Unione europea – al pari delle classiche organizzazioni internazionali, sarebbe quindi dominata dagli Stati membri – né le accuse di essere non-democratica. La distanza tra i cittadini e l’Unione, come la mancanza di un background storico, culturale e simbolico comune – riconducibili l’una alla natura dell’Unione quale organization of continental scope, l’altra alla sua multinazionalità – non sono giustificazioni sufficienti a qualificarla come non legittimata democraticamente (Moravcsik 2002, 604). Il sistema di pesi e contrappesi garantito dai trattati, la legittimità indiretta derivante dagli Stati membri nonché gli aumentati poteri del Parlamento europeo sarebbero, a detta dell’autore, elementi sufficienti a garantire trasparenza, chiarezza ed efficienza del policymaking europeo. D’altra parte, la natura ancora prettamente intergovernativa dell’Unione fa sì che siano gli esecutivi degli Stati membri, e non le elezioni sopranazionali, ad assicurare l’accountability democratica all’Ue. «Se tutte le decisioni chiave sono in mano agli esecutivi nazionali e [quest’ultimi] sono eletti democraticamente e democraticamente responsabili verso i propri cittadini, allora il Consiglio dei ministri dell’Unione europea e il Consiglio europeo sono luoghi dove la rappresentanza politica è assicurata in maniera sostanziale» (Giraudi 2005, 36). Secondo Moravcsik, l’accusa di mancata legittimazione democratica deriverebbe quindi, da un lato, dalla tendenza di studiare l’Ue comparandola ad un modello ideale, cioè astratto, di democrazia; dall’altro, sempre Moravcsik, sostiene con Sharpf, come essa celi scetticismo e preoccupazione per una Europa attenta solo alle dinamiche di mercato ma che presta scarsa attenzione alle politiche sociali, disattendendo così uno degli elementi basilari di una polity democratica, l’equilibrio tra mercato e protezione sociale (Moravcsik 2002, 617). Laddove, per polity intendiamo la dimensione territoriale dei confini, della comunità politica e delle sue norme. Neppure limiti e debolezza delle elezioni europee, 123 n.16 / 2006 seppur riconosciuti dallo stesso Moravcsik, sono letti dall’autore quali fattori di deficit. Dal momento che «l’attività legislativa e regolativa dell’Unione europea è inversamente correlata con la salienza delle issues nelle menti degli elettori europei, qualsiasi sforzo volto a espandere la partecipazione è improbabile che riesca a superare l’apatia» (Giraudi 2005, 37). L’interesse degli elettori per tasse e metodi di spesa del denaro pubblico, prerogative dello Stato e non dell’Unione, spiegherebbero così la disaffezione verso le elezioni sopranazionali. Secondo l’autore, tuttavia, l’irrilevanza o, altrimenti detto, la mancanza di salienza politica dell’Ue, ha dei risvolti positivi «[nel]l’isolamento del policy-making comunitario dai contesti di confronto politico maggioritario che caratterizzano le democrazie nazionali. Grazie a questo isolamento l’Unione europea sarebbe in grado di proteggere e promuovere interessi di minoranza che altrimenti verrebbero cancellati da una competizione politica maggioritaria (…)» (Giraudi 2005,37). Adottando l’approccio di Moravcsik si arriva non solo a negare l’esistenza del deficit, ma anche ad affermare che «l’Unione europea può essere più rappresentativa proprio perché è, in senso stretto, meno democratica» (Giraudi 2005, 38). Possiamo giungere alla stessa conclusione, in termini di insussistenza del deficit, anche partendo da un diverso approccio: l’approccio della regolazione di Majone, in base al quale l’Unione europea deve essere concepita, sottolinea l’autore, «come uno Stato regolatore, cioè come una struttura istituzionale dotata di autonomia dedita esclusivamente a fronteggiare i fallimenti dei mercati nazionali» (Giraudi 2005, 38). Diversamente dagli Stati che la compongo l’Unione si è specializzata, anche e soprattutto in ragione del bilancio limitato e della mancata funzione impositiva, nella produzione di politiche regolative il cui fine non è l’equità sociale, ma la produzione di situazioni ottimali «cioè di situazioni nelle quali l’incremento del benessere di uno o più parti non determina una diminuzione del benessere di nessun altro attore» (Giraudi 2005, 39). Si potrebbe obbiettare a Majone che la principale politica comunitaria, la Politica agricola comune, è una politica distributiva e non regolativa. 124 Caratteristiche degli interventi regolativi sono: la stabilità nel tempo delle soluzioni approntate, evitando cioè che siano condizionate dalle tornate elettorali, e la natura di esperto indipendente del regolatore che è quindi sottratto dalle dinamiche conflittuali che caratterizzano la politica partitica. In quest’ottica, il deficit verrebbe ridimensionato nella misura in cui, secondo Majone, «il policymaking comunitario non deve essere democratico, o almeno non lo deve essere nei termini usuali nei quali questo concetto è normalmente inteso» (Giraudi 2005, 40). Infatti, nel momento in cui la produzione degli interventi regolativi fosse affidata ad istituzioni maggioritarie (vedasi il Parlamento europeo), diventerebbe uno strumento in mano della maggioranza di turno per il perseguimento di obiettivi particolaristici di breve periodo in vista della rielezione. «La politicizzazione dell’Unione europea [scrive Majone] di fatto rischierebbe di distruggere, invece che aumentare, la legittimità della stessa Unione» (citato in Giraudi 2005, 40). Le declinazioni fin qui proposte possono essere ricondotte all’approccio di politics che privilegia, quali elementi di analisi, il comportamento elettorale, il sistema partitico ed il comportamento di specifiche istituzioni, richiamando quindi all’attività che ha a che fare con il potere e con la lotta per la conquista dello stesso. Da tale prospettiva non è difficile arrivare alla conclusione secondo cui l’Unione europea, il cui funzionamento diverge da quello degli Stati nazionali, non possa essere equiparata alla democrazia convenzionalmente intesa, risultando sotto questo profilo, deficitaria. Dove stanno in tutto ciò le policies? Qual è, rifacendoci al titolo del presente lavoro, il loro ruolo nel deficit democratico? Prendendo ad esempio tre delle politiche comunitarie più rilevanti, la politica agricola comune (PAC), i fondi strutturali (FS) e la politica dell’allargamento, l’ipotesi interpretativa proposta legge le politiche pubbliche quali “specchio ed anima” delle necessità contingenti nonché quali vettori, a seconda del contesto, di approfondimento e/o di attenuazione del deficit. Ricordiamo, prima di proseguire nel ragionamento, come il concetto di policy si presti ad una pluralità di accezioni. Le politiche pubbliche possono infatti essere intese: o quale mero risultato della Silvia Bedin competizione elettorale, nella convinzione che la politica faccia le politiche, cioè in una prospettiva di politics; oppure possono essere declinate, alla Wildavsky, «una politica è sia un prodotto che un processo» (Crosta 2006, 3); o alla Giuliani, «le politiche non sono "solo" intenzionalità, non coincidono con gli outputs decisionali, dovendosi comprendere in esse anche gli effetti imprevisti delle azioni intenzionali» (Giuliani 1996, 319). Declinazioni quest’ultime che ci portano a considerare l’implementazione delle politiche pubbliche non come una mera esecuzione di decisioni prese dall’alto ma, come sostiene Lewanski quale «insieme di processi complessi a cui prende parte una molteplicità di attori istituzionali e "sociali" destinatari delle politiche (…). I destinatari non recepiscono passivamente le politiche, ma interagiscono, esercitano pressioni sia sugli stessi esecutori che sui decisori affinché a loro volta mutino le politiche o introducano deroghe, eccezioni (…)» (Capano 1996, 186). La fase d’implementazione va quindi considerata più che un prodotto, un processo caratterizzato da aggiustamenti ed adattamenti continui, un momento di coinvolgimento e mobilitazione di attori, territori, conoscenze e saperi, un momento di ridefinizione e di aggiustamento dell’intervento medesimo secondo processi di apprendimento. Tipica politica distributiva la PAC nasce dall’esigenza di tutelare il settore agricolo che nell’Europa del dopoguerra occupava circa il 25% della popolazione, e dalla consapevolezza che esso, lasciato alle leggi del mercato, non sarebbe riuscito a seguire l’espansione generale dell’economia. Tre sono le caratteristiche fondamentali dell’intervento distributivo: l’asimmetria tra benefici e costi che rende facilmente individuabili i destinatari di sussidi e trasferimenti monetari senza che vi sia una esplicita sottrazione di risorse a carico di un altro gruppo sociale; la rilevanza attribuita alla creazione delle condizioni ottimali per accaparrarsi il beneficio, che diventa il vero problema “politico”; la proliferazione di siffatti interventi in contesti istituzionali poco trasparenti e frammentati nei quali è difficile individuare chi è responsabile della decisione. Scarsa conflittualità, opacità e mancanza di accountability caratterizzano quindi le politiche Il deficit democratico dell’Unione europea distributive e con esse la PAC, ma richiamando i ragionamenti sopraccitati sono anche le principali accuse mosse all’Unione europea nonché le cause del deficit democratico. In tal senso possiamo affermare come la politica agricola europea rispecchi e perpetui il deficit medesimo, ma anche come essa sia veicolo di uno specifico volto dell’integrazione e di una peculiare visione dell’Unione europea ovvero, di un’integrazione imposta dall’alto ed attenta a soddisfare forti interessi peculiari e di un’Europa dispensatrice di sussidi. Diversamente dall’intervento distributivo, quello redistributivo, tra cui possiamo annoverare i fondi strutturali e le politiche per l’allargamento, si connota per un evidente trasferimento di risorse tra gruppi sociali consapevoli. Mobilitando risorse, ma al contempo valori – quali l’equità, la solidarietà, la coesione economica, sociale e territoriale – tali politiche possono essere fonte di conflitti e suscitano una maggiore sensibilità nell’opinione pubblica. Sebbene già il preambolo del Trattato di Roma enunciasse tra i compiti della Comunità la promozione di uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile è solo negli anni ’70, acquisita la consapevolezza che i persistenti divari in termini di sviluppo tra le regioni della Comunità potevano ostacolare il processo d’integrazione economica, che vengono introdotti i primi interventi strutturali. Inizialmente pensati quali strumenti per favorire uno sviluppo armonioso delle attività economiche, i fondi struttali hanno contribuito, e contribuiscono tuttora, a connotare di un “volto sociale” il processo d’integrazione. Interessante notare come politica regionale e fondi strutturali vengano introdotti nel meccanismo integrativo negli anni in cui gli effetti distorsivi della PAC, in termini di eccedenze e aumento delle spese agricole, contribuiscono a creare malumori ed opposizioni alla politica agricola medesima. Fatto quest’ultimo che, può essere ricondotto (richiamando la spiegazione di Ferrera) ad « una “crisi di politica pubblica”: ossia [ad] acuti scollamenti fra nuovi bisogni e vecchi programmi... In tali casi, lo status quo distributivo non è più sostenibile e occorre definire nuove regole stabilendo chiaramente che guadagna e chi paga» (Capano 1996, 326). A partire quindi dagli anni ’70, con l’istituzione del 125 n.16 / 2006 Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), fino ad arrivare agli anni ’90, con l’affermazione dei principi di coesione e di sussidiarietà, l’Unione dedica una maggiore attenzione al territorio e ai suoi attori perseguendo contemporaneamente più obiettivi: sussidiarietà, democrazia locale, sviluppo armonioso ed equilibrato. Contribuiscono al perseguimento degli obiettivi enunciati, anche i Programmi di iniziativa comunitaria, cui è destinato parte del bilancio dei fondi strutturali. Concepiti quali vettori di uno sviluppo endogeno dei territori, promuovono una partecipazione dal basso attraverso il coinvolgimento degli attori locali riuniti in partenariati pubblici-privati e sostengono la creazione di reti e di relazioni informali attraverso le quali condividere e trasmettere esperienze e conoscenze. Tali programmi ben evidenziano la natura bi-direzionale del processo di europeizzazione innescando processi di apprendimento, di ridefinzione e di adattamento del modus operandi nazionale a partire dalle direttive europee, e promovendo la partecipazione degli attori locali, beneficiari e destinatari del programma, attori che conoscendo esigenze e peculiarità del territorio trasformano indicazioni generiche e tecniche in interventi concreti, producendo un feedback in termini di conoscenza ed esperienza verso il livello sopranazionale. Volendo riprodurre graficamente i processi così innescati potremmo immaginare flussi discendenti che si intrecciano con flussi ascendenti creando un continuum. In continuità con gli obiettivi di territorializzazione, democratizzazione e sussidiarietà vanno letti gli interventi di soft-governance, che si propongono come alternativi al metodo comunitario caratterizzandosi per «experimentation and knowledge creation, flexibility and revisability of normative and policy standards, and diversity and decentralisation leaving final policy-making to the lo west possible level» (Smismans 2005, 3). Introdotto dal Consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000, l’Open Method of Coordination (OMC) viene portato come esempio di intervento soft. Finalizzato a rafforzare la cooperazione tra gli Stati membri facendo convergere le diverse politiche nazionali su alcuni obiettivi condivisi, l’OMC si basa principalmente sulla definizione comune di una serie di 126 obiettivi da raggiungere, sull’individuazione degli strumenti necessari per la misurazione dei risultati (statistiche, indicatori) e per la verifica dell’evoluzione verso gli obiettivi prefissati, nonché sulla messa a punto di strumenti comparativi per favorire l’innovazione e la qualità degli interventi (diffusione di “buone pratiche”, progetti pilota, etc.). Così se il classico metodo comunitario, basato sul riconoscimento alla Commissione del diritto esclusivo dell’iniziativa legislativa e sui poteri legislativi di Parlamento e Consiglio dei ministri, viene identificato quale old mode of governance nonché espressione di hard law, l’OMC viene apportato quale esempio di new modes of governance ed espressione di soft law. I sostenitori degli interventi soft law evidenziano come l’assenza di «obligation, uniformity, justifiability, sanctions» che li caratterizza, presenti innumerevoli vantaggi in termini di flessibilità, di ‘tolleranza’ di fronte alle differenze che contraddistinguono gli Stati membri nonché di maggiore capacità di affrontare situazioni di incertezza che richiedono aggiustamenti e sperimentazioni continue. Sebbene il dibattito sulle nuove forme di governance ne enfatizzi le potenzialità democratizzanti, in termini di maggiore partecipazione ed inclusione degli attori, Smismans non condivide totalmente questo entusiasmo infatti, «although there are some signs of civil society involvement in the OMC (…) the dominant picture remains one of a narrow, opaque and technocratic process involving high domestic civil servants and EU officials in a closes policy network, rather than a broad transparent process of public deliberation and decisionmaking, open to the participation of all those with a stake in the outcome» (Smismans 2005, 14). L’introduzione di politiche redistributive e di nuove forme di governance, sembrerebbe dunque giocare un ruolo determinante nell’attenuazione del deficit democratico nella misura in cui si favorisce un’integrazione dal basso e si mobilitano nuovi attori e territori. In realtà, politica regionale, fondi strutturali e politica dell’allargamento, contribuiscono a connotare per una maggiore complessità le politiche pubbliche europee, piuttosto che a risolvere in via definitiva le lacune democratiche dell’Unione. Infatti, se da un lato li possiamo Silvia Bedin qualificare quali interventi redistributivi, dall’altro non possiamo dimenticarne la componente regolativa, le cui peculiarità corroborano le tesi secondo cui le policies comunitarie esprimerebbero e aggraverebbero il deficit dell’Unione. Caratteristica fondamentale delle politiche regolative è il porre in essere degli interventi e delle misure che intenzionalmente vadano a modificare il, e ad incidere sul comportamento dei singoli attori. Pensiamo ai criteri di Copenaghen adottati nel 1993 per valutare le possibilità d’ingresso di nuovi paesi nell’Unione proprio attraverso il soddisfacimento di condizioni economiche, politiche e dell’acquis, in cui gli stessi sono ripartiti, non vanno forse essi ad incidere sul comportamento dei singoli paesi candidati che, al fine di “guadagnare” l’accesso nell’Ue, devono porre in essere un’economia di mercato funzionante, istituzioni democratiche, nonché garantire il rispetto dei diritti umani e delle minoranze? Gli interventi regolativi si basano dunque sull’imposizione di parametri di riferimento e standard validi erga omnes, la cui definizione può richiedere una conoscenza tecnica, puntuale ed esperta; ma essi vanno anche ad incidere e ad influenzare sistemi di valori, sollevando non pochi problemi di legittimità democratica dal momento che la politica regolativa è spesso affidata ad esperti non eletti. Riassumendo, Radaelli sottolinea come la «conoscenza intervenga nella formazione delle politiche pubbliche [europee] in virtù della presenza di esperti e comunità epistemiche e dell’imprenditorialità della Commissione europea, un’organizzazione che ha come sua principale risorsa proprio la conoscenza. (…) La dimensione cognitiva della politica ha tuttavia anche un lato oscuro: il suo nome è tecnocrazia. Non sorprenderà, a questo proposito, che politiche gestite da esperti e imprenditori di policy non elettivi finiscano sotto accusa per prime. Mentre la democrazia è basata su consenso, libere elezioni e partecipazione, la tecnocrazia attribuisce all’expertise il ruolo di unico fondamento dell’autorità e del potere» (Radaelli 1999, 518). Capiamo così le ragioni di coloro che imputano alle stesse politiche pubbliche comunitarie un deficit di democrazia; tuttavia, attraverso gli esempi proposti si avanza l’invito di Il deficit democratico dell’Unione europea guardare alle policies europee come a realtà complesse e multisfaccettate che potrebbero contenere potenzialità, oggi nascoste, di attenuazione delle lacune democratiche dell’Unione. Confrontandosi con il problema del deficit emergono una molteplicità di scenari, di interstizi e di spazi per l’analisi e l’approfondimento, ma anche per la rivisitazione di modelli e costrutti analitici in nostro possesso. Rivisitazione che può o potrebbe portare ad inventare e ad immaginare nuovi orizzonti concettuali. Un esempio? Partendo dal presupposto secondo cui la democrazia è un prodotto della storia ed un processo, quindi un projet inachevé, si deve riconoscere la necessità di un approccio empirico allo studio della stessa. Laddove per projet inachevé si intende, nell’interpretazione del Consiglio d’Europa un progetto incompiuto in costante evoluzione, non riconducibile ad un modello specifico o predefinito in quanto espressione di un insieme di valori e di principi che interagiscono di volta in volta in modo differente, dando vita ad esiti diversi e per questo non definibili ex-ante. In sintesi un progetto in tensione verso un modello ideale, che però va di volta in volta contestualizzato e calato nelle realtà peculiari. La definizione di democrazia di conseguenza non può che essere posteriore alla ricerca e allo studio di caso. Date tali premesse, perché non studiare la democrazia a partire dalle politiche pubbliche, andando ad analizzare ed osservare come si producono partecipazione e apprendimento, come sono gestite le conseguenze inattese, come si svolge la fase dell’implementazione delle politiche stesse? Lo studio del deficit apre poi ad una serie di quesiti, qui non affrontati, ma comunque complementari al problema: nonostante, o sebbene, la proliferazione degli studi sul deficit, siamo sicuri che si tratti di un problema veramente sentito dai cittadini europei? O dovremmo piuttosto considerarlo un’invenzione di accademici ed intellettuali? Siamo sicuri che la retorica che spesso accompagna i dibattiti sul deficit non sia funzionale alle remore di politici poco lungimiranti che vedono nelle presunte lacune dell’Unione una sorta di baluardo difensivo per procrastinare la delega all’Unione di nuove competenze? 127 n.16 / 2006 A fronte dei cambiamenti e delle sfide poste dalla globalizzazione e dalla crescente interdipendenza mondiale, siamo sicuri che la partecipazione, quale unica fonte di legittimazione, sia ancora attuale o quanto meno sufficiente? Data l’impossibilità per i cittadini di influenzare l’azione dei governi su problemi che loro stessi non riescono più ad affrontare e la cui gestione viene delegata ad istituzioni sopranazionali, non sarebbe forse più opportuno ricercare e potenziare fonti di legittimazione alternative? Perché non considerare il deficit in riferimento alle aspettative dei cittadini? Se questi ultimi sono abituati a ragionare in termini di rappresentanza nazionale, e se comunque non sembrano insoddisfatti delle istituzioni europee che essi hanno (a parte la volontà di andare con i piedi di piombo negli allargamenti successivi), perché non interpretare la responsiveness in riferimento a queste aspettative e non soltanto in riferimento al concetto generale e astratto della rappresentatività? Perché non pensare che si possa parlare di deficit di rappresentatività solo laddove sia soggettivamente percepito dai cittadini e non che se ne debba o possa parlare solo perché oggettivamente non ritroviamo nel sistema politico sovranazionale quell’iniezione di legittimità che le elezioni nazionali garantiscono alle istituzioni statali? Bibliografia Baldini, Gianfranco (a cura di), Quale Europa? L'Unione europea oltre la crisi, Soveria Mannelli (CZ), Rubbetino 2005. Bobbio, Luigi, La democrazia non abita a Gordio, Milano, FrancoAngeli, 2004. Capano, Gilberto e Marco Giuliani (a cura di), Dizionario di politiche pubbliche, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1996. Cerutti, Furio e Enno Rudolph, (a cura di) Un'anima per l'Europa - Lessico di un'identità politica, Pisa, Edizioni ETS, 2002. Consiglio d'Europa, Faire évoluer la démocratie en Europe, 2004, dal sito internet www.coe.int.it. Crosta, Pier Luigi, Interazioni: pratiche, politiche e produzione di pubblico. 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