rivista foedus n° 16:rivista foedus n° 1

SOMMARIO
Culture Economie e Territori
Rivista Quadrimestrale
Numero Sedici, 2006
Focus: epistemologi eretici del ’900
Pag. 03
Presentazione di Gaspare Polizzi
Pag. 05
Michel Serres: un “umanesimo complesso” di Gaspare Polizzi
Pag. 16
La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard di Gabriella Arazzi
Pag. 31
Edgar Morin: abitare eticamente la natura di Mario Quaranta
Pag. 44
Giovanni Vailati e Mario Calderoni tra meta-etica, etica descrittiva e normativa
di Ivan Pozzoni
Borderline
Pag. 58
Le stagioni della Puglia Dalla primavera delle primarie all’autunno del Governo regionale
di Alessandro Lattarulo
Pag. 87
Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa di Elio Franzin
Il Sestante
Pag. 100 Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought, Cambridge,
Cambridge University Press, 1998, pp. 284. di Lidia Lo Schiavo
Pag. 114 Il deficit democratico dell’Unione europea: tra politics e policy di Silvia Bedin
1
2
Gaspare Polizzi
Presentazione
Focus: epistemologi eretici del ’900
Nel 1910 Henri Poincaré scriveva che «la fede dello
scienziato assomiglierebbe piuttosto alla fede
inquieta dell’eretico, a quella che cerca sempre e
che non è mai soddisfatta» (H. Poincaré, Savants et
Ecrivains, Flammarion, Paris 1910, p. VI). Queste
frasi rispondono a una condizione storica e psicologica particolare: gli scienziati della natura e i
matematici sono colpiti – alla fine dell’Ottocento –
da una radicale trasformazione che mette in discussione i principi stessi della scienza. La loro
risposta a tale crisi, che apre la strada agli straordinari successi delle scienze fisico-matematiche e
biologiche nel Novecento, è ben espressa dalla
«fede inquieta dell’eretico».
Gli studiosi che qui vengono presentati (G.
Bachelard, G. Vailati, M. Calderoni, E. Morin, M.
Serres), di area culturale francese e italiana, si sono
misurati dall’interno con il farsi della scienza del
Novecento e testimoniano una linea di interpretazione della “crisi” della scienza che ha condotto
a configurare una epistemologia e una filosofia
della scienza attente al carattere storico ed evolutivo delle teorie scientifiche, allo sviluppo della
conoscenza e ai suoi risvolti etici. Si tratta di tendenze epistemologiche estranee alla linea dominante dell’epistemologia contemporanea, che ha
vissuto della rapida affermazione e dell’altrettanto
rapido
declino
dell’empirismo
logico.
Abbandonata l’illusione che si potesse fondare una
scienza unificata e definire una logica univoca della
conoscenza scientifica, la prospettiva dell’epistemologia si fa storica e critica, seguendo da vicino
«la fede inquieta» dello scienziato e risolvendosi
nelle ultime posizioni (si pensi in particolare a
Morin e a Serres) in una vera e propria filosofia
della natura eticamente orientata.
Questa visione dinamica ed etica della razionalità
scientifica, che guarda alla scienza come alla ricerca di una verità che emerge spesso con i tratti dell'eresia, si è fatta strada nel Novecento confrontandosi con le svolte epocali della scienza contemporanea. La storia della scienza è anche storia di istituzioni e di “sette eretiche”, di un sapere dislocato
fra il potere e l'antagonismo, è storia di svolte traumatiche e di rivoluzioni, nella quale teorie a lungo
rimaste sotterranee si affermano per effetto di congiunture sempre diverse e non predeterminate.
Nel pensiero scientifico contemporaneo il contrasto tra scienza “normale” e scienza “rivoluzionaria” (per usare il lessico di Th. Kuhn) è stato
particolarmente efficace e ha condotto alla costituzione di una nuova disciplina – l’epistemologia
– che ha inteso indagare limiti e condizioni di possibilità delle nuove teorie scientifiche con il pieno
possesso degli strumenti del mestiere, ovvero
padroneggiando dall’interno linguaggi e strumenti
delle scienze. Soltanto ai margini del trionfante
movimento dell’empirismo logico – e specificamente in Francia e in Italia – si è tuttavia sviluppata un’attenzione alla nuova scienza non indirizzata
verso grandiose proposte di rifondazione e illusori
progetti di unificazione del sapere. In Francia si
sono prodotti momenti di riflessione che hanno
visto protagonisti scienziati-filosofi come Henri
Poincaré o Pierre Duhem e che hanno fornito non
pochi spunti al Circolo di Vienna e all’empirismo
logico. Ma in Francia – e, per quel poco che si è
espresso, anche in Italia, con pensatori come
3
n.16 / 2006
Vailati e Calderoni (ma anche Giuseppe Peano e
Federigo Enriques) – l’epistemologia ha mantenuto un carattere storico, critico e razionalmente
aperto, che ben si raffigura nell'opera di Bachelard,
il primo ad aver creato le condizioni per pensare
adeguatamente le rotture epistemologiche
prodotte della scienza novecentesca.
Bachelard propone una vera e propria «psicologia
dello spirito scientifico», al fine di superare gli ostacoli che si frappongono alla razionalità rettificata
della microfisica o della teoria della relatività, di
abbandonare il senso comune che condiziona la
pratica stessa della razionalità. Se «la scienza non
ha la filosofia che si merita», una nuova "filosofia
scientifica" nascerà soltanto dall’interno stesso
delle scienze (fisica, matematica e chimica, scienza
che Bachelard frequenta professionalmente) e si
piegherà alla scienza senza presumere di sostituirvisi. L'effetto più consistente di tale dinamica
del pensiero scientifico è proprio la divaricazione
rispetto alla conoscenza comune e alla scienza passata. Da qui la teorizzazione di una «filosofia del
non», che raccolga in un’epistemologia non cartesiana sorretta dalla prospettiva della complessità il
valore alternativo delle geometrie non euclidee,
della meccanica non newtoniana, della fisica non
maxwelliana, dell’aritmetica non pitagorica. Dalle
nuove scienze emerge anche quel primato del
complesso che dà vita a una visione discontinua,
rivoluzionaria dello sviluppo del sapere e che
diverrà centrale nel pensiero “eretico” di Morin.
Scrive già Bachelard nel 1934: «Mentre la scienza di
ispirazione cartesiana costruiva molto logicamente
il complesso col semplice, il pensiero scientifico
contemporaneo cerca di leggere il complesso reale
sotto l’apparenza semplice offerta dai fenomeni
compensati, si sforza di trovare il pluralismo sotto
l’identità, al di là dell’esperienza immediata riassunta troppo frettolosamente in un aspetto d’insieme» (G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico,
pref. di L. Geymonat e P. Redondi, trad. it. di F.
Albèrgamo, Laterza, Bari 19782, pp. 126-127). Nella
sua apertura anti-sistematica l’epistemologia
bachelardiana mostra in pieno la sua attualità,
4
anche in rapporto con le più note tesi del postneopositivismo (I. Lakatos, Th. Kuhn, P.
Feyerabend).
La dimensione “eretica” di tale indirizzo epistemologico è stata espressa nel modo più convincente
da due pensatori di grande rilievo nel panorama
della riflessione contemporanea sulle scienze:
Morin e Serres. Morin ha percorso un lungo itinerario di ricerca che lo ha condotto dall’epistemologia alla filosofia della natura ed è stato in buona
parte motivato dall’esigenza di sintetizzare un
nuovo metodo (l’apprendere di apprendere) nel
quadro di un’enciclopedia “democratica” del
sapere, e dalla necessità etica di superare la separazione tra discipline distinte per pensare la complessità sui tre livelli della realtà naturale (microfisica, fisica, cosmologia) e sul piano variabile e storico
della realtà umana e sociale. La sua prospettiva
tende a presentare una visione unitaria del rapporto tra realtà umana e naturale che approda a un’alleanza tra epistemologia ed etica. Per parte sua
Serres sviluppa da quarant’anni una riflessione sul
complesso e sulla miscela nelle scienze e nella
natura e propone una filosofia della natura che
interpreta i messaggi e le loro trasmissioni nella
trama che connette le scienze e il mondo della cultura umana al Grand Récit dell’evoluzione naturale.
Negli scritti apparsi a partire dal 2001 la “filosofia
naturale” di Serres affronta i nodi ontologici ed etici
più rilevanti della condizione umana nella tarda
modernità, al fine di indicare nuove forme possibili
per «abitare eticamente la Terra» (M. Quaranta). Un
obiettivo questo che accomuna negli scopi gli itinerari di ricerca di Morin e di Serres.
Con gli scritti che qui raccogliamo intendiamo
fornire una prima ricognizione di tali tendenze
“eretiche” della odierna riflessione sulla scienza e
sulla morale.
*I saggi di Arazzi, Polizzi e Quaranta sono le
relazioni lette al convegno su “Caos e complessità”
che si è tenuto a Messina nel Luglio 2006.
Ringraziamo il Professor Giuseppe Gembillo per
aver consentito la pubblicazione.
Gaspare Polizzi
Michel Serres: un “umanesimo complesso”
Focus: epistemologi eretici del ’900
Nous vivons et pensons dans le mélange
Conversations avec Michel Serres.
Jules Verne, la science et l'homme contemporain, p. 71
Da quasi quarant’anni Michel Serres sviluppa una riflessione sul complesso tel
quel, contrapponendo alla fissità semplice della ragione referenziale l'intreccio
mobile delle complessità e, sotto il segno di Ermes, propone una filosofia che
interpreta i messaggi e le loro trasmissioni nelle forme di una trama complessa
di scienze, arti, leggi e religioni. La tessitura dell’ordine del sapere scientifico con
la varietà del paesaggio narrativo ed esistenziale costituisce il tratto distintivo dell’opera serresiana1, la cifra della sua lunga randonnée, che – in controtendenza
rispetto a tutta una tradizione di pensiero – ha prodotto da più di trent’anni una
riflessione mobile su variazioni e paesaggi di corpi e scienze, rimarcando negli
ultimi scritti la dimensione epocale dell’attuale svolta evolutiva dell’umanità2. La
complessità di tale itinerario ha fatto sì – come ha riconosciuto lo stesso Serres
– che la sua opera, estranea a ogni collocazione disciplinare, non sia stata ben
compresa:
«Je n’ai jamais été classé, pour la raison simple que j’habite une intersection
vide. Très peu d’auteurs littéraires autrefois ont ignoré la science. Balzac en
savait, Corneille aussi, La Fontaine plus encore, il avait traduit Lucrèce. Or
Lucrèce c’est de la bonne physique et ma critique a consisté à le montrer. Pascal
écrit des mathématiques mais personne n’en tient compte. Quand j’ai fait ma
thèse sur Leibniz dont la moitié de l’oeuvre porte sur la science je me suis aperçu que personne n’en avait tenu compte. On coupe en deux les oeuvres en question. Donc, j’ai essayé de tenir compte de cet état de choses. Mais, la pédagogie, aujourd’hui, divise les gens en scientifiques qui ne connaissent pas de
Lettres, et littéraires qui ne connaissent pas de Science. Or, j’ai fait mon ?uvre au
beau milieu. Et par conséquent, je n’appartiens ni aux uns ni aux autres; je suis
seul. C’est une question que l’université a sanctionnée dans les années 50, quand
elle a décidé de ne pas enseigner de Science aux littéraires et de ne pas enseigner de Lettres aux scientifiques … c’est un malheur de civilisation considérable. Il donne lieu aujourd’hui à des phénomènes inattendus contre lesquels j’ai
essayé de lutter toute ma vie». [VERNE 113-114]
1
L’indicazione della
rotta fu proposta in M.
Serres, Le messager,
«Bulletin de la Société
Française de
Philosophie», 62, 2, aprile-giugno 1968, pp. 33-71
e nel 2003, a parziale
bilancio, Serres scrive:
«Depuis un demi-siècle,
je cherche à construire
une philosophie, qui
manque, de la relation,
en passant de modèles
saturés: Hermès, les
Anges, le Parasite ou
l’Hermaphrodite, aux
généralités qu’elle exige:
traduction, communication, bouquet des prépositions», L’incandescent,
Le Pommier, Paris 2003,
p. 97.
2
La prima opera espressamente dedicata a
descrivere le variazioni
complesse della corporeità umana e naturale può
ritenersi Les Cinq Sens.
Philosophie des corps
melés, Grasset, Paris
1985, ma la ricognizione
sui paesaggi delle scienze
e del sapere inaugura
l'intera ricerca serresiana a partire da Hermès I.
La communication, Èditions de Minuit, Paris
1969. Ricordo che negli
ultimi anni Serres ha
accentuato tale indagine
su variazioni e paesaggi,
5
n.16 / 2006
producendo cinque
importanti opere:
Variations sur le corps, Le
Pommier-Fayard, Paris
1999 [d’ora in poi citerò
con la sigla VC seguita
dal numero di pagina];
Paysages des Sciences,
ouvrage collectif sous la
direction de M. Serres et
N. Farouki, Le PommierFayard, Paris 1999
[d’ora in poi citerò con
la sigla PS seguita dal
numero di pagina];
Hominescence, Le
Pommier, Paris 2001
[d’ora in poi citerò con
la sigla HOM seguita dal
numero di pagina];
L’incandescent, cit.
[d’ora in poi citerò con
la sigla INC seguita dal
numero di pagina] e
Rameaux, Le Pommier,
Paris 2004 [d’ora in poi
citerò con la sigla RAM
seguita dal numero di
pagina]. Per un preliminare inquadramento
dell'indagine serresiana
rinvio a A. Delcò,
Morphologies. À partir du
premier Serres, Kimé,
Paris 1998 e ai miei
Michel Serres. Per una
filosofia dei corpi miscelati, Liguori, Napoli 1990 e
Tra Bachelard e Serres.
Aspetti dell’epistemologia
francese del Novecento,
Armando Siciliano editore, Messina 2003, nonché
all'illuminante autobiografia intellettuale fornita dallo stesso Serres in
Eclaircissements, entretiens avec Bruno Latour,
F. Bourin, Paris 1992
(tr.it. di A. Colella, postfazione e cura di M.
Castellana, Barbieri,
Manduria 2001 - da cui
cito - ) e in parte anche
in Conversations avec
Michel Serres. Jules
Verne, la science et
l'homme contemporain,
a cura di Jean-Paul
6
Una lotta spesso solitaria, una difficile erranza, nella quale Serres ha «tenté toute
[sa] vie de faire du savoir une culture» [VERNE 141], «de construire une philosophie qui tienne compte des acquits du savoir contemporain qui structure
notre monde» [VERNE 148]; una lotta motivata dalla consapevolezza che «les
nouvelles manières de penser, les nouvelles manières d’agir, entretiennent un
rapport mort avec la culture. Voilà l’un des problèmes les plus fondamentaux du
monde contemporain, l’un des plus profonds et qui a des conséquences immenses que sont la crise de la littérature et celle de la science. Cette crise de culture
est considérable» [VERNE 140], e dal riconoscimento, per molti versi drammatico, che «la philosophie a complètement abandonné la connaissance du monde»
[VERNE 141].
Intendo qui richiamare alcuni paesaggi teorici descritti da Serres negli ultimi
scritti (2001-04), ben consapevole che non potrò riprodurre i tratti del suo
inconfondibile stile di pensiero e ugualmente convinto che la “filosofia naturale”
di Serres affronta i nodi ontologici ed etici più rilevanti della condizione umana
nella tarda modernità. Gli scritti apparsi a partire dal 2001 sono segno della ricognizione di una nuova “emergenza” dell’umano, di uno sguardo epocale sulla
svolta evolutiva dell’umanità, il cui arazzo compare nella varietà complessa di
Hominescence (2001), nel Grand Récit di L’Incandescent (2003) e nel tessuto
sistemico e narrativo di Rameaux (2004). Questi ultimi scritti si dirigono verso
quella nuova forma di scrittura, miscela di scienza e narrazione, che Serres rimpiange di non aver ancora compiutamente trovato («La question de la nouvelle
forme est nostre espoir. Et si j’ai un regret dans ma vie, c’est peut-être de ne pas
l’avoir trouvée», [VERNE 16]). Si tratta di una svolta rispetto alle opere precedenti indicata da Serres come irreversibile:
«Je ne réécrirai plus jamais les livres que j’ai écrits au début. Je les trouve maintenant trop difficiles, trop ardus, trop coincés, trop défendus dans une armature
énorme de références et de citations. Maintenant, je ne mets plus de notes en
bas des pages parce que je déteste de plus en plus cet effet-là». [HOR 4]
Serres aveva già descritto per immagini paesaggi di trasformazioni dei corpi
umani (Variations sur le corps, 1999), e “naturali” (Paysages des sciences, 1999),
intrisi di sapere scientifico e tecnologico, facendo emergere un mondo reticolare della comunicazione, della miscela e dello scambio in tutte le forme possibili
di una cultura naturalizzata e di una natura culturale. E bisogna ricordare che la
curiosa ricognizione di paesaggi – siano essi naturali che virtuali – è peculiare
della randonnée serresiana, in questo parallela a quella di Jules Verne, come ha
dichiarato lo stesso Serres in un’intervista del 20023. Va rilevata anche la novità
procedurale di una scrittura figurata, sostanzialmente ipertestuale e multimediale, che – a partire dalla Légende des Anges (1993) – impegna Serres in una ricognizione di legami (angeli come punto di unione tra uomini e mondo), di variazioni (nella flessibilità psicofisica dei corpi) e di paesaggi (nella virtualità delle
scienze).
La rappresentazione delle variazioni dei corpi e dei paesaggi delle scienze, raffigurata nel pensiero visivo dei due libri omonimi del 1999, confluisce in un repertorio complessivo sullo stato dell'evoluzione umana, della coevoluzione tra
uomini e mondo, nel segno di una biforcazione che Serres intende come irre-
Gaspare Polizzi
Michel Serres: un “umanesimo complesso”
versibile e che descrive in Hominescence, «livre de synthèse» [VERNE 11], che
sembra scritto da «plusieurs auteurs» [VERNE 17]. Serres vede emergere una hominescence, ovvero un processo incoativo di svolta nell’evoluzione dell’umano4. Egli
nota un’emergenza nuova nei processi di ominizzazione, nel duplice senso di
snodo evolutivo della specie e di crinale catastrofico dell’ominizzazione: nel XX
secolo si sono addensati tempi di catastrofi inaudite e di poderose speranze.
Le tre parti che distinguono il libro (Corps, Monde, Autres), ormai libero da ogni
commentario e rivolto a «des choses telles quelles» [VERNE 122], rendono conto
dei riferimenti costitutivi delle tre modalità del mutamento evolutivo, in rapporto alla materialità dei corpi, alla “naturalità” del mondo fisico e alla socialità delle
relazioni e delle comunicazioni collettive. A partire dagli anni Settanta del XX
secolo Serres riconosce le linee di una rivoluzione mondiale profonda, di un
assestamento tettonico della storia sociale che taglia in due il secolo provocando ben riconoscibili rotture superficiali. Tale “non-evento universale” ha prodotto tre terremoti che hanno incrinato le stabilità di lunga durata nella configurazione dei rapporti umani, ben al di là del segno degli eventi storici: nel soggettivo, la liberazione dalle costrizioni corporali; nell’oggettivo, quella dalle antiche
dipendenze del rapporto con le cose; nel collettivo, quella dalle condizioni spaziali della comunicazione. Ne è scaturita una ridefinizione della condizione
umana rispetto alla classica tripartizione funzionale legata alla guerra, all'economia, al sacro, che Serres propone di mappare5. Nel primo dominio la bomba atomica ha trasformato radicalmente le forme della guerra e della violenza, il regno
guerresco di Marte; la scomparsa dell’agricoltura tradizionale ha segnato, nel
secondo dominio, la fine di un’economia legata alla produzione e agli scambi
agrari, il regno sedentario di Quirino; la radicale rifondazione conciliare della
religione cattolica ha cancellato, nel terzo dominio, la figura statica del prete, il
regno sacro di Giove [cfr. HOM 316-320].
I rapporti umani con la violenza, con la terra e con il sacro, rimasti pressoché stabili nelle nostre società a partire dal neolitico, sono stati dissolti in un sommovimento delle placche profonde dei legami sociali che non si ferma alla superficie
della storia, ma tocca le condizioni antropologiche delle società umane, se non
addirittura la dimensione evolutiva della specie. Soltanto se si discende nella profondità del sommovimento tettonico si possono cogliere le dinamiche superficiali degli eventi politici, economici e religiosi che continuano a inquietarci leggendole nel segno di una rinascenza pericolosa ma anche straordinariamente
fertile. E Serres rivolge il suo sguardo acuto all’ominiscenza riconoscendone
senza esitazioni la radice nelle trasformazioni provocate dalle “scienze dure” e
dalle loro applicazioni tecnologiche; egli traccia le linee di sviluppo di un medesimo processo evolutivo che cambia insieme i connotati della specie umana, del
suo mondo e le relazioni reciproche. Soltanto alla luce di tale profondità di prospettiva ci si può avvicinare a un libro che descrive «[…] l’émergence de liens
sans équivalents connus au corps, au monde et aux autres» [HOM 12]. Si tratta
di riconoscere la radicale trasformazione della condizione umana dovuta allo
straordinario potere di vita e di morte accumulato nei cambiamenti promossi dal
sapere scientifico-tecnologico dell'umanità. Il processo di “ominiscenza”, marca
«[…] une sorte de differentielle d’hominisation» [HOM 14], scavando nei tempi
profondi della biologia e delle scienze esatte per rintracciare l’onda lunga del
mutamento evolutivo.
Dekiss, «Revue Jules
Verne», n. 13/14, juillet
2002, pp. 96-98 [d’ora in
poi citerò con la sigla
VERNE seguita dal numero di pagina], nuova edizione presso Le Pommier,
Paris 2004. Ricordo inoltre tra le più recenti ricognizioni d'insieme i
numeri monografici di
«Configurations. A
Journal of Literature,
Science, and
Technology», Michel
Serres, 8, 2, spring 2000 e
di «Horizons philosophiques", Le Monde de
Michel Serres, 8, 1997, 1
[d’ora in poi citerò con
la sigla HOR seguita dal
numero di pagina].
3
«Ah, que je sois attaché
aux paysages du monde,
oui ! Je ne sais pas si je le
tire de Jules Verne mais
j’ai toujours voyagé avec
passion. J’ai voulu voyager à peu près partout.
C’est vrai que je suis
passé aussi bien par la
banquise que dans l’hémisphère sud, que j’ai
navigué à peu près sur
toutes les mers du
monde, que j’ai roulé
ma bosse dans cent ports.
J’ai marché dans les
déserts, j’ai fait de la
haute montagne. Bien
sûr ! … J’ai ça en commun avec Jules Verne».
[VERNE 134]
4
Lascio la parola allo
stesso Serres: «J’ai inventé
ce mot pour caractériser
la coupure qui intervient
dans les pays occidentaux vers les années
1950/1970. Elle est si
importante qu’elle touche plus l’évolution que
l’histoire. Elle concerne
le corps, l’agriculture,
notre rapport a monde,
à la vie, à la naissance
7
n.16 / 2006
et à la mort, enfin notre
rapport aux autres, par
les divers canaux de
communication. Je n’ai
pas voulu utiliser le mot
hominisation. Trop lourd,
et j’ai forgé ce vocable,
plus léger, en choisissant
parmi les mots que les
grammairiens appellent
inchoatifs et qui signifient le début d’une
transformation (comme
luminescence, adolescence, arborescence, etc.)
Hominescence signifie
donc le commencement
d’un nouvel homme».
[VERNE 144]
5
Utilizzo le note per
richiamare qualche
significativa ricorrenza
del pensiero di Serres
riflessa in Hominescence,
seguendo peraltro un
consiglio formulato dallo
stesso Serres, che chiede a
chi voglia accostarsi al
suo pensiero di partire
dal suo ultimo libro: «Il
me semble toujours
qu'en vieillissant, quelqu'un qui travaille trouve de plus en plus de
manières claires de s'exprimer – je parle peutêtre seulement dans mon
cas –, mais il me semble
toujours qu'il faut lire un
auteur à l'envers, c'est-àdire de partir du dernier
pour remonter vers le
premier». [HOR 4]
Mi riferisco qui alla triade proposta da Georges
Dumézil, e richiamata
da Serres in varie forme.
In Rome. Le livre des fondations, Grasset, Paris
1983 e in Les origines de
la Géométrie. Tiers livre
des fondations,
Flammarion, Paris 1993
la triade Marte-GioveQuirino, resa dinamica
tramite la teoria della
fondazione violenta del
sacro di Réné Girard, è
8
Il riconoscimento di una possibile ominiscenza muove dalla nuova cognizione
della morte globale dell’umanità segnata a partire dal 6 agosto 1945 (e Serres ha
più volte ripetuto che non ci si può impegnare in uno sguardo filosofico sul
nostro tempo trascurando tale irreversibile aspetto della morte collettiva della
specie umana, impressa dopo Hiroshima) [HOM 3-4]6. Esso impone un ripensamento globale – nel soggettivo, nell’oggettivo e nel collettivo –, che approdi alla
comprensione comune delle forme e delle condizioni di possibilità di nuovi vincoli, di un diritto possibile per un’umanità posta oggi dinanzi alle modalità di una
morte globale conseguibile come effetto delle stesse azioni umane. Il pericolo
dell’acosmismo7, così presente nella pratica odierna della filosofia, consiste proprio nell’incomprensione dei nuovi dati e risultati del sapere scientifico e tecnologico, senza i quali risulta impossibile ogni progetto per costruire una dimora
possibile per gli uomini alle soglie dell’ominiscenza: dinanzi ai nuovi uominimondo tecnologici e scientifici la filosofia si chiude in una cieca ricerca di rigore
locale e analitico, di giochi linguistici autoreferenziali, senza confrontarsi con le
impegnative categorie della totalità8. Una filosofia per i nuovi processi di ominiscenza, questa – molto semplicemente – la scommessa che Serres presenta per
la futura ricerca filosofica.
Essa innanzitutto si impegna in una filosofia della conoscenza e dell’azione ricongiunte nel punto d’unione della ricerca di un nuovo diritto, globale e naturale
insieme, che tenga conto del tertium9, oltre la sterile, arcaica e agonistica dialettica del servo-padrone o dell’amico-nemico. La lotta, lo scontro, la violenza coinvolgono globalmente un terzo, sconvolgono l’habitat locale e globale. Basta guardarci intorno: non ci chiediamo mai cosa ne è delle terre del Kosovo,
dell’Afghanistan o dell’Iraq dopo la massiccia distribuzione di bombe e mine,
come può essere abitato un territorio distrutto da bombardamenti devastanti
che lo fanno diventare quasi lunare, come può vivere un mare che dopo l’incendio dei pozzi di petrolio diventa una grande chiazza oleosa.
Proprio dal pericolo concreto di una morte globale scaturisce l’utopia di una
nuova immortalità, perché la consapevolezza della morte è tratto distintivo dell’evoluzione dell’umano oltre i limiti della naturalità (le tombe sono il primo
segno di riconoscimento di Homo sapiens) [HOM 1-2]10. Il processo di ominiscenza potrà magnificare o assassinare gli uomini, nella più completa indecidibilità tra nuova soglia di immortalità e morte globale dell’umanità. Il modello dell’apoptosi, il suicidio cellulare che costituisce una costante dell’auto-organizzazione del corpo e che insieme conduce nelle sue forme estreme alla senescenza
e alla morte, come anche alla costruzione delle differenziazioni organiche funzionali già a partire dall’embrione, indica bene l’ambivalenza delle possibile biforcazioni evolutive dell’ominiscenza [HOM 5-6]. Oggi, la consapevolezza della possibilità della morte globale si presenta come un’angosciante litania quotidiana,
ma proprio da tale ripetizione che non permette oblio, nasce l’obbligo di una
teoria dell’ominiscenza [HOM 11].
Speranze e inquietudini si mescolano in un cruccio intenso che pungola con
urgenza la filosofia, secondo una necessità impellente che richiede l’abbandono
dei trucchi accademici e dei sotterfugi pseudo-specialistici.
«Le moment d'hominescence – conclude Serres nell’introduzione al volume,
intitolata Morts e siglata, non casualmente, 1957-2000 – oblige à résoudre ce pro-
Gaspare Polizzi
Michel Serres: un “umanesimo complesso”
blème global sous le risque de guerre totale, donc d'une mort alors pleinement
universelle.
L'intuition que se produisit récemment un tel bouquet de bifurcations et qu'il
demandait, en urgence, une reconstruction de nos cultures et de nos philosophies, accompagna ma vie et illumine ce livre». [HOM 16]
Serres descrive tre boucles che compongono l’hominescence, in un andirivieni
ricorsivo di corpi, mondo e comunicazione rispetto alle radici arcaiche del
nostro presente11. Dinanzi alle conseguenze stupende e terribili implicate nel
processo soggettivo, oggettivo e collettivo di ominiscenza, nella trasformazione
del soggetto cognitivo, della scienza oggettiva e della cultura collettiva, non è tuttavia sufficiente il perspicuo riconoscimento dei sommovimenti profondi delle
faglie dell’ominizzazione. Serres invita a pensare la totipotenza dell’umano, l’onnivalenza delle sue possibilità, a partire da un luogo terzo dal quale poter vedere insieme la ragione della scienza (le leggi del mondo fisico, le regole della natura) e la ragione del diritto (le regole dei contratti, le leggi politiche dei collettivi
umani). Assistiamo alla costituzione embrionale di un contratto naturale che
estende le condizioni ricorrenti del diritto (e la storia del diritto consiste nell’universalizzazione progressiva del diritto a divenire soggetti di diritto)12: con i processi di ominiscenza sono comparse insieme una nuova oggettività e una nuova
collettività che impongono di interrogarsi sulle nuove condizioni del diritto, sul
diritto di un nuovo soggetto di diritto, la Terra stessa.
La trasformazione degli statuti degli oggetti nel processo che incrementa globalmente azione e conoscenza comporta un nuovo stato di fatto nel diritto della
Terra a divenire soggetto di diritto13. Ma, al di là della dimensione politica e giuridica, l’esigenza del contratto è alla radice di ogni istanza sociale, di ogni rapporto umano, di ogni scambio tra organismi viventi e ambienti, ha a che fare con
il rapporto originario di simbiosi che lega la vita al suo habitat14. Ricorsivamente
tale esigenza si rintraccia oggi nella rete, vero insieme ramificato di contratti, che
«recouvre et exprime un objet-sujet, le monde» e pone innanzitutto problemi di
diritto, presuppone un contratto globale, esigenza prioritaria nel pensare la svolta evolutiva dei nostri tempi senza implodere nella catastrofe collettiva15. Dinanzi
alla pervasività della guerra, alla spirale senza fine che lega guerra, stati, storia,
società umane, la morte collettiva che riconosciamo sul piano attuale dell’ominiscenza correlativamente alla straordinaria avanzata delle scienze, delle ricchezze e delle relazioni umane impone di svelare il “segreto di Pulcinella”: non
distruggere, ecco il principio costitutivo del nuovo contratto naturale e l’impegno prioritario per la vita futura [cfr. HOM 291-295].
Un Homo universalis coniuga uno spazio senza distanza e un io senza spazio,
scorre, fluttua, percola16, nell’attesa di un umanismo globale che ne fissi il contratto naturale, un contratto di simbiosi tra la Terra globale e gli attori umani globali [cfr. HOM 198 e 332-333].
Tale umanismo integrale è in qualche modo l’oggetto dei due libri successivi,
L’Incandescent e Rameaux, che si iscrivono nella dimensione complessiva dell’hominescence. L’Incandescent è sostanzialmente dedicato a quella nuova sintesi di natura e cultura che Serres designa con la felice espressione di Grand
Récit17. I passaggi e i transiti del Grand Récit riuniscono in un’unica descrizione
universale la storia dell’universo (13 miliardi di anni), quella del vivente (quattro
alla base del triplice
processo di esclusione
(tempio, campo, pagus)
che produce la società
organizzata (Rome) e la
cultura (Les origines de
la Géométrie). Un richiamo alla connessione tra
la struttura trifunzionale
di Dumézil e la dinamica della violenza fondativa di Girard si trova
anche in Atlas, Juillard,
Paris 1994, pp. 217-242.
6
La centralità della
bomba atomica come
motore della filosofia serresiana è evidente nella
scelta di rivolta morale
compiuta da Serres nel
1949, con l'abbandono
dell'École navale e il passaggio alla filosofia ed è
stata ribadita di recente:
«Chiedo ai miei lettori di
sentir esplodere questo
problema in ogni pagina
dei miei libri. Hiroshima
resta il solo oggetto della
mia filosofia»,
Eclaircissements, cit., p. 23.
7
L'acosmismo della filosofia, unito al tendenziale acosmismo della politica e della sociologia,
viene riconosciuto esemplarmente – in Le contrat naturel, F. Bourin,
Paris 1990, pp. 52-54 e
116-118 – come riduzione a storia e linguaggio
delle forze, dei legami e
delle interazioni che ci
legano al mondo.
8
In uno scritto recente
connesso alla tematica
del contratto naturale –
Retour au Contrat
Naturel, Bibliothèque
Nationale de France,
Paris 2000, p. 15 (il testo
è ricavato da una conferenza tenuta il 14 gennaio 1998 nell'auditorium della Bibliothèque
Nationale de France ed è
9
n.16 / 2006
stato parzialmente rifuso
in Hominescence) –
Serres sottolinea con
forza che «La philosophie
a donc pour tache de
réexaminer tous ses
anciens concepts
comme: le sujet, les
objets, la connaissance et
l’action… tous construits au long des millénaires sous condition de
découpages locaux préalables: en ceux-ci, se définissait une distance
sujet-objet, le long de
laquelle jouaient connaissance et action».
9
Tale impegno è illuminato fin dal 1991 (cfr. Le
Tiers Instruit, F. Bourin,
Paris 1991) da una pedagogia del “terzo istruito”,
parallela alla definizione di un nuovo diritto
naturale proposta nel
1990, che unisce la
cognizione del mondo e
la sua comprensione nei
due fuochi della sofferenza universale e del pensiero locale (con una
connessione simile a
quella che ispirò a J.-J.
Rousseau nel 1762 insieme l'Emilio e il Contratto
sociale).
10
Una generalizzazione
teoretica della funzione
della tomba e della
necropoli nella fondazione della città e del consorzio umano è stata
proposta da Serres in
Statues. Le second livre
des fondations, F.
Bourin, Paris 1987.
11
Le tre boucles sono
condensate nei paragrafi
Première boucle d'hominescence [cfr. HOM 5168], Deuxième boucle
d'hominescence [cfr.
HOM 179-189] e
Troisième boucle d'hominescence [cfr. HOM, 267-
10
miliardi), e quella dell’uomo (sette milioni) e delle civiltà storiche (alcune
migliaia). Il Grand Récit insegna che gli uomini, la conoscenza e la filosofia devono più alla natura che non alle loro recenti civilizzazioni. In questa prospettiva, il
libro si autodefinisce un’opera di filosofia della natura18. Una filosofia – possiamo
aggiungere – realista della natura, con un attributo che oggi suona quasi denigratorio, ma che Serres accredita con una difesa appassionata.
Il realismo crede che le cose esistano, assume una credenza empirica non dimostrabile, ma ancorata alla “durezza” del mondo:
«[...] le réalisme ne se défend, le plus faiblement du monde, que par une croyance issue des sens, de l’expérience brute et même de la religion, prétendent
certains. En effet, les réalistes croient en la réalité des / choses comme les mystiques croient en Dieu, pour l’avoir expérimenté. Malgré cette faiblesse, je n’ai
jamais su ni pu me départir du réalisme, dur, car les idéalistes, doux, me paraissent n’avoir jamais souffert du monde comme tel [...]». [INC 53-54]
Ispirata alla stratigrafia, alla termodinamica, alla radioattività, alla biochimica, tale
credenza nelle cose reali ritrova in esse le funzioni umane elementari; le cose del
mondo, il cervello individuale e la collettività “si ricordano” sempre a partire dai
“materiali” delle cose stesse. In quanto memoria partecipiamo delle cose, in
quanto cose esse partecipano della memoria. Viceversa, «l’idéalisme suppose un
combat d’où nous sortions vainqueurs; je vois la partie équilibrée ou nulle. Pis,
je ne vois plus la frontière qui sépare et oppose hommes et monde». [INC 55]
Ma è proprio tale frontiera che va dissolta, ritrovando una partita equilibrata tra
uomini e mondo che inneschi un processo ciclico nel quale il reale risvegli l’atto
di conoscere che a sua volta lo risveglia. Se l’idealismo ricerca il dominio parassitario, il realismo pratica la simbiosi e la partecipazione, senza contrapposizioni
e agonismi.
Il libro è scandito in quattro parti: la prima (Mémoire et Oubli) e l’ultima (Le
Grand Récit) introducono e concludono la lunga trama di riflessioni racchiuse in
Nature et Culture e in Accès à l’Universel, sostenendo entrambe il complesso
organico del Grand Récit che viene poi risolto in molteplici varietà poste nelle
due parti centrali. Richiamo la prima, che racchiude efficacemente l’intera cornice del Grand Récit. La salita e la discesa delle scale spazio-temporali viene inaugurata in Mémoire et Oubli da un’immagine di Fontanelle, che ricorda come «de
mémorie de rose, jamais l’on ne vit mourir de jardinier» [INC 11]. Tutta la nostra
storia replica l’illusione del giardino, permane nella credenza illusoria che una
geografia stabile veda scorrere l’azione del tempo umano, come si vede scorrere un torrente o si assiste a uno spettacolo teatrale. Anzichè vedere due spettacoli diversi posti in uno spazio simile, si tratta invece di riconoscere «une succession de mille fontaines à rythmes divers» [INC 13], di riconoscere la coesistenza delle diverse scale temporali dello storico, del geologo, del chimico, dell’astrofisico, riproducibili in una serie scalare di orologi che segnano il tempo a
ritmi diversi. Ecco che Serres delinea il racconto che prepara al Grand Récit,
dove tutto è tempo, nei differenti ritmi di durata, dove lo spazio scompare nell’alternanza e nell’intreccio di tanti ritmi. Gli uomini, illudendosi di vivere nello
spazio stabile di un giardino, non si accorgono di tessere lo spazio stesso, tappeto di tempo insieme effimero e millenario. L’universalità eraclitea del «tutto
Gaspare Polizzi
Michel Serres: un “umanesimo complesso”
scorre» si riempie soltanto ora della complessità intrecciata dei tempi degli uomini e del mondo.
Ciascun individuo, vera “polvere di stelle”, è immerso in una totalità temporale
che si dispiega dall’effimero ai milioni di secoli. Il nostro corpo sale e scende
nella scala temporale, con una connessione in tempo reale di mille date tra di
loro incomparabili. La peculiarità complessa di questo «vieillard nouveau-né»
risiede nella straordinaria difficoltà della combinazione del vivente e nella sua
effimera durata, nella miscela di una lunga forza e di una corta fragilità. E oggi,
grazie alla sincronia di ontogenesi e di filogenesi promossa dalle biotecnologie,
la vita e la storia si connettono reciprocamente.
La commedia naturale e umana si svolge nell’ampia contingenza del tempo;
siamo immersi nel Grand Récit ed è giunto il tempo di praticare un umanesimo
degno del suo nome, scritto nella lingua enciclopedica di tutte le scienze, che
non può risolversi in falso antropocentrismo e che deve ricercare il difficile percorso che dalla discesa lungo le biforcazioni temporali consenta la risalita nel
loro labirinto, connessa all’andatura caotica del processo. A tal fine Serres impiega la doppia tradizione di scienze e miti, che permettono insieme di retrocedere nel passato più lontano e di aprire spiragli sulla ricomposizione complessa dei
tempi lungo la direzione inversa.
Ancora una volta viene posto l’accento sul carattere concreto e “vivente” della
natura, iscritto nell’etimologia stessa del termine, che è stato progressivamente
cancellato dall’astrazione filosofica: «Mais nous avions oublié ce que signifie le
participe futur naturus, au féminin natura, du verb latin nascor, sa racine: ce
qui va naître, le processus même de naissance, d’émergence ou de nouveauté.
Nature: la nouvelle-née». [INC 28]
Con linguaggio matematico la natura può essere descritta come un integrale
indefinito di tutte le biforcazioni note, come una sommatoria di nascite, all’interno della quale si colloca la natura umana, integrale definito di quelle biforcazioni che hanno condotto a Homo sapiens sapiens19.
Scomparsi ogni centro di riferimento, ogni forma circolare del sapere, ogni enciclopedia totalizzante, il Grand Récit descrive il paesaggio dinamico di una «cronopedia» che raccoglie tutti gli orologi dell’universo e si compone nei mille tasselli delle nuove scienze, con un’operazione di collage per la quale Serres richiama il modello recente della teoria delle superstringhe, che fa sperare nell’adattamento reciproco della meccanica quantistica e della fisica relativistica. Insieme
all’istanza narrativa del Grand Récit permane ne L’Incandescent una volontà
pedagogica che costituisce il punto di convergenza dell’intero libro. La pedagogia esprime lo slittamento della materia e dei viventi nel tempo che si racconta,
lo spiazzamento nel tempo di uomini e cose che coevolvono e coproducono il
mondo attraverso le contingenze possibili e le fluttuazioni della modalità20.
L’Incandescent è un libro di coniugazioni, un libro di congiunture, che Serres
con ostinato coraggio connette in un Gran Récit in cui la filosofia si sforza di raggiungere il tempo stesso delle cose: «Depuis longtemps, je cherche à construire
une culture où la philosophie, oeuvre d’art aussi bien, s’écarterait un peu du
trou noir, inévitable et relativement stable, où attirent les rapport sociaux, pour
rejoindre, au prix d’un effort incompris, à la lettre surhumain, la formation
même des choses, le temps mondial, le chaos du climat, le frémissement des
vivants, bref, notre habitat global oublié, ainsi que son Grand Récit». [INC 296]
278]; per una presentazione più ampia rinvio
al mio Tra Bachelard e
Serres, cap. 10 Verso una
nuova emergenza dell'umano, cit., pp. 293-308.
12
Preconizzato già nel
Contrat naturel, il problema della Terra come soggetto di diritto è oggi
posto consapevolmente
anche nell'istanza politica, cfr. ancora M. Serres,
Retour au Contrat
Naturel, cit., p. 22.
13
Riporto un illuminante passaggio sul nuovo
status dell'oggetto-mondo
da Retour au Contrat
Naturel, cit., pp. 20-21:
«[…] comment le statut
objectif du sujet collectif
varia, puisque, anciennement actif, il devient
l’objet global passif deforces et contraintes en
retour de ses propres
actions, et comment le
statut de l’objet-monde
varie, puisque, anciennement passif, le voici, à
son retour, et puisque,
anciennement donné, il
devient notre partenaire
de fait».
14
All’interno di un'ambivalente logica parassitaria dell'hospes che si può
trasformare in hostis, del
simbolon che cela il
diabolon, ovvero della
coppia ambivalente simbiota-parassita; cfr.
soprattutto Le Parasite,
cit., tra l'altro alle pp.
224-226 e 335-338.
15
M. Serres, Retour au
Contrat Naturel, cit., p.
27. Emblematica a questo proposito la "questione di Robin Hood", ovvero di come pensare un
diritto in una terra di
nessuno dove non c'è
nessun diritto: Serres ci
11
n.16 / 2006
ricorda che la foresta di
Robin Hood era la terra
dei senza legge, come lo
è oggi internet,
ma l'esistenza stessa di
Robin Hood, ovvero del
"magistrato dei boschi",
come recita il senso originario del suo nome, testimonia di un'allegoria
del diritto, del passaggio
dalla violenza al contratto, della possibilità di un
nuovo diritto "complesso" [HOM 227-229].
16
Una teoria della percolazione – per la quale
cfr. M. Serres, Les origines de la Géométrie, cit.,
pp. 40-41 – rendeva
conto del tempo nuovo
alle soglie del neolitico,
dell'agricoltura, della
geometria e della cultura
umana, a partire dalla
prima biforcazione ominide; una nuova soglia
di percolazione si rintraccia ora nell'ominiscenza.
17
Riporto la seguente
definizione serresiana:
«J’appelle Grand Récit l’énoncé des circonstances
contingentes émergeant
tour à tour au cours
d’un temps, d’une longueur colossale, dont la
naissance de l’univers
marque le commencement et qui continue par
son expansion, le refroidissement des planètes,
l’apparition de la vie sur
la terre, l’évolution des
vivants telle que la conçoit le néodarwinisme et
celle de l’homme», M.
Serres, Le temps humain:
de l’évolution créatrice au
créateur d’évolution, in
P. Picq, M. Serres, J.-D.
Vincent, Qu'est-ce que
l'humain?, Le Pommier,
Paris 2003, pp. 73-74.
12
Uno sforzo sovrumano che si compone, nella chiusa del libro, in un progetto
“pedagogico” lanciato all’umanità futura, l’unico progetto che in questa fase di
umanizzazione possa essere promosso e mantenuto, quello del sapere: «Il en
reste un [de projet], qu’on le veuille ou non. Le savoir reste un projet, le savoir
en général…l’enseignement, la transmission de l’information… non seulement
cela reste un projet,mais c’est le seul pour le moment. La politique ou les politiques n’ont plus de projets». [VERNE 151]
Ed è con questo progetto “pedagogico” che Serres chiude il libro, nell’ambizione di promuovere una cultura in armonia con le scienze, un «nuovo umanesimo»
che acceda all’universale di un’umanità possibile. Si tratta di un appello pedagogico lanciato tramite l’Unesco e rivolto alle Università di tutto il mondo, affinché
si diffonda un sapere comune, un ceppo comune del sapere, e avanzino la pace
e la fratellanza. Nella sua articolazione pedagogica esso prevede in concreto tre
parti: un programma corrente di specialità disciplinari, secondo gli studi disciplinari intrapresi (medicina, diritto, scienze o letterature) e due parti comuni, Il
Grande Racconto unitario di tutte le scienze e Il mosaico delle culture umane.
Sulla medesima linea, ma con un’attenzione più forte per il riavvicinamento tra
universo, viventi e uomini, si presenta Rameaux, un vero “monumento alla contingenza”. Il volume propone uno svolgimento parallelo tra la dimensione del
système e quella del récit, che permette di confrontare e far convergere la configurazione stabile del format e quella dinamica dell’événement. L’ingresso in un
nuovo rameau evolutivo, che prospetta l’inquietante biforcazione tra la comparsa di un nuovo uomo o la scomparsa dell’umanità, impone di inventare «nouveaux rapports entre les hommes et la totalité de ce qui conditionne la vie» [RAM
5] per decidere «la paix entre nous pour sauvegarder le monde et la paix avec le
monde afin de nous sauver» [Ibid.]. Rameaux è un «livre-fils» immerso nella contingenza; esso «célèbre l’éveil au point-fourche entre tige et rameau, parce que
nous vivons ces jours-ci sur ce point double de tangence, d’où vint le mot de
contingence». [RAM 130]
Anche se testimonia di un deficit di linguaggio: «Comment dire, d’une seule voix,
tous les genres d’événements, comment unir les exemples cités sans les distinguer ? Privé de la discipline que les synthétiserait, ce livre, fils orphelin, manque
du langage dans lequel il pourrait exprimer leur concordance, celle de la nouveauté dont la ramification se retrouve en tous lieux et nous concerne aussi
bien»[RAM 141]21.
L’immagine centrale del libro disegna figurativamente la trama stessa del rapporto tra la dimensione stabile del tronco solido di una scienza dell’ordine e
quella imprevedibile delle arborescenze contingenti delle scienze del possibile.
E proprio nell’incrocio tra la dimensione universale della matematica e quella
individuale della metafisica emerge la singolarità innovativa dell’opera rispetto al
quadro degli scritti serresiani22. Nella parte “sistemica” del libro si confrontano gli
statuti contrapposti del sistema-padre e della scienza-figlia per condurre, tramite la lettura del messaggio cristiano di San Paolo, alla nuova dimensione del
“figlio adottivo”. Nella parte “narrativa” si espone la biforcazione tra événement
e avènement, tramite la quale vengono offerte le chiavi per una proposta di riconciliazione adatta alla profondità della attuale svolta evolutiva.
Formattazione del tempo nella serializzazione collettiva delle attività, formattazione della gioventù tramite gli istituti pedagogici, formattazione dei ritmi del
Gaspare Polizzi
Michel Serres: un “umanesimo complesso”
corpo nello spazio-tempo regolare per chi pratica l’esercizio della scrittura:
aspetti diversi di un’omologazione pervasiva dell’azione umana che ha preso
forma agli inizi dell’età moderna. Format, supporto e codificazione producono
oggi il più potente sistema di controllo sul mondo mai realizzato; ma esigono,
come al tempo di Platone, che aveva intrecciato il mondo sensibile e i collettivi
sociali nella figura “politica” del tessitore, o di Leibniz, che aveva operato una
mirabile sintesi tra le leggi del padre (armonia prestabilita) e il posto del figlio
nelle mille contingenze delle singolarità23, una nuova sintesi filosoficamente rilevante, che «lie l’univers et les cultures par un contrat naturel» [RAM 31], affidata
alle pagine di Hominescence, che ha scoperto come la storia degli uomini sia
immersa nel Grand Récit del mondo materiale, come l’informazione giaccia nel
seno della materia.
La descrizione del format implica una connotazione di necessità e violenza, un
integralismo tirannico; ma in realtà i format, che si pongono come trascendenti
sono anche immanenti e contingenti. Dalla meccanica quantistica in poi trionfano le scienze-figlie, nelle quali le circostanze vengono reintegrate nel sapere. Nel
format è iscritto «un moteur de production irréductible» [RAM 42], che intreccia
contingenza e legge razionale24. Il format si sfrangia e si dissolve. Dal sistema
della scienza-padre, preformante e deduttiva, ai decentramenti successivi delle
scienze-figlie, alle filiazioni decentrate che si espandono nel sapere odierno e
che spesso sono opera di scienziati-figli, allontanati e sconfitti dal potere canonico della scienza del loro tempo, che assumono posti esitanti e temporanei.
Dinanzi alla prospettiva di una scienza che padroneggia la natura, che esige «la
liaison meurtrière du savoir et du pouvoir» [RAM 55], gli scienziati-figli indietreggiano e ricercano un rapporto contrattuale, trasformano il sapere in contratto: «La symbiose, obligée, débouche sur un contrat naturel» [RAM 53]. La vera
conoscenza, scienza nell’esodo e non nel metodo, erranza del viaggio arborescente del Grand Récit, connette la scienza, gli uomini e il mondo. La conoscenza viva intreccia a partire dal soggettivo l’oggettivo e il collettivo; Serres usa
il termine «escient» (dall’ablativo assoluto latino meo sciente), che associa in
pieno soggetto e oggetto del sapere, per indicare la vera conoscenza, che trasforma il corpo e la parola di chi la riceve tramite un’invenzione che è anche
resurrezione dell’informazione morta, concentrazione di forze sociali, esternalizzazione incarnata di conoscenza in un collettivo (come fu quello dei congressi
Solvay o di Bourbaki).
L’evocazione religiosa e cristiana di queste pagine trova la sua piena esplicazione nella terza parte della sezione (Le fils adoptif), modello di una filosofia “cristiana” della scienza, incardinata sulla figura e sul pensiero di Paolo, che unisce
e scioglie i tre format ebraico, greco e romano posti all’origine dell’occidente,
ramificandoli in una nuova creatura. Paolo incarna la distinzione tra identità,
espressa nella singolarità della vita individuale, e appartenenza, propria del collettivo, sia greco che romano. Negli scritti paolini Serres rintraccia il primo discorso di un filosofo-figlio, prodigo, errante, adottivo, di fronte alla ripetizione
pesante della ragione critica dei discorsi di potere dei filosofi-padri. Il fragile
figlio Paulos non parla soltanto al suo tempo, ma soprattutto al nostro: indica la
virata dalla generazione all’adozione che configura l’hominescence come ultima
biforcazione della trama evolutiva, verso la fabbrica dell’umano. Il progetto di
resurrezione incarnato in Paolo e tramite esso nella figura di Cristo rappresenta
18
«A propos d’humanisme, ce livre de philosophie de la nature traite
d’elle, de la vie et de
l’homme, trois concepts
sans définitions et en
parle sans idéologie,
tabou ni sacré, puisqu’il
les définit selon les lignes
du Grand Récit». [INC 29]
19
«Qu’appeler nature,
dès lors, sinon une intégrale des bifurcations en
questions? Une somme de
naissances. Du coup,
même la nature humaine devient facile à définir, sinon à dépister,
comme intégrale définie
des carrefours qui, dans
le Grand Récit, amenèrent à la formation du
sapiens sapiens. La nature, quant à elle, se définirait comme l’intégrale
indéfinie de toutes les
bifurcations connues et à
venir dans le bouquet
explosif du Grand Récit. /
D’où venons-nous? De ce
bouquet, de ce Grand
Récit, d’un sous-ensemble
de ses branches, d’une
série finie de ses émergences contigentes. Qui
sommes-nous? Le résultat
temporaire de ce sousensemble». [INC 29]
20
«Je souhaite qu’il [le
mot pédagogie] exprime
désormais ce déplacement, rapide ou lent, du
monde, des choses et des
vivants dans le temps,
oui, cette nouvelle perception de l’Univers, la
nôtre et celle de nos
enfants». [INC 38]
21
«Toute ma philosophie
crie dans les lettres et la
voix. La fontaine chante
le pouvoir des fables; je
célébre et cultive celui
des langues. A chacune
son rameau». [RAM 147]
13
n.16 / 2006
22
«Par ces approches
croisées, ce livre essaie
de nouer, de nouveau et
pour aujourd’hui, la
mathématique
universelle, tige-père, à
la métaphysique de l’individu, rameau-fils».
[RAM 222]
23
Un altro aperçu leibniziano si trova nella presentazione della piramide dei mondi offerta alla
fine degli Essais de théodicée, che rappresenta al
vertice il mondo reale e
nelle zone inferiori i
mondi possibili: Serres
ricorda come anche la
porzione di spazio posta
all’esterno della sezione
conica possa includere
mondi possibili, stavolta
sviluppati verso l’alto
[cfr. RAM 171-173].
Leibniz rimane, dopo
Paolo, il riferimento privilegiato del libro: in
conclusione, Serres legge
nel pensiero leibniziano
(e in quello di Pascal)
un preannuncio della
sintesi tra matematica
universale e metafisica
dell’individuo che viene
proposta in Rameaux
[cfr. RAM 221-222].
24
«Lorsque la théorie des
branes et des supercordes
tente de réconcilier la
relativité du premier [le
père] avec la mécanique
quantique du second [le
fils], je rêve que les
mathématiciens arrangent une affaire de
famille». [RAM 42]
25
«Notre espèce sort, voilà
son destin sans définition, sa fin sans finalité,
son projet sans but, son
voyage, non, son errance, l’escence de son
hominescence. Nous sortons et faisons sortir de
nous nos productions;
14
un’inversione nelle rappresentazioni e nelle pratiche dell’umano, tutte radicate
nella morte; Serres lo legge come una vittoria inventiva sulla morte, una rottura
dell’ominizzazione estranea al conflitto mortale e aperta alla speranza di vita.
La seconda parte di Rameaux vive – come ho sopra ricordato – nella dinamica
del récit, oscillante tra l’evento e l’avvento. L’evento fisico, culturale e umano,
può segnare un mutamento di natura dalle conseguenze globali. Ecco allora che
l’evento, deviazione inattesa dal format monotono delle regole anteriori, si presenta come sinonimo di novità. L’evento umano non è meno dirompente: da
un’equazione come e=mc2 è emersa un’arma globale che non abbiamo il potere di dominare, nel segno – ben descritto da Poincaré nella teoria del caos – di
una straordinaria sproporzione tra causa ed effetto. Nel suo doppio movimento
dal format monotono alla rottura contingente l’evento implica un interesse che
cresce proporzionalmente rispetto alla sua novità. La convenienza tra il tempo
individuale ramificato e le ramificazioni del Grand Récit propone una nuova fondazione della conoscenza, che vive nell’in-quietudine, nello scarto dall’equilibrio
costitutivo dell’ex-istenza. E tale nuova fluttuante fondazione rende possibile la
trasformazione dell’evento in avvento, l’invenzione di un nuovo mondo, che
viene descritta nella seconda e nella terza parte di questa sezione.
Si tratta di dar conto di un processo autocatalitico, di un ciclo che innesca un’emergenza complessa, come è avvenuto per la nascita della Terra o di un gruppo
sociale, come avviene nell’inclinazione del genio, nella sua serendipity. In realtà
qui Serres ricapitola la propria stessa vocazione di messaggero, angelo, parassita,
la reiterata vocazione degli annunci, materiali, viventi, storici. Il suo ordito si intesse di “esordi”, ovvero alla lettera di inizi che coincidono con le trame, di testi tessuti sempre di nuovo. E la descrizione dell’avvio del racconto, nel momento iniziale del punto di biforcazione, è un’ottima descrizione della propria personale
ars narrativa, oltre che una professione di fede evangelica nell’avvento.
L’inerte, il collettivo, il soggetto partecipano insieme di tale meraviglia “panica”
dell’inizio, oscillano nella contingenza. Non l’essenza, ma l’«escenza», il movimento incessante di uscita, caratterizza l’umano25, e prende oggi il nome di
appareillage; è così giunto un momento exodarwiniano dell’evoluzione umana
in cui si trasformano le tecniche piuttosto che gli organismi, in cui si scopre il
vantaggio della mobilità dell’artificiale; «L’évolution produit un corps qui en produit une nouvelle» [RAM 177]. La tecnica, risparmio di tempo e di morte, accompagna la natura, è insita nella sua autoevoluzione26. E così la tecnica sgorga non
programmata dall’evoluzione e si sviluppa programmaticamente in cultura,
secondo un processo autocatalitico che si iscrive nell’evoluzione cosmica. Se la
nostra produzione biforca rispetto alla riproduzione l’emergenza delle biotecnologia riconduce alla riproduzione e gli strumenti tornano a essere organi. Le biotecnologie tornano alle sorgenti vive dalla tecnicità e inversamente il tempo evolutivo diviene un lento avvento di fabbricazione.
All’ultima sezione è dedicato il momento della proposta nel panorama della
mondializzazione tecnologica odierna, nella quale si intrecciano in modo contingente i tre codici genetici delle molecole, del vivente e dell’informazione. Se
«Le récit des techniques participe donc de la même contingence que l’évolution»
[RAM 199], i problemi legati a un’etica delle tecnologie riguardano esclusivamente il mutamento di scala e l’ordine di grandezza dell’imprevisto. Serres propone «une éthique à la mode cybernétique» [RAM 201], nella quale il governo
Gaspare Polizzi
Michel Serres: un “umanesimo complesso”
della tecnica segua modalità contingenti, tra la precauzione e la prudenza. E al
contratto naturale aggiunge la proposta di un contratto virtuale, che guardi alla
salvezza delle possibilità contingenti. Una nuova etica del contingente quindi,
che porta con sé una nuova politica del concordato. Serres ne enuncia, in conclusione del libro, tre ragioni: una ragione ontologica (fabbrichiamo già mondi
possibili), una ragione metodologica (le scienze dure si fanno storiche e viceversa), una ragione cognitiva (il concettuale che opera distinzioni viene ormai
rimpiazzato, tramite l’intelligenza artificiale, dal procedurale che produce dettagli).
Tale proposta insieme etica e politica per un contratto virtuale dei mondi possibili viene simbolizzata dall’unione cristiana del dichiarativo ebraico (Jesus) con
l’algoritmo greco (Cristo) e viene sostanziata da un preciso riferimento autobiografico27. Ma il messaggio più generale che il libro consegna risiede proprio nella
possibilità concreta di pensare il concetto e il racconto, nel raccontare circostanze e avventi dell’umano secondo il tempo cangiante.
Una ragione che coltiva il dettaglio del paesaggio, che si apre a un contratto virtuale come condizione trascendentale insieme per la conoscenza e per l’azione
relativamente alle generazioni e alle cose future, è una ragione non più univoca
e astratta, ma vivente e ricca nella dimensione singolare della contingenza, preconizzata da Montaigne con la frase «Chaque homme porte la forme entière de
l’humaine condition» [RAM 225]. A questa ragione che unisca la concezione temporale della storia, la visione spazio-temporale del mondo e la società comunitaria e solidale Serres dona l’attributo paolino della fede cristiana, senza timore di
miscelare il linguaggio della complessità con quello della religione.
Anche un non credente, che abbia a cuore la salvezza dell’umanità e insieme
della natura, deve convenire non soltanto che con Serres la filosofia si fa sincera
“meta-fisica” che interroga con la radicalità più conseguente il presente, ma che
difficilmente siamo stati posti dinanzi a soluzioni così globali per i destini dell’umanità e della natura.
Dal neolitico al Novecento la cultura umana ha intrecciato l'umanismo e le peggiori barbarie; la gioiosa speranza della ricerca filosofica di Serres, orientata verso
un’ominiscenza di pace ci invita a inventare un nuovo umanismo senza limiti, l'umanismo integrale dell'ominizzazione: «[…] qu’attendons nous – domandiamoci con Serres pour inventer, non point un seconde humanisme, mais l’humanisme comme tel, puisque, pour la première fois dans le processus millionnaire
de l’hominisation, nous avons les moyens scientifiques, techniques et cognitifs,
par études faciles, voyages aisés, rencontres et voisinages multiples et inattendues, de lui donner un contenu fédérateur non exclusif, enfin digne de son
nom?» [HOM 333]
nous produisons et nous
autoproduisons par ce
mouvement incessant de
sortie». [RAM 173]
26
«La technique accompagne la nature, puisque
l’homme lui-même
naquit, naît encore naîtra – nascor, naturus,
natura – de façonner des
choses; ainsi naquit-il,
faber, fabriquant déjà, de
ses propres mains, des
équivalents de ses organes. Et ainsi entra-t-il,
déjà, en autoévolution».
[RAM 178]
27
«Formé depuis la jeunesse aux concepts à la
grecque, j’ai échoué, ma
vie durant, à comprendre les avènements et
singularités des religions
à récit, comme, plus
récemment, à évaluer la
nouveauté du Grand
Récit et le surgissement
de ses rameaux. Mes
lumières conceptuelles
laissaient dans l’ombre
les algorithmes issus de
Rome ou de Jérusalem».
[RAM 221]
15
Graziella Arazzi
La vocazione alla complessità di Gaston
Bachelard*
Focus: epistemologi eretici del ’900
1. I presupposti
Sul pensiero di Gaston Bachelard varie e ricche di
prospettive sono state le piste di analisi e di studio.
Alcuni percorsi hanno analizzato la dialettica della
conoscenza scientifica, in cui Bachelard mette a
fuoco la dimensione di una razionalità costantemente messa alla prova, valorizzando l’errore e l’ostacolo come energie interne ai vari saperi. Molti
studi si sono rivolti all’approfondimento della
matrice storica che, secondo l’autore, costituisce
l’essenza della scienza. Recenti programmi di ricerca hanno invece tematizzato le linee di una pedagogia del razionalismo applicato, che richiede il
continuo investimento della comunità educativa e
che mette al centro dell’attenzione la distinzione e
il contemporaneo richiamo tra rêverie e scienza. In
questo panorama, i percorsi di ricostruzione storiografica, che sottolineano l’originalità di
Bachelard rispetto ai cardini del positivismo e
dello spiritualismo della cultura francese del primo
Novecento, ma anche innovativi modelli di indagine, che orientano a cogliere aspetti talora poco
studiati come la struttura comunicativa e letteraria
delle opere di Bachelard, appaiono cospicui e molteplici. Tra tante articolazioni di riflessione, si rivela tuttavia un’assenza: ciò che sembra mancare
all’orizzonte è la configurazione di relazioni e rinvii che si generano tra il pensiero di Bachelard e il
quadro epistemologico della complessità, che ha
lasciato un profonda impronta nella cultura del XX
secolo. Come contestualizzare questo rapporto,
senza cadere in riduzionismi, sovrapposizioni,
metafisiche dell’anticipazione? Più che di un processo lineare, che esamini e fotografi le opere di
Bachelard, si tratta di utilizzare quello che il filoso-
16
fo ha più volte descritto come fisionomia vettoriale del conoscere. Nel caleidoscopio della produzione bachelardiana occorre allora individuare,
selezionare, sollecitare e mettere in scena le tracce
della complessità, una sorta di riconoscimento di
quelli che sono gli elementi determinanti del paradigma della metaconoscenza. Allo schema di lettura a una sola dimensione subentra il dinamismo
della scorribanda (randonnée, secondo il dizionario di Michel Serres), dove il rinvio da un testo
all’altro non viene operato dal lettore ma si istituisce come una tessitura tra le varie forme di scrittura dell’opera dell’autore. A farsi strada non è un
semplice passaggio storico da un saggio all’altro,
bensì un percorso in cui tra categorie e nozioni
tracciate e definite si genera reciprocità, richiamo,
quasi uno spazio di ricodificazione e di inedita connotazione, che valorizza i modelli teorici e rivendica la polifonia dei concetti, l’apertura arborescente
della conoscenza medesima. Mappa di questa
interpretazione è un punto de La Philosohie du
Non (1940), laddove Bachelard sostiene: “si procede da una concettualizzazione chiusa, bloccata,
lineare e si arriva a una concettualizzazione aperta,
libera, ramificata” (G. Bachelard, La Philosophie
du Non, Paris, Puf, 1940, p. 133).
Emerge l’indicazione di un cammino, tuttavia già
segnalato da un’opera del 1932, L’intuition de l’instant. Saggio sulla Siloë di G. Roupnel . Il saggio
fornisce una mappa o una visione d’insieme con
cui intravedere, registrare e problematizzare le
molteplici direzioni o aperture alla complessità. Al
centro dell’attenzione la categoria di istante, che
connota l’azione e il pensiero, un binomio che
tanto più percepisce la propria coesione e duplicità tanto più si apre al mondo. In Bachelard non si
Graziella Arazzi
La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard
arriva a concepire la complessità come compresenza di istante e durata, di accidentalità e di permanenza, intesi come termini che confliggono e si
richiamano ad un tempo. Si insiste invece sul termine di istante, considerato come cuore di un dinamismo, apertura della ragione che non è data una
vota per tutte ma che si può cogliere solo come
procedura temporale, oltre i vincoli di una struttura consolidata e racchiusa in uno spazio definito.
Una ragione che è discontinuità, “attività autonoma
che tende a completarsi” (G. Bachelard, La
Philosophie du Non, cit., p.33) nel corso del suo
procedere, un logos che si qualifica nella messa in
scena delle differenze, qualcosa che sempre ricomincia, in tensione perspicua, senza smarrirsi nella
tranquillità del continuo. Tuttavia, il pensiero dinamico è scandito da una peculiare solitudine, attitudine speculativa e non emozionale che, lungi dal
prefigurare isolamento, diviene opera del tempo,
atto che è decisione istantanea, scelta tra pluralità
di orientamenti e dunque dimensione fondamentalmente creativa. La ragione si manifesta nel suo
incessante interrompersi e simmetrico riconoscersi, nel costante differenziarsi e produrre specificità.
L’opera del 1932 pare demandare la sua chiarificazione ad un‘ulteriore riflessione che Bachelard
svolge nel corpo della Philosophie du Non: “dialettizzare il pensiero significa aumentare la garanzia di
creare fenomeni completi, rigenerando e offrendo
ospitalità a tutte le variabili che la scienza, proprio
come il pensiero ingenuo, aveva omesso nella sua
prima fase” (G. Bachelard, La Philosophie du Non,
cit., p. 17). La coscienza del tempo è valutata come
la geometria topologica che si innerva tra i singoli
istanti, una configurazione attiva e mobile passiva.
L’istante è la situazione-ponte che collega l’orizzonte pratico al teorico, la vita al suo costante mettersi in atto, il germogliare della conoscenza all’autoevidenza. Sintesi di polarità, funziona come polo
di energia, dialogo tra elementi che la rappresentazione comune scinde. Secondo tali prerogative,
non è assimilabile alla durata, non si presenta quale
insieme di parti distinte, bensì appare nella fisionomia paradossale del tutto e delle parti.
L’isolamento dell’ istante, la solitudine della conoscenza sono tuttavia speculari a creatività e ricchezza concettuale, individuando quell’orizzonte
della complessità dove gli opposti vivono come
identici e differenti. Spetterà all’analisi di E. Morin
individuare i movimenti tra parti e sistema, sviluppando un modello che Bachelard definisce in
modo intuitivo nel flash dell’attimo. articolazione,
dischiusura immediata, senza anticipazioni. In
questo percorso, appaiono operazioni prive di
significato tanto distinguere tra logica della scoperta e struttura della dimostrazione scientifica
tanto contrapporre schemi deduttivi a schemi
induttivi. Qualsiasi elemento di vita è storicità,
temporalità concentrata nell’attimo, unione dell’esistente e del possibile. Anche i fatti scientifici
sono azioni che si svolgono, funzioni dinamiche,
aperte a nuove stratificazioni. La valutazione dell’essere come struttura improvvisa, inaspettata,
richiede l’accoglienza di un pensiero multiforme,
vettore temporale, destinato a collocarsi sul particolare, a interrompersi e a riprendersi. L’intuition
de l’instant rappresenta un luogo di esplorazione
di tematiche che costelleranno saggi, articoli,
recensioni, prefazioni, opere meno strutturate e
sistematiche ma rispondenti alla dimensione di
nuclei tematici della discontinuità.
2. Le trame dell’istante: tra conoscenza e
volontà
Sul sentiero che Bachelard offre al lettore si
costruisce in tutta la sua concretezza la dinamica di
un conoscere che costantemente si ricerca e si
autoosserva, che procede per operazioni di tessitura, che tende a tenere insieme concetti, percezioni, inquadramenti storici. Il costante lavoro condotto da Bachelard per demistificare le nozioni tradizionali di realtà e di soggetto, definendo la dinamica della conoscenza approssimata e dalla dialettica della complementarietà, un procedere mai rettilineo ma sempre topologico, sottoposto a costante rettificazione, si esprime in un dizionario sotterraneo, forse meno esplicito e trasparente rispetto
alle grammatiche del razionalismo applicato, ma di
estremo rilievo per permettere di leggere fasi e
mosse dell’avvistamento del conoscere che conosce se stesso. Ed è proprio la conoscenza della
conoscenza – come avverte Morin - a caratterizzare la struttura della complessità. “La conoscenza è
per eccellenza un’opera segnata dal tempo” (G.
Bachelard, L’intuition de l’instant. Etude sur la
Siloë de G. Roupnel, Paris, Librairie Stock, 1932, p.
17
n.16 / 2006
23), dalla correlazione tra tempi molteplici che
vivono in vicinanza e in opposizione. Conoscere la
conoscenza significa abbandonare il terreno astratto di nozioni separate e chiuse, la rassicurante
dedizione a modelli che presumono di rispecchiare la realtà, l’assolutezza di una verità che si pensa
di acquisire con l’applicazione di procedure logico-argomentative. Se il conoscere è l’atto dello spirito nel suo sforzo, l’istantaneità isolata nella sua
energia e nella sua potenzialità, conoscere il conoscere richiede e sollecita l’apertura a fasi temporali multiple. In tale contesto, emergono non solo itinerari logici plurimi ma anche tipologie percettive
e contesti d’azione diversificati. Nell’istante del
pensiero, la reciprocità o meglio la continua traslazione tra tutti questi piani opera in modo da tradurre la costruzione del sapere in continui ricominciamenti. Come non esiste una piatta realtà,
che si offra alla conoscenza ma ogni fatto è intessuto di idee e volizioni così non si manifesta un
procedere continuo e durevole per il sapere. In
quale direzione e con quale intensità si muova l’istante non è determinabile in una prospettiva continuista e lineare, che pare rivendicare le uniche
dimensioni della dimostrazione e della scoperta.
Questi due processi risultano essere l’esito di un
modello astratto che, per Bachelard, perde significato di fronte all’atto creativo della scienza.
Nell’istante di un logos attivo, categorie, parole,
teorie si collegano in topografie sempre nuove ed
è l’energia psicosociobiologica della temporalità a
nutrire e a cementare le connessioni. Apprendere
e lavorare nella ricerca diventano azioni che aprono a una vera e propria scorribanda di nodi, in cui
gli operatori dell’intelletto chiariscono e si rendono conto in primo luogo del loro modo di procedere. La conoscenza complessa stabilisce legami
tra le varie configurazioni di realtà e le inedite geometrie dell’intelletto, sonda la reciprocità tra i poli,
mette in evidenza come natura e pensiero rafforzino stili e autonomia solo nell’invadere reciprocamente l’uno il campo dell’altro. Alla logica della
complementarietà subentra quella dell’azione simmetrica. Ogni pensiero è vincolato agli altri e le
nozioni rinviano all’elemento empirico, tramite
una sequenza di azioni cui succedono continue
reazioni. La conoscenza si costruisce e si sedimenta nella rapidità e nell’accidentalità, manifesta
incessanti segnali di apertura, secondo cambia-
18
menti e costellazioni, che generano distruzioni per
ricomporsi in altre forme. L’eterogeneità del reale,
l’infinita diversità della natura, l’illimitata energia
delle varie parti del cosmo e il dinamismo molteplice della mente lasciano intravedere i contemporanei flussi dell’indipendenza e dell’interdipendenza, giocati in ogni fase del conoscere. Come per
Morin “la conoscenza della conoscenza” non è questione esclusiva dei filosofi ma assume i caratteri di
un problema di tutti i cittadini, “perché la cosa più
importante è la vita vissuta, che è strettamente collegata al sapere ed è infatti a partire dalla conoscenza che noi prendiamo decisioni e compiamo
azioni” (E. Morin, Lezioni messinesi, a cura di A.M.
Anselmo e G. Gembillo, Messina, Armando
Siciliano Editore, 2006, pp.17-18), per Bachelard la
vera evidenza, il nucleo del conoscere si raggiunge
“nella coscienza che si protende fino a decidere
un’azione” (G. Bachelard, L’intuition de l’instant,
cit., p. 26). Un atto è decisione istantanea, che
segue un movimento costantemente variato, discontinuo, sempre ricominciato e carico di originalità. Se liberiamo la conoscenza da stereotipi e schematismi, osserviamo infinite particolarità, proprietà
accidentali, istantanee, contatti tra elementi diversi,
non prevedibili in sequenze continue. Ogni fattore
è indipendente rispetto agli altri; contemporaneamente, ha in ogni caso bisogno degli altri. Ogni
istante è separato dagli altri ma proprio nella sua
assolutezza genera la configurazione d’insieme
della conoscenza. Conoscere il conoscere significa
tener presente la rete variabile di configurazioni, le
procedure ricorsive, per cui ciò che si qualifica
come effetto di una causa - nell’essenzialità dell’istante - retroagisce sulla causa presunta, in un percorso che Bachelard connota come propulsività.
Utilizzando un dizionario che rivela parentele con
la struttura della complessità, Bachelard considera
le relazioni di distanza e contemporanea vicinanza
tra vita e conoscenza, tra biologia e logica. La vita,
come la conoscenza, è per essenza temporale, vettore prospettico e non può essere compresa “in
una contemplazione passiva; comprenderla, è più
che viverla, è in verità offrirle propulsione”(G.
Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p.28). Nella
dimensione ologrammatica di Morin, l’individuo si
trova entro la società ma l’anima sociale si espande
nell’individuo con un linguaggio, un codice, un
universo e individuo e specie si richiamano costan-
Graziella Arazzi
La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard
temente, in una dinamica in cui agisce un tutto per
un tutto. In sorprendente analogia, Bachelard
intende la conoscenza come dialettica di autorealizzazione dei sistemi viventi medesimi, in un processo temporale per cui la conoscenza-vita non ha
svolgimento continuo, non scorre “sull’asse di un
tempo destinato a riceverla come un canale riceve
le acque di un fiume” bensì trova la sua realtà
essenziale nella concentrazione di un attimo” (G.
Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p.28).
Tale autoorganizzazione propulsiva è segnata dalla
discontinuità e dall’originalità che ne rinvigorisce
la struttura. Vivere, conoscere e creare sono fasi di
un percorso costellato da interruzioni, cesure,
rivolgimenti, capovolgimenti e pieno di “anacronismi, scacchi, riprese” (G. Bachelard, L’intuition de
l’instant, cit. p. 30). Viene definita la priorità dell’accidentale, momento in cui la vita si sintetizza e
ricomincia, diviene autocreazione e conoscenza
consapevole. Superando le barriere della continuità e lo stereotipo della scomposizione della
conoscenza in frammenti, Bachelard cancella la
tipologia di una realtà, destinata a permanere in un
tempo uniforme, passibile di rappresentazioni o di
scoperta e sottolinea la dimensione di un istante,
continuo rinnovamento e ricominciamento, che
restituisce al reale la proprietà di un divenire molteplice. Tempi differenti, intersecati, nuclei di sintesi dell’essere caratterizzano l’epistemologia,
ossia la struttura complessa in cui - come avverte
Morin - persona, cultura, organizzazione delle
idee e delle teorie comunicano in forma multipla,
registrando cambiamenti che non sono prevedibili e si innescano nella dialettica dell’istante.
L’istante che Bachelard valorizza è il momento in
cui reale e psichico, fattori tradizionalmente opposti, si richiamano nella dialogo della ricorsività,
dove tutto e parti si rapportano. Verità, evidenza,
energia vitale si svelano solo nell’attimo e non nel
modello inefficace della durata. Sinergie e simbiosi, logiche dell’integrazione, traduzioni costanti di
parametri sociali, culturali e psicologici caratterizzano un pensiero che elude la chiusura autoevidente della logica cartesiana e si profila come
attenzione al momento fecondo, in cui conoscere
e vivere sono strutture che emergono nella ricchezza organizzativa, nell’apertura continua, nella
dimensione del costante rinnovamento. Su questo
asse, la solitudine degli opposti, tipica delle varie
dialettiche, lascia il posto alla comunicazione tra
spirito e cose, alla comunicazione fra presente e
passato, tra essere umano e altre specie.
L’autopoiesi, l’emergenza di stili e forme di vita,
incorpora una temporalità discontinua, dove l’istante è un punto di completezza che proprio in
quanto tale si autosupera, deflagrando la propria
consistenza nel dinamismo delle multipossibilità.
La vita e la conoscenza non sono altro che il teatro
in cui emergono istanti, separati, discontinui.
L’essere, soggetto o oggetto, “è un luogo di risonanza per i ritmi degli istanti” (G. Bachelard,
L’intuiton de l’instant, cit., p. 69). La metafora di
un’eco, che possiede nel suo passato anche una
voce, elimina il paradigma sostanzialistico e conoscitivo lineare per lasciare spazio alla “problematica permanente, che cambia ogni giorno assieme a
tutte le conoscenze che via via ritroviamo”, in altri
termini all’”autoesame” (G. Bachelard, L’intuition
de l’instant, cit., p. 44).
Emergenza e autoanalisi sono segnali di discontinuità e di direzioni multiple che riorientano le finalità dell’insegnamento delle varie discipline. La fisica teorica e la storia delle scienze devono, infatti,
accompagnarsi a una sorta di pedagogia del discontinuo per Bachelard e di osservazione della
conoscenza secondo Morin. L’analisi di ciò che si
conosce e di come si conosce diviene esame del
contesto biopsicosociale, in cui il rapporto di assimilazione è anche rapporto di conflitto, dove l’esistenza di una vita culturale e intellettuale dialogica,
il calore culturale, la possibilità di esprimere
devianze rappresentano tre condizioni che mobilitano e liberano energie, tre dinamiche che la
sociologia della conoscenza deve prendere in considerazione e che “rendono possibile l’autonomia
del pensiero e, correlativamente, le condizioni
sociali, culturali, storiche delle possibilità di oggettività, di innovazione e di evoluzione nell’ambito
della conoscenza” (E Morin, Le idee: habitat, vita,
organizzazione, usi e costumi, tr. it A. Serra,
Milano, Feltrinelli, 1993, p. 31)
In un’opera difficile da interpretare e che può
essere assunta come il tentativo di Bachelard di
conoscere il conoscere stesso, una sorta di metalogica del tempo, l’attenzione verte sulla struttura
medesima del paradosso che caratterizza la dimensione della complessità. L’istante è solitudine, eliminazione della continuità e, nello stesso tempo, è
19
n.16 / 2006
nucleo fecondo di idee, punto in cui la vita è ricominciamento. La struttura ricorsiva e circolare connota la conoscenza, eliminando la dimensione progressiva e lineare. Nella ripresa, che scatta nell’istante, nella tensione del tempo, emerge la vita ma
anche lo stile di conoscenza, si struttura l’apprendere ad apprendere, coniugando l’estrema fecondità e pienezza dell’essere con la quiete e l’isolamento del ricercatore che si autoanalizza, la fertilità con il rigore. “Nel presente che agisce, operano
i mille fattori della nostra cultura, i mille tentativi di
rinnovarci e di riformularci” (G. Bachelard,
L’intuition de l’instant, cit., p.23). Con questi termini Bachelard sembra alludere alla finalità di un
sapere che, albero mobile e libero, produce autonomia e consapevolezza, offrendo occasioni per
rivalorizzare costantemente l’uomo, osservato in
connessione multipla con le cose e con il mondo.
La conoscenza cessa di essere applicazione di
modelli e paradigmi che fotografano o scoprono
realtà per divenire linea costantemente articolata e
deviante, dove si offrono condizioni di apertura e
di continua innovazione. “Dal momento in cui si
libera la conoscenza e nella proporzione in cui si
libera la conoscenza, ci si accorge che può ospitare infinite casualità” (G. Bachelard, L’intuition de
l’instant, cit., p.24). Bachelard usa il termine di
accidente per indicare l’estrema varietà delle connessioni, delle combinazioni e delle relazioni, proprietà emergenti in un percorso che interrompe
qualsiasi logica lineare per configurare le rotture,
le crepe, i conflitti. Si delinea quel panorama che
Morin definirà con nuovi processi categoriali: l’autonomia delle menti, l’emergenza di conoscenze e
idee nuove, lo sviluppo di ibridazioni e di critiche
reciproche. La definizione del tempo istantaneo e
discontinuo si affianca all’esplicita critica del
modello del conoscere inteso come durata ed
estensione lineare. Quest’ultima prospettiva, infatti, suscita una serie di condizionamenti e di determinismi che imprigionano il dinamismo, l’originalità e la creatività delle conoscenze, annullando in
estrema sintesi l’anima stessa del sapere, che è
quella di andare costantemente oltre.
L’epistemologia complessa pone in chiaro le condizioni di autonomia della conoscenza che
Bachelard individua in nuce nella critica allo stile
continuista della durata bergsoniana. Riconoscere
la realtà decisiva dell’istante significa demistificare
20
le condizioni di falsa conoscenza e, in primo luogo,
lo stereotipo di causalità lineare per concedere
spazio alla discontinuità. “Ogni azione, pur semplice che sia, rompe necessariamente la continuità”(G. Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p.
30) presunta della vita. Ciò che accade è l’effettivo
principio da valutare attraverso una topografia di
rotture, crepe, buchi, cesure. Solo nell’istante puntiforme, concentrato di energia, si assicurano quelle condizioni che poi Morin definirà secondo gli
assi della PLURALITÀ/COMMERCIO/DIALOGICA,
(regolazione, regola del gioco, tradizione critica,
conflitti di argomentazioni, Calore, agitazioni,
alea); della LIBERTÀ (libere polemiche, devianze
tollerate, ibridazioni, sintesi, critica, scetticismo,
contestazioni, rivolta) e delle ROTTURE PARADIGMATICHE (buchi neri antropologici, possibilità di
decentramento, ricerca di oggettività, di universalità). E’ l’istante discontinuo, casuale, a sprigionare
energia per nuove configurazioni, a gestire retroazioni, capovolgimenti, sintesi ologrammatiche,
assegnando valore al soggetto che conosce il
mondo, nel momento in cui è condotto ad esaminare rischi e possibilità della conoscenza medesima. Nell’atto del presente si concentrano dimensioni e direzioni plurali che occorre disoccultare.
3. La ragione in esercizio
Nella seconda delle Lezioni messinesi, Morin individua tre idee guida. La prima di esse, denominata
ecologia dell’azione, indica un fatto testimoniato
dall’orizzonte della complessità. “Quando si comincia un’azione, essa entra in un gioco di interrelazione, di interazione e di retroazione con l’ambiente
politico e sociale circostante” (E. Morin, Lezioni
messinesi, cit., p. 33). Non esiste dunque un’intenzionalità lineare, un nesso di continuità tra l’azione
e il suo risultato. Un percorso accidentale che, per
Bachelard, non coincide tuttavia con l’irrazionale e
l’alogico; al contrario, riassume la completezza delle
prospettive conoscitive. L’accidentalità delinea la
libertà della conoscenza, che esplode nell’energia e
nella decisività di atti teorico-pratici. Ogni atto è sintesi, ibridazione, rinnovamento. Non è mai ripresa
del precedente ma è sempre messa all’opera e validazione continua del conoscere. L’istante contestualizza l’essere, offre una configurazione delle arti-
Graziella Arazzi
La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard
colazioni conoscitive.
Ogni geometria del sapere è tuttavia autonoma e
proprio in quanto tale esprime il valore della conoscenza. L’atto istantaneo è certo in quanto inizia;
nello stesso tempo. appare indeterminato e aleatorio, poiché infinite sono le articolazioni.
Mescolanza di regole e di occasionalità, risponde al
criterio di pertinenza, poiché riveste caratteri multidimensionali e multidirezionali ed è coevoluzione di materia e psiche. La nostra vita come la
nostra conoscenza appare quale lunga fila di istanti separati e interviene come integrazione di eventi, rispetto delle differenze mai assemblabili in una
estensione lineare. Affrontare l’incertezza, il dramma della solitudine della conoscenza istantanea,
che non conosce la tranquillità della durata, significa tuttavia anche riconoscere la pluralità infinita
delle costellazioni di istanti, la multidimensionalità
delle organizzazioni conoscitive. In tale contesto,
si ipotizza il quadro di un’educazione dell’istante,
che privilegia la metodologia dell’arborescenza e
che richiama il principi dell’antropoetica, ossia l’interazione tra individuo, specie e società.
Cominciare sempre da capo è la tensione che
guida il cominciare a cominciare, ossia percorrere
delle trame devianti rispetto alle traiettorie prefissate costituisce anche l’obiettivo dell’epistemologia della complessità. La ragione che ricomincia,
completamente coerente nell’assolutezza di un
istante, si apre alla pluralità delle sue forme, è in
grado di recepire la polivalenza del reale e di tradursi in strutture aperte ad ospitare principi che
ritmano il divenire del conoscere. Il logos istantaneo è apertura al nuovo e memoria delle azioni
compiute, dei continui sentieri, in cui il conoscere
si è via via strutturato attraverso traiettorie, scacchi, riprese, deviazioni e turbolenze. Bachelard,
seguendo G. Roupnel, individua la categoria di
germe come quella che concentra particolarità
distinte. Il germe “è una vera unione di contrari,
anche di contraddizioni: il germe è ciò che non è.
E’ già ciò che non è ancora, ciò che sarà solamente. E’ ciò che sarà perché, altrimenti, come potrebbe diventarlo? Non lo è perché, altrimenti, che esigenza avrebbe di diventarlo?” (G. Bachelard,
L’intuition de l’instant, cit., p. 83). Il germe è
materia che si trasforma e potenza che trasforma la
materia, due processi ad un tempo. La ragione che
vive nell’istante è anche ragione futura, imprevedi-
bilità e incertezza. La sperimentazione del tempo,
in tutte le sue argomentazioni, caratterizza la struttura complessa del pensiero, destinato a muoversi
nel futuro, in cui vengono conglobati il presente e
il passato. “L’avvenire non è ciò che viene verso di
noi ma il punto, la mèta, verso cui noi procediamo” (G. Bachelard, L’intuiton de l’instant., cit., p.
69). La conoscenza complessa costruisce nel
tempo risonanze degli istanti, ciò che nel lessico
quotidiano si definisce come abitudine.
L’abitudine non è collocata nello spazio o nella
materia. “L’abitudine – sottolinea Bachelard – è
troppo aerea per radicarsi, troppo immateriale per
dormire nella materia. Essa è un gioco che continua, una frase musicale che è destinata a ripetersi,
perché appartiene a una sinfonia in cui gioca un
ruolo” (G. Bachelard, L’intuition de l’instant, cit.,
p. 69). Il conoscere si esprime nell’istante che lacera ed esplode ma anche nel timbro musicale, nelle
relazioni sonore e ritmiche degli instanti. In tale
contesto, la conoscenza è eco di un passato che
appare voce consolidata e il futuro si segnala come
anticipazione di vaghe melodie. L’abitudine è l’atto del conoscere che si riappropria della sua energia, non spazio continuo ma configurazione e
costellazione, che segna la disimmetria tra passato
e presente, tra certo e incerto. Quale differenza
scorgere tra la conoscenza scientifica, la conoscenza comune, il sapere politico, l’atto creativo? Si
tratta di forme di connessione o di identità plurali
che si configurano come diverse possibilità di connessioni tra ritmi. Se l’istante coincidesse solo con
il presente, non ci sarebbe possibilità di coscienza;
esso, invece, si pone come interruzione, capace di
tesaurizzare in se stessa il passato e di articolare il
futuro. Uno scenario polivoco: rapporti che vengono rivisitati e aperture a nuovi legami, in un’ontologia aperta. Al centro dell’analisi assume pregnanza l’oggettività del ritmo temporale. L’istante
è l’eco del passato, la voce che si ripresenta. In
esso la razionalità è costantemente rinnovata, si
rispecchia nel suo potenziale e, al contempo, delinea l’arborescenza di nuove forme. L’abitudine –
al di là dell’immagine comune di ripetizione lineare e di sequenza ininterrotta di atti – appare come
esercizio alla ragione, percorso multiforme che
non si smarrisce nei suoi meandri ma che è presente a se stessa, attraverso una variegata polisemia. Interruzione di un viaggio, intrapresa di un
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n.16 / 2006
altro cammino, selezione, decisione costituiscono
non solo le categorie mobili del conoscere ma
anche le particolari modalità di strutturarsi e di
orientarsi nel mondo dell’etica, che è sempre
attenzione alle pluralità, rifiuto delle identità uniche e della continuità, maschere in ultima analisi
dell’egocentrismo e del nichilismo. La conoscenza
è tanto più forte e solida quanto più si riconosce
attraverso interruzioni, cesure, discontinuità, turbolenze. L’etica è orizzonte della libertà laddove
evita le pastoie dello scontro o del dialogo e sottolinea la presenza di contesti plurali, a cui il soggetto appartiene nello stesso tempo e dove può esercitare libertà di scelta. Continuità e identità omologano la conoscenza, svuotano il conoscere della
sua potenzialità autoriflessiva e distruggono la
virtù della responsabilità come investitura della
persona che prende decisioni. In questo scenario,
l’istantaneità si fonde con una sorta di memoria
intellettiva che permane anche nelle fratture e nelle
torsioni, poiché il concetto possiede una struttura
essenzialmente ritmica, temporale, manifestata
dalla relazione tra elementi. L’attività etica si fonda
sulle medesime morfologie ed è anticipazione degli
esiti del futuro. Escludendo la mera applicazione
delle norme o l’univocità di un giudizio riflettente,
anticipa mondi e prospettive di vita attraverso la
scelta.
Nella dialettica dell’istante, il soggetto si rafforza
sia sul piano conoscitivo sia su quello della libertà
etica, poiché attraversa pluralità di situazioni disgiunte e dissonanti, mantenendo tuttavia la sua
struttura di focus propulsivo e la sua capacità di
individuare, ibridare, connettere. Il ritrovarsi della
ragione, anche attraverso opere di desertificazione
e ardite soluzioni morali, che non si limitano al
mondo presente, ma postulano mondi futuri, rafforza le strategie di razionalità e la libertà del soggetto. Nella durata spaziale, la forza del pensiero
procede da un passato solido ad un futuro, che
gode della coerenza solo in virtù del passato. Nella
discontinuità epistemologica, è il presente a rendere conto del vigore della ragione passata e della
forza di quella futura, definendo le diverse diramazioni del logos. Precisione e oggettività caratterizzano l’emergenza della ragione, che riassume il
passato e sceglie il futuro, mantenendo sempre la
prerogativa di un’attenta autosorveglianza. Nel
meccanismo fallace della durata, l’istante è consi-
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derato come punto immobile, laddove invece esso
si connota come continuo e duplice oscillazione
tra pensiero e azione, tra conoscere e volere, tra
memoria del passato e segnale del futuro.
Rinascita dello spirito che riprende consapevolezza e gioia etica si dimensionano nel ritmo dell’attimo, dove si legano attenzione e abitudine, particolare e universale, relativo e assoluto. Ragione che
ricomincia, pensiero che rinasce: “il problema è
quello di una ragione che continui a ragionare: che
non proceda per puri automatismi, finendo per
girare a vuoto, per ridursi a un razionalismo senza
pensiero, alla banale stupidità ma sappia accogliere quella singolarità che di volta in volta mette in
crisi l’universalità delle sue leggi, fa fatica a trovare
un posto nel suo sistema, non si lascia attraversare
da una luce che vuole cancellarla in una trasparenza omogenea anziché farne risaltare la particolare
piegatura, l’irriducibile opacità” (G. Berto,
Illuminismo, in “Aut Aut” – luglio-settembre 2005,
n. 327, p. 15. Il numero della rivista era dedicato al
tema “Jacques Derrida. Decostruzioni”). Il problema sollevato da Bachelard sarà poi sviluppato e
tematizzato con altri accenti da J. Derrida.
Bachelard rileva come la ragione sia costante sforzo di riprendersi e ritrovarsi, attraverso un percorso che la pone a contatto con ciò che non si lascia
ridurre. Solo nel continuo reinterpretarsi si manifesta l’essenza della ragione. Essa è forte poiché
ricomincia. Non ha la certezza della continuità ma
l’inquietudine delle cesure e la chiarezza delle
riprese. E’ una ragione che lavora fianco a fianco
delle ombre e delle opacità, che non si lasciano
includere nelle sue categorie; è una ragione che
non cerca soluzioni una volta per tutte. E’ una
ragione che sfugge alla trasparenza, si moltiplica in
percorsi tortuosi, evita le semplificazioni e mantiene il presente nella sua apertura al nuovo, nell’indeducibilità totale e nell’incertezza. Dunque, un
pensiero che dona le possibilità del futuro, una
razionalità etica, poiché fondamentalmente asimmetrica e lontana dal modello di reciprocità, aperta all’accidentalità del donare. L’istante concentra
le relazioni del passato, emerge con tutti i percorsi della ragione, è germe che non deriva dal passato ma lo riattiva e nello stesso tempo feconda l’avvenire. Una conoscenza solitaria e aperta a ciò che
non si lascia dedurre, alle trasgressioni, alle perturbazioni, traccia il percorso del limite, dell’iper-
Graziella Arazzi
La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard
bolico, senza possibilità di sfuggire all’ignoto, alla
decisione, ai risultati della decisione medesima.
L’istante è asimmetrico nei confronti del passato,
perché lo considera ma lo ignora; al contempo,
risulta asimmetrico verso il futuro, perché lo
annuncia ma non lo anticipa. La conoscenza non è
un percorso obbligato, un cammino protetto da
balaustre, configurandosi sempre come una deviazione che si allontana dal punto d’origine e che,
nel suo dilagare, tuttavia lo rammemora. In altri
termini, non è qualcosa che muove verso un futuro determinabile, presentandosi invece come
luminosità ritmica e puntiforme. Ogni volta, la
ragione ricomincia, senza paura di perdere la
dignità, anzi rafforzando la sua armonia, mettendosi alla prova con il rischio, l’emergenza della singolarità, l’eccezione che – solo in una dimensione
ingenua – paiono minacciare le sue possibilità di
orientamento e di rimodulazione. Nell’istante, la
chiarezza lascia il posto all’opacità, permette che la
luce sia toccata dall’ombra, elimina la trasparenza
di un logos lineare e univoco, pronta per essere
trasmessa come sequenza di categorie. L’istante è
groviglio del passato, configurazione di ciò che la
ragione è stata. Nello stesso tempo, segna il rinascere del pensiero, al contatto con ciò che sfugge.
Emerge un’assenza, un’alterità che svolge, tuttavia, il ruolo fondamentale di rendere il sapere consapevole di limiti e profondità. L’abitudine è abito
della ragione, pronta a spogliarsi delle sue certezze per diventare attenta alle fughe, alle deviazioni,
all’incertezza di una scelta, senza ridursi a vuoti
schemi di appropriazione della realtà.
4. Dalla causalità efficiente alla causalità formale: il germogliare della conoscenza
Aperture alla complessità vengono segnalate dagli
snodi che - nel pensiero di Bachelard – caratterizzano una serie di saggi, appartenenti a diversi
periodi. La trascrizione della seduta del 13 marzo
1937 sul tema La continuità e la molteplicità temporale registra la tavola rotonda, organizzata dalla
società Francese di Filosofia e in cui Bachelard ha
come interlocutori, tra gli altri, A. Lalande, I.
Meyerson, D. Parodi. Nel dibattito, contro le totalizzazione dell’unicità e della continuità temporale,
assumendo come contesto di indagine la biologia
e il campo del vivente, l’autore sviluppa una serie
di argomentazioni per caratterizzare quello che
definisce come “essere complesso” (G. Bachelard,
La continuité et la multiplicité temporelle, in
“Bulletin de la Société Française de Philosophie”,
XXXVII, 1937, p. 54). “Un essere complesso si sviluppa in una pluralità di tempi. In ciascuno di questi tempi non si presenta mai come un tutto unico
e omogeneo” G. Bachelard, La continuité, cit, p.
55). La discontinuità caratterizza le funzioni vitali,
poiché la vita si presenta quale struttura di alternanze, in cui il dialogo di essere e di non essere
costituisce l’essenza. Il pluralismo dell’essere complesso si collega in termini necessari a quella che il
filosofo sancisce come dialettica del ritmo.
“Maggiormente un essere diventa complesso e
maggiormente le sue funzioni si diversificano.
Maggiormente si impone la differenziazione, con
maggiore evidenza appare che una funzione agisce
non per sempre, ma in tempi limitati e che la sua
finalità approda al non funzionamento […]. Il
riposo di una funzione è immediatamente il risveglio di un’altra” (G. Bachelard, La continuité, cit.,
pp. 55-56). Un essere complesso è quindi, essenzialmente, essere ritmico, contrassegnato da un
sistema raffinato di alternanze, cesure e riprese. Ai
fautori dell’unicità e del continuismo, Bachelard fa
notare che solo in un percorso senza metodo,
grossolano e senza attenzione sfuggono le connotazioni del vivente complesso, ossia la discontinuità e la molteplicità, che riassumono anche l’azione
della psiche. Assumendo la lezione di P. Valéry,
Bachelard sottolinea la natura accidentale del
conoscere. L’intelletto è qualcosa che accade, un
avvenimento, qualcosa di imprevedibile a tal
punto da segnare il soggetto. “Qualche volta
penso, qualche volta sono”, rimarca Valéry, sancendo una completa sostituzione dell’unicità e
della coesione del cogito con il carattere ritmico
del pensiero. Ne deriva una sorta di dialettica ontologica, che “deve incoraggiarci a moltiplicare le
dialettiche temporali per spiegare il pluralismo psicologico” (G. Bachelard, La continuité, cit., p. 56).
In un orizzonte certamente innovativo, lo spirito e
la vita si configurano come due sistemi che operano per diastole e sistole, attraverso realizzazioni
discontinue, “insieme di ritmi più o meno orchestrati” (G. Bachelard, La continuité, cit., p. 57). La
dimensione olistica, ricorsiva e peculiare dell’au-
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n.16 / 2006
toecoorganizzazione viene chiarita da Bachelard
tramite una serie di metafore: “una corda è composta di fili, un filo è costituito da fibre, ma le fibre
sono costituite da molecole. Ogni legame temporale è designato da un valore di insieme. Il legame
diminuisce di forza quando l’insieme si depotenzia” (G. Bachelard, La continuité, cit., p. 58).
Qualsiasi procedura per misurare il tempo vuoto e
continuo è destinata al fallimento. La temporalità,
dunque, appare come struttura di relazioni, fondate sul ritmo di funzioni. “Il tempo ha in ogni caso
una dimensione correlativa, sintesi dell’osservatore e dell’osservato” (G. Bachelard, La continuité,
cit., p. 59). Bachelard sembra aprire alla logica dei
sistemi viventi e alle modalità di sistemi non banali, successivamente definite da H. von Foerster. In
particolare, pare anticipare alcune formulazioni
della futura teoria della riflessività. “L’osservatore
che si trova, in olimpica indipendenza, al di fuori
del quadro della sua osservazione, non esiste” sottolineerà più avanti P. Watzlawick (P. Watzlawick,
Comunicazione e scienze umane, dattiloscritto
della relazione al Convegno Internazionale di
Studio “La comunicazione umana”, Istituto
Gramsci Veneto, 19-20 settembre 1983, p. 10) . Nel
processo di conoscenza, il soggetto non è estraneo
all’oggetto che conosce ma appartiene al medesimo contesto. “In contrasto con la concezione predominante, l’analisi meticolosa di una osservazione rivela le caratteristiche proprie del suo osservatore” sosterrà – in continuità con le posizioni di
Bachelard – F. J. Varela (F. J. Varela, A Calculs for
Self-Reference, in “International Journal of General
Systems, 1975, p. 24). Strutture autopoieitiche e
dinamica di sistema vengono segnalate, dunque,
dalla riflessione di Bachelard. La realtà è configurazione ritmica, correlata ai ritmi di conoscenza
attraverso fasi di cambiamento che risultano sempre discontinue. Tra le vibrazioni del vivente, i
ritmi della conoscenza e le scansioni di altre realtà
si pone una connessione coevolutiva. Interruzioni
e riprese caratterizzano i legami tra i diversi livelli
ontologici. A sostenere il processo si configura un
modello di causalità formale, che si rende visibile
in avvenimenti discontinui. Cambiamenti di forma
non seguono una traiettoria continua, bensì esplodono in istanti accidentali, rendendo visibile come
il modello della causalità efficiente non sia più
decisivo. Nell’interlocuzione con A. Lalande,
24
Bachelard sottolinea la pluralità di ritmi che caratterizzano la vita di idee, uomini e definisce il
modello vibratorio come una metastruttura di
coordinamento tra i molteplici e infiniti processi. I
ritmi – rileva Bachelard – sono delle realtà oggettive. In tale orizzonte appare delinearsi quella
pedagogia del tempo che ha il compito di costruire percorsi di coeducazione e di coapprendimento, mediante lo sviluppo di legami tra discipline,
saperi, aree di creatività. La natura ritmica, discontinua, della realtà e della conoscenza, la priorità
della causalità formale nei sistemi e nei processi
viventi conducono a esplorare alcuni fattori che
possono rinnovare l’istruzione e l’educazione, illuminando e portando in primo piano quella dialettica dei tempi, dell’istante, della discontinuità e
delle cesure che connota l’articolazione dei processi di coevoluzione.
Nel contesto della Philosophie du Non, Bachelard
considera la dimensione della molteplicità e della
discontinuità come linfa vitale per le dinamiche di
evoluzione dell’apprendimento. “Il pensiero razionale ancorato alla linearità rischia la degenerazione” (G. Bachelard, La Philosophie du Non, cit., p.
127). Di qui la necessità di ipotizzare una pedagogia che educhi alla dimensione temporale, che
orienti alla moltiplicazione dei legami, che formi e
guidi alle articolazioni, alle cesure e alle riprese.
Una prospettiva che l’autore riprende da A.
Korzybski e che ritraduce in un percorso peculiare, dove biologia, logica, teoria della conoscenza
appaiono sottosistemi temporali di un contesto di
cui si registrano vibrazioni, articolazioni e possibilità di sviluppo. L’apprendimento favorisce la strutturazione di processi biologici e neuronali, tramite
l’uso di un linguaggio e aperto e la sperimentazione di stili cognitivi divergenti. In particolare, l’educazione non-aristotelica, quale la che elimina la
causalità lineare e potenzia il multiversum, la discontinuità e la pluralità dei sistemi, ha il fine di
completare le strutture cerebrali, organismo aperto, che trae energia dal sistema complesso della
conoscenza. Coevoluzione di processi, tra stratificazione dei concetti e potenziamento della psiche,
dunque, in una sorta di anticipazione dell’epistemologia di Varela. La complessità richiede che il
maestro debba apprendere insegnando, fuori del
suo insegnamento, in un’apertura al futuro che
conduce a eliminare la semplice trasmissione di
Graziella Arazzi
La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard
nozioni. Una pedagogia che riconosca il cambiamento, la molteplicità di funzioni, la flessibilità di
sistema appare in grado di riconoscere la valenza
della non-identità, il rapporto con l’assenza, il non
conosciuto, l’errore. Il maestro deve possedere la
disponibilità ad accogliere il molteplice, a muoversi in rapporto a tempi e condotte diversificate.
Tutto ciò implica il superamento della psicologia
della forma per codificare in maniera sistematica
“l’educazione alla deformazione”(G. Bachelard, La
Philosophie du Non, cit., p. 132) . Qualsiasi processo formativo deve incorporare il modello dell’incrocio e dell’articolazione, conducendo i ragazzi all’intersezione dei concetti, al confronto, alla
moltiplicazione delle idee. All’unicità delle nozioni
si contrappone la pluralità delle nozioni.
L’obiettivo dell’istruzione è quella di potenziare
l’attitudine a una concettualizzazione arborescente, che definisce la pluralità dei significati di ogni
modello scientifico. Educare all’arborescenza dei
concetti vuol dire eliminare le stereotipie, creando
condizioni di fecondità per lo sviluppo del pensiero. La logica non-aristotelica sviluppa la capacità di
differenziazione, orienta alla scelta tra molteplici
possibilità, orientando l’allievo a sviluppare una
“concettualizzazione aperta, libera” , nettamente
distinta da una concettualizzazione “chiusa, bloccata, lineare” (G. Bachelard, La Philosophie du
Non, cit., 133). Tuttavia, per educare all’attività psichica aperta e per garantire lo sviluppo sistemico
delle facoltà, bisogna formare gli educatori in
un’ottica non-aristotelica. La scienza dei concetti
aperti e articolati, dei saperi in prospettiva conferisce una dimensione temporale al pensiero e fornisce al soggetto una prospettiva di significato.
Educare al contrasto, all’opposizione, differenziando le nozioni, problematizzandole, innesca un processo di fecondità delle strategie dell’apprendimento e delle connessioni neuronali, generando
anche nuove reti semantiche e virtuosi circuiti di
coappartenenza tra alunni e maestro. Pensare a
parte – direbbe A. Koestler, per Bachelard si tratta
di rompere il determinismo dell’intelletto. Creare
collegamenti tra le funzioni cerebrali, eliminare
abitudini di pensiero vuol dire percorrere quella
strada della non-identità che risulta terapeutica
anche per la formazione degli adulti. In che modo
realizzare il processo? Insegnando la tecnica della
segmentazione e dell’articolazione di concetti. Se
infatti valutiamo soggetti con deficit intellettivi,
possiamo osservare come uno dei parametri fondamenti del loro handicap sia soprattutto la perdita o l’assenza della facoltà di divisione e di scomposizione dei concetti così come l’incapacità di
operare connessioni e legami tra le nozioni, in altri
termini una scarsa strutturazione temporale delle
funzioni logiche. Abituare alla deformazione, alla
segmentazione, alla non–linearità del procedere
concettuale significa garantire congiuntamente
due condizioni: l’oggettività della conoscenza e la
creatività della logica. Sbloccare i meccanismi di
invenzione significa anche garantire un corretto
sviluppo del potenziale biopsicofisiologico. I sistemi cognitivi e biologici coevolvono grazie ad un
apprendimento che valorizza la mobilità, la dialettica, l’apertura dei concetti e degli stili d’indagine.
Bachelard sembra riproporre quell’unicità di struttura tra psiche e mondo fisico che nel 1937 indentificava con la nozione di ritmo. Proprio nella seduta della Società Francese di Filosofia, l’autore,
rispondendo alle obiezioni dei sostenitori della
logica dell’identità, assume la posizione di
Pirandello per spiegare la costruzione della personalità. “Per Pirandello – afferma – la costruzione
della persona avviene per coincidenze, dissimili e
disomogenee; e il processo di queste coincidenze
elude la dinamica storica e non segue neppure una
logica evolutiva, ma si esprime nel contatto di
campi d’azione estremamente diversi” (G.
Bachelard, La continuité, cit. p. 77). Di qui il
modello dei tempi sovrapposti, intrecciati e sinergici, che configurano società, psiche e conoscenza.
Nella costruzione della personalità intervengono
fattori molteplici e diversificati. “Ci vogliono parecchi elementi per rendere visibile una personalità.”
(G. Bachelard, La continuité, cit., p. 77), la cui evoluzione è segnata dalla discontinuità, punteggiata
da sfumature ed elementi minuziosi. La formazione dei concetti - così come l’evoluzione della psiche - segue trame arborescenti, ricche di particolari, costantemente ricontestualizzate e aperte su
una molteplicità di orizzonti. Per delucidare il processo, Bachelard trova un esempio calzante nell’opera drammaturgica di Ibsen. La scena si snoda in
un mondo chiaro e coerente; all’improvviso, tra
due porte, si gioca un brevissimo dialogo, lo scambio di parole o frasi paradossali e, in quel frangente, la personalità dei soggetti viene a galla.
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Istantaneità, specificità e dialettica rifiutano la logica lineare e continua del discorso, della conversazione, del trattato per affermare invece le categorie
del pensiero visivo, i linguaggi del messaggio filmico, le cesure letterarie del frammento e del saggio.
Se la narrativa vive nel frammento e nel flash, la
logica si sviluppa nella contraddizione e la conoscenza scientifica si nutre della forma aforistica e
saggistica. Ologramma, principio di ricorsività e di
autoorganizzazione ancora una volta rappresentano il dizionario con cui Bachelard pare confrontarsi. In particolare, la natura relazionale e temporale degli oggetti, della conoscenza e del mondo
conduce Bachelard a definire la soglia dell’elaborazione teorica per cui - come sosterrà più tardi P.
Watzlawick - ciò che accade nell’ambito delle relazioni interumane non è più, quindi, un fenomeno
secondario dell’uomo primariamente inteso in
senso monodico ma, propriamente, l’essenza della
coscienza umana.
5. Un dialogo fra epistemologia della relazione ed etica della scienza
Il percorso tematico sull’avvio alla complessità
trova un ulteriore tassello nel 1938, quando
Bachelard scrive la prefazione all’opera di M.
Buber, L’Io e il Tu. “L’io si risveglia proprio grazie
al tu” (G. Bachelard, Préface à M. Buber, Je et Tu,
trad. fr., Paris, Aubier, 1938, p. 8) Proseguendo la
vocazione a scorgere la complessità, Bachelard
rivela la crisi del modello di causalità lineare, superata dalla categoria di simultaneità e distinzione,
che caratterizza l’incontro di due coscienze.
“L’incontro ci determina - sostiene Bachelard –
non siamo nulla prima di essere messi in relazione” (G. Bachelard, Préface, cit., p. 9). L’io e il tu
non sono poli separabili, punti o centri da congiungere ma se mai appartengono all’ordine delle
forze relazionabili traverso linee vettoriali.
“Bisogna essere in due per comprendere un cielo
blu, per dare un nome all’aurora” (G. Bachelard,
Préface, cit., p. 11), afferma Bachelard, sottolineando come la categoria di reciprocità risponda
alla tipologia della relazione. Tramite la relazione,
il soggetto si rapporta alla comunità umana e al
mondo delle cose. Alla conoscenza-monologo si
sostituisce il dialogo, il calore della relazione e
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dello scambio, in cui il riferimento dell’io al tu e
viceversa fornisce senso al conoscere e all’etica.
Uniti ma diversi, senza possibilità di omologazione
e di sovrapposizione, l’io e il tu vivono una relazione che porta ognuno dei due membri di fronte
all’alterità assoluta dell’altro e genera il processo di
coesistenza e di coappartenenza. Lì, può nascere
lo stile della conoscenza scientifica come comunità di condivisione, di contro alla concezione della
scienza e della tecnica quali attività pratiche, azioni
di sfruttamento del mondo delle cose. Il soggetto
che si rapporta al tu non ha nulla da chiedere, ma
si richiama all’assolutezza della relazione, in cui
anche il tu si apre costantemente all’imprevedibile,
nel solco di un’esperienza che supera il mondo
empirico. Orizzonte dell’incontro e della relazione, l’io e il tu rimangono comunque distinti, pur
nell’inevitabile richiamo reciproco. Emerge un’etica della complessità, capace di elaborare modelli
di comunicazione e di comprensione dell’altro e
pronta a caratterizzare l’illuminazione della
coscienza attraverso l’esperienza di un altro cogito.
Un allontanamento significativo dalle matrici cartesiane dell’identità e dell’ipseità del pensare e un
tentativo di definire il conoscere come struttura
della relazione, come fluido dell’intersoggettività
che sostituisce il rapporto strumentale con le cose.
Nell’io, il soggetto conosce ciò che anche il tu
viene a definire. L’io è essenzialmente apertura alla
relazione, all’essere con altri, con il tu. Isolamento
e solitudine di un intellettuale, che riduce il suo
pensiero a assimilazione del mondo, vengono
superati dall’aurora di una scienza in cui l’incontro
con l’altro, la reciprocità tra due soggetti, il riconoscersi l’uno attraverso l’altro rappresentano il
cuore di una conoscenza superiore a quella empirica. Tutto il percorso si può sintetizzare come la
nascita e il procedere di un pensare attraverso la
coscienza di un altro uomo. Proprio lo slittamento
dell’unitarietà del legame soggetto-mondo (che
Bachelard definisce con il neutro cela, cosalità) alla
complessità della relazione io-tu, in cui ogni elemento è se stesso e l’altro, conduce a evidenziare
la totalità di una scienza che risulta insieme di relazioni. Assume rilevanza un percorso innovativo, in
cui ciò che l’io costruisce è realizzato simultaneamente nelle altre coscienze. La tensione verso l’intersoggettività indica l’apertura alla relazione e
sostiene la messa in atto di dinamiche di respon-
Graziella Arazzi
La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard
sabilità. La conoscenza dell’io è la conoscenza di
un soggetto attraverso l’altro soggetto. Tra l’io e il
mondo si impone la dimensione fondamentale
della responsabilità e della cura. Una dimensione
sistemica, dove azioni e retroazioni sono sottolineate da una curva oscillatoria, da un andirivieni
cognitivo che rende tutti i soggetti protagonisti del
processo etico del pensiero. Il conoscere non
afferra o totalizza il mondo ma si approssima alla
realtà, attraverso la conoscenza di un altro.
Confronto, distinzione nella relazione, scoperta e
costruzione risultano sempre in forte tensione dialettica. Il soggetto conosce ciò che l’altro ha ridestato nel suo processo di coscienza. Essere con,
pensare a parte sono due fenomeni inscindibili
che indicano come l’invenzione scientifica sia scoperta dell’etica, riformulazione di mondi e di stili
di coappartenenza attraverso il continuo rinvio
all’alterità, di fronte alla quale si genera la coscienza e l’azione.
Questo percorso segmentato, in cui Bachelard
oscilla tra il 1937 e il 1940, si abbina a un’altra
esplorazione delle tematiche della complessità,
che emerge da un saggio concepito all’interno
degli incontri Internazionali di Ginevra del 1952.
L’intervento, sul tema La vocation scientifique et
l’âme humaine, si pone di fronte alla questione
della responsabilità etica della scienza. “E’ veramente la scienza responsabile dell’accentuazione
del dramma umano?” (G. Bachelard, La vocation
scientifique et l’âme humaine, in AA.VV.,
L’homme devant la science, Rencontres
Internationales de Genève, Neuchatel, Editions de
la Baconnière, 1952, p. 11). Bachelard individua
come la posizione fenomenologica di M. Scheler,
svalorizzando lo spirito scientifico e attribuendo
alla scienza la dimensione della volontà di potenza,
non riconosca l’intrinseca anima etica della scienza. “La vocazione scientifica non procede senza
coraggio di fronte a un lavoro per natura difficile,
senza la pazienza di tollerare scacchi” (G.
Bachelard, La vocation, cit., p. 13): termini che
connotano il percorso dello scienziato, destinato a
condurre una vita drammatica, costantemente alle
prese non solo con l’errore, ma con il confronto, la
lotta, in un percorso problematico e oscuro. Il
coraggio degli inizi è la dimensione che caratterizza il comportamento del ricercatore che, prima
ancora che sul piano epistemologico, viene con-
notato sul piano etico e dell’agire. Ad animare il
ricercatore non è tanto il narcisismo della curiosità
immediata quanto invece l’impegno costantemente rinnovato dell’uomo di scienza, che sperimenta
percorsi tortuosi, dialettici, nella costruzione e
nell’articolazione del sapere. Nelle opere epistemologiche, Bachelard tematizza il ruolo dell’errore
e l’importanza della conoscenza approssimata, che
costantemente provvede ad epurare le vie del
sapere scientifico dal senso comune e dall’immaginazione immediata. Nel saggio del 1952, quasi in
parallelo alle tematiche della città scientifica dibattute nel Razionalismo applicato (1949), affronta
con stile inconsueto le relazioni tra etica, atteggiamenti scientifici e sistema della conoscenza scientifica. Proprio la fenomenologia -.secondo
Bachelard – dovrebbe mettere in chiaro il carattere di tensione e di sforzo che anima il ricercatore
scientifico, un lavoratore particolare che non
segue mai un percorso rettilineo, una traiettoria
segnata, ma è aperto a interruzioni, a quel processo in cui la cognizione è l’azione di una coscienza
che si interrompe e che viene ripresa con difficoltà. Il pensiero scientifico – ben oltre un cartesianesimo che lo stringe nell’unicità del percorso
lineare o di una visione strumentale che lo interpreta come governo dell’empiria – appare dunque
come “uno dei più forti meccanismi di vettorializzazione e di dinamismo della psiche umana. E’
prospettiva mantenuta, prospettiva ritrovata, ricominciata, corretta, rettificata” (G. Bachelard, La
vocation, cit., pp. 13-14). Bachelard non esita a
paragonare il pensiero scientifico alla natura drammatica del coraggio e della perserveranza, denunciando la riduzione che Scheler, nell’opera del
1928, La posizione dell’uomo nel cosmo, compie,
interpretando la scienza in continuità con i meccanismi degli animali non umani. Al filosofo tedesco
rimprovera di bloccare la conoscenza nelle strettoie di un rigido strumentalismo e di non cogliere
la continua cooperazione di epistemologia ed
etica, di logos e spirito nel dinamismo complesso
della storia delle scienze. La categoria dell’evoluzione lineare non fornisce il contesto per interpretare con esaustività il processo della scienza. Ciò
che infatti anima il lavoro della scienza è la dimensione storica, l’accelerazione del divenire umano
che è il modello della nostra epoca e in cui lo
scienziato si trova immerso. “La vocazione scienti-
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fica diventa un esplicito invito al pensiero rapido al
pensiero in accelerazione. Mette in movimento
energie profonde” (G. Bachelard, La vocation, cit.,
p. 17). Il procedere storico della scienza è caratterizzato non tanto dalla continuità e dalla linearità
quanto dal multiversum, dall’esplodere di tempi e
spazi in direzioni diverse, dalla rapidità e dall’accelerazione, dallo slittamento e dallo spostamento
che rompe con la causalità fissa e con il determinismo sequenziale: alla visione della scienza che
abita nella storia subentra l’agire della scienza
come motore propulsivo della storia medesima.
Scienza e società si coappartengono e la scienza
riesce anche a creare una sorta di struttura, in cui
la società assume consapevolezza del suo dinamismo. Una posizione vicina a quella di Morin quando - in La Méthode IV - afferma che “cultura e
società stanno in mutua relazione generatrice, e in
questa relazione non dobbiamo dimenticare le
interazioni tra individui, i quali a loro volta sono
portatori/trasmettitori di cultura; tali interazioni
rigenerano la società, la quale rigenera la cultura”
(E. Morin, Le idee, cit., p. 21). La dinamica tragica,
tortuosa che Bachelard attribuisce al conoscere
viene registrata da Morin come complessità del
conoscere. “Non è soltanto la conoscenza di un
cervello dentro un corpo, e di una mente entro
una cultura: è la conoscenza generata in modo bioantropo-cultrale da un intelletto/cervello in un
hinc et nunc. Inoltre, non è soltanto la conoscenza egocentrica di un soggetto su di un oggetto, è la
conoscenza di una soggetto che porta anche in sé
anche geno-centrismo, etno-centrismo, socio-centrismo, cioè ha più centri-soggetti di riferimento”
(E. Morin, Le idee, cit., p. 22). Visione ologrammatica e ricorsiva che Bachelard intravede e che
Morin sintetizza in questi termini: “La cultura è
nelle menti individuali, le quali menti individuali
sono nella cultura” (E. Morin, Le idee, cit., p 23).
Tra etica e scienza, il primato della relazione si
esprime come reciproca inclusione, al punto che
“le interazioni cognitive degli individui rigenerano
la cultura, che rigenera tali interazioni cognitive”
(E. Morin, Le idee, cit., p. 23). Nell’ottica di
Bachelard, il lavoro dei ricercatori scientifici produce cultura e dinamiche sociali che condizionano
la loro stessa operatività, configurando un procedere articolato, che vive di cesure, torsioni cambiamenti, balzi in avanti, riprese. In questo percor-
28
so a ramificazioni, imprevedibile e tanto più significativo quanto non predeterminato, lo spirito
scientifico – che mette al bando l’autoreferenzialità a favore di un processo relazionale e sistemico –
introduce non solo delle risposte ma anche nuovi
tipi di problematizzazione. Ne deriva un percorso
originale, dove l’invenzione dell’invenzione crea
condivisione e stratificazione di conoscenze e “la
scienza non solamente procede, ma sembra
costantemente ricominciare, partire da nuovi inizi”
(G. Bachelard, La vocation, cit, p. 19). Il dinamismo che conduce scienza e società a coappartenersi viene definito da Bachelard survitalisation,
proprio a rimarcare quella specificità di interazione
bio-antropo-socio-cultutrale che elimina il rischio
della tecnica strumentale, dell’isolamento del cogito, della scissione tra vitalismo e razionalismo, tra
psiche e vita. Dinamica del paradosso, che regge
due estremi identici e diversi, certezza del conoscere e rischio del processo, pensiero libero e al
contempo fortemente “integrato nella scienza dell’epoca” (G. Bachelard, La vocation, cit., p. 21). In
modo analogo, la specializzazione non è frammentazione, parcellizzazione, scansione lineare ma si
rapporta necessariamente alla totalità di un sistema. Lungi da essere mutilazione dello spirito, si
presenta come espressione di una cultura articolata. Infatti, “qualsiasi specializzazione mette in moto
dei pensieri che hanno le loro radici in campi di
cultura allargati” (G. Bachelard, La vocation, cit.,
p. 22). Ogni studio specialistico non elimina dunque il sapere aperto ma si contestualizza proprio
grazie al sapere complesso. In tale orizzonte,
occorre rivalutare le categorie di rapidità, accelerazione, specializzazione, rischio, come parametri
peculiari del procedere tortuoso e complesso della
scienza. A gestire la mappa del discorso bachelardiano appaiono alcune coppie di opposti: evoluzione/storicità; razionale/alogico; pensiero libero/pensiero appartenente a una comunità definita;
specializzazione/cultura aperta e per ultimo certezza/rischio. Se l’attività scientifica comporta il
debordare necessario di tempi, l’invasione di altri
luoghi e spazi rispetto al punto di partenza, vivendo nel principio dell’azione differita e della molteplicità temporale, “i suoi rischi sono molteplici”
ma appaiono organizzati: “A ben vedere – sottolinea Bachelard – si può considerare un programma
di ricerca come un’organizzazione dei fattori di
Graziella Arazzi
La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard
rischio” (G. Bachelard, La vocation, cit., p. 24),
compito cui risponde principalmente la vocazione
scientifica. La rapidità della scienza non è considerata come negatività, poiché non si tratta di adeguare la società alla scienza ma di mettere in movimento - attraverso la scienza - le possibilità di cambiamento della società stessa. Scienza e società si
richiamano vicendevolmente, sono in relazione di
reciprocità. Accelerare i pensieri, garantire dinamismi psichici significa, in altri termini, valorizzare il
destino etico della società, pluralizzare i punti di
confronto, corroborare il senso di corresponsabilità, moltiplicare le possibilità dell’umanesimo declinato, che si prendere carico delle differenze, del
mondo e delle altre specie. L’adesione alla città
scientifica non avviene nel segno dell’universale
cartesiano, che paralizza l’intelletto e ne esclude la
struttura sistemica ma esplode come interumanismo e interrazionalismo, principi incarnati, logiche in atto, universalità concrete, attuazione della
reciprocità conoscitiva ed etica. “La scienza continua la scienza nel momento stesso in cui si rinnova” (G. Bachelard, La vocation, cit., p.28). Un contesto complesso, quindi, in cui operano le forze di
trasformazione e muta anche il concetto di insegnamento scientifico, che non avviene più nella
segretezza delle aule scolastiche ma nelle articolazioni della società medesima. “Noi dobbiamo il
nostro sapere ai nostri allievi” (G. Bachelard, La
vocation, cit., p. 28). Il maestro è l’allievo dell’allievo, in un percorso dove accelerazione e intensificazione della vita si uniscono a percorsi di conoscenza etica che possono rovesciare il vecchio
detto “la scuola deve preparare alla vita” nel nuovo
programma di rispetto, reciprocità e ricchezza
conoscitiva, racchiuso in una frase significativa: “la
società ha come fine la scuola” (G. Bachelard, La
vocation, cit., p. 29). Il continuo rinvio tra etica e
scienza che Bachelard rileva nell’opera del 1952
rappresenta anche un ulteriore indizio di apertura
alla complessità. Esso ci riporta alla definizione di
frontiera scientifica declinata nell’intervento all’ottavo Congresso Internazionale di Filosofia, svoltosi
Praga dal 2 al 7 settembre 1934. In quel contesto,
intervenendo sulla Critique préliminaire du concept de frontière épistémologique, Bachelard afferma: “La frontiera scientifica non è tanto un limite
quanto invece una zona di pensiero particolarmente attiva, un campo di mediazione e di relazio-
ne. In direzione opposta procede, invece, la nozione metafisica di frontiera, che appare terreno neutro, senza possibilità di sviluppo, priva di significato” (G. Bachelard, Critique préliminaire du concept de frontière épistémologique, in “Actes du
huitème Congrès International de Philosophie”,
Prague, 2-7 septembre 1934, Prague, Comité
D’Organisation du Congrès, 1936, p. 5). Tra i vari e
differenti saperi si generano specularità, diffusione
di linee di significato, coevoluzione. Non è difficile
ritrovare la configurazione che Morin delinea, a
proposito delle rotture, delle crepe, delle trasformazioni nel determinismo culturale, laddove introduce il modello dei brodi di cultura che “favoriscono contemporaneamente:
a) l’autonomia relativa delle menti;
b) l’emergenza di conoscenze e idee nuove;
c) lo sviluppo di critiche reciproche” (E. Morin, Le
idee, cit., p. 31).
La frontiera epistemologica segna un arresto del
pensiero, che immediatamente procede però
verso un’altra deviazione: “più che di ostacolo in
assoluto si dovrebbe parlare in termini di programma, più che d’impossibilità in termini di virtualità” (G. Bachelard, Critique, cit., p. 8). Diventa
un valore positivo se si riesce a tradurre l’operatività di ogni scienza in una progettualità polisemica,
in grado di sostenere rotture, deviazioni, trasformazioni, in altri termini se interviene una sorta di
piano quinquennale, a lungo termine, della ricerca
scientifica. La natura del conoscere come processo
complesso introduce il modello della negoziazione
integrativa dei saperi e delle decisioni. Limiti insuperabili segnalano un percorso conoscitivo male
impostato e indicano l’urgenza di mettere in pratica una pedagogia che educhi al cambiamento, alla
mescolanza, all’ibridazione dei concetti e alla traduzione dei modelli, all’utilizzo di processi di
ricorsività e di reciprocità speculativa.
Il decennio degli anni Trenta, per Bachelard, è
contrassegnato dall’impegno delle categorie conoscitive e degli strumenti della riflessione scientifica
in senso non cartesiano. Il registro utilizzato pare
abbandonare il dizionario della causalità lineare
per ritematizzare problemi e dinamiche all’interno
del lessico della causalità formale.
* Le traduzioni dei testi di Gaston Bachelard sono
dell’autrice dell’articolo.
29
30
Mario Quaranta
Edgar Morin: abitare eticamente la natura
Focus: epistemologi eretici del ’900
1. Effetti della globalizzazione nelle istituzioni formative e nella cultura
È opinione ormai consolidata che l'inizio del
nuovo Millennio sia caratterizzato da una rivoluzione che coinvolge tutti i campi del sapere, della
vita economica, civile, politica. È in atto un processo di globalizzazione che ha via via assunto un
carattere irreversibile, e ha aperto una nuova fase
nella vita dei popoli, delle nazioni, degli uomini di
tutti i continenti; un processo accelerato in maniera esponenziale dalla diffusione dei media informatici. Molte e contrastanti sono state le interpretazioni della globalizzazione, degli effetti negativi o
positivi che essa produce o può determinare a
lungo termine, della possibilità o meno che si
possa regolarne lo sviluppo, e così via. Ma su un
punto concordano gli studiosi: la scienza e la tecnica sono decisive per lo sviluppo economico e nel
confronto fra le diverse aree geopolitiche.
Oggi si parla della tendenza in atto verso una
“società della conoscenza”, ossia una società che
non solo promuove la ricerca scientifica per far
fronte alle sfide che impone un mondo globalizzato, ma considera la scienza l'elemento strategico
dello sviluppo, il terreno in cui l'Occidente si gioca
la sua stessa possibilità di mantenere l'egemonia
nel mondo, specie rispetto alle sfide emergenti di
Paesi come la Cina e l'India. La globalizzazione ha
avuto effetti molto rilevanti anche nella cultura;
essa ha trasformato più o meno radicalmente la
struttura di discipline consolidate da una lunga tradizione come il diritto, la sociologia, l'economia;
inoltre, ha provocato una ridefinizione di profes-
sioni tradizionali e creato nuove professioni. E
tutto ciò ha imposto all'attenzione il problema dei
cambiamenti da introdurre nelle istituzioni formative come l'università.
In questi ultimi decenni i Paesi occidentali hanno
intrapreso delle riforme più o meno radicali dei
sistemi scolastici tradizionali; in particolare, in tutti
i Paesi dell'OCSE tali sistemi non sono più completamente centralizzati, e ciò non è connesso con
l'esistenza di Stati federali, perché anche in Stati
centralizzati si va affermando un modello di decentralizzazione dei poteri decisionali alle scuole. In
altri termini, la sfida della globalizzazione impone
ai sistemi formativi (in particolare all'università)
una riforma culturale volta alla comprensione,
prima di tutto, delle nuove caratteristiche dell'impresa scientifica in dimensione planetaria, e degli
effetti che ciò determina nella stessa esperienza di
apprendimento.
L'apprendimento non si configura più come una
semplice acquisizione di contenuti precostituiti in
ambiti disciplianri delimitati secondo criteri statici,
ma diviene essa stessa azione di interconnessione
disciplinare e creazione di nuovi percorsi cognitivi.
Per tale motivo la logica dei sistemi formativi deve
adeguarsi alla nuova dimensione “globale” in cui
operano, caratterizzata dal passaggio dalla stabilità
e continuità all'instabilità e al mutamento continuo. Gli investimenti nell'istruzione e nella formazione si sono rivelati decisivi sia per lo sviluppo
dell'economia di un Paese sia per avere un ruolo
importante nella mondializzazione dei mercati. È
ciò che hanno compreso tempestivamente quei
Paesi oggi emergenti; ad esempio, la Corea del Sud
31
n.16 / 2006
è già diventata una potenza economica, ed è all'avanguardia mondiale nella produzione di componenti elettroniche.
Nel campo dell'epistemologia e della filosofia
abbiamo assistito all'eclissi di modelli razionalistici
che hanno dominato nella cultura europea dal
Settecento al Novecento: dal meccanicismo al
positivismo, al neopositivismo fino ai post-positivisti, orientamenti diversi ma unificati da una stessa
idea di fondo: che la razionalità scientifica sia in
grado di fornire una conoscenza esauriente del
mondo naturale e di quello umano, e conseguentemenete di progettare comportamenti individuali
e collettivi razionali. In questa prospettiva la storia
della scienza avrebbe dovuto rendere conto delle
ragioni che presiedono allo sviluppo della scienza,
alle rivoluzioni scientifiche e così via. Questi orientamenti sono stati abbandonati sia dalla critica epistemologica interna alla scienza espressa nel corso
di quest'ultimo trentennio, in cui un ruolo critico
decisivo ha svolto la teoria della complessità, sia da
una nuova dislocazione dell'impresa scientifica
nell'ambito della società.
In altri termini, si può dire che sia le filosofie scientifiche sia la filosofia della scienza (o le epistemologie) hanno concluso il loro ciclo storico. Il neopositivismo ha delineato una filosofia scientifica
che ha esercitato un ruolo essenziale nella cultura
europea nel corso degli anni Trenta-Quaranta (e
oltre, in Italia). Esso ebbe come obiettivo fondamentale l'analisi critica della conoscenza della
natura, al cui interno procedette a demarcare le
conoscenze che rispondono a problemi autenticamente scientifici e altre che rispondono a problemi per principio metafisici, ossia illusori. Secondo
tale orientamento, il filosofo ha due compiti: formulare con rigore i problemi della scienza e dimostrare l'insignificanza di quelli metafisici, e a tale
scopo dispone di due strumenti: l'analisi del linguaggio e la verifica delle proposizioni (principio
di verificazione).
Questa corrente si collega non solo al positivismo
ma anche a Kant; precisamente alla dialettica della
ragione, nella quale Kant mette in rilievo che la
ragione formula problemi di cui non conosciamo
(non possiamo conoscere) la risposta. Questo
indirizzo, proprio perchè ha attribuito un valore
conoscitivo alle sole proposizioni scientifiche, è
stato considerato una “filosofia scientifica”. (Il suo
32
documento programmatico del 1929 ha per titolo:
La concezione scientifica del mondo). Ora, questa immagine della scienza ritenuta capace di trasformarsi in sistema formalizzato chiuso, in grado
di raggiungere un livello perfetto, ossia un assetto
definitivo, è stata sottoposta a critiche radicali nel
corso del Novecento, critiche che hanno posto in
evidenza i limiti di un tale razionalismo dogmatico,
della sua pretesa di determinare quali caratteri
deve avere una teoria per poter essere qualificata
come scientifica.
Critiche analoghe sono state estese anche alla filosofia della scienza sorta dopo e in contrasto con il
neopositivismo, il cui obiettivo fu di riflettere sulle
scienze nella loro concrete e storiche manifestazioni, riconoscendo che esse hanno un loro linguaggio proprio e metodi diversi. In altri termini,
l'oggetto della filosofia della scienza è il “fenomeno scienza” studiato nel suo sviluppo e nel suo
interno intreccio fra disciplina e disciplina. Nella
cultura italiana questa posizione è stata espressa
da un gruppo di filosofi, fra cui ricordiamo:
Ludovico Geymonat, Antonio Banfi, Lucio
Lombardo-Radice, Francesco Barone.
2. I filosofi della complessità critici della
“ragion classica”
Un ruolo decisivo nella critica delle epistemologie
dell'Otto e Novecento ha svolto in Italia il dibattito
sul post-moderno, che ha caratterizzato in larga
misura la cultura filosofica italiana durante il
decennio 1980-1990, con le due varianti in cui si è
espresso, il “pensiero debole” e il “pensiero della
complessità”; esso ha avuto una notevole continuità di interventi e di contributi teorici, e ha portato
fino alle estreme conseguenze la critica della
“ragion classica”, ossia, nel campo epistemologico,
del razionalismo approdato conclusivamente al
neopositivismo e sue varianti.
L'opera a più voci, La sfida della complessità
(Milano 1985), costituisce la prima, organica sistemazione di questo nuovo orientamento. Esso può
essere considerato il punto d'approdo di un ventennio (dagli anni Sessanta ai Settanta, e oltre) di
ricerche e di discussioni su alcuni nodi teorici (filosofici ed epistemologici) fondamentali: dai dibattiti sulla dialettica, a quello sui modelli di razionalità,
Mario Quaranta
dalle discussioni sul programma scientifico di Marx
ai rapporti tra scienza e potere (per citare i più
noti). La teoria della complessità si configura, dunque, come il punto di confluenza e risistemazione
di una molteplicità di motivi teorici, che vanno
dalla critica alla tradizione filosofica razionalistica
europea fino alla revisione di consolidati paradigmi storiografici di stampo idealistico. Il riferimento
costante dei teorici italiani della complessità è
stato il lavoro filosofico ed epistemologico di
Edgar Morin; un filosofo che è stato, per così dire,
“adottato” dalla filosofia italiana, secondo un
modulo non nuovo nella cultura italiana. Basterà
ricordare nel primo Novecento la presenza di
Georges Sorel, il cui pensiero ha alimentato il
dibattito teorico all'interno del socialismo ed è
stato accolto da un orientamento politico importante come il sindacalismo rivoluzionario.
La teoria della complessità ha avuto un notevole
impatto sulla cultura italiana ed è apparsa, in larga
misura, come la ratifica di una situazione ormai
matura, che ha segnato il passaggio da una fase di
critica della modernità caratterizzata dal rifiuto
radicale d’ogni “ragion metafisica”, della sua pretesa di conoscere-dominare il mondo, a una fase
propositiva, in cui ha fornito risposte nuove ai problemi tradizionali e ha individuato nuovi problemi.
L'idea di semplicità, ha sostenuto Mauro Ceruti in
Il vincolo e la possibilità (1985) è stato l'obiettivo
perseguito dalla scienza e dall'epistemologia
moderna da Cartesio ai neopositivisti. Tale modello
epistemologico è fondato su un'idea di legge scientifica come luogo in cui si svela l'ordine nascosto
(una posizione che già Anassagora espresse nell'affermazione: “Ciò che si manifesta è la visione di ciò
che è nascosto”), e di un metodo capace di demarcare ciò che rientra e ciò che fuoriesce dalla razionalità scientifica. Il compito dell'epistemologia è
stato quello di individuare il codice nascosto (la
legge, appunto) per prevedere il futuro.
Così, a una concezione causalistica dei fenomeni,
Ceruti ne contrappone una “vincolistica”, secondo cui
«la storia naturale si delinea come una storia di produzione reciproca di vincoli e di possibilità attraverso
la coevoluzione di sistemi viventi (autonomi) e dei
loro ambienti, e dei differenti sistemi viventi (autonomi) all'interno di particolari ecologie». I vincoli sono
regole di un gioco che ci dicono ciò che può succedere, non ciò che necessariamente accadrà.
Edgar Morin: abitare eticamente la natura
La complessità, dunque, risponde all'urgenza di
una riflessione volta non solo alla ricerca di nuove
risposte alle vecchie domande, ma soprattutto a formulare nuovi tipi di domande, ossia nuovi modi di
interrogare la natura. In questa direzione, la scienza
è sì formata, come dice Galileo, di “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni”, ma le une e le altre
non sono leggibili solo in termini deterministici,
tanto che ora ciò che era considerato residuale,
casuale, aleatorio, si è imposto come centrale nel
discorso scientifico. La complessità, afferma Ceruti,
è soprattutto una sfida, nel senso che provoca
«un'irruzione dell'incertezza irriducibile nelle nostre
conoscenze». È un’avventura della conoscenza, e «in
questo senso il delinearsi di un universo incerto
non è tanto il sintomo di una scienza in crisi, ma
soprattutto l'indicazione di un approfondimento
del nostro dialogo con l'universo».
In altri termini, «le nuove strategie costruttive della
conoscenza contemporanea, dichiara Ceruti,
hanno messo in crisi l'idea che l'universo categoriale della scienza sia unitario, omogeneo al suo
interno, fissato una volta per tutte». In tal modo le
antinomie, i paradossi, le presunte insolubilità di
certi problemi come i famosi sette “ignorabimus”
di Du Bois-Reymond non sono, secondo questa
prospettiva, l'espressione di un limite ultimo delle
conoscenze umane, di uno scacco della ragione,
dovuto al fatto che non possiamo dare un fondamento ultimo alla conoscenza scientifica, ma
«appaiono piuttosto collocabili nelle matrici
costruttive e nei meccanismi costitutivi stessi delle
conoscenze».
Secondo questa prospettiva, il problema epistemologico fondamentale non è più quello di trovare un momento di sintesi dei diversi punti di vista,
ma «piuttosto quello di comprendere come punti
di vista differenti si producano reciprocamente».
Così, all'eclissi dell'immagine classica di una razionalità capace, attraverso sintesi sempre più ampie,
di esaurire la comprensione del mondo, e di fornire regole di condotta certe perché commisurate a
obiettivi predeterminati e razionalmente fondati, si
contrappone l'immagine di una ragione “plurale”.
In altri termini, la decostruzione dell'immagine di
razionalità monolitica (che si è estesa poi alle altre
categorie connesse, come quella di progresso e di
tempo lineare) ha esaltato le differenze; differenze
che non sono mediabili o unificabili da una logica
33
n.16 / 2006
dialettica, come quella hegeliana (e sue varianti),
ma sono irriducibilmente costitutive dei vari campi
della conoscenza. Il problema fondamentale non è,
oggi, quello di rendere omologhe tali differenze, ma
di accettarle e metterle in feconda interazione tra loro.
L'epistemologia tradizionale, nelle sue diverse
varianti, non ha più una presenza e incidenza nella
cultura come negli anni precedenti; assistiamo
piuttosto a una sua “accademizzazione”, a un interesse più marcato verso la storia dell'epistemologia, e soprattutto all'emergere di filosofie legate
alle singole scienze: la filosofia della fisica, della
biologia, della matematica, e così via. Non solo: si
è allentato anche l'interesse per i modelli di storia
della scienza, per il problema delle condizioni che
determinano una rivoluzione e le caratteristiche
della scienza “normale”; problemi che hanno alimentato il dibattito provocato dai post-positivisti.
3. Esigenza di una filosofia della natura
Attualmente, dopo i dibattiti provocati nel campo
dell'epistemologia dai post-positivisti, abbiano assistito se non a un'eclissi dell'epistemologia, a un
venir meno di quella centralità che si era conquistata nella cultura europea e italiana. Le epistemologie tradizionali hanno dato via via risposte diverse e diversamente motivate sui caratteri specifici
della razionalità scientifica, sulle ragioni del suo
progresso, sui motivi di diversità o superiorità delle
forme di conoscenza, sulle condizioni delle rivoluzioni scientifiche. Ma i diversi modelli di razionalità
scientifica per rendere ragione dello sviluppo della
scienza sono risultati insufficienti o inadeguati
rispetto ai caratteri assunti dalla scienza odierna.
Oggi la scienza è caratterizzata da uno sviluppo
rivoluzionario permanente, non descrivibile in
modi e tempi preordinati. Già Gaston Bachelard
sottolineò, nell'opera Il materialismo razionale
(1953), che nel corso dei primi trent'anni del
Novecento c'erano stati così grandi scoperte scientifiche ed epistemologiche - Planck, Einstein,
Heisenberg, Bohr, De Broglie -, per cui si poteva
affermare che «dieci anni del nostro tempo valgono
dieci secoli delle epoche anteriori». Nella seconda
metà del secolo scorso abbiamo assistito a una ulteriore accelerazione dello sviluppo scientifico. Non
solo: scoperte e innovazioni in un campo si riverbe-
34
rano in altri, contribuendo a modificare più o meno
radicalmente i singoli saperi.
Stiamo attraversando un momento in cui la scienza ha assunto un ruolo così decisivo nell'organizzazione economica e nella vita politica e civile di
tutti i Paesi, da sollevare problemi del tutto nuovi
rispetto ad alcuni decenni or sono. L'aspetto del
tutto nuovo è oggi rappresentato dai rapporti che
si stanno istaurando fra l'impresa scientifica nel
suo complesso e la società. Per la prima volta l'umanità si trova a dover affrontare il problema della
compatibilità dello sviluppo scientifico con le
risorse esistenti sulla Terra; problema che impone
soluzioni di enormi problemi economici, politici e
culturali. In varie opere Morin ha affrontato questo
problema, che via via è diventato uno dei centri
della sua riflessione filosofica ed epistemologica.
In Terra-Patria (1993) ha compiuto un'analisi
impietosa dell'“era planetaria”, della sua agonia,
delle nostre finalità terrestri, nella persuasione che
«oggi il problema è sapere se le forze di regresso e
di distruzione avranno la meglio su quelle di progresso e di creazione, e se non abbiamo superato
una soglia critica nel processo di accelerazione/amplificazione, che ormai potrebbe condurci
alla singolarità esplosiva». E più oltre: «La crisi planetaria è il nucleo dei processi incontrollati, i quali
sono a loro volta il nucleo della crisi planetaria.
L'ascesa delle minacce globali mortali è uno dei
caratteri della crisi planetaria».
Morin non è un catastrofista, la via di uscita che
propone è un lavoro (politico, culturale, filosofico,
ecc.) di lunga durata, cui debbono essere chiamati
tutti gli uomini per passare a una nuova rinascita,
«possibile ma non ancora probabile», ossia «la
nascita dell'umanità, che ci farebbe uscire dalla
preistoria dello spirito umano, che civilizzerebbe la
Terra e che vedrebbe la nascita della società/comunità planetaria degli individui, delle etnie, delle
nazioni». In altri temini, occorre proseguire nel
processo di ominizzazione e civilizzazione della
Terra. D’altra parte, tale sviluppo non è inscritto
nella storia dell'uomo, perchè «il progresso stesso
è toccato da un principio di incertezza»; è una scelta che può essere ragionevolmente compiuta se
disponiamo «di principi di speranza nella disperazione»; la condizione in cui ora ci troviamo. Ed è a
questo punto che Morin indica i principi di un possibile «vangelo della disperazione» che ci consenti-
Mario Quaranta
rebbe di «concepire una nuova tappa della ominizzazione, che sarebbe, allo stesso tempo, una nuova
tappa della cultura e della civiltà».
Ma di fronte alle catastrofiche previsioni cui va
incontro la Terra se continua l'attuale modello di
progresso delle società, della scienza e della tecnica, è sufficiente richiamarsi alla necessità di una
modificazione antropologica dell'uomo, alla formazione di una “coscienza planetaria” capace di
orientare l'uomo verso fini diversi da quelli che ha
finora accettato e che sono stati socialmente stabilizzati da una lunga pratica sociale e culturale?
A mio parere, i filosofi e gli epsitemologi dovrebbero concorrere ad elaborare una filosofia della natura in grado di far comprendere il significato dell'impresa scientifica, i problemi completamente nuovi
cui l'umanità si trova di fronte. Viviamo in um
mondo in cui le previsioni scientifiche sono perlopiù ignorate o non credute da larga parte degli
uomini. Il messaggio ritenuto “catastrofista” che la
scienza ci fornisce su un possibile esito di distruzione della vita sulla Terra, e che ha indubbie, solide
ragioni scientifiche e fattuali, sembra non determinare, per regioni già individuate dagli studiosi, una
modificazione nei comportamenti dei governi, e a
maggior ragione dei popoli. Ed è indubbio che siamo
di fronte al problema cruciale dei prossimi decenni.
D'altra parte è anche vero che riconoscere un'attualità alla filosofia della natura può costituire un
motivo di sorpresa e sollevare un atteggiamento
scettico; si tratta, infatti, di un sapere che è assente da molti decenni nelle discussioni filosofiche.
Nelle varie immagini della scienza veicolate nel
corso del Novecento non c'è stato un grande spazio per la filosofia della natura; solo in questi ultimi anni sono stati pubblicati alcuni libri sull'argomento perlopiù di carattere storico. (Fra i più
recenti lavori, ricordiamo quello di Pierre Hadot, Il
velo di Iside. Storia dell'idea di natura (Torino
2006) e quello di Mario Alcaro, Filosofie della
natura. Naturalismo mediterraneo e pensiero
moderno, Roma 2006).
Il razionalismo novecentesco ci ha fornito un'immagine della scienza in cui la filosofia ha avuto o
una funzione ancillare, o metodologica, o di sintesi dei risultati delle scienze. «La metodologia contemporanea», afferma Nicola Abbagnano nella
“voce” “Filosofia della natura” nel suo Dizionario
di filosofia, «ha sempre più sottolineato l'illegitti-
Edgar Morin: abitare eticamente la natura
mità di astrarre le proposizioni della scienza dai loro
contesti e di trovare in esse significati che vadano al
di là di quanto i concetti stessi autorizzano. Da questa limitazione metodologica, il compito di una filosofia della Natura viene tagliato alla base».
Dunque, secondo la prospettiva fino ad oggi dominante, la filosofia della natura non ha avuto una
presenza significativa; essa è stata spesso “sostituita”, per così dire, dal problema del rapporto tra
religione e scienza; un argomento, questo, presente in tutti gli orientamenti novecenteschi (Peirce,
inizia il saggio L'ordine della natura del 1878, con
questa affermazione: «Qualsiasi proposizione che
concerna l'ordine della natura deve più o meno
sfiorare la religione»).
D'altra parte, rari e senza una grande eco sono stati
i tentativi compiuti da alcuni filosofi nel corso del
secolo scorso, di delineare una filosofia della natura.
Un posto particolare va riservato a Gaston
Bachelard il quale, accanto alla elaborazione di una
epistemologia, ha pubblicato opere sull'acqua, la
terra, l'aria, il fuoco, di cui fornisce un'interpretazione transdisciplianare, rivalutando così una possibile
filosofia della natura, sia pure molto diversa da quella tradizionale. Inoltre, ricordiamo l'opera di Nicolai
Hartmann, La filosofia della natura (1950), in cui
l'autore attraverso un'analisi di concetti scientifici
come quelli di tempo, forza, massa, estensione,
ecc., cerca di scoprire il valore ontologico della
razionalità scientifica. Più recentemenete, l'epistemologo Evandro Agazzi nell'opera Filosofia della
natura. Scienza e cosmologia (1995) ha sostenuto
che gli stessi risultati considerati non definitivi cui è
giunta la scienza attuale, hanno posto in evidenza la
leggitimità teorica della filosofia della natura, di cui
traccia le caratteristiche fondamentali.
Sul piano storico, possiamo dire che la filosofia
moderna ha espresso sostanzialmente due modelli di filosofie della natura; il primo, caratterizzato
da un “imperialismo della scienza”; il secondo da
un “imperialismo della filosofia”. Il primo esalta la
razionalità scientifica come l'unica, autentica conoscenza del mondo; il secondo assegna un posto
privilegiato alla filosofia e uno subordinato alla
scienza. Il primo è stato espresso dal meccanicismo, che ha esteso a tutta la natura il modello di
conoscenza delle scienze fisiche (la meccanica); il
secondo è rappresentato in modo eminente dalla
Naturphilosophie romantica (Goethe e più ancora
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n.16 / 2006
Schelling), ma soprattutto da Hegel, la cui
Enciclopedia delle scienze filosofiche (1816) costituisce l'opera più organica in questa direzione.
Una ripresa del discorso sulla filosofia della natura
può iniziare, come hanno fatto i due studiosi citati, da una riflessione critica sui diversi modelli che
la storia del pensiero filosofico e scientifico ha via
via elaborato. In questo caso accenniamo alla posizione espressa da Moritz Schlick, il maggiore rappresentante del Circolo di Vienna, un movimento
in cui è forte l'interesse per la filosofia della natura, come ha documentato Ludovico Geymonat nell'opera del 1934 La nuova filosofia della natura
in Germania. Schlick nell'opera Lineamenti di
filosofia della natura pubblicata postuma nel
1948, ma con materiali dei suoi corsi universitari
dei primi anni Trenta, ha sostenuto la tesi che «la
filosofia della natura non è scienza essa stessa, ma
un'attività diretta alla considerazione del significato delle leggi di Natura».
Il compito della filosofia della natura, afferma l'epistemologo viennese, è duplice: «1) produre una sintesi delle conoscenze acquisite, per assicurare una
visione unitaria della natura; 2) fornire una giustificazione gnoseologica dei fondamenti della scienza
naturale». Egli precisa che il compito fondamentale
delle scienze naturali è quello di conoscere tutti i
processi naturali, compresi i principi generali, per
cui «non esiste nessun altro tipo di giustificazione
precipuamente filosofica dei fondamenti». Ma
anche accettando ciò, è possibile sostenere una
possibile complementarità fra i due campi del sapere. Infatti, dichiara Schlick, «si possono distinguere
due tipi d'interessi intellettuali, l'uno volto al controllo della verità delle ipotesi, l'altro orientato
verso la comprensione del loro senso».
A nostro parere, oggi è urgente mettere in evidenza proprio il senso della filosofia della natura, entro
cui si colloca l'attività dell'uomo come parte integrante della natura. In altri termini, va stabilita una
feconda alleanza tra scienza, filosofia e filosofia
della natura. Ludovico Geymonat, che dopo la laurea in filosofia e in matematica, è andato a Vienna
per seguire le lezioni di Schlick, nell'opera Scienza
e realismo (1977) ha affrontato questo problema
sostenendo due tesi: la prima, che l'uomo fa parte
integrante della natura; «ovviamente è un fattore il
quale possiede una propria specificità entro il processo anzidetto, sicchè l'intervento umano per
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modificare la natura è a pieno titolo un intervento
“dall'interno” e non “dall'esterno”». La seconda,
che «il compito di elaborare una concezione dell'universo nuova, da sostituirsi a quelle ormai
incompatibili con il nostro patrimonio scientificotecnico, spetterà a un altro tipo di studioso, che
potremmo qualificare come scienziato-filosofo.
L'importante è, comunque, che tale nuova concezione risulti aperta, flessibile, capace di fare ininterrottamente tesoro di tutte le rettifiche che la
scienza le suggerisce».
Ma chi ha posto in termini nuovi il problema di
una filosofia della natura, stabilendo una rottura
con le precedenti, è stato il filosofo Hans Jonas; la
sua posizione può essere considerata essenziale
nella ricostruzione delle riflessioni di Morin sulla
natura. Jonas nell'opera Il principio responsabilità afferma che lo sviluppo della scienza e della tecnica ha raggiunto un tale livello, attraverso lo sfruttamento (ossia la distruzione) della natura, da mettere in pericolo la stessa sopravvivenza dell’umanità. Il progetto, o “sogno” di Francis Bacone, di
creare un “regnum hominis” attraverso l’utilizzo
della scienza e il dominio sulla natura, si è effettivamente realizzato, ma invece di un “regno” a
misura d’uomo, abbiamo creato una situazione
d’emergenza. La distruzione della natura è giunta
al punto che sembra precedere una “situazione
apocalittica”, la distruzione della natura, ossia le
stesse condizioni d’esistenza sulla Terra.
Altre volte ci siamo trovati di fronte a gravissime
minacce, come la possibilità di una guerra atomica
che se usata avrebbe distrutto la Terra; ma il pericolo della bomba atomica, dichiara Jonas, può
essere eliminato attraverso accordi (di fatto è ciò
che sta avvenendo). Diverso è l’odierno pericolo
perché è incardinato nello sviluppo tecnologico
che sembra irreversibile.
Se ciò è vero, le etiche tradizionali, centrate sull’uomo, sui suoi comportamenti individuali o collettivi,
risultano del tutto inadeguate alla situazione odierna: lo sviluppo straordinario della scienza ha dato
un rilievo prioritario, afferma Jonas, all’«agire collettivo, nel quale l’autore, l’azione e l’effetto non sono
più gli stessi; ed essa [scienza], a causa dell’enormità delle sue forze, impone all’etica una nuova
dimensione della responsabilità, mai immaginata
prima». In conclusione, ora occorre passare da un’etica antropocentrica, fondata sull’uomo, a un’etica
Mario Quaranta
planetaria, il cui imperativo è espresso da Jonas in
questi termini: “Agisci in modo che le conseguenze
della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita sulla Terra”.
4. Edgar Morin fra epistemologia e filosofia
della natura
Le “due tensioni” nel pensiero di Morin
Ci soffermiamo, ora, su alcuni aspetti dell'opera di
Morin La Méthode 1. La nature de la nature
(1977) in cui l'epistemologo francese ha portato
alle ultime conseguenze la sua critica dell'immagine della scienza della modernità, tracciando poi,
accanto a un'epistemologia della complessità, i
lineamenti di una possibile filosofia della natura
integrata da una nuova etica espressa nell’ultima
sua opera, Etica. Egli ha criticato le idee-guida fondamentali su cui si è retta finora la razionalità
scientifica (il dubbio, il rapporto soggetto-oggetto,
l'unità del sapere, ecc.); però, non ha parlato esplicitamente di una filosofia della natura; su tale argomento egli sembra a volte oscillare tra un'analisi
rigorosa della struttura (logica e fattuale) delle
scienze, nella persuasione che possano dare un
contributo decisivo alla soluzione dei problemi
dello sviluppo in un mondo globalizzato, e l'idea
che per risolvere i problemi posti dalle emergenze
planetarie, occorra soprattutto affidarci a una specie di rivoluzione antropologica dell'uomo, sempre più consapevole della situazione di emergenza
in cui vive. Secondo Morin, ciò che ora occorre è
un nuovo tipo di rivoluzione: «Essa è necessaria
logicamente per salvare la vita, ma non è necessaria storicamente, e sembra anzi poco probabile.
Non porterebbe a compimento l'evoluzione
umana, ma darebbe il via a una nuova evoluzione.
Trasformerebbe i principi di cambiamento. Questa
idea di rivoluzione porta con sé l'idea di comunità
radicale, perché dobbiamo far sì che continui la
vita, e in particolar modo la vita umana».
Morin nelle sue opere filosofiche smonta, per così
dire, l'apparato categoriale su cui è fondata l'immagine della razionalità scientifica dell'Otto e
Novecento e ne traccia una nuova, i cui nodi centrali sono stati sommariamente delineati nell'introduzione generale della prima opera de La Méthode
1. La nature de la nature, dal titolo Lo spirito
Edgar Morin: abitare eticamente la natura
della valle. In questo testo programmatico sono
più esplicite le “due tensioni” presenti nel suo pensiero: l'esigenza di formulare un'epistemologia
nuova che vada oltre le aporie di quelle tradizionali,
e la necessità di tracciare una concezione della natura non attraverso il primato della razionalità scientifica o della filosofia, ma attraverso un'alleanza tra
filosofia e scienza diversa da quella prospettata dal
positivismo, dal neopositivismo e dal pragmatismo
(per citare alcuni degli orientamenti principali ottonovecenteschi). Nel primo volume de La Méthode,
Morin enuncia le idee direttrici della sua impresa
culturale, su alcune delle quali ci soffermiamo brevemente. Esse sono: il problema del metodo; il rapporto soggetto-oggetto; il rapporto tra le cosidette
“scienze dello spirito” e le “scienze della natura”, il
problema dell'enciclopedia del sapere.
Il problema del metodo
Morin chiarisce subito il significato che intende
attribuire al problema del metodo, e il riferimento è
necessariamente a Cartesio, l'iniziatore della modernità la cui presenza si riscontra anche nei filosofi
moderni e contemporanei. E proprio per questa
presenza “ingombrante” l'anticartesianesimo ha una
larga udienza nella cultura francese moderna e contemporanea. Basterà ricordare, fra gli epistemologi
francesi, Gaston Bachelard, mentre nell'area anglosassone il riferimento più ovvio è Charles Peirce.
Secondo Morin c'è un'aporia nel dubbio cartesiano,
essa risiede nel fatto che esso «era certo di se stesso», mentre il dubbio per essere tale non può essere né assoluto né «purificato in misura assoluta».
Occorre pertanto «mettere in dubbio metodicamente il principio stesso del metodo cartesiano»; la
conseguenza cui la disamina di Morin perviene è
che «non il chiaro e il distinto, ma l'oscuro e l'incerto» sono alla radice della conoscenza.
Egli ha chiarito ulteriormente il significato del
dubbio, il ruolo che svolge nella ricerca epistemologica e filosofica. «Nel cuore stesso della ragione,
afferma, ritroviamo non la semplice certezza o il
semplica dubbio, ma il dialogo/circuito credenza--dubbio. La ragione è fede nella conoscenza, ma è
dubbio rispetto alle pretese assolute della conoscenza. La ragione non può sfuggire al circuito credenza-----dubbio, ma introduce in questo circuito
le esigenze di chiarificazione e di spiegazione. Io
ho fede nella ragione proprio perché porta in sé,
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in maniera intercomunicante, sia la fede nella
conoscenza che il dubbio della conosceza».
La critica del dubbio cartesiano ha un ruolo strategico nell'elaborazione della teoria della complessità di Morin; va peraltro sottolineato che anche in
Cartesio il dubbio costituisce uno dei leitmotiv del
suo pensiero. Esso assolve una funzione essenziale nell'opera Meditationes de prima philosophia
(1641), uno dei capolavori della filosofia moderna.
Prima di pubblicarla Cartesio la fece pervenire ad
alcuni fra i principali filosofi e teologi del tempo,
sollecitando le loro critiche e obiezioni; obiezioni
che furono pubblicate con le risposte di Cartesio.
Con queste risposte Cartesio si cimenta con i vari
e motivati dubbi e obiezioni dei suoi interlocutori,
cui egli risponde con una straordinaria capacità
argomentativa e un approfondimento ulteriore del
significato logico e ontologico del dubbio.
Morin va oltre l'indicazione metodologica di
Bachelard, il quale ha rivalutato il “non rigoroso”
per renderlo compatibile o comunque coesistente
con la razionalità umana. Secondo Morin non è sufficiente far rientrare nel processo della conoscenza
il non rigoroso; occorre riconoscere che l'incerto, il
confuso, il non rigoroso, appunto, ci consentono di
esplorare nuovi territori. Esso è parte integrante
della razionalità; anzi, esso è stato, in certo qual
modo, il motore d'avvio di rivoluzioni scientifiche.
Infatti, storicamente gli sviluppi più innovativi della
scienza sono avvenuti proprio sulla base del “non
rigoroso”: il disordine termodinamico, l'incertezza
microfisica, il carattere aleatorio delle mutazioni
genetiche sono all'origine dei più rivoluzionari sviluppi della scienza contemporanea.
Anche Charles S. Peirce, fondatore del pragmatismo, sottolinea che all'inizio del processo conoscitivo c'è un dubbio che consente di raggiungere non
una verità assoluta ma una “credenza”, dalla quale si
parte per giungere a un’altra credenza. Nel suo saggio programmatico, Come rendere chiare le nostre
idee (1878) egli definisce in questi termini la credenza: «Che cosa, dunque, è la credenza? Abbiamo
visto che ha tre proprietà: 1) è qualcosa di cui ci rendiamo conto; 2) acquieta l'irritazione del dubbio; 3)
implica lo stabilirsi nella nostra natura di una regola
d'azione, o, per dirla in breve, di un abito. […] Ma
dal momento che la credenza è una regola d'azione,
l'applicazione della quale implica ulteriori dubbi e
pensieri, nello stesso tempo in cui essa è un punto
38
d'arrivo, è anche un punto di partenza per il pensiero». In altri termini, le domande che sono alla
base della nostra attività intellettuale sono e rimangono aperte perché la caratteristica della credenza è
una costitutiva incertezza.
La posizione di Morin è radicale; «oggi, afferma, si
può partire soltanto nell'incertezza del dubbio». Ma
allora, di fronte all'opzione cartesiana fra assoluto o
scetticismo, quale è la nostra risposta? Morin respinge il dilemma; egli è fuoriuscito dall'anti-metodo ed
è giunto a un nuovo metodo attraverso la scoperta
del principio della complessità, per cui «il problema
è ormai di trasformare la scoperta della complessità
in metodo della complessità». Ossia: «apprendere
ad apprendere, questo è il metodo».
Il rapporto soggetto-oggetto
La soluzione del problema del metodo richiede una
dislocazione nuova del rapporto tra soggetto e
oggetto, base della conoscenza. Secondo Morin c'è
stata storicamente una specie di divisione di sfere
di competenza tra la scienza e la filosofia: «La scienza si impossessa dell'oggetto, e la filosofia del soggetto»; le differenze fra gli orientamenti filosofici
risiedono, pertanto, nella diversa soluzione che
hanno dato a tale problema. La connessione tra
mente e oggetto è stata ricondotta o all'oggetto fisico dall'empirismo e sue varianti, o alla mente dell'individuo dall'idealismo e sue varianti, o alla realtà
sociale dal sociologismo. Tre soluzioni diverse ma
unificate dall'attribuzione del primato a uno o all'altro dei termini (oggetto o soggetto). Contro la «dittatura della semplificazione riduttrice», Morin propone di «abbattere la dittatura della semplificazione
disgiuntiva e riduttrice», e considerare il soggetto e
l'oggetto due aspetti di una realtà unitaria.
Egli critica radicalmente l'idea-base del razionalismo basato sull'epistemologia della fisica dell'Otto
e Novecento, secondo cui l'obiettivo della conoscenza scientifica è di fornire un'immagine esatta
della realtà, secondo quello che possiamo chiamare il “modello cartesiano”, fondato sulla netta separazione fra res extensa e res cogitans. Esso è alla
base anche del materialismo nelle sue diverse
varianti: c'è una realtà oggettiva e di fronte un soggetto; la conoscenza consiste nel fornire un'immagine via via più esatta di tale realtà oggettiva. E la
“fotografia” che riusciamo a realizzare è tanto
migliore quanto più prescinde dall'osservatore da
Mario Quaranta
cui è stata scattata. Al contrario, una delle ideeguida del pensiero di Morin è che l'osservatore e
l'osservato (soggetto e oggetto) non esistono uno
indipendentemente dall'altro. Da qui sorge una
nuova teoria della conoscenza ove l’oggetto è l'insieme delle relazioni tra un osservatore e un osservato, secondo una concezione dinamica in cui
«tutto è solidale».
Rapporti tra “scienze dello spirito” e “scienze
della natura”.
Una delle idee centrali del testo programmatico di
Morin Lo spirito della valle, è che «la scienza
antropo-sociale ha bisogno di articolarsi sulla
scienza della natura, e che quest'ultima articolazione richiede una riorganizzazione nella struttura del
sapere». Egli affronta, dunque, l'arduo problema
che attraversa tutto il Novecento, il rapporto fra le
cosiddette “scienze dello spirito” e le “scienze
della natura”. A titolo esemplificativo, per sottolineare l'importanza che ha avuto nella cultura europea tale problema, accenniamo alle posizioni
espresse da due filosofi, Wilhelm Dilthey e
Wilhelm Windelband, i quali vi hanno dedicato
importanti opere che hanno avuto una notevole
influenza nella cultura europea del Novecento, e a
cui si richiama spesso lo stesso Morin.
Dilthey formula una distinzione fondamentale tra
le scienze naturali e le scienze dello spirito; le
prime hanno per oggetto il mondo naturale, le
seconde il mondo storico formato da individui; un
posto privilegiato assume, dunque, la storia.
Accanto alla storia ci sono le scienze della società,
che studiano i “sistemi di cultura”, ossia la religione, il diritto, la scienza, e le “forme di organizzazione esterna della società”, ossia la famiglia, lo
stato, la chiesa; forme che assolvono l’importante
compito di assicurare la continuità del patrimonio
culturale dell’umanità.
Le scienze dello spirito hanno un carattere individualizzante; il loro oggetto è interno all’uomo nel
senso che colgono l’uomo attraverso la sua “esperienza vissuta”, mentre le scienze della natura
enunciano le leggi dei fenomeni naturali. Fra i due
tipi di scienze c’è sì un rapporto di autonomia ma
permane un collegamento, perché l’uomo mantiene rapporti indisgiungibili con la natura. I due
modelli di scienza adoperano metodi diversi; le
scienze della natura hanno a che fare con ipotesi
Edgar Morin: abitare eticamente la natura
collegate in una teoria e spiegano i fenomeni in
termini causali, mentre le scienze dello spirito
hanno a che fare con fenomeni complessi, e perciò
non possono usare categorie troppo astratte e
schematiche come quelle scientifiche. Le scienze
dello spirito usano categorie che non spiegano ma
comprendono l’“esperienza vissuta” degli uomini.
Wilhelm Windelband non accetta la distinzione tra
scienze della natura e scienze dello spirito di
Dilthey, distinzione che riproporrebbe quella tradizionale, di stampo metafisico, tra natura e spirito. Egli ne formula un’altra, tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche; una distinzione di carattere metodologico, che concerne non una differenza fra due tipi di conoscenze come in Dilthey,
ma una diversità di fini.
Le scienze monotetiche si occupano dei fenomeni
naturali e hanno per fine la ricerca e la determinazione di leggi generali, quelle idiografiche colgono
gli eventi particolari, ossia tendono a giustificare il
carattere di unicità di ogni singolo evento, rilevandone l'autonomia dai vincoli naturali; esse si occupano in modo particolare dei fenomeni culturali. La
più caratteristica scienza dello spirito è la storia, il cui
compito principale è di conservare ciò che ha valore
e abbandonare all’oblio ciò che ne è privo.
Fra i due tipi di razionalità (scientifica e filosofica)
non c’è, dunque, una netta distinzione, ma è
comunque possibile avere una conoscenza razionale anche di avvenimenti unici, irripetibili, come
quelli storici, dal momento che sono inseriti in
uno sviluppo orientato finalisticamente secondo
certi valori. Un'ultima considerazione. Sia i neokantiani sia gli storicisti riconoscono alle scienze
naturali lo statuto di scientificità, e alla spiegazione
scientifica un valore conoscitivo anche se circoscritto. La giurisdizione della spiegazione scientifica è solo nel campo dei fenomeni naturali, mentre
quella filosofica è nel campo dei fenomeni umani.
Di fronte a queste soluzioni, caratterizzate dalla
separatezza dei campi del sapere, Morin sostiene la
tesi che «la realtà antropo-sociale si proietta e si
inscrive nel nucleo stesso della scienza fisica»,
secondo un processo circolare che richiede una
diversa soluzione dell'altro problema strettamente
conncesso con questo: il rapporto tra soggetto e
oggetto, per cui si possa dire che «ogni scienza fisica dipende, in qualche misura (quale?), dalla realtà
antropo-sociale». La risposta all'interrogativo è affi-
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data a un'analisi ravvicinata delle singole scienze,
analisi che Morin ha compiuto nelle sei opere di
cui si compone La Mèthode. La conclusione cui
perviene è che «il circuito fisica-biologia-antroposociologia invade tutto il campo della conoscenza
e richiede un sapere enciclopedico impossibile».
Il problema dell'enciclopedia del sapere
Morin fin dall'avvio della sua ricerca si trova di
fronte a due “muri”: quello epistemologico e quello enciclopedico, che la cultura flosofica da Comte
a Carnap ha tentato di unire attraverso un progetto di enciclopedia del sapere, in cui l'epistemologia definisce il criterio di scientificità delle singole
scienze e l'enciclopedia assicura che l'edificio della
scienza, fondatto su tale criterio, ha i caratteri della
razionalità e della definitività. Che cosa è il Corso di
filosofia positiva di Comte se non un'enciclopedia
delle scienze del suo tempo, la cui maturità epistemologica è determinata dalla loro capacità previsiva? Le scienze “mature” sono sei e solo sei (matematica, astronomia, fisica, chimica, biologia, sociologia) le quali peraltro hanno interne articolazioni
(l'acustica, l'ottica, la termologia, ecc.), e l'ultima
scienza è la sociologia, la quale usufruisce del patrimonio metodologico delle precedenti e perciò si
candida ad essere la scienza regina. Il compito che
si è attribuito il filosofo francese è proprio quello di
far pervenire la sociologia ad autentica scienza.
L'altro, grande tentativo è stato compiuto dai neopositivisti che hanno iniziato l'impresa di una
“Enciclopedia della scienza unificata”, fondata non
più sul criterio della previsione come quella comtiana, ma sul linguaggio scientifico fondato sulla fisica
(il fisicalismo). Un'impresa rimasta inconclusa, che
ha via via fatto emergere i propri limiti.
Morin rifiuta l'enciclopedismo come cumulazione
di conoscenze e saperi in un sistema totalizzante, e
delinea un'enciclopedia capace di «articolare ciò
che fondamentalmente è disgiunto e che dovrebbe essere fondamentalmente connesso», con una
scelta delle conoscenze cruciali, dei punti nodali,
«delle articolazioni organizzative fra le sfere disgiunte». Si può dire che i sei volumi de La Méthode
sono la realizzazione di questo nuovo modello di
enciclopedia. L'opera La nature de la nature non
è più fondata sul primato della scienza o su quello
della filosofia, ma su un'alleanza fra scienza, epistemologia e filosofia. Nell'ultima opera di Morin,
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Etica, si possono individuare i punti di congiunzione tra epistemologia ed etica, una congiunzione
nuova rispetto a quelle precedentemente viste.
L'esigenza di una filosofia della natura, come abbiamo già accennato, è presente in Terra-Patria
(1993), ove il filosofo francese ha affrontato i problemi dell'era planetaria, della carta d'identità terrestre, dell'agonia planetaria, e così via. Ma è nell'ultima opera sull'etica che la proposta di Morin è
più esplicita. Di fronte ai problemi sollevati dal disordine economico mondiale, da quello demografico, dalla crisi ecologica, egli riafferma sì il valore di
una riforma radicale del pensiero per restaurare
quella che definisce «la razionalità contro la razionalizzazione», ma è nell'Etica che compie il passo
ulteriore e decisivo.
5. Approdo all'etica
Il problema dei rapporti tra scienza ed etica è stato
tra i più discussi e variamente risolti nella filosofia
del Novecento: accenniamo brevemente ad alcune
delle risposte che filosofi, epistemologi e scienziati
di diversi orientamenti hanno dato a tale problema,
per poi indicare la posizione espressa da Morin.
La tendenza positivistica a fondare sistemi di morale sui risultati raggiunti dalle scienze ha trovato in
George E. Moore, all'inizio del Novecento, il filosofo che ha confutato in termini persuasivi tale
pretesa. Nell’opera del 1903, Principia ethica,
Moore stabilì una distinzione fra etica e metaetica;
l’etica si chiede che cosa è ‘buono’, la metaetica
cosa intendiamo quando diciamo ‘buono’. L’etica
ha un carattere normativo, ossia indica quale azione, fra le molte possibili, dobbiamo fare; la metaetica chiarisce i vari e diversi significati dei termini
etici. Il termine ‘buono’, argomenta Moore, non è
definibile perché è una nozione semplice, elementare, primitiva; essa è così evidente per se stessa,
che non è sottoponibile a verifica, come invece le
proposizioni scientifiche; pertanto le proposizioni
etiche non possono essere provate né confutate.
A una conclusione analoga è giunto Bertrand
Russell, il quale nell'opera Religione e scienza
(1936) sostiene che le norme etiche non hanno una
genesi razionale o conoscitiva ma pratica, emotiva.
Gli enunciati dell’etica non sono classificabili secondo le categorie del vero e del falso (categorie usate
dalla scienza), ma sono espressioni di sentimenti
Mario Quaranta
che tendono a determinarne altri. All’etica, dunque,
manca la dimensione cognitiva, che invece caratterizza la razionalità scientifica. Anche Emile
Boutroux, teorico del contingentismo, ha affrontato
questo stesso problema. Nello scritto La Scienza e
la morale moderna o scientifica afferma che dove
c’è la morale non c’è la scienza, e dove c’è la scienza non c’è la morale. In altri termini, la scienza è
autonoma, ossia non è collegata né condizionata, né
fondata su una morale: siamo di fronte a due forme
di attività incommensurabili, rette da principi costitutivamente diversi.
Sempre all'inizio del Novecento, il problema dei
rapporti tra razionalità scientifica ed etica è stato
affrontato dai filosofi pragmatisti, cui hanno dato
risposte non univoche, pur nell'affermazione
comune di una distinzione di fondo tra i due
campi dell'attività umana. Secondo Peirce la scienza e la morale fanno parte di due distinti “universi
del discorso”: la scienza studia i fenomeni naturali,
la morale indica i fini che siamo disposti ad accettare come regole della nostra condotta. William
James sostiene, fin nel saggio del 1884, Il dilemma
del determinismo, che la scelta fra determinismo e
indeterminismo non è di carattere scientifico; ci
sono ragioni valide per sostenere l’una o l’altra
concezione del mondo naturale. Inoltre, egli ritiene che l'alternativa determinismo/indeterminismo
non costituisca un problema di scienza, ma di
metafisica, ossia di visione del mondo. Ora, fra le
due opzioni noi scegliamo quella che è più compatibile con una concezione filosofica fondata sulla
libertà e sul pluralismo; una concezione che sostiene una visione positiva, ottimistica della vita, perchè «la vita merita di essere vissuta, qualunque
cosa porti con sé». Ora, il determinismo, negando
la libertà e affermando l’esistenza ineliminabile del
male, offre un'immagine pessimistica della vita. Il
bene e il male, dichiara James, sono i due poli di
una tensione permanente della vita umana, e la
legge morale si esprime nella volontà di procurare
il maggior bene possibile. In conclusione, la scienza si fonda su fatti, su teorie verificabili; la morale
su credenze che di per sè non traggono la loro validità da una verifica, anche se sono più o meno
compatibili con la verità scientifica.
Nel saggio Valore morale delle scienze naturali
John Dewey dichiara che la morale ha propri
metodi d’indagine e un campo circoscritto dell’e-
Edgar Morin: abitare eticamente la natura
sperienza entro cui i suoi metodi sono fecondamente usati. Egli rifiuta l’assolutezza dei valori
etici; tutti sono «mezzi per l’arricchimento delle
attività della vita». L’etica, come la scienza, è fondata sull’esperienza; il suo campo d’azione non si
ferma al di qua della conoscenza (egli non è un
intuizionista nè un utilitarista), né è al di fuori della
razionalità. Non c’è una separazione tra fatti e valori, tra mezzi e fini; c’è, sì, una distinzione tra “è” e
“deve”, ma ciò non esclude delle forme argomentabili nell’etica come nella scienza. Nei giudizi etici
e in quelli scientifici c’è un medesimo procedimento logico: entrambi sono espressi in proposizioni generali e perciò controllabili, sia pure con
procedure metodologiche diverse.
Karl Jaspers ha dedicato saggi e capitoli di numerose opere ai rapporti fra scienza e morale. L’uomo,
afferma nell'opera Psicopatologia generale del
1913, «è la possibilità aperta, incompleta e mai completabile. Perciò egli è sempre anche più ed altro di
quanto ha realizzato di sé». La scienza produce risultati «irresistibilmente e universalmente validi», e per
raggiungerli la scienza deve oggettivare il mondo,
facendone qualcosa di nettamente distinto dal soggetto. La scienza vuole raggiungere l'esattezza; è la
sua forza ma anche il suo limite, perché essa risulta
«limitata a una sfera determinata del conoscibile»,
ossia alla sfera del mondo oggettivo. La scienza,
dunque, ci fornisce sì conoscenze esatte ma non
risponde al problema dell’esistenza umana. «La verità, afferma Jaspers, è qualcosa di infinitamente più
dell’esattezza scientifica», e solo la filosofia è in
grado di fornire una risposta persuasiva.
Edmund Husserl nell'ultima sua opera, rimasta
incompiuta, La crisi delle scienze europee, fa datare la crisi della razionalità scientifica con la stessa
nascita della scienza moderna, ossia con Galileo.
Lo scienziato pisano ha segnato una svolta nella
storia del pensiero, ma in una direzione che ha
allontanato la scienza dall'uomo, perchè ha operato una matematizzazione della natura (il meccanicismo) sovrapponendo un mondo di essenze ideali al mondo dei fenomeni osservati. Così, se la
scienza ha permesso all'uomo di enunciare leggi
esatte, lo ha però condotto a una rottura con il
mondo della vita, che è fluido, mobile, e perciò
non si lascia imbrigliare in categorie di carattere
quantitativo.
Secondo Husserl, la scienza moderna è pertanto
41
n.16 / 2006
caratterizzata da questa profonda, incolmabile scissione tra ragione e vita. Da tale situazione si può
uscire, facendo ricorso ad una nuova scienza, la
fenomenologia, l'unica capace di darci un'autentica
fondazione del sapere, in primo luogo delle scienze che ne costituiscono il tessuto connettivo. In
acuni scritti brevi egli ribadisce il valore della razionalità scientifica, e si pone la domanda se la scienza
renda felici gli uomini. Una domanda che appare
retorica, perché una scienza che ha perso il telos
originario non può rendere gli uomini “teoreticamente felici”. Occorre, allora, che la scienza rinunci all’illusione di un’autofondazione, e sia restituita
alla filosofia, ossia alla fenomenologia.
Fra gli scienziati che si sono soffermati sui rapporti
tra razionalità scientifica e etica, ricordiamo Henri
Poincaré, uno dei maggiori matematici ed epistemologi tra Otto e Novecento, teorico del convenzionalismo, e Albert Einstein. Poincaré ha pubblicato un acuto saggio su Scienza e morale ove respinge sia l’idea che la morale abbia (o debba avere) un
fondamento naturale o metafisico, sia la credenza
che la scienza possa diventare una “scuola di immoralità”, temevano alcuni critici cattolici perchè ci
fornirebbe una conoscenza integralmente razionale del mondo, togliendo sempre più spazio al
mistero. Secondo Poincaré la morale non è fondata
su alcun valore assoluto, sia esso di carattere religioso o laico (come la patria, l’altruismo, e così via).
La scienza non può nè creare nè distruggere la
morale, perchè la morale è fondata sul sentimento.
Ma allora, non c’è alcun rapporto tra razionalità
scientifica e morale? C’è, ma indiretto, nel senso
che la scienza ci fa “vedere”, o intravedere che al
fondo della realtà c’è un’armonia determinata dalle
leggi razionali che la sorreggono, e questa armonia
è all’origine dell’amore per la verità che anima lo
scienziato e il moralista. Infine, Poincaré sottolinea
che sentimenti morali presiedono alla stessa pratica scientifica, e ciò in particolare ora, quando la
scienza è diventata un’opera collettiva, e pertanto
richiede una cooperazione e solidarietà fra tutti
coloro che partecipano all’impresa scientifica, consapevoli di lavorare per il bene dell’umanità.
In alcuni brevi scritti Albert Einstein ha preso una
posizione sui rapporti tra scienza e morale. La
scienza, afferma, ci fa conoscere i fatti, i rapporti
che intercorrono tra loro. A tale proposito, egli
accetta pienamente la cosiddetta “regola di
42
Hume”, secondo cui la ragione non ha competenza o giurisdizione sui fini e sui valori dell'azione.
Ora, afferma Einstein, se «il significato dei fini ultimi» è precluso alla razionalità scientifica, tali fini
però esistono; essi sono accertabili empiricamente
anche se non hanno alcun fondamento razionale,
perchè «nascono non da una dimostrazione ma da
una rivelazione». Così, se è vero che le due caratteristiche fondamentali delle proposizioni scientifiche sono che esse sono o vere o false, e che i concetti che usa non esprimono emozioni, ciò non
significa che il pensiero logico sia estraneo all’etica. La scienza non produce istanze etiche, né l’etica istanze scientifiche, però la logica consente
all’etica di esprimere in termini coerenti le sue
proposizioni. In conclusione, una volta scelto un
assioma etico (una proposizione etica fondamentale), una scelta che è convenzionale, la logica ci
consente di trarre tutte le conseguenze possibili.
Dunque, “gli assiomi etici vengono scoperti e verificati in modo non molto diverso dagli assiomi
della scienza”.
Tutte queste posizioni sui rapporti tra scienza ed
etica sono oggi in larga misura obsolete di fronte
alle nuove sfide etiche poste dagli sviluppi odierni
della scienza. Esse hanno avuto un'indubbia
importanza storica nel periodo in cui occorreva
difendere la razionalità scientifica senza subordinarla a obiettivi e fini estranei come potevano essere considerate posizioni etiche sostenute da Stati o
istituzioni come le chiese. Nell'epoca moderna è
emersa la scienza, che si è conquistata un proprio
spazio, prima, e uno stabile insediamento nella
società, poi, attraverso prolungate lotte, e soprattutto attraverso i risultati che ha ottenuto nell'interpretazione dei fenomeni naturali.
Inoltre, questa difesa di una separatezza fra scienza ed etica è stata parte integrante di un laicismo
che rivendicava una propria autonomia e valore.
C'è, al fondo, l'acquisizione di un aspetto importante della morale kantiana, la quale, separando i
valori morali dalla religione e dalla metafisica, è
stata accolta e fatta propria da quel laicismo che
contro la morale “metafisica” (cattolica) combatté
una notevole battaglia.
Non intendiamo, ora, esaminare l'opera di Morin,
Etica, ma sottolineare la conclusione cui giunge
dopo un'analisi che si snoda attraverso vari aspetti
del problema etico, sia nella cultura sia nella vita
Mario Quaranta
attuale. Alla fine egli si richiama esplicitamente ai
primi filosofi. Morin non è isolato in questa proposta, varie costellazioni teoriche della filosofia e della
scienza contemporanee hanno proposto di interrogare i primi filosofi: da Husserl a Heidegger, da
Popper a Schrödinger a Heisenberg, il riferimento
attualizzante a quei filosofi è ritenuto essenziale (si
veda il libro di Giuseppe Gembillo, La filosofia
greca nel Novecento, Messina 2001). Essi sono stati
i primi ad affrontare il problema della physis, delinenado una visione olistica della natura entro cui si
colloca la vita dell'uomo. Anche in Morin ci sono
frequenti richiami a quei primi pensatori; egli stesso afferma nelle prime pagine di Natura della
natura che «l'oggetto principale di questo primo
volume è la physis», per poi subito precisare che
«la physis non è né uno zoccolo, né uno strato, né
un sostegno. La physis è comune all'universo fisico,
alla vita, all'uomo», come appunto sostennero i
primi filosofi. E più oltre: «L'antica materia si inaridisce e si disaggrega, mentre si produce la nuova
physis, figlia del caos. Così physis, cosmo, caos non
possono più essere dissociati. Sono sempre compresenti gli uni in rapporto agli altri».
Ma cosa significa ritornare, oggi, ai presocratici? ce
lo dice lo stesso Morin proprio alla fine dell'Etica.
Quei filosofi hanno compreso che occorre andare
oltre la conoscenza (ossia la scienza) e raggiungere la saggezza. «La saggezza», afferma Morin alla
conclusione della sua avventura intellettuale, «non
può essere concepita che come il prodotto di una
dialogica tra yin e yang e tra ragione e follia. […]
Non è neppure il ‘giusto mezzo’ di Aristotele, ma il
dialogo ad anello dei contrari. La saggezza deve
suscitare un'arte della vita. Questa, nelle condizioni attuali, chiede una riforma della vita». Dunque,
l'alleanza fra epistemolgia ed etica approda a una
concezione della natura la quale può, per così dire,
“reggere” al confronto con le grandi sfide dell'impresa scientifica. Quest'etica non indica, come
quelle tradizionali, solo le regole delle nostre azioni (individuali e collettive), ma altresì (e forse,
soprattutto) la nostra condotta verso la natura. È
un'etica che indica le ragioni e le vie di una riforma
della nostra vita, la condizione perché gli ostacoli,
che sono enormi, sulla via della salvezza (nostra e
della Terra in cui viviamo) siano superati. In altri
termini, l'etica nell'era della globalizzazione deve
indicare le vie per abitare eticamente la Terra; una
Edgar Morin: abitare eticamente la natura
condizione, questa, per assicurare la continuità
della specie homo sapiens.
Indicazioni Bibliografiche
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Torino 1998.
Boutroux Emile, Problemi di morale e di educazione, trad. di Santino Caramella, Vallecchi,
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Corrado Sinigaglia, Raffaello Cortina, Milano 1999.
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Editrice Milanese, Milano 1912.
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di Susanna Lazzari, Raffaello Cortina, Milano 1994.
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trad. di Gianluca Bocchi (Parte prima) e
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idee [1878], Massimo A. Bonfantini (a cura di),
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Picardi, introd. di Ludovico Geymonat, il Mulino,
Bologna 1974.
Windelband Wilhelm, Preludi, trad. di Renza
Arrighi, Bompiani, Milano 1947.
43
Ivan Pozzoni
Giovanni Vailati e Mario Calderoni tra
meta-etica, etica descrittiva e normativa
Focus: epistemologi eretici del ’900
1
Giovanni Vailati nasce
a Crema nel 1863. Di
nobili natali si iscrive
alla facoltà di matematica dell’università di
Torino. Laureatosi in
matematica, collabora
nel 1891 alla “Rivista di
matematica” diretta da
Peano e l’anno successivo diviene assistente di
Calcolo infinitesimale
all’Università di Torino;
nel 1899, volendo dedicarsi con massima libertà ai suoi vasti interessi
culturali, abbandona la
carriera universitaria e
chiede di entrare nella
scuola secondaria. In
Toscana inizia a collaborare assiduamente al
“Leonardo” e nel novembre del 1905 è nominato,
su richiesta di Salvemini,
membro di una
Commissione reale destinata alla riforma delle
scuole secondarie; nel
1908 si ammala, e trasferitosi a Roma, vi muore
la sera del 14 Maggio
1909. Mario Calderoni
nasce a Ferrara nel
1879; si laurea in Diritto,
e, nel 1909, ottiene la
libera docenza in filosofia morale all’Università
di Bologna. Muore, ad
Imola, a soli 35 anni.
44
1. Premessa
Per affrontare un'analisi sul valore culturale del pragmatismo italiano1 è necessario
orientare la nostra attenzione su campi tematici vailatiani e calderoniani considerati di
minore interesse dalla storiografia moderna; solo con la fine del secolo scorso si è
accentuata la tendenza a fornire una visione meno riduttiva dei nostri due pragmatisti, mediante studi sui contributi relativi ad aree come la semiotica (CAPUTO 1989,
PETRILLI 1989 e AQUECI 1999), l'etica (LODIGIANI 1999), l'arte (BIANCO 1989) e le
scienze sociali2, e attraverso ricerche collettive3. Intendiamo ora sottolineare aree di
interesse e temi che riammettano i nostri autori nel novero dei filosofi novecenteschi,
senza trascurare i contributi di Mario Calderoni, erede e continuatore della tradizione
di ricerca vailatiana (POZZONI 2003). Ci sono temi e interessi caratteristici della filosofia analitica novecentesca che si mostrano centrali anche all’interno della riflessione
culturale del pragmatismo italiano; Vailati ha intrattenuto ottime relazioni con filosofi come Brentano, Duhem, Mach, Peano e Russell, com’è oramai indiscutibile l’esistenza di scambi meno diretti con autori come Couturat, Frege, James, Moore. Vailati
è uomo del Novecento, ed è forse l’unico autore italiano d’inizio secolo scorso, insieme all’erede Calderoni, a ricorrere in modo costante alla cultura filosofica americana.
Presente nella narrazione dei nostri due autori è anche una decisa curiosità verso
determinazione e analisi semantica di termini ed enunciazioni morali, orientata a
coordinare meta-etica vailatiana e conclusioni naturalistiche mooriane o emotivismo
ayeriano/ stevensoniano. Tentiamo ora di chiarire in che misura e in che maniera,
senza errore ricostruttivo, i nostri autori siano classificabili come “analitici”4.
2. I riferimenti “analitici” in Vailati e Calderoni
Molti sono i riferimenti del pragmatismo logico italiano alla nascente tradizione di
ricerca analitica, e si tratta di ante-analitici di scuola tedesca (Brentano, Mach e
Frege), italiana (Peano), francese (Poincaré, Couturat e Duhem) e britannica
(Russell, Welby, Moore); altri sono i richiami d’interesse analitico rinvenuti dai
nostri autori in scrittori meno recenti. All’interno dell’intensa attività di costoro si
intersecano di continuo richiami moderni e riferimenti antichi.
Gli antecedenti tedeschi della tradizione analitica novecentesca sembrano intrattenere con Vailati ampie relazioni culturali. Precursore del neo-positivismo del Wiener
Ivan Pozzoni
Giovanni Vailati e Mario Calderoni
Kreis è Ernst Mach5, con cui Vailati tiene un fitto scambio di lettere, incentrato su
discussioni inerenti la storia della scienza e la storia del metodo analitico. In una lettera del novembre 1896 Vailati sottolinea brillantemente come la diairetica aristotelica continui obiettivi e istanze analitiche della dialettica di Platone; Vailati scrive:
«Ses efforts à dèterminer quelles sont les circonstances communes qui se rencontrent dans tous les cas dans lesquels une résistance donnée est vaincue par une
force moindre qu’elle, me semblent parfaitement caractéristiques du processus réel
de développement de la science. Il s’y montre digne disciple de son grand maître
Platon qui définissait comme but de la recherche scientifique: “to see the one in the
many”, en d’autres mots: constater des ressemblances, des analogies, des uniformités, des éléments constants enfin, et des invariants6».
Per Vailati è un Aristotele continuatore di Platone a ricondurre la teoria delle idee a
mero strumento analitico, liberandola dalla caratterizzazione metafisica e da residui
di trascendenza (VAILATI 1906b, [vol.I, 368]). Oltre a sviscerare insieme a Mach l’analiticità aristotelica, è in relazione ad alcune tematiche dello studioso moravo che
Vailati, attraverso la mediazione di Leibniz, sottolinea l’esistenza di un’area di contatto tra storia delle scienze e semiotica. Ciò è presente in una lettera del 1905, dove
Vailati tenta di tradurre un concetto dell'opera di Mach Erkenntnis und Irrtum in
chiave semantica asserendo che «votre conception de la loi comme Einschränkung
der Erwartung me semble bien en harmonie avec la conception leibnitzienne des
“propositions générales” comme des “négations de quelque fait ou coincidence
entre deux faits”»7.
Aldilà delle innumerevoli citazioni all’interno di articoli e contributi a riviste nazionali e internazionali, e aldilà delle recensioni dedicate a scritti machiani come
Populär-wissenschaftliche Vorlesungen (VAILATI 1896, [vol.I, 141-143]),
Erkenntnis und Irrtum (VAILATI 1905c, [vol.I, 153-156]), o altri meno rilevanti8, è
ormai assodato come Vailati si sia accostato a un buon numero di materiali dello studioso austriaco9. Non c’è nessun motivo di dubitare che Mach, oltre ad avere
influenzato il Wiener Kreis, sia stato in Italia saldo riferimento culturale di Vailati e
Calderoni.
Un altro rapporto che ha avuto una rilevante importanza per Vailati, è quello intrattenuto con Franz Brentano10; le lettere scambiate tra i due sono una trentina, e densissime di contenuti. Probante del costante accrescimento dell'interesse vailatiano
verso tematiche analitiche è un’asserzione contenuta in una lettera del 1908 a
Brentano: «I suoi cortesi incoraggiamenti mi hanno fatto grande piacere e mi sono
di stimolo a continuare in quegli studi sui rapporti tra linguaggio e pensiero, ai quali
mi sento sempre più attratto a dedicarmi, riconoscendoli sempre di maggior importanza per la vera critica della conoscenza scientifica e filosofica (VAILATI 1971, 311)».
Da tale breve notazione - occultata all’interno della vastissima riflessione culturale
vailatiana - si desume come Vailati si sia accostato all’istanza analitica solo successivamente alla maturazione di interessi di storia della scienza e teoria della conoscenza. La vita culturale di Vailati sembra un cammino inarrestabile sulla strada dell’elaborazione di un metodo idoneo a chiarire antecedenti teorie e ambiti di ricerca. Oltre all’indicazione di Brentano come modello rilevante della svolta analitica
vailatiana, in tali lettere restano interessanti i richiami ad autori vicini a Brentano
come Marty11 e von Meinong12. Vailati e Brentano riescono ad introdurre, attraverso
l’intermediazione di Amato Pojero, redditizie relazioni culturali, assecondate dal trasferimento a Firenze dello studioso austriaco. Esistono molte citazioni su Brentano
all’interno di articoli e contributi vailatiani a riviste e bollettini; meritevoli di nota
2
Cfr. i non recentissimi
BOBBIO (1963) e SEGRE
(1963). Per una recente
rivisitazione dell’orientamento economico vailatiano si consulti il ricco
BRUNI (2000).
3
E’ il caso di DE ZAN
(2000) e del recentissimo
MINAZZI (2006). Più
recente ancora è il contributo di FERRARI
(2006).
4
D’ora in avanti i riferimenti testuali a
Calderoni saranno indicati in base a CALDERONI (1924, voll. I e II) e i
riferimenti testuali a
Vailati saranno indicati
– a meno di avviso contrario- in base all’edizione, curata da
M.Quaranta, VAILATI
(1987, voll. I-II-III).
5
Per una visione mirata
della riflessione culturale
machiana si vedano i
recenti CANTELLI e ROSSI
(1995) e BLACKMORE
(1992). Per uno studio
sulle incidenze delle concezioni machiane sull'analitica viennese si consulti l’ottimo FERRARI
(2000).
6
Cfr. VAILATI (1971, 113).
E successivamente l’intento "analitico" di
Aristotele è confrontato
con l’intento "analitico"
di Platone nell’articolo
Per un’analisi pragmatistica della Nomenclatura
Filosofica (VAILATI 1906,
[vol.I , 73-80]).
7
Cfr. VAILATI (1971, 125).
La raccolta dei documenti vailatiani curata
da Lanaro nel 1971 non
è molto recente; una
minuziosa attività di
raccolta delle lettere vailatiane è attualmente in
45
n.16 / 2006
atto a Crema sotto l’attenta direzione del Prof.
M. De Zan (Centro Studi
Giovanni Vailati).
8
Cfr. VAILATI (1901a,
[vol.I, 148- 152]) e la
Prefazione vailatiana al
volume di MACH (VAILATI 1909, [vol.I, 157- 159]).
9
Cfr. RONCHETTI (1998),
259 (estratti) e 445
(biblioteca).
10
Cfr. MODENATO
(1993). Per l’intera riflessione culturale brentaniana si veda l’intensa
letteratura secondaria
introdotta da A. Marocco
e riassunta nell’interessante studio MAROCCO
(1998).
11
Cfr. VAILATI (1971, 285287). Marty è considerato
fondatore del neoPositivismo svizzero (SPINICCI 1991).
12
(VAILATI 1971, 305). F.
D’Agostini asserisce che
molti riconoscono costui
«come uno dei padri del
pensiero analitico» (D’AGOSTINI 1997, 228);
Vailati dedica una
recensione alla sua scuola in VAILATI (1905d,
[vol.I, 345]).
13
Cfr. RUSSELL: «Nella
mia attività filosofica vi
è una svolta fondamentale: negli anni 18991900, adottai la filosofia
dell'atomismo logico e il
metodo di Peano nell'ambito della logica
matematica. Ciò rappresentò una trasformazione tanto grande da rendere il mio lavoro precedente, a eccezione di
quello puramente matematico, irrilevante
rispetto a tutto ciò che
feci in seguito» (1995,
46
sono l’articolo Sulla portata logica della classificazione dei fatti mentali proposta
dal prof. Franz Brentano (VAILATI 1901b, [vol.II, 87-91]), che inciderà in maniera
intensa sulla teoria calderoniana della volizione, e la visualizzazione diretta di un
buon numero di scritti (RONCHETTI 1998, 378 - biblioteca). Nemmeno in merito
a Brentano è lecito dubitare che costui, oltre ad avere influenzato direttamente
Husserl e Marty e von Meinong, abbia inciso in maniera indiretta anche sul pragmatismo italiano. Per concludere l’esame delle relazioni tra Vailati e l’ante-analitica
di scuola tedesca è necessario notare come esista una traccia di scambi di lettere tra
Vailati e Frege; l’autore tedesco è citato insieme a Russell in numerose lettere vailatiane indirizzate all’amico Vacca. Da tutto ciò risulta in modo certo che ci sia stata
una incidenza dell’ante-analitica di scuola tedesca sul pragmatismo italiano.
Sul versante italiano è altrettanto incontestabile l’incidenza di un autore di fama
internazionale come Peano. Gli esordi accademici vedono Vailati stretto collaboratore di costui; egli pubblica i suoi primi lavori di logica nella “Rivista di matematica”
e collabora alla stesura del noto Formulario; inoltre, egli è anche membro attivo
della scuola di matematica simbolica torinese (Pieri, Burali-Forti, Padoa, Vacca). La
rilevanza analitica di Peano, che in scritti come Arithmetices principia nova methodo exposita e Formulario di matematica sostiene l’idea dell’analisi simbolica come
unico strumento idoneo alla risoluzione delle antinomie matematiche, è riconosciuta da un analitico del calibro di Russell. Costui ammette senza riserve che simbolismo matematico e serietà metodica di Peano abbiano avuto un'indubbia ascendenza sulle sue stesse modalità di ricerca e indirettamente sulle modalità di ricerca
dell’analitica britannica successiva13. Benché il debito culturale vailatiano nei confronti di Peano sia notevole, non rimane traccia di un consistente scambio di lettere tra i due autori; i riferimenti vailatiani alle relazioni con Peano e con la scuola torinese restano tuttavia immortalati nelle numerose lettere inviate a Vacca. Gli accenni a Peano e alla scuola matematica torinese sono in toto encomiastici; Vailati annovera Peano nel «numero di quelli tra i nostri migliori scienziati che rivolgono la loro
attenzione a ricerche di indole filosofica»(VAILATI 1902b, [vol.I, 5]) e definisce in
modo efficace il metodo simbolico della scuola torinese: «Ce n’est pas un des moindres avantages du symbolisme logique adopté par Peano et ses collaborateurs, que
de rendre possible l’énonciation des prémisses fondamentales de chaque branche
des mathématiques sous une forme extrêmement réduite et simplifiée, dépouillée
de tout élément accessoire, et susceptible, par cela même, d’assumer les interprétations les plus variées et les plus hétérogènes (VAILATI 1907, [vol. I, 388])».
Oltre che nell'ampio saggio La Logique Mathématique et sa nouvelle phase de
développement dans les écrits de M.J. Peano (VAILATI 1899a, [vol.II, 172- 185]), è
con il brillante articolo Pragmatismo e logica matematica (VAILATI 1906c, [vol.I,
67-72]) che attraverso un serrato confronto tra scuola torinese e tradizione di ricerca statunitense (Peirce, James) è definitivamente asserita la rilevanza internazionale
di Peano. Gli estratti e i testi contenuti nella biblioteca vailatiana relativi a Peano e
alla sua scuola sono innumerevoli; e ciò conferma l’incidenza dell’ante-analitica italiana sul pragmatismo italiano.
Per l’influenza del convenzionalismo francese di Poincaré, Boutroux, Duhem,
Couturat e Le Roy sulla riflessione vailatiana e calderoniana si mostra necessaria una
breve introduzione storica. Non è corretto considerare tale tradizione di ricerca
ottocentesca come un diretto antecedente culturale dell’analitica novecentesca; il
convenzionalismo francese storicamente sta all’ante-analitica ottocentesca, come la
cosiddetta new epistemology14 sta all’analitica novecentesca. Vailati, come successi-
Ivan Pozzoni
Giovanni Vailati e Mario Calderoni
vamente Popper, è trait d’union tra metodo analitico e teoria/storia delle scienze
d’inizio secolo scorso, in cui s'intrecciano istanze filosofiche e interessi scientifici.
Con Poincaré o Duhem i contatti diretti sono o inesistenti o assai limitati (DE ZAN
2004a, 10); con Couturat l’affermazione dell’esistenza di relazioni dirette (VAILATI
1971, 193) resiste all’irrintracciabilità dei correlati documenti cartacei. Più che diretta la conoscenza vailatiana dei francesi è di seconda mano. Mentre di Poincaré il
nostro autore sembra evidenziare unicamente il contributo di storico della scienza
(VAILATI 1905e, [vol.I 355-358] e VAILATI 1906d, [vol.I, 359- 360]), la recensione
all’articolo La théorie physique15 di Duhem e la rilettura attraverso Couturat della
semantica leibniziana riavvicinano il filosofo cremasco a tematiche marcatamente
analitiche. Lo strumentalismo scientifico di Poincaré scaturisce insieme all’anti-atomismo semantico duhemiano in un contestualismo scientifico e semantico molto
vicino ai moderni contestualismi di Quine e Davidson; e aldilà dei discorsi sul metodo deduttivo e di una teoria convenzionalista della definizione, la riflessione leibniziana è valorizzata in relazione alla tesi della critica all’astrazione nelle costruzioni
teoretiche, secondo cui sarebbe necessario tradurre enunciazioni formulate con termini astratti in enunciazioni formulate con termini concreti. Vailati scrive a tale proposito: «La lutte engagée par les nominalistes contre les universaux se présente, en
un certain sens, comme un cas particulier de celle que poursuivent les pragmatistes
contre l’abus des phrases qu’on construit avec eux. Le procédé qu’ils se proposent
d’appliquer à ces dernières est tout à fait analogue à celui qui est préconisé par
Locke et par Leibniz, lorsqu’ils conseillent de traduire toute affirmation, où on leur
substitue les concrets qui leur correspondent16». Da Leibniz e Locke tale conveniente tendenza al “concretismo” si è trasmessa a rilevanti autori moderni come
Mill, Marx e Feuerbach. Per la ricerca vailatiana il richiamo dell'epistemology ottocentesca a Leibniz è occasione di molti stimoli.
Più decisiva nei confronti dell'evoluzione dell'analitica vailatiana è l'incidenza dell'ante-analitica britannica. Innanzitutto c'è un comune riferimento (caratteristico
anche di James) alla tradizione rappresentata da Berkeley, Locke e Hume; oltre a
formulare l'acuta teoria aletica delle “attese di sensazioni” (Berkeley) tanto cara a
Calderoni, e ad estendere alle scienze morali metodi simili ai metodi matematici
(Locke), tale fortunata tradizione di ricerca introduce una nuova scienza semantica17
e una innovativa nozione di analisi idonea a metter sotto esame termini ed enunciazioni della teoria della conoscenza18. Poi c'è un richiamo a temi d'interesse comune; è nota l'attenzione di Russell nei confronti dell'analisi simbolica di Peano, e
altrettanto noti sono i contatti diretti intercorsi tra il logico britannico, uno dei fondatori dell'analitica moderna, e Vailati.
La lettera scritta da Calderoni a Vailati nel gennaio del 1903 è sintomatica di una
vicendevole incidenza tra atomismo russelliano e contestualismo calderoniano. Tra
l’altro è scritto: «Qui in casa di Berenson (il critico d’arte che forse avrai sentito
nominare) ho trovato Russell, cognato di lui, persona che si occupa di filosofia e
specialmente di filosofia delle matematiche, e che conobbe te (e forse anche me) al
Congresso di Parigi del ‘900. Te ne ricordi? Abbiamo lungamente discusso: egli
conosce tutti i tuoi lavori e ti ammira moltissimo, sebbene non vada d’accordo con
te, mi pare, nella questione dei postulati nella matematica. In morale è uno scettico
e non ha fatto che criticarmi: ma gli ho dato il mio lavoro, dove forse capirà più chiaramente le nostre idee» (VAILATI 1971, 648).
Benchè Russell riconosca senza esitazioni l’ascendenza di Peano, non sembra
ammettere nei suoi scritti relazioni culturali altrettanto dirette con altri autori italia-
14); e successivamente
«Fu al Congresso
Internazionale di
Filosofia di Parigi del
1900 che io mi resi conto
dell'importanza di una
riforma logica per la filosofia della matematica.
Fu durante l'ascolto
della discussione tra
Peano di Torino e gli
altri filosofi intervenuti
che me ne resi conto.
Prima di allora non
conoscevo il suo lavoro,
ma rimasi molto impressionato dal fatto che, in
ogni discussione, egli
dimostrava maggiore
precisione e maggiore
rigore logico di chiunque
altro […] Furono tali
opere a dare l'impeto
alle mie successive teorie
sui princìpi della matematica» (1995, 60).
14
Per una esauriente
introduzione alla new
epistemology si consultino GIORELLO (1999) D’AGOSTINI (1997)
15
Cfr. VAILATI (1905f).
Non inserita nell’edizione curata da
M.Quaranta, tale recensione è rinvenibile nell’ormai classico VAILATI
(1911).
16
Cfr. VAILATI 1907, [vol.
I, 384]). Calderoni sulle
orme del maestro continua: «Un’altra sorgente
di illusioni dello stesso
genere ci presenta il processo di spiegazione, in
quanto esso ci porta a
considerare come dei
“perché” sufficienti dei
fatti, che si tratta di spiegare, asserzioni in cui
non si fa che rienunciarli sotto altra forma […]
Dei pericoli inerenti a
questa tendenza non
hanno mancato di occuparsi i filosofi. Tra i
47
n.16 / 2006
rimedi migliori è quello
suggerito da Locke e da
Leibniz, quando consigliano di tradurre ogni
affermazione, in cui
figurano parole «astratte», in un’affermazione
equivalente dove siano
loro sostituiti i concreti
corrispondenti; regola di
cui il pragmatismo non è
in sostanza che una
amplificazione e un
completamento» (CALDERON 1909, [vol. II, 150]).
17
Cfr. VAILATI (1905g,
[vol. I, 349-354]). Vailati
descrivendo l’Ars
Combinatoria di Leibniz
la riconnette da lontano
alla Doctrine of signs di
Locke: «Di questa
“Caratteristica Generale”
(Ars Combinatoria di
Leibniz) – il cui concetto
ha qualche analogia con
quello della scienza preconizzata da Locke con
nome di Semiotica» (or
the “Doctrine of signs”)
nell’ultimo capitolo
dell’Essay on
Understanding- tanto
l’algebra ordinaria,
quanto la logica sillogistica avrebbero solo rappresentato dei rami particolari, accanto ad altre
specie di rappresentazione simbolica…».
18
Cfr. CALDERONI (1909,
[vol. II, 145]). Tale brano
è una citazione dall’antecedente articolo di VAILATI (1905h, [vol. I, 19]).
19
PETRILLI scrive:
«Vailati si mette in contatto epistolare con
Welby nel 1898 dopo
aver letto il libro di questa ultima Grains of
sense […] i due studiosi
discutono, fra l’altro,
della natura della definizione, del suo contributo
o meno all’avanzamento
48
ni. Due lettere indirizzate a Russell da Vailati (DE ZAN, 2004b, 44- 45) sottolineano
i comuni interessi matematici e la comune tendenza anti-kantiana; il filosofo cremasco dedica l'esordio dell'articolo La più recente definizione della matematica
alla validità della dottrina matematica (VAILATI 1904, [vol.I, 7- 12]) russelliana, e
nella totalità dei suoi scritti continua a citarlo come serio matematico. Non c'è reale
interesse verso la filosofia di Russell, allora indirizzata sulla strada della critica alla
metafisica idealista bradleyiana e verso il realismo mooriano; con i Principles of
Mathematics l'idea russelliana del metodo analitico è ancora allo stato embrionale.
Oltretutto estratti e libri di Russell sono assai scarsi nella biblioteca vailatiana. Molto
simile è la dimestichezza con Moore; non si ammette l'esistenza di relazioni culturali dirette tra Vailati e Moore, e non viene esclusa l'eventualità di scambi di lettere
o di visite con Whitehead (DE ZAN 2004a, 17). Gli scritti vailatiani non sottolineano
mai la collaborazione di Whitehead alla stesura dei Principles of Mathematics, né
costui viene mai citato direttamente; a commento dei Principia ethica di Moore è
invece dedicato l'articolo La ricerca dell’impossibile (VAILATI 1905a, [I, 59-66]).
Benché ridotta ai minimi termini, sussiste senz'altro una seria conoscenza vailatiana
dell'attività matematica di Russell e Whitehead e finanche quella etica di Moore.
Meno ridotte si mostrano le relazioni culturali tra Vailati e Welby. Nella loro assidua
discussione - come è stato rilevato19- sono toccati tutti i temi d'ambito semiotico:
teoria della definizione, analisi simbolica, indeterminatezza, senza dimenticare
come una incidenza non convenientemente evidenziata tra trattazione semantica
della Welby e l’articolo The meaning of meaning scritto da Ogden e Richards20, che
indirizzerà in modo evidente conclusioni e idee dell’emotivismo radicale ayeriano e
dell’emotivismo moderato stevensoniano, avvicini Vailati alla dimensione metaetica dell'analitica moderna. Con la semioticista britannica il nostro autore evidenzia un’indiscussa inclinazione verso esiti e conclusioni del positivismo milliano, che
ritiene eccellere nei confronti dei positivismi continentali. Vailati scrive: «As you
have seen perhaps from my pamphlets, I am a fervent admirer of the English classical philosophical school, in particular of J.S. Mill, whom I believe to be by far the
most exact and profound writer of the century on philosophical subjects. His
influence on continental thought seems to me to be underrated by the actual philosophical authorities in England; they seem to me not sufficiently to realize the
great advance represented by Mill's writings, vis-à-vis of those of the German
metaphysicians of the school of Kant (VAILATI 1971, 136); e di nuovo valorizza la
forza educativa dell'analisi, asserendo: «I believe the exposition and classification of
verbal fallacies and, above all, their caricatures (in jeux de mots), to be one of most
effectual pedagogic contrivances for creating the habit of perceiving the ambiguities
of language (VAILATI 1971, 141)».
Lo scritto What is meaning? (1903) della Welby è citato nell’interessante articolo I
tropi della logica (VAILATI 1905b, [vol.I, 21]), in cui Vailati abbozza un metodo
strettamente contestualistico di analisi delle metafore e dei simboli connessi ai discorsi tecnici; i due scritti Sense, meaning, and interpretation (1896) e Grains of
sense (1897) sono citati nella celebre prolusione vailatiana al corso di Storia della
meccanica Alcune osservazioni sulle questioni di parole nella storia della scienza
e della cultura (VAILATI 1899b, [vol.II, 55 e 70]). I tre scritti della studiosa britannica sono contenuti, in un caso con dedica, nella biblioteca vailatiana. L’influenza
dell’ante-analitica britannica sui due pragmatisti italiani è evidente.
La storiografia meno recente ha introdotto una tendenza a sacrificare un riscontro
esteso dei riferimenti culturali vailatiani all’esame minuzioso delle relazioni tra
Ivan Pozzoni
Giovanni Vailati e Mario Calderoni
costui e la filosofia americana21 o tra costui e il positivismo continentale22. La centralità dell’esame storico delle relazioni vailatiane con Peirce, James e il positivismo,
strettamente connessa in sede ricostruttiva alla discriminazione tra “leonardiani
mistici” e “leonardiani analitici” mostra tutta la sua riduttività se riferita in via esclusiva ad un tentativo di classificazione dell’analiticità vailatiana e calderoniana.
Qualora ci si limiti a voler differenziare i nostri da autori con i due iconoclasti fiorentini Gian Falco (Giovanni Papini) e Giuliano (Giuseppe Prezzolini), bastano i riferimenti alla cultura americana e al positivismo italiano e continentale; se si desidera invece raffrontare l’attività vailatiana all’intero orizzonte culturale d’inizio secolo
scorso, tali scarni richiami si avviano a diventare ricostruttivamente inutili. Benché
resti incontrovertibile l’esistenza di una stretta relazione feedback con i leonardiani
Gian Falco e Giuliano e positivismi (DI GIOVANNI 2005, 35 ss), l’accostamento ad
una linea ricostruttiva che, basandosi unicamente sull’oramai obsoleta dicotomia
Peirce/ James, trascuri ascendenze e incidenze decisive di Mach/Brentano, di Peano,
del convenzionalismo francese e della semantica britannica sulla tradizione vailatiana e calderoniana, rischia di mostrarsi estremamente riduttivo. Vailati è in stretto
contatto e dibatte con tutta l’ante-analitica d’inizio secolo scorso, sia di matrice
austro-tedesca (Mach e Brentano), sia di scuola italiana (Peano e circolo torinese),
sia di derivazione francese (convenzionalismo), sia di radice britannica (Russell e
Welby); e tale sconcertante mole di scambi culturali e comunanze di temi conduce
ad annoverare Vailati tra i rari iniziatori italiani dell’analitica novecentesca.
della conoscenza; inoltre
della metafora, dei falsi
problemi ed equivoci
posti dalla scienza e
dalla filosofia a causa
del cattivo uso del linguaggio, e della necessità
di una revisione dell’impostazione degli studi
per rimediare a un errato uso linguistico» (1989,
93). In merito a
Calderoni si veda il mio
(POZZONI 2006a).
20
Cfr. OGDEN e
RICHARDS (1975). Per
costoro è conveniente
introdurre una netta
distinzione tra due usi
comunicativi: uso simbolico atto a descrivere e
uso emotivo idoneo a
suscitare sentimenti e
desideri.
21
3. L'etica in Vailati e Calderoni
La curiosità di Vailati e Calderoni nei confronti di come si determini il senso di,
(enunciazioni e discorsi morali) li accosta alle tradizioni di ricerca meta-etiche novecentesche del naturalismo mooriano e dell’emotivismo ayeriano/stevensoniano. È
una ricostruzione di Calderoni a mettere in evidenza con la massima chiarezza l'audacia dei discorsi vailatiani sulla morale. L’attenzione verso la meta-etica nasce nei
nostri due autori da alcune domande sulla validità e il valore della conoscenza morale. Due sono i momenti della narrazione meta-etica di Calderoni: I Postulati della
Scienza Positiva ed il Diritto Penale (CALDERONI 1901, [vol.I, 33-167]), caratterizzato dall’influsso travisato dello scritto vailatiano (citato) Sulla portata logica della
classificazione dei fatti mentali proposta dal prof. Franz Brentano, e Disarmonie
economiche e disarmonie morali (CALDERONI 1906, [vol.I, 285-344]), modellato
invece sullo scritto vailatiano La distinzione fra Conoscere e Volere (VAILATI 1905i,
[vol.I, 55-58]). Nel primo testo (la tesi di laurea), un inaccorto Calderoni non mostra
di metabolizzare in toto i concetti della meta-etica vailatiana; Vailati mutua due idee
dalla trattazione contenuta nei brentaniani Psychologie vom empirischen
Standpunkte e Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis: l'interesse nei confronti della
distinzione tra stati mentali e il desiderio di connettere modelli di enunciazione a
classi di stati mentali. Secondo Vailati, Brentano mette in rilievo come esistano tre
ordini di stati mentali: a] idee, aleticamente neutre; b] credenze, suscettibili di verità/falsità e c] valutazioni, aleticamente neutre. Il filosofo cremasco arricchisce tale
intuizione brentaniana riconducendo i tre ordini di stati mentali a tre modelli di
enunciazione: a] enunciazioni analitiche («definizioni»); b] enunciazioni descrittive/osservative («affermazioni […] che esprimono il grado del nostro assenso, o del
nostro dubbio») e c] enunciazioni valutative («Werth-Urtheile»). Vailati, da buon
Per una esaustiva trattazione delle incidenze
della filosofia statunitense su Vailati e Calderoni
si vedano i due articoli
HARRIS (1963) e SILVESTRI (1989).
22
Generale è la trattazione delle relazioni tra
Vailati e Positivismi in
DAL PRÀ (1984); una discreta ricostruzione delle
relazioni tra Calderoni e
i Positivismi è attribuibile a LANARO (1979).
Recente è POZZONI
(2006b).
23
Cfr. PONTARA (1979).
L’autore considera il
nichilismo etico di
Vailati e Calderoni come
un sotto-insieme dello
scetticismo in etica.
24
Cfr. CALDERONI (1901,
[vol. I, 116]). Costui riferendosi allo studio Vom
Ursprung sittlicher
Erkenntnis di Brentano
sembra introdurre un’idea meta-teorica di etica
49
n.16 / 2006
come scienza normativa
hard totalmente contraria sia all’idea vailatiana di etica e sia all’idea
di etica a cui il nostro
autore aderirà con lo
scritto Disarmonie economiche e disarmonie
morali (etica normativa
soft). Per una esaustiva
trattazione dell’etica calderoniana si consulti
POZZONI (2004).
25
Cfr. VAILATI (1905I,
[vol. I, 56-57]). Vailati
introduce una distinzione netta tra valenza
emotiva e valenza normativa. Funzione del
discorso etico sarebbe
comunicare desideri e
tendenze. Il riferimento
finale alla descrizione di
stati d’animo sembra
una svista inidonea a
vanificare il tenore dell’emotivismo vailatiano.
26
L’intricata frammentarietà dell’orizzonte metaetico analitico d’inizio e
metà del secolo scorso è
chiarita in BAGNOLI che
– a chiusa della ricostruzione accurata dell’etica
analitica viva in tale
momento storico – asserisce: «Come si è visto, fin
dalle investigazioni filosofiche di Moore i filosofi
analitici si scontrano
con il problema di conciliare le aspirazioni
all’oggettività dei giudizi
etici con la loro capacità
di guidare l’azione. Tali
caratteristiche sembrano
suggerire soluzioni
metaetiche opposte»
(2002, 320).
27
Per una attuale e definitiva trattazione della
is-ought question si consulti il monumentale
CELANO (1994).
28
50
Cfr. HARMAN (1977).
ricercatore sulle «terre di nessuno» (EINAUDI 1971, XXIII), assecondando l’intima
connessione tra scienze della mente e semiotica intuisce come la teoria brentaniana della mente sia adatta a costruire una esaustiva teoria delle enunciazioni; e in tale
ambito sono da sottolineare due ottime osservazioni. Da un lato, l’intuizione secondo cui l’in-aleticità (insuscettibilità a stime di verità/falsità) di idee e di valutazioni
sia condizione della loro insensatezza (non subordinabilità a stime di senso); dall’altro, il fatto che la diversa modalità ontica delle tre forme enunciative non tolleri
il “salto” da un modello enunciativo all’altro. Il nostro autore è strenuo sostenitore
di una sorta di nichilismo etico23 caratterizzato dalla decisa adesione alla cosiddetta
norma di Hume. Calderoni nei Postulati non mantiene la direzione del maestro;
sembra arrivare ad esiti naturalistici e obiettivistici molto simili alle conclusioni
mooriane nel momento in cui asserisca che lo «scopo della morale è di determinare i fini che l’uomo deve porsi nell’operare»24 e consideri i fini umani come verità
morali. Nello scritto successivo, Disarmonie, cambiano totalmente i modi calderoniani di intendere l’etica; ed è uno scritto vailatiano del 1905 (La distinzione fra
Conoscere e Volere) ad essere motore di tale cambiamento. Mentre nella riflessione antecedente Vailati si limita ad abbozzare l’idea dell’insuscettibilità delle enunciazioni morali a stime conoscitive, in tale articolo giunge ad asserire in maniera
diretta l'insensatezza delle enunciazioni morali, la loro illocutorietà emotivo/sentimentale e l'insussistenza dei disaccordi morali. È sintomatico un brano vailatiano
assai denso di intuizioni: «La differenza tra l’un caso [credenze] e l’altro [valutazioni] si può brevemente caratterizzare dicendo che, mentre nel primo le nostre affermazioni implicano, direttamente o indirettamente, delle previsioni su ciò che avverrà o avverrebbe se date circostanze si verificassero, nel secondo invece si esprime
soltanto il nostro desiderio che date circostanze si verifichino o no, e la nostra disposizione ad agire in modo da provocarle o impedirle. Mentre per le prime ha vigore quello che i logici chiamano il principio di contraddizione - in quanto, se due persone sono di diverso parere e prevedono, l’una che avvenga, e l’altra che non avvenga, uno stesso fatto, esse non possono avere ragione ambedue -, nel secondo caso
invece lo stesso non si può dire. […] Mentre infatti le prime indicano delle vie e
dei mezzi a cui è possibile ricorrere per realizzare qualche fatto che non esiste ancora, le seconde si limitano a descrivere un nostro stato di coscienza o di fatto, che
riconosciamo come presente. Le prime si riferiscono non a ciò che vogliamo ma a
ciò che potremmo fare se volessimo»25.
Il brano contiene tre idee rilevanti, che diventeranno tematiche ricorrenti nella letteratura calderoniana da Disarmonie in poi (CALDERONI 1907, [vol.II, 20-21], 1910,
[vol.II, 190-191] e 1911, [vol.II, 341-342]). Per Vailati - a differenza di Moore -, a] non
esistono verità morali se unicamente “attese di sensazioni” siano suscettibili di
conoscenza e se unicamente credenze siano suscettibili di verificazione, e se ancora la cosiddetta norma di Peirce sia da intendere come criterio di verificazione e di
senso insieme, allora le enunciazioni della morale non saranno enunciazioni strettamente sensate. Poi, sottendendo mere decisioni («choses»), b] le enunciazioni
morali, come in Calderoni, hanno forza illocutoria emotivo/sentimentale; Vailati, a
commento di alcuni brani della tesi di laurea calderoniana asserisce infatti «l’attribuire maggior pregio a un fine piuttostochè a un altro, il preferire, per usare la frase
ormai divenuta classica del Nietzsche, una data “tavola di valori” ad un’altra, l’aderire a una concezione della vita e dei suoi scopi piuttosto che ad un’altra, non è affare di scienza o di ragionamento, o, in tutti i casi, non di sola scienza né di solo ragionamento, ma è qualche cosa che riguarda il carattere, il temperamento, i sentimen-
Ivan Pozzoni
Giovanni Vailati e Mario Calderoni
ti, i gusti, il particolare modo di essere di ciascun uomo o di ciascun popolo. […]
La propensione, infatti, o la ripugnanza, ad assumere l’utilità generale come unico
criterio di giustizia non dipende tanto dal fatto di possedere o non possedere determinate cognizioni, quanto dal fatto di essere o no suscettibili di determinate preoccupazioni morali o sentimentali» (VAILATI 1902a, [vol. I, 289]). E infine v’è c] una
visione della contraddizione tale da circoscriverne l’efficacia unicamente alle credenze e da non assicurare consistenza e validità ai disaccordi morali.
Intuizione dell’insensatezza dei discorsi morali, riconoscimento dell’illocutorietà
emotivo/sentimentale di essi e visione della contraddizione volta ad escludere l’esistenza di disaccordi morali inseriscono la riflessione culturale vailatiana nella metaetica di un considerevole settore26 del movimento analitico novecentesco. Pur in un
universo variamente contraddittorio di teorie meta-etiche, l’esordiente movimento
analitico novecentesco è caratterizzato da una rilettura divisionista della is-ought
question27, in modo da mostrare assai radicata l’osservazione successiva di un autore come Putnam: «La scienza ci dice - o ci viene detto che la scienza ci dica - che
viviamo in un universo fatto di sciami di particelle, di molecole a spirale di DNA, di
calcolatori, e di cose esoteriche come buchi neri e stelle a neutroni. In un universo
simile, come potremmo sperare che i nostri valori abbiano un senso o un fondamento?» (PUTNAM 1990, 142).
L’iniziale comune critica anti-metafisica conduce di norma ad accettare la tesi dell’immunity from observational testing delle enunciazioni morali28, con coerente disconoscimento della sensatezza del discorso morale29. La dimestichezza con l’attività
culturale della Welby avvicina il pragmatismo italiano alla corrente emotivista della
meta-etica analitica novecentesca. Sulla scia del riconoscimento dell’immunity è
Ayer, mediatore tra analitica britannica mooriana e conclusioni schlickiane, a difendere l’idea della derivazione emozionale di tutte le enunciazioni morali, asserendo:
«La presenza del simbolo etico nella proposizione non aggiunge nulla al suo contenuto fattuale. Così, per esempio, se dico a qualcuno: “Hai agito male rubando quel
denaro”, non sto dicendo nulla di più che se avessi detto semplicemente: “Hai rubato quel denaro”. Aggiungendo che questa azione è male, non faccio nessun’altra
affermazione in proposito. Vengo semplicemente a mettere in evidenza la mia disapprovazione morale del fatto. È come se avessi detto “Tu hai rubato quel denaro”,
con un particolare tono di ripugnanza, o lo avessi scritto con l’aggiunta speciale di
alcuni punti esclamativi. Il tono di ripugnanza o i punti esclamativi non aggiungono
nulla al significato letterale dell’enunciato. Servono solo a mostrare che in chi parla
l’espressione dell’enunciato si accompagna a certi sentimenti»30. È ancora tale autore ad elaborare in nuce la tesi dell’inesistenza dei disaccordi morali31. Le conclusioni ayeriane sulla necessità di subordinare l’etica ai metodi delle scienze della mente
e delle scienze sociali (Ayer 1961, 145) ricordano vivamente moniti e indicazioni vailatiani in merito alla convenienza di studiare i meccanismi mentali investiti della
costruzione delle così dette «tavole di valori» di nietzscheiana memoria.
L’emotivismo radicale di Ayer è moderato in seconda battuta dall’intervento dell’emotivismo combinazionista stevensoniano; aderendo alla tesi mooriana secondo
cui all’interno dell’everyday life sarebbe assurdo sostenere l’inesistenza di concreti
disaccordi morali, Stevenson formula una definizione di “disaccordo” basata sulla
distinzione tra disagreement in belief e disagreement in attitude32. Per Stevenson
fondamento dei disaccordi morali è innanzitutto il «disaccordo di tendenze»33. Le
enunciazioni morali, come in Hare34, sono combinazioni di costituenti diversi: un
elemento descrittivo e un elemento emotivo; vista l’eccellenza dell’elemento emo-
L’esistenza di tale tesi
analitica è riconosciuta
anche in MACKIE (2001)
e in WILLIAMS (1987, 165
ss).
29
Tra tutti si veda il caso
del Wittgenstein iniziale.
Questo autore scrive
«[…] ora vedo come
queste espressioni prive
di senso erano tali non
perché non avessi trovato l’espressione corretta,
ma perché la loro mancanza di senso era la
loro essenza peculiare.
Perché, infatti, con esse
io mi proponevo proprio
di andare al di là del
mondo, ossia al di là del
linguaggio significante.
La mia tendenza e, io
ritengo, la tendenza di
tutti coloro che hanno
mai cercato di scrivere e
parlare di etica o di religione, è stata di avventarsi contro i limiti del
linguaggio» (WITTGENSTEIN 1967, 18). Per
costui l’etica all’interno
di un orientamento referenziale della semantica
è un discorso senza
senso.
.
.
30
Cfr. AYER (1961, 136). Il
centro dell’emotivismo
radicale di Ayer consiste
nell’asserzione di come
termini enunciazioni e
discorsi etici non siano
altro che comunicazioni
di interiezioni cariche
d’emozione.
31
Ayer scrive: «[…]
Sosteniamo che in realtà
non si discute mai di
questioni di valore. Può
essere che a prima vista
quest’ultima suoni una
asserzione molto paradossale. E’certo che la
gente si impegna di fatto
in dispute comunemente
considerate relative a
questioni di valore. Ma
51
n.16 / 2006
esaminando la situazione più da vicino in ogni
caso del genere noi troviamo che la disputa
non riguarda realmente
una questione di valore,
ma una questione di
fatto […]» (1961, 139).
32
Per una breve storia
della distinzione tra disaccordi di credenza e
disaccordi di tendenza
all’interno della riflessione meta-etica stevensoniana si veda innanzitutto l’accenno in STEVENSON (1959) e successivamente la riformulazione in maniera sistematica della medesima
tesi nella sezione iniziale
del libro di STEVENSON
(1962).
33
Si consulti lo scritto stevensoniano The nature
of ethical disagreement
riedito in STEVENSON
(1963)
34
Hare invece intende
un enunciato morale
come combinazione tra
un neustico direttivo e
un frastico descrittivo.
Per una chiara definizione dei termini descrittivo-valutativi si veda lo
scritto hareiano
Descriptivism riedito in
HUDSON (1969).
35
Cfr. STEVENSON (1962,
71). Lo stesso C.S. Nino
intuisce in toto tale
caratteristica dualità
semantica stevensoniana
delle enunciazioni
morali sostenendo:
«Secondo Stevenson, un
giudizio morale come
“questo è buono” potrebbe essere tradotto da
quest’altro: io lo approvo, approvalo anche tu”.
La prima parte avrebbe
significato descrittivo,
ossia darebbe delle infor-
52
tivo o tendenziale sull’elemento descrittivo o credenziale termini, enunciazioni e
discorsi morali, a detta di Stevenson35, non saranno suscettibili di conoscenza.
Stevenson, a differenza di Ayer, si avvia sul cammino dell’insensatezza senza calcare
la strada dell’inesistenza dei disaccordi morali. Funzione del discorso morale è,
come in Vailati, comunicare emozioni ad un destinatario, causandone una reazione
emotiva36.
L’idea della inconoscibilità delle enunciazioni morali, la tesi dell’inesistenza dei disaccordi morali o almeno la netta distinzione tra disaccordi di credenza e di valore,
e l’attribuzione ai discorsi morali di una illocutorietà emotiva e sentimentale sono
elementi atti a costituire un trait d’union evidente tra tradizione di ricerca vailatiana e un buon numero di autori del movimento analitico novecentesco. Benché
all’interno di un contesto tanto frammentato come l’orizzonte meta-etico novecentesco, non riesca a consolidarsi una decisiva conformità teoretica tra riflessione vailatiana e intero movimento analitico, si assiste all’interesse di entrambe le tradizioni di ricerca verso i temi comuni della conoscenza morale, della illocutorietà e dell’esistenza dei disaccordi morali. L’esistenza di una comune curiosità meta-etica è
sintomo di una certa continuità culturale tra tradizioni diverse. Vailati e Calderoni
restano analitici ante litteram con riserva.
Mentre è caratteristico dell’intera analitica esordiente sacrificare etica descrittiva e
normativa alla valenza meta-etica dell’analisi, i due italiani «simili in questo a falciatori», asservono l’analisi meta-etica alle conclusioni scientifiche dell’etica.
Precorrendo la svolta etica connessa alla crisi interna al mondo dell’analitica della
concezione anti-metafisica dell’universo, i nostri due autori sia all’interno dei lavori
etici calderoniani (Du rôle de l’évidence en morale (CALDERONI 1904a, [vol.I, 205206]); De l’utilité “marginale” dans les questions d’etìque (CALDERONI 1904b,
[vol.I, 207-208]); Disarmonie economiche e disarmonie morali) sia nelle recensioni vailatiane a tali studi, riconoscono come l’attività dello studioso di morale non
si esaurisca nell’analisi dei o sui discorsi morali. Vailati e Calderoni ammettono che
al di fuori della meta-etica sussistano tre ulteriori rami della ricerca etica (meta-teoria etica; etica descrittiva; etica normativa)37. La meta-teoria etica è intesa come discorso sulle funzioni e sullo statuto dell’etica; etica descrittiva ed etica normativa
sono intese come discussioni sul funzionamento effettivo e ideale di sistemi morali. La scienza etica – a detta di Calderoni38- sottende uno statuto analitico/descrittivo e normativo soft, è caratterizzata da un modello di analisi economicistica delle
“choses” umane indirizzato a rendere l’insieme delle tavole dei valori individuali
simile ad un immenso mercato economico e si mantiene ad una certa distanza da
kantismo e utilitarismo etici. La curiosità della tradizione analitica novecentesca è
invece diretta in via esclusiva verso meta-etica e meta-teoria etica, e sino alla
Rehabilitierung der Praktischen Philosophie analitica della metà del secolo scorso
(Nozick; Baier; Gauthier; Nagel; costruttivismo korsgaardiano) v’è una totale
dimenticanza di etica descrittiva e normativa all’interno del movimento39.
Precorrendo interessi meta-teorici e meta-etici novecenteschi e mantenendo invariati interessi sette-ottocenteschi verso l'etica descrittiva (illuminismi e positivismi)
e normativa (kantismo e utilitarismi), Vailati rivela una narrazione etica caratterizzata da autonomia ed innovazione. Più vicina alle conclusioni della Rehabilitierung der
Praktischen Philosophie di tarda analitica americana e teoria critica tedesca, l’analisi etica del pragmatismo italiano si mostra come un moderato correttivo nei confronti di alcuni cliché etici del movimento analitico meno recente.
Ivan Pozzoni
Giovanni Vailati e Mario Calderoni
4. Alcune conclusioni
Da una ricostruzione della collocazione dei nostri due autori nella storia della cultura moderna discendono i motivi della scarsa “fortuna” della tradizione vailatiana e
calderoniana all'interno dell'orizzonte culturale italiano novecentesco. Tale scarsa
fortuna ha come cause l'estremo inserimento vailatiano nel contesto della comunità internazionale di studiosi d'inizio secolo scorso, e l'estrinsecazione di interessi
tanto moderni da non essere nemmeno intesi dall'arretrato e ristretto circolo accademico nazionale. Guardare fuori e avanti è una dimensione caratteristica della
riflessione culturale del pragmatismo italiano, non comune ad altre tradizioni di
ricerca ad essa coeve. Più che indirizzarsi all'estero o al futuro, la filosofia italiana d'inizio Novecento tende a chiudersi entro i confini nazionali (nazionalismo filosofico)
o a ricercare in maniera scarsamente innovativa modelli anteriori e inattuali (conservatorismo filosofico). Benché si riferisca alle interessanti meditazioni di Rosmini
e Gioberti, il trascendentalismo cattolico di Mamiani, Conte e Alfani, ne vanifica la
rilevanza teoretica, abbandonandosi a sterili discussioni sull'arte oratoria e a inutili
sermoni moralistici (GARIN 1966, [vol. I, 1-2]). Il positivismo italiano, con Tarozzi,
Troilo e Marchesini, tende a moderare naturalismo e meccanicismo deterministici
ardigoiani mediante l'introduzione di un accorto umanesimo o riducendo tale dottrina a mero metodo scientifico. L'idealismo meridionale di Vera, De Sanctis,
Spaventa e le posizioni di altri autori meno rilevanti (Omodeo, Fazio Allmayer,
Orestano, Guastella, etc.) sembra totalmente rivolto a conciliare storicismo vichiano e idealismo tedesco; Croce e Gentile - i cui meriti internazionali devono rimanere indimenticati -, nei loro neo-idealismi restano ancorati ad interessi e autori dell'idealismo meridionale40. Le tradizioni di ricerca che rinunziano a nazionalismo e
conservazione e che si mostrano radicalmente innovative come il pragmatismo, l'irrazionalismo di Michelstaedter, l'idealismo marxiano di Labriola o il modernismo,
accolgono scarsi consensi all'interno dell'accademia italiana e saranno riconsiderate
unicamente dalla metà del secolo scorso in avanti. Il pragmatismo italiano è invece
orientato verso l'Europa e oltre. Guarda fuori, creando e consolidando strette relazioni culturali con tradizioni di ricerca di matrice austro-tedesca (Mach e Brentano),
francese (convenzionalismo), britannica (Russell e Welby) e americana (Peirce e
James). Guarda avanti, affrontando problemi nuovi e introducendo soluzioni caratteristiche del successivo movimento analitico: Post-analytic Philosophy, new epistemology, ermeneutica, contestualismo americano e teoria critica tedesca. In conclusione, la sensibilità verso tematiche e interessi assai recenti rende Vailati e Calderoni
uomini del Novecento e autori molto vicini al movimento analitico novecentesco;
necessità di un accostamento multi-culturale alle domande dell'uomo, ricerca di
modalità retoriche vicine allo stile delle scienze, riconoscimento della riflessività del
discorso filosofico, intuizione della valenza clinica dell'analisi, idea della inaleticità
delle enunciazioni morali e dell'inesistenza dei disaccordi morali, attribuzione di
valore emotivo ai discorsi morali, si mostrano tutte caratteristiche atte ad includere
Vailati e Calderoni come iniziatori della successiva tradizione di ricerca analitica
novecentesca.
Riconoscimento della mera introduttività della tecnica analitica, ricorso alla storia
delle scienze o al raffronto tra metodi diversi, attenzione verso contesto storico e
tradizione, e curiosità verso etica descrittiva e normativa sono invece caratteristiche
atte ad inserirli a pieno titolo nella rilettura critica introdotta dal movimento recente contro idee e nozioni dell'analitica esordiente. Poco fortunata in Italia, la tradi-
mazioni sull’atteggiamento di chi parla, mentre la seconda parte
(“approvalo anche tu”)
avrebbe un significato
emotivo, ossia sarebbe
volta a suscitare un certo
atteggiamento nell’interlocutore» (NINO 1996,
321-22).
36
Cfr. STEVENSON scrive:
«[l’uso dei termini e delle
enunciazioni etici
innanzitutto] …is not to
indicate facts, but to
create an influence.
Instead of merely describing people’s interests,
they change or intensify
them […]» (1959, 268).
37
La distinzione in base
all'uso tra etica normativa, etica descrittiva e
meta-etica è situazione
oramai consolidata
all'interno della dottrina
moderna. Si veda NINO
(1996, 311-312).
Problema centrale della
meta-etica è – secondo
Nino- il dilemma della
fondazione razionale dei
valori etici attraverso
analisi semantiche dei
termini e delle enunciazioni etiche. Problema
essenziale dell’etica normativa sarebbe invece il
dilemma dell’indicazione di criteri idonei a
valutare norme e istituzioni. Problema centrale
dell’etica descrittiva infine sarebbe il dilemma
della descrizione di valutazioni individuali
all’interno di società in
un dato momento storico. Problematica – successivamente alle critiche
rivolte da Quine alla
distinzione analitico/sintetico inizia ad essere
intesa la distinzione tra
etica normativa ed etica
descrittiva. Per una
esaustiva ricostruzione
53
n.16 / 2006
della situazione si veda
WHITE (1981, sez. I).
38
Cfr. CALDERONI (1906,
[vol.I, 292]). La ricostruzione dell'etica calderoniana come una scienza
etica analitico/ descrittiva e moderatamente
normativa è comune a
MORI (1979, 368 e 371).
39
Per determinate motivazioni storiche considerate in D’AGOSTINI
(1995, 188) una simile
svolta etica si manifesta
nello stesso momento in
diverse tradizioni di
ricerca (Ermeneutica;
Teoria critica; Post-strutturalismo e Post-modernismo).
40
La relazione tra idealismo meridionale ottocentesco e neo-idealismo
novecentesco – secondo
Garin - è biunivoca.
Come l’idealismo italiano ottocentesco contribuisce, con l’inizio del
secolo successivo, alla
fondazione del neo-idealismo italiano di Croce e
di Gentile; così il neoidealismo contribuisce
alla riconsiderazione
culturale delle “dimenticate” riflessioni filosofiche dell’idealismo italiano ottocentesco. Garin
scrive: «[…] se De
Sanctis e Spaventa furono fattori importantissimi della formazione di
Croce e di Gentile, essi
figurano tra le componenti più notevoli della
coscienza italiana del
‘900 attraverso il ripensamento e la diffusione
che se ne ebbero sotto il
segno, appunto, del
Croce e del Gentile […]»
(1966, [vol.I, 18]).
54
zione del pragmatismo italiano assume ruolo di trait d'union, oltre che tra positivismi e neo-positivismo, tra cultura americana e ante-analitica ottocentesche, in una
sorta di contaminazione tra tradizioni diverse continuata nel secolo scorso con
l'International Encyclopaedia of Unified Science tra strumentalismo americano
(Dewey) e analitica (Wiener Kreis) o con la successiva riflessione rortyiana tra neostrumentalismo americano (Goodman, Putnam) e analitica contestualista (Quine,
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e innovativo moderatore della tradizione analitica novecentesca.
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Alessandro Lattarulo
Le stagioni della Puglia
Dalla primavera delle primarie all’autunno del
Governo regionale
Borderline
1. Introduzione
Il 3 e 4 aprile 2005 si sono svolte, nelle regioni a statuto ordinario, elezioni il cui
inequivoco esito a favore della coalizione di centrosinistra ha consentito, retrospettivamente, di interpretarle come la più credibile anticipazione delle intenzioni di voto che nel 2006 hanno fatto maturare la vittoria dell’Unione guidata da
Romano Prodi (Sani 2006, 49).
A dir la verità, la risicata affermazione della coalizione sorta dalle ceneri della
Grande Alleanza Democratica (GAD), ben lungi dal potersi addebitare al gap non
colmato rispetto al dinamismo mediatico di Berlusconi, per un verso ha immediatamente problematizzato i successi nelle realtà precedentemente amministrate dalla Casa delle Libertà (CdL) (Piemonte, Liguria, Lazio, Puglia, Calabria,
Abruzzo), d’altro canto, sopite le polemiche strumentali, impone di rileggere gli
avvenimenti con superiore distacco e obiettività.
Il caso della Puglia si presenta emblematico soprattutto perché maturato avendo
alle spalle il travagliato esperimento da parte dello schieramento infine risultato
vincente di convocare elezioni primarie aperte alla base elettorale per la scelta
del candidato Presidente, e perché il risultato scaturito il 16 gennaio 2005 ha evidenziato segnali di continuità, ma altresì di rimarchevole frattura, nel bene e nel
male, con l’atmosfera condensata nella cosiddetta “primavera barese”, trasformata, vedremo nel paragrafo terzo quanto a torto oppure se a ragione, in “primavera pugliese”.
Insomma, intendiamo con il presente contributo concorrere a (ri)definire i tratti maggiormente interessanti e innovativi della mobilitazione registrata in occasione delle primarie pugliesi, anticipazione di quelle poi svoltesi per indicare in
Prodi il legittimato candidato alla Presidenza del Consiglio, inserendone l’evento
all’interno di un ciclo elettorale favorevole al centrosinistra sin dal 2004 e valutando se e in che misura l’effetto mobilitante si sia riverberato sugli orientamenti elettorali dei pugliesi nel 2005 e nel 2006.
2. La crisi del metodo negoziale tra partiti
Il crollo della cosiddetta “Prima Repubblica”, Repubblica dei partiti (Scoppola
1997), e le trasformazioni intervenute in questi ultimi anni in un quadro politico
58
Alessandro Lattarulo
Le stagioni della Puglia
che sembra suggerire un’infinita e incompiuta transizione, ha reso centrale il
tema della selezione dei candidati alle cariche elettive. In particolare, il sistema
uninominale maggioritario di collegio impiegato nelle elezioni parlamentari del
1994, 1996 e 2001, con il suo corollario di quota proporzionale da ripartirsi
mediante voto attribuito a liste bloccate con soglia di sbarramento del 4% (ma
solo per la Camera), diventata poi la base per la riforma approvata alla vigilia
delle elezioni del 2006, ha evidenziato che la selezione dei candidati da sottoporre al giudizio degli elettori transita, alternativamente, per le trattative dei vertici partitici e le lunghe negoziazioni interne alle singole forze, con un coinvolgimento della base militante, tra l’altro in perniciosa contrazione, pressoché nullo.
Detto altrimenti, l’annosa crisi del metodo negoziale tra partiti oggi inacidisce la
propria portata rispetto al passato non soltanto per il loro più defilato ruolo, per
la loro debilitata credibilità, ma perché, laddove vi è una carica per la quale il
corpo elettorale è chiamato a pronunciarsi direttamente, crescono le aspettative
da parte dello stesso di poter far convergere la propria indicazione su un candidato di valore. In tale ottica, una sola soluzione appare dotata della virtù di arrestare l’accartocciamento in scelte debolmente in sintonia quanto meno con la
base elettorale di riferimento e sorde a ogni istanza di apertura verso nuovi settori della società civile, al fine di infrangere l’avvitamento intorno a pratiche di
stanca perpetuazione di equilibri oligarchici, di classi politiche aliene dall’idea
stessa di una salutare circolazione: quella di allargare il gruppo di persone chiamate a scegliere il candidato (selectorate),chiamando in causa la base degli iscritti o addirittura tutti i simpatizzanti, stabilendo preliminarmente regole che disciplinino tale accesso al voto (Giaffreda 2006, 135).
Senza lasciarsi tentare da frettolose comparazioni con l’esperienza degli Stati
Uniti d’America, dove, come è noto, risulta più efficacemente oliato il meccanismo della selezione mediante il coinvolgimento della base dei candidati alle principali cariche elettive, non appaia un appiattimento su grammatiche ingegneristicamente soffocatrici del dibattito più squisitamente politico l’accurato disciplinamento di un momento di consultazione quale le primarie si propongono di
essere, giacché, dall’individuazione dei seggi alle modalità per rendere pubblica
la propria candidatura, tutto può concorrere a favorire scelte in un senso o nell’altro, come del resto efficacemente evidenziato, per l’esperimento pugliese, da
alcuni studi (Milella 2005; Gangemi-Gelli 2006).
Va senza indugio rifuggita l’illusione che le primarie, elevate a trait d’union tra le
aspettative partecipative dei girotondi, delle liste civiche, dei movimenti dei consumatori, possano esaurire le esigenze di rinnovamento del sistema politico che
in tutte le proprie componenti raccoglie sentimenti di sfiducia pericolosamente
diffusi, mettendo a repentaglio l’accettazione dei paradigmi liberal-democratici.
Come infatti rimarcato da Giuseppe Cotturri, l’entusiasmo, pur comprensibile,
per un pionieristico esperimento mobilitante come quello delle primarie, manifesta “scontentezza e effervescenze diffuse” (Cotturri 2005b, 28), a cui non si
offre una risposta che scuota il primato dei poteri delegati, ma semplicemente
una chance d’intervento sulla costituzione di rappresentanze istituzionali.
Evocando una forma più alta di democrazia meramente sul piano rappresentativo, si rischia di rimanere impigliati nell’equivoco appostato dietro l’obiettivo di
rendere efficacemente complementari poteri popolari diretti e sistemi di rappresentanza, mentre il malcontento registrato da tutte le rilevazioni indichereb-
59
n.16 / 2006
be piuttosto che il tessuto connettivo per rigenerarli deve essere fornito da un’altra componente di sistema, che le esperienze di cittadinanza attiva avrebbero
reso sufficientemente matura: la democrazia partecipativa, specialmente in ambito locale, dove timidi esperimenti di stampo consultivo hanno ormai fatto il proprio tempo (Cotturri 2005b, 28, 38).
Se lo schema che contempla forme compiute di democrazia partecipativa può
forse suscitare le perplessità di coloro i quali, sebbene rimangano distanti da scivolamenti oligarchici, intravedono nella limitata qualificazione dell’opinione
pubblica ad affrontare problemi tecnologici complessi (inadeguatezza della competenza civico-deliberativa; Privitera 2001, 155) e nella ridotta disponibilità di
tempo del cittadino medio una delle ragioni portanti dell’idea stessa di rappresentanza elettorale, non possono dimenticarsi gli sforzi compiuti da chi nelle primarie ravvisa almeno una leva per incidere sulle pretese della classe politica, sul
suo arroccamento attorno a posizioni di potere persino in spregio ai risultati
concretamente conseguiti dal partito o dallo schieramento, costringendola a un
confronto più serrato con le idee e i sentimenti della base.
Entro tale cornice si inserisce lo schema di primarie elaborato da Gianfranco
Pasquino già all’indomani della sconfitta patita dall’Ulivo nel 2001, per accelerare
un processo di ravvivamento e rinnovamento programmatico in previsione delle
scadenze elettorali per cariche monocratiche amministrative a vario livello
(Pasquino 2002b). Esperienza di mobilitazione concepita dall’accademico la cui
sorgente viene individuata nell’esplicita richiesta in tal senso di un numero di firmatari ragionevolmente congruo (un centinaio), e che, sulla scorta di quanto verificato nel corso degli anni al di là dell’Atlantico, svolge almeno quattro funzioni:
a) una funzione esplicita, costitutiva, consistente nello scegliere il candidato alla
carica per la quale si è reso possibile, utile e necessario consentire all’elettorato
di esprimersi direttamente e decisivamente;
b) una funzione di sollecitazione e mobilitazione dell’elettorato, in special modo
se politicamente attento e consapevole;
c) una funzione consistente nel favorire la critica all’incumbent, al titolare della
carica, non risultando sufficienti, non da ultimo perché prive di spettacolarità,
quelle mosse nelle sedi congressual-parlamentari. Dopotutto, qualora non sia
previsto esplicitamente un limite al numero dei mandati, la circolazione delle leadership, e soprattutto la creazione di precondizioni che garantiscano la qualità
delle leadership stesse, non può prescindere dal conferimento agli elettori del
potere di scegliere non soltanto rappresentanti e governanti, ma anche coloro
che ambiscono a diventare rappresentanti e governanti, quest’ultimo costituendo un interrogativo democraticamente altrettanto rilevante di quello condensato nel classico “quis custodiat custodes?” (Pasquino 2006, 24);
d) una funzione di proposizione programmatica, la maggior parte delle volte graduale, di temi e soluzioni, offrendo la possibilità di incominciare a valutare e sondare le reazioni degli elettori, non soltanto quelli del proprio schieramento, con
il fondamentale corollario di scremare le candidature, eliminando chi, ancorché
apprezzabile e moralmente probo, si dimostri ricettore di un consenso eccessivamente ristretto già all’interno dei sostenitori di un partito o di una coalizione.
L’electability si erge pertanto immediatamente a fattore discriminante, a condizione necessaria per poter entrare nella fase della campagna elettorale nutrendo
ragionevoli possibilità di vittoria (Pasquino 2004).
60
Alessandro Lattarulo
Le stagioni della Puglia
3. L’intempestività della Puglia
Per inquadrare l’onda lunga nella quale si inserisce l’esito delle primarie e delle
elezioni regionali è necessario compiere il proverbiale passo indietro, quanto
meno cercando di intuire se i più rilevanti risultati maturati nella tornata amministrativa del 2004, contestuale alle elezioni per il rinnovo del Parlamento
Europeo, costituiscano la traduzione elettorale delle intenzioni di rinnovamento
innescate dalla cosiddetta “primavera pugliese”.
Uno sguardo alla storia politico-sociale recente della Puglia conferma effettivamente la sua natura intempestiva, l’inclinazione quasi antropologica ad arrivare
tardi sulla palla (Romano 2005, 218). Si pensi che il suo capoluogo, Bari, ha saltato a pie’ pari la stagione aurea dei “nuovi Sindaci”, vivendo una breve e intensa parentesi di fermento civico solamente nel 2004, quando il rinnovamento dell’amministrazione comunale è coinciso con l’impossibilità per il primo cittadino
uscente di ricandidarsi e con la convergenza dell’opposizione di centrosinistra su
di un candidato sostanzialmente imposto ai partiti dalla società civile, anche
attraverso il decisivo ricorso a una Convenzione che nel noto magistrato locale
Michele Emiliano ha scrutato i lineamenti di un personaggio in grado di dialogare tanto con la borghesia quanto con i ceti popolari delle periferie più degradate. Tale duttilità, nemica della chiusura nella classica turris eburnea, ha di primo
acchito stimolato, non aiutato a rifuggire, le perplessità di chi lo vedeva in odore
di antipolitica e con un’immagine pubblica esplicitamente ritagliata sul contorno
di uomo d’ordine, di Sindaco-sceriffo alla Rudolph Giuliani1, che nell’incarico
amministrativo avrebbe senz’altro saputo trasferire gli apprezzamenti collezionati in ambito professionale nella lotta contro la criminalità organizzata (Cozzi
2005, 74-76). A difesa di Emiliano, del suo sforzo di diventare orecchio sensibile
della città, malgrado alcune riserve non pienamente chiarite sulla stampa locale,
si schierarono immediatamente i principali rappresentati della società civile,
preoccupati piuttosto che i partiti potessero e volessero bloccarne l’azione,
rivendicando quote di potere variamente distribuite, incrinando di conseguenza
quel rapporto con la gente lentamente edificato sul dialogo, sconosciuto alla pratica politica della nuova sinistra al punto da essere impropriamente confuso per
populismo (Cassano 2004).
Bari aveva mancato il turno di rinnovamento rintracciabile nella rinascita di
molte città del Mezzogiorno, non certamente per aver scelto, in controtendenza
con il resto d’Italia, un primo cittadino espressione dello schieramento di centrodestra, bensì per aver sonnecchiato anche di fronte allo sfaldamento del sistema di potere che nel contesto urbano riproduceva gli equilibri della Prima
Repubblica, e per aver poi riposto un po’ acriticamente fiducia in Di Cagno
Abbrescia, figura estranea alla vita politica, ma imprenditore sollecitato a candidarsi dal “Ministro dell’Armonia” Tatarella, missino di lungo corso ritrovatosi a
ereditare, gestendolo sapientemente anche per i ritardi organizzativi di Forza
Italia sul territorio, il patrimonio elettorale della defunta DC e degli altri partiti
conservatori.
Laddove il 1993 aveva rappresentato per quasi tutte le metropoli italiane l’occasione per porre fine a esperienze amministrative edificate sulla corruzione, sulla
collusione con la criminalità organizzata, sulla rottura della formula penta o quadripartitica, a Bari, anche a causa di un più ovattato susseguirsi di scandali, il
1
Convinzione stata
rafforzata dall’essere
stato proposto come
candidato anche da
Alleanza Nazionale.
61
n.16 / 2006
2
Nel decennale della
scomparsa di Pietro
Leonida Laforgia, anche
il Sindaco Michele
Emiliano indicherà nell’esperienza di quell’avvocato socialista sui
generis, che aveva immaginato di traghettare la
“Bari da bere” verso un
nuovo modello di città, il
primo vagito della primavera che egli tenta di
incarnare (Emiliano
2005).
62
Consiglio comunale eletto nel 1990 si trascinerà convulsamente fino alla scadenza naturale del mandato, esercitandosi in rapsodici tentativi di apertura al PCIPDS e ai Verdi, resi possibili soprattutto per gli sforzi dell’ala sinistra della
Democrazia Cristiana. Nel 1995, dunque, in una città che sin dall’anno prima ha
potuto reinterpretare la propria anima conservatrice e pragmatica senza le ormai
fuorvianti etichette di partiti (specialmente quelli laici) assai distanti dall’originario patrimonio valoriale, le elezioni comunali giungono in un clima di “normalità”, senza aver alle spalle particolari richieste popolari, ma quasi come se si trattasse di conferire nuova morfologia politica a quanto acceduto nei mesi precedenti. Stabilizzando, insomma, le posizioni rivendicate dal melmoso “partito dei
parvenu”, formato dalle seconde e terze linee delle forze azzerate da
Tangentopoli (Romano 2003, 111). In tale atmosfera, che si prolunga nel tempo,
favorendo nel 1999 la rielezione trionfale di Di Cagno Abbrescia, appare forzata
la lettura di chi riconduce già a quegli anni lo sviluppo di un inedito fervore civile, invero esteso anche ad altre zone della regione, ma che a Bari avrebbe segnato la traduzione in atto dell’accumulo lento e progressivo di un sentimento di
frustrazione di una fetta dell’opinione pubblica, profondamente turbata da una
straordinaria sequenza di eventi drammatici, a partire dall’incendio doloso del
Teatro Petruzzelli nel 1991 (Cassano 2005; Chiarello 2005).
Episodi senza dubbio laceranti, ma che, nonostante gli esempi forniti da altre realtà cittadine (a Venezia il teatro “La Fenice”, andato in fumo nel 1997, viene ricostruito a tempo di record), tardano a scuotere l’immobilismo della società civile
locale, ristretta nel numero e debolmente sensibile a una cultura non occasionale dei beni comuni. E anzi, l’impropriamente magnificata alba della “primavera”
che si affaccerà nel 2004, resa possibile da Giunte parzialmente anomale come
quella del democristiano Dalfino nel 1990-‘91 e del pidiessino Laforgia nel 1993,
ritardano colpevolmente le pressioni esercitate per lo scioglimento anticipato del
Consiglio comunale, zeppo di personaggi plurinquisiti e ridotto a un immobilismo testimoniato nella ridottissima durata di Giunte affastellate senza logica2.
A ben vedere, allora, la grammatica dei luoghi ridiventa materia di studio quando la Giunta Di Cagno Abbrescia, inizialmente a cifra rotondamente tecnica e poi
dai notevoli inserti politici dopo la crisi del “secondo anno”, sfrutta adeguatamente i fondi statali stanziati per i Giochi del Mediterraneo previsti nel 1997 per
dotare la città di impianti sportivi all’avanguardia, e fondi europei per ripensare
la città vecchia, rendendola pedonale e riaprendo a una più serena opportunità
di passeggio le piazze limitrofe al quartiere murattiano (Di Cagno Abbrescia
2004). Forse adagiandosi sul mimetismo nei confronti di assai più celebri esempi di movida notturna, ma comunque segnando una svolta rispetto ad ataviche
lentezze amministrative.
Certo, particolarmente in coincidenza con il secondo mandato (1999-2004), il
passo della Giunta Di Cagno Abbrescia, nonostante il tentativo di indicare una
continuità nell’azione e nelle competenze dei singoli componenti, si fa più incerto, inciampando su temi, come quello di Punta Perotti, che ne screditano l’azione pubblica e, anche al di là della superficialità dello sguardo dei media, sempre
tentato dal sensazionalismo, favoriscono l’affioramento di comitati e associazioni la cui attività si incentra su singole issues, legate essenzialmente alla qualità
della vita e dello sviluppo urbano (Chiarello 2005, 151). A tematiche, insomma,
ambientali anche in senso lato e aventi per oggetto beni immateriali comuni,
Alessandro Lattarulo
Le stagioni della Puglia
quelli sui quali la classe dirigente locale, spesso per la presenza di conflitti di interesse – riguardanti in primis lo stesso Di Cagno Abbrescia –, non aveva voluto
intervenire, preferendo garantire, secondo canoni sviluppisti sorpassati, il sistema economico a essa più intimamente collegato3. La diffusione dell’associazionismo a Bari contrasta palesemente con la tesi di Banfield sul familismo amorale
(Banfield 1976) e avvicina il Mezzogiorno alle altre aree del paese, favorendo un
processo di omogeneizzazione culturale (Chiarello 2005, 155-156). Invero, come
rilevato dagli stessi magnificatori di tale cambiamento, determinanti sono risultati fattori di contesto abbastanza trasversali a tutto il Mezzogiorno, consistenti
nell’incremento di risorse discrezionali (livello di istruzione e di reddito) disponibili ad alcune categorie particolarmente interessate al rinnovamento sociale.
Con la differenza che una simile propensione all’azione collettiva ha trovato lievito in una favorevole “struttura delle opportunità politiche” che a Bari può
ricondursi esclusivamente a un capitale associativo costituito da soggetti spesso
interessati a intervenire sulle fradice strutture di sbocchi professionali (e cioè
economici) locali, senza invece trovare sponde dialoganti sul versante politico
tout court, popolato da soggetti sconosciuti ad ampia parte della cittadinanza e
incapaci, con iniziative di opposizione e proposizione, di ritagliarsi un qualsiasi
ruolo pubblico malgrado lo sbarco in regione delle grandi testate nazionali
(Corriere della Sera e Repubblica), che attraverso le edizioni locali, pur tra mille
ambiguità, hanno spalancato ai pugliesi nuove finestre per la costruzione di una
coscienza di luogo, scardinando i tradizionali monopoli informativi legati a filo
doppio con i poteri costituiti e a essi funzionali.
Se la primavera pugliese che sboccia nel 2004 ricorda da vicino quella vissuta a
Palermo e a Catania (e che replicava compiutamente la breve esperienza di fine
anni Ottanta), a Napoli, a Salerno, nel capoluogo barese essa si poggia senz’altro
sui meriti delle associazioni di cittadinanza attiva (si pensi a “Città plurale”), ma
l’altrimenti determinante freno dei partiti viene travolto da variabili esogene
influenti in ugual misura rispetto a quelle endogene.
Con le prime intendiamo riferirci alla crisi del Governo Berlusconi, all’erosione
del consenso mietuto da Forza Italia nel 2001, indicatrice della predisposizione
di molti elettori a votare altrimenti, se posti dinanzi a una credibile offerta politica della coalizione di centrosinistra (Persichella 2004). Segnalando che, lungi dal
poter essere sbrigativamente ascritta alla destra, pur radicata in molte zone, Bari
lascia trasparire un opportunismo filo-governativo poco incline a sposare una
causa per ragioni ideali e con fedeltà matrimoniale. Se a ciò si aggiunge, sempre
rimanendo nel recinto delle predette variabili esogene, l’impossibilità per Di
Cagno Abbrescia di sfruttare il fattore incumbency, presentandosi per un terzo
mandato consecutivo, l’evanescenza del candidato designato dal centrodestra a
succedergli, nonché il ritardo nell’ufficializzazione del suo nome rispetto allo
strabordante anticipo con cui si era mosso Emiliano, forse si libera da un’aura
miracolistica la vittoria di quest’ultimo al primo turno, accompagnata dall’exploit
della lista civica di sostegno chiamata con il proprio nome a forza più suffragata
per il Consiglio comunale. Non che le variabili endogene abbiano ricoperto un
ruolo trascurabile, ma lo schema della campagna elettorale, mutuato dalle azioni dell’associazionismo locale con i “cantieri d’ascolto”, i “forum tematici” ecc.,
ha sperimentato forme di coinvolgimento diretto della società civile persino
nella definizione del programma, potendo contare anche su strumenti comuni-
3
La “saracinesca” sorta
sul Lungomare all’altezza di Punta Perotti, e poi
abbattuta in più riprese
nel corso del 2006, era
un complesso di palazzi
costruiti in violazione
della distanza minima
dalla costa per opera
dell’impresa edile dei
Matarrese, famiglia proprietaria del Bari calcio
e di cui è conosciuta la
carriera politico-dirigenziale di Antonio, a lungo
deputato dello scudocrociato, poi approdato
all’UDC dopo una fulminea sosta in Forza Italia,
e tornato qualche mese
fa al timone della Lega
Calcio di serie A e B.
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n.16 / 2006
cativi quali ancora non si erano visti in città per le precedenti elezioni. A dimostrazione, quindi, dell’imprescindibilità del ricorso a un’efficace e capillare impegno pubblicitario, che amplifica la propria capacità di penetrazione nell’elettorato, specialmente in quello meno fidelizzato, se coadiuvato dalla garanzia offerta
dal candidato di mantenere, soprattutto in caso di successo, quell’estraneità ai
palazzi del potere e al personale politico che gli consentono di domandare il
voto senza lasciarsi ingabbiare da etichettature partitiche eccessivamente marcate, e anzi solleticando il potere decisionale dei singoli con spot televisivi in grado
di veicolare messaggi semplici attraverso coinvolgenti tormentoni.
Particolarmente azzeccato, anche perché ampiamente concessivo alla resa dialettale dell’italiano, quello del “Metti a Cassano !”, ambientato in una modesta
abitazione nella quale i membri di una famiglia stanno assistendo con entusiasmo a un incontro di calcio trasmesso in televisione. La telecamera inquadra una
parete dove spicca San Nicola, un’immagine monarchica (!), dei girasoli (i cui
semi saranno distribuiti nei mercati dai volontari dei comitati) e una fotografia di
Mario Mancini, noto e amato attore del teatro vernacolare barese, fra i protagonisti dello spot. Gli spettatori gridano a squarciagola “Metti a Cassano!”, affermato talento calcistico cittadino allora in forza alla Roma, chiaramente rivolgendosi
all’allenatore, presunto colpevole per l’andamento non brillante del match, il
quale, nonostante tutto, tergiversa nel dare un’opportunità al giovane calciatore,
come viceversa suggerisce essere finalmente possibile lo slogan: “Questa volta
scegli tu chi mettere in campo”. In occasione delle elezioni, cioè, puoi fungere
tu elettore da allenatore, schierando la formazione secondo te migliore, votando
il Cassano della situazione, vale a dire Emiliano, schierandoti a favore di Bari,
come suggerito tra l’altro dai manifesti 6x3 (Bitetto 2005, 133).
La società civile barese si attiva dunque sulla fiducia nei confronti di un personaggio che rivendica al proprio curriculum professionale l’abitudine e quindi la
capacità di stare in mezzo alla gente, facendosi megafono di un messaggio attraverso cui si critica il monopolio degli interessi privati, che anche Lobuono incarnerebbe, in quanto imprenditore schiettamente intenzionato a fungere da continuatore della linea sposata da Di Cagno Abbrescia, ma con il quale la polemica
non è mai inasprita, anzi ostentando un’amicizia e una confidenza (Emiliano lo
chiama sempre con il diminutivo “Gigi”) che stemperino e archivino i timori di
chi, tra i ceti benestanti cittadini, non nasconde perplessità circa l’estraneità del
candidato di centrosinistra a certi ambienti e a certe convenzioni.
4. L’onda della primavera
Conseguito l’inaspettato risultato di Bari, e vedendolo coincidere con la conquista di tutte le cinque amministrazioni provinciali, con il Municipio di Foggia e con
una discreta rimonta nelle europee che conduce i due schieramenti a fronteggiarsi da vicino, l’onda della primavera pugliese ambisce al traguardo delle elezioni regionali fissate per l’aprile del 2005.
La sfida viene individuata nel capitalizzare il favorevole trend nazionale e la spinta propulsiva che le nuove amministrazioni avrebbero saputo garantire, quanto
meno sotto il profilo d’immagine, rispetto alla gestione verticistica del potere di
cui Fitto si stava rendendo protagonista, oscillando tra la tentazione di cercare
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Alessandro Lattarulo
Le stagioni della Puglia
democristianamente il consenso anche a scapito della fluidità amministrativa e
l’appiattimento su di un’immagine berlusconiana, con la propria giovane età
messa al servizio di ripetute e pubbliche dichiarazioni di stima del Cavaliere, disposto a riconoscerne la centralità a livello nazionale senza mortificarne l’autonomia, ma indisponibile a garantirgli una ribalta a costo zero, come accadde quando lo indicò quale sua “protesi” in Puglia, non da ultimo per ricordare al giovane
politico che le sue eclatanti affermazioni personali (come quella alle europee del
1999) non erano riconducibili esclusivamente al carico di preferenze “personali”,
ma andavano tarate sul valore aggiunto del simbolo di Forza Italia, del quale
Fitto, sebbene strumentalmente, si era servito.
Figlio di un politico democristiano salentino di primo piano, Salvatore, prematuramente deceduto a causa di un incidente stradale nel 1988 quando era
Presidente della Giunta Regionale, Raffaele Fitto aveva raccolto l’eredità paterna
già nelle elezioni del 1990, ricoprendo persino una carica assessorile, diventando
poi nel 1995 Vice Presidente del tecnico Distaso e, terminata per consunzione tale
esperienza, trovando la convergenza del Polo sulla sua candidatura nel 2000 con
la scena politica ormai stabilizzata nei suoi connotati. La strategia tatarelliana di
“andare oltre il Polo” raccogliendo organicamente attorno al centrodestra una
parte delle professioni intellettuali che altrimenti sarebbero rimaste senza casa o
addirittura si sarebbero avvicinate allo schieramento avverso, aveva dato i propri
frutti, e la parentesi del docente universitario Distaso poteva lasciare il posto a
una guida classicamente politica, attraverso la quale Forza Italia rivendicasse, forte
del responso delle urne, quella primazia che AN, in linea con i risultati in tutta la
penisola, non era riuscita a conservare dopo gli exploit del ’94-’95.
Nel 2000, tra l’altro, si procede per la prima volta all’elezione diretta del
Presidente della Regione (mentre nel 1995 il suo nome era solamente indicato
associandolo a uno schieramento), in base a quanto previsto dalla legge n. 1/99,
sprezzantemente definita “tatarellum” da Giovanni Sartori. Fitto, molto più capace di organizzare la campagna elettorale rispetto al suo competitor Sinisi, vince
con largo margine, ma la sua affermazione, in sintonia con l’esito complessivo
delle elezioni, che provocano a Roma le dimissioni di D’Alema dalla Presidenza
del Consiglio, risulta parzialmente offuscata da un preoccupante calo nei votanti, in caduta libera da anni, che a stento riesce a superare il 70 %, contraendosi
di 5,6 punti percentuali rispetto al 1995 (Lattarulo 2000).
Nel 2005 si tratta per il centrosinistra di catalizzare il malcontento generato dalla
riforma sanitaria e dal nuovo piano ospedaliero, passi compiuti dalla Giunta di
centrodestra in direzione di una razionalizzazione delle risorse umane ed economiche, ma dall’altissimo costo sociale, costringendo sia alcune centinaia di operatori sanitari a compiere lunghi spostamenti per raggiungere il posto di lavoro,
sia prevedendo la chiusura di reparti e strutture che avrebbero costretto la popolazione a degenze lontano da casa. Non c’è semplicemente l’esplosione di una
protesta che a Fitto, in qualità di incarnazione simbolica delle politiche della CdL,
rimprovera di ridurre aziendalisticamente un servizio sociale fondamentale entro
angusti binari di compatibilità con i princìpi dell’efficienza di mercato. Infatti, le
proteste che si sviluppano spontaneamente, spesso senza trovare supporto politico nell’opposizione consiliare, sfidano la maggioranza soprattutto sul terreno
del mancato coinvolgimento delle parti sociali e delle organizzazioni del terzo settore, obiettando pubblicamente che perdono di credibilità le prese di distanza nei
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n.16 / 2006
confronti del governo nazionale su provvedimenti sfavorevoli alla Puglia, peggio
quando adottati su pressione della Lega Nord, se lo stile decisionale viene poi
integralmente mutuato da quello nazionale, scavando fossati di dimensioni crescenti persino tra l’esecutivo regionale e la maggioranza dei consiglieri.
Problema molto simile a quello verificatosi a Bari, che lascia incancrenire una
delle più gravi contraddizioni del caracollante sistema politico esistente. Nella
misura in cui esso è composto da forze con debole collante ideologico e programmatico, e soprattutto nella misura in cui l’inadeguatezza a raccogliere, rielaborandole, le istanze di determinate categorie sociali conduce alla creazione di
liste locali, provinciali, regionali, la subordinazione delle assemblee all’esecutivo
patisce più che la separazione dei poteri in sé, la difficoltà per gli eletti senza stabili riferimenti politici alle spalle di tutelare gli interessi degli elettori senza scadere nella difesa di egoismi microlocalistici o corporativi. Tali interessi non possono infatti essere ragionevolmente utilizzati come merce di scambio con il titolare della carica monocratica, salvo esporlo all’esplosione di una lunga serie di
richieste di pari portata, che ne minerebbero l’autorevolezza, fondamentale dote
in presenza di un congegno elettorale che permette il voto disgiunto, ossia la
possibilità per l’elettore di scegliere il candidato Sindaco o Presidente dello
schieramento A e un partito di quello B, legando tuttavia l’esito delle elezioni alla
performance del candidato, non a quella dei partiti.
Ecco in che senso, negli ambienti dei militanti di base del centrosinistra, e soprattutto della galassia di associazioni ricreative e ambientaliste, si stava facendo
largo la convinzione che per battere Fitto fosse necessario un nome che evocasse un profilo diametralmente opposto a quello del Governatore in carica, per di
più favorito da una cospicua disponibilità di risorse economiche, personali e
coalizionali, che gli avrebbero consentito di sostenere l’urto di una campagna
protratta per mesi.
Un solo nome avrebbe probabilmente tacitato il malcontento serpeggiante: quello di Vincenzo Divella, industriale della pasta, al vertice della Camera di
Commercio di Bari, vicino al centrosinistra senza essere organico ad alcun partito, indicato dai sondaggi a lungo commissionati dai quotidiani e dalle forze politiche come probabile vincitore su Fitto. Divella, in effetti, avendo il proprio radicamento in terra di Bari e al tempo stesso possedendo un nome ormai famoso
su scala nazionale, colmava una lacuna territoriale altrimenti insostenibile, in
considerazione del fatto che la provincia del capoluogo, ancora non spezzata con
la Bat, raccoglieva un numero di elettori che, a meno di straordinarie performance nel resto della regione, si sarebbero rivelati decisivi per contrastare Fitto,
meglio piazzato nel Salento.
Ma su Divella gravava un’ipoteca non indifferente. La vittoria che lo aveva portato alla presidenza della Provincia l’anno precedente, tra l’altro a coronamento di
una campagna elettorale spesso condotta in tandem con Emiliano, non avrebbe
potuto essere archiviata senza contraccolpi, salvo il testimoniare, neppure troppo indirettamente, da parte della coalizione, il ricorso strumentale a un candidato dal prestigio irrintracciabile tra le proprie fila, e da parte del Divella la riduzione a vacua retorica del programma sottoposto alla valutazione degli elettori,
non essendo trascorso neppure un anno dalla perentoria affermazione elettorale per poter “giustificare” il tentativo di passaggio ad altra carica rivendicando
realizzazioni concrete e mantenendo intatto il consenso.
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Alessandro Lattarulo
Le stagioni della Puglia
Sull’impasse in cui si trovò il centrosinistra volle intervenire in prima persona
Emiliano, candidando Francesco Boccia, giovane Assessore comunale al Bilancio,
dal corposo curriculum accademico ma sconosciuto ai più. Con tale smania di
protagonismo, ancorché giustificata come tentativo di favorire la trasmigrazione
dello spirito del 2004 nella competizione regionale, il Sindaco di Bari riuscì nell’ardua impresa di incrinare gravemente il rapporto con la cittadinanza. Non solamente con larghi settori di quella società civile che l’aveva sostenuto per governare la città e che adesso interpretava il suo atteggiamento come manifestazione
di ebbrezza da potere, diametralmente opposta allo spirito che avrebbe dovuto
presiedere alla “primavera pugliese”. Ma anche con ampie fasce popolari che ne
avevano premiato l’indipendenza dai partiti, e che nella sua presa di posizione
decifravano in filigrana il tradimento della capacità di soggiacere alle scelte di
coalizione, convergendo più organicamente su una scelta di campo senza possibilità di lettura equivoche, giacché le proposte programmatiche di cui Boccia
avrebbe dovuto farsi sostenitore gli avrebbero imposto ripetute prese di distanza da Fitto, senza tuttavia garantire un’effettiva proposta alternativa e senza
garantire una presa sugli indecisi in considerazione dell’inesistente radicamento
sul territorio4.
È da tale aporia che si apre la strada verso le primarie.
Inizialmente sotto forma di braccio di ferro con il quale Rifondazione comunista
intese sfidare il resto della coalizione proponendo ufficialmente Vendola, anche
al fine di reclamare pari dignità tra tutte le espressioni del centrosinistra, testando così le reazioni delle forze più moderate. Nella costruzione della GAD, infatti, l’immediata rivendicazione di Bertinotti consistette nel pretendere che anche
il partito più “estremo” dell’alleanza, nella fattispecie il proprio, non risultasse
aprioristicamente escluso da posizioni di rilievo con la scusa che la competizione elettorale si giocasse esclusivamente al centro e che i candidati a cariche elettive rilevanti dovessero appunto risultare dotati della capacità di garantire buona
presa su quell’elettorato.
Fattosi dunque avanti Vendola, deputato di lungo corso nonostante la giovane
età, tra i fondatori del PRC e in prima fila nella lotta contro tutte le mafie, tanto
da vivere perennemente sotto scorta, il ripiegamento dei partiti cardine della
coalizione, e dei DS in special modo, sul nome di Boccia, mise in luce l’intenzione di sbarrare la strada a uno stravolgimento degli equilibri interni alla coalizione, piuttosto che il convinto appoggio all’economista.
Ma, come repentinamente emerso tra i militanti del partito, decisamente più “a
sinistra” della dirigenza, il nome di Vendola, appoggiato tra l’altro dai Verdi,
incarnava la possibilità di affrontare elettoralmente Fitto senza abdicare a princìpi percepiti non negoziabili, tra cui la legalità, che, particolarmente al Sud, trascende per gran parte del popolo progressista impegnato nell’associazionismo,
nel volontariato, l’eventuale iscrizione a un partito, e assume quali propri riferimenti personaggi carismatici di varia appartenenza, tutti però schierati esplicitamente contro il racket, contro l’usura, talvolta persino a costo di prendere le
distanze da colleghi di partito.
Di fronte alla mancata rinuncia da parte di uno dei due contendenti a farsi da
parte, e in considerazione della follia politica consistente nel correre separatamente per la presidenza della Regione con un sistema elettorale a turno unico,
venne accettata dalla maggioranza della GAD l’idea di celebrare “primarie ristret-
4
Nominato dal Sindaco
assessore tecnico, pur
essendo originario di
Bisceglie, quale indice di
popolarità poteva vantare Boccia nel resto della
Regione ?
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n.16 / 2006
5
Il Regolamento è riportato integralmente nel
sito www.perlulivo.it.
te”, allargando il selectorate rispetto alle proposte originarie – che intendevano
coinvolgere solamente gli eletti ai vari livelli istituzionali dei partiti del centrosinistra – a una platea inclusiva dei dirigenti e dei rappresentanti della associazioni, giungendo in tal modo a circa duemila delegati, convocati per il 13 dicembre
2004 alla Fiera del Levante, con l’obiettivo di definire innanzitutto il programma
da sottoporre agli elettori e in seguito il candidato.
Così, tuttavia, le primarie sarebbero rimaste un meccanismo blindato ex ante e
funzionale alla ratifica di un’incolmabile distanza tra i vertici dei partiti e una base
più effervescente. Ancora una volta avrebbe dovuto rilevarsi uno iato che rende
i partiti del centrosinistra particolarmente deboli e stagnanti, se considerati singolarmente, tanto da produrre incessantemente scissioni e rimescolamenti vari
per creare realtà in grado di intercettare quella frangia di elettorato che individua
nel complesso della coalizione il quid pluris per la propria collocazione nel centrosinistra, come del resto testimoniato dalle positive performances nel 1996 e
nel 2001 nei collegi uninominali rispetto a quelle della scheda per la copertura
proporzionale del 25% di seggi alla Camera (Maraffi 2006, 199).
I lavori dell’assemblea si arenarono però in merito al meccanismo per la scelta
del candidato e il compito, secondo polverosi schemi da “Prima Repubblica”, fu
riservato a summit “romani”, a seguito dei quali, un non troppo nascosto asse tra
Prodi e Bertinotti, concepito al fine di arrestare l’avvitamento su sé stessa dell’area moderata della coalizione, facilitò la decisione di indire primarie aperte a tutti
gli elettori, secondo modalità che sarebbero state definite nel giro di qualche
giorno da una commissione presieduta da Arturo Parisi, d’intesa con le forze
politiche regionali. Tale ritrovo di “saggi” produsse un Regolamento composto
da 12 articoli, fissando la data della selezione domenica 16 gennaio 2005, con
possibilità di espressione del voto dalle ore 9 alle 22 in uno dei 112 seggi sparsi
sul territorio (art. 3 Regolamento)5.
Una considerazione si impone a questo punto: paradossalmente, il via libera alle
primarie è giunto da una decisione centralistica e inequivocabilmente partitocratrica. Se fosse passata la linea della “primavera pugliese”, senza intendere giudicarla, vi sarebbero state primarie ristrette. L’adozione delle primarie che si
sono effettivamente tenute è frutto di una lunga serie di circostanze favorevoli
(Romano 2005, 225), i cui esiti inintenzionali non depongono particolarmente a
favore della confusa classe politica regionale, la cui miopia è stata testimoniata da
una partecipazione che non semplicemente è andata oltre le più rosee aspettative, ma che ha travolto l’intento malcelato di coinvolgere sì gli elettori, senza però
esagerare.
5. La funzione delle primarie
Gianfranco Pasquino ha acutamente rintuzzato le preoccupazioni che dirigenti di
partito e operatori di mass media eterodiretti continuano a manifestare ogniqualvolta si affacci la possibilità di accrescere l’influenza dei cittadini nei processi elettorali con consultazioni trasparenti e competitive.
Due perplessità si fanno largo con puntuale frequenza. La prima consiste nell’additare i cittadini quali soggetti “ignoranti”, dalle visioni strategiche di corto
respiro, almeno in parte potenziali vittime di artate manipolazioni provenienti sia
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Alessandro Lattarulo
Le stagioni della Puglia
dalla parte politica “amica” che da quella “avversa”, particolarmente interessata,
per esempio in occasione delle primarie, a che si affermi un candidato ritenuto
sulla carta più debole. La seconda si fonda sul timore che le primarie possano
rivelarsi un “cavallo di Troia” per temibili incursioni populiste, delle quali non di
rado si farebbe megafono la società civile (Pasquino 2006, 27).
Obiezioni deboli e contraddittorie, specialmente se interpretate innescando
puntualmente il refrain che elogia la saggezza del popolo in occasione di elezioni che promuovono in assemblee parlamentari o consiliari professionisti della
politica di dubbia moralità e/o competenza. Timori, per di più, che fingono di
scordare i risultati che concretamente si registrano in occasione di ripetuti
appuntamenti elettorali, nei quali, con l’Italia protagonista di primo piano, settori non marginali degli aventi diritto restano ammaliati da sirene populiste generate anche da partiti strutturati piuttosto tradizionalmente. I cui vertici, dunque,
testimoniano con ravvicinata frequenza l’incapacità di arrestare la recessione
democratica impropriamente riducibile all’appariscente manifestazione delle
Nuove Destre (Mastropaolo 2005, 169).
Si badi: il vento populista che soffia a intervalli sempre più ravvicinati, tanto da
suscitare dubbi sull’esistenza di una qualche soluzione di continuità, se per un
verso può suggerire l’urgenza di ripensare i tratti costitutivi di ciò che viene etichettato come “populismo”, d’altro canto, al fine di evitare sbrigative autoassoluzioni, può incontrare nel disciplinamento delle primarie un primo ostacolo, e
nella più allargata introduzione di limitazioni temporali di mandati elettivi un’ulteriore strategia “procedurale” per contrastare la chiusura oligopolistica del mercato politico, il cui nesso con l’umiliazione dell’anima “sostanziale” della democrazia può a stento essere negato.
Ovviamente, la generalità di una norma produce quasi inevitabilmente effetti
indesiderati, per esempio precludendo la rielezione di un Sindaco capace o, eventualmente, di un parlamentare ligio al proprio dovere, riducendo di fatto le possibilità di scelta degli elettori (Pasquino 2006, 28). Ma il discorso andrebbe allora
ampliato ai partiti, che restano immarcescibilmente le principali agenzie di canalizzazione e organizzazione del consenso popolare negli appuntamenti elettorali,
domandandosi se la loro apertura alle primarie possa diventare una disposizione
statutaria o se debba rimanere occasionale testimonianza di un momento di crisi
dal quale auspicare una sferzata rinvigorente agitando quello strumento che interviene sul reclutamento e la selezione dei candidati a varie cariche.
Certamente le primarie non sono un farmaco in grado di debellare i conflitti fra
partiti cronicamente litigiosi, come pure talvolta sembra verificarsi nel breve termine, né vanno ridotte a mero artificio tecnico per passare agli elettori una “patata bollente”, il compito di sciogliere i nodi attorno ai quali i partiti restano
imbambolati.
Se la funzione cruciale delle primarie consiste nel favorire, mediante una procedura dalle regole semplici e chiare, che facilitino l’espressione del voto da parte
degli elettori e che prevedono meccanismi di arresto contro candidature di mero
folklore, prevedendo la raccolta di un certo numero di firme, una selezione tra
due o più candidati (cfr. paragrafo 2), non può trascurarsi che si tratta pur sempre di un marchingegno ad altissima politicità, come l’esperimento pugliese si è
incaricato di dimostrare.
Incidere su modalità di selezione di candidati che apparivano fino all’alba del
69
n.16 / 2006
giorno precedente intangibili, significa riattivare il rapporto tra destinatari della
politica (i cittadini-elettori) e i decisori (i partiti), sottraendo a questi ultimi l’esclusiva pertinenza di una scelta altrimenti limitata al loro diretto e paternalistico intervento.
Le primarie consentono di scomporre la logica binaria decisori/destinatari delle
decisioni che, qualora le candidature siano già tutte stabilite dai partiti, s’infiltra
comunque proprio nel momento principe dell’esercizio democratico del voto.
«Ai cittadini viene richiesto con le primarie non di esprimere una preferenza di
“schieramento” (destra-sinistra) ma un giudizio di pertinenza sul candidato»
(Gangemi-Gelli 2006, 26).
Nel considerarli capaci, competenti di esprimersi, una risorsa da attivare per
legittimare un candidato per la competizione elettorale, a essi, soprattutto nel
caso che le primarie siano convocate da tutti i partiti o dagli schieramenti rilevanti, viene offerta l’opportunità di incidere decisivamente su una selezione
attraverso cui poter scongiurare, nel momento elettorale vero e proprio, un voto
“turandosi il naso”, l’insoddisfatta costrizione a un consenso “per esclusione”,
per vaghissimo posizionamento valoriale. Le primarie stimolano gli elettori a raccogliere un numero di informazioni sui candidati superiore a quanto farebbero
se le candidature fossero già preconfezionate dai partiti, consentendo di maturare le proprie competenze individuali su questioni politiche che altrimenti non
avrebbero sollecitato alcun approfondimento. Ma soprattutto le primarie favoriscono la socializzazione e la discussione molecolare su temi economico-sociali
sopiti, generando la stipulazione tra candidati ed elettori di un nuovo patto, che
impone ai primi di procedere a un processo di agenda-setting inclusivo di suggestioni e proposte raccolte dai cittadini coinvolti o confermando, per la più
autentica circolarità dell’interscambio, l’assurdità della tesi appoggiata da coloro
che individuano in accurati sondaggi un realistico surrogato delle primarie.
Anche il più affidabile campione, trattato con eccelsa perizia metodologica, non
garantisce che l’intervistato si produca in risposte che ne evidenzino una precedente sollecitazione su disparate issues, esattamente ciò, al contrario, a cui aspirano primarie concepite con un moderato periodo di attivo confronto tra i candidati. Un sondaggio fotografa (dovrebbe rappresentare) il già dato, le primarie
stimolare il divenire. Tra l’altro, la spinta a una dialettica tra elettori non necessariamente distanti per autocollocazione sull’asse destra-sinistra accresce la certezza che l’esito delle primarie, anche qualora sortisse sorprese poco gradite a
potentati di varia consistenza, più difficilmente che in caso opposto lederebbe la
complicità tra elettori e partiti, auspicabilmente senza dover prevedere una
dichiarazione ufficiale dei candidati, dei partiti, o di tutti, di impegno ad accettare il risultato proclamato da una Commissione di Garanzia, come viceversa fissato nero su bianco dall’articolo 1 del Regolamento per le primarie pugliesi. Siffatta
previsione, ancorché finalizzata a tutelare con la terzietà di una norma il vincitore, rimane un’anomalia regolamentare che impegna non più che moralmente gli
sconfitti, non potendo da questi esigersi formale certificazione sul comportamento in seguito tenuto nella cabina elettorale, il voto rimanendo «libero e
segreto» come da articolo 48 della Costituzione.
Anche quest’ultima ipotesi, non troppo “di scuola”, sintetizza un esito “sottoprodotto” delle primarie, che costituisce il motivo principale di interesse per le
stesse e che sfugge alla misurazione mediante parametri numerici e applicazioni
70
Alessandro Lattarulo
Le stagioni della Puglia
di modelli tecnici di previsione, poiché è l’esito proteiforme del processo e non
può essere previsto al di fuori dell’azione (Gangemi-Gelli 2006, 26).
Si consideri che proprio il case-study pugliese ricopre tuttora una centralità non
prevista originariamente senza dubbio per l’esito sorprendente, ma proprio in
considerazione del fatto che tale esito si è inverato per le torsioni che hanno trasformato le primarie rispetto a quanto previsto in origine, innescando esperimenti di mobilitazione che hanno palesato la necessità di riconfigurare il tema
della partecipazione.
L’evidenza del loro effetto di trascinamento, amplificata con comprensibile entusiasmo dall’attuale Presidente regionale (Rossi-Vendola 2005, 22), consente di
confermare le ipotesi formulate prima dell’effettivo svolgimento, attribuendo
loro il ruolo di una policy in grado di fungere da fattore strategico e necessario
di innesco di domande che altrimenti sarebbero rimaste latenti. Di conflitti persino, come confermerebbe la tendenza all’attivazione in tali appuntamenti degli
elettori “estremi”, dalle preferenze “intense”, cognitivamente ed emozionalmente più interessati a dinamizzare esperimenti associativi mediante i quali mettere
in circolo richiami netti su questioni di inequivoco interesse collettivo, motivati
a pesare quanto più possibile negli equilibri interni a uno schieramento, al fine
di conquistare preventivamente rendite di posizione che attenuino il ridimensionamento della loro forza che il voto andrà in seguito a sancire.
6. Il 16 gennaio 2005
Il 16 gennaio 2005 partecipano alle elezioni primarie in Puglia 79.296 elettori.
Con poco più di 40 mila voti a favore si afferma Nichi Vendola (50,9 %), sconfiggendo Francesco Boccia, che aveva condotto una propaganda di basso profilo,
cercando di accreditare un’immagine di affidabilità, veleggiando sulla certezza di
dover semplicemente attendere la formalizzazione di una sicura investitura
popolare. Ex post factum sarebbe facile ironizzare sulla sicumera con la quale
molti dirigenti di partito avevano sopravvalutato la propria capacità di influenza
sull’espressione del voto, troppe volte preoccupandosi di come trasformare una
copiosa partecipazione dei cittadini nella certificazione della sintonia tra vertice
e base, piuttosto che segnalare una maturità democratica da apprezzare di per sé
stessa, non in quanto eventuale conferma della bontà delle indicazioni fornite.
Non a caso, quando prese corpo l’affermazione di Vendola, DS e Margherita si
astennero dal commentare in dettaglio la sconfessione dei propri vertici, preferendo contribuire a compattare la GAD battendo sul tasto dell’imprevisto afflusso di votanti nei 107 Comuni in cui erano stati allestiti i seggi, improvvisamente
dunque attribuendo l’appropriato valore alla partecipazione, tanto più che nel
caso di specie la peculiare natura di mero diritto partecipativo rende la rilevazione dell’affluenza alle urne una scala di valutazione qualitativamente diversa
dalla fattispecie del voto, diritto ma anche dovere (art. 48 Cost.).
Quale interpretazione fornire delle primarie, e del loro risultato?
Ci sembra sia possibile canalizzare la congerie di ragioni che ne hanno marcato
in grassetto i tratti lungo due direttrici: una, attenta a fattori di impatto sistemico-organizzativo-procedurale; l’altra, puntata sul circuito comunicativo tra candidati ed elettori, con tutte le correlate strategie di mobilitazione, ecc. Entrambe,
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n.16 / 2006
tuttavia, consentono di aderire allo schema che enfatizza, come premessa d’obbligo, il capillare desiderio di partecipazione, tanto più evidente nella misura in
cui si rapporti l’afflusso ai seggi, in una giornata di rigido inverno, con i dati sul
tesseramento ai partiti del centrosinistra, attestato – morti e ignari iscritti compresi – attorno alle 60 mila unità (Giaffreda 2006, 150). Considerando che solamente una ridotta quota di costoro può essere ascritta alla militanza attiva, diventa inconfutabile l’apporto garantito dai simpatizzanti, dai rappresentanti dell’associazionismo e della società civile, con madornale confusione equiparati dalla
Margherita e dai vertici degli altri partiti schierati a favore di Boccia con la maggioranza silenziosa e tutto sommato accondiscendente (Amendola 2005).
Demolita così empiricamente, sia pure in parte, la tesi sartoriana sul particolarismo minoritario dei militanti, che sembra adombrare l’insofferenza del cattedratico per l’esito delle primarie, militanti apparendo in effetti sinonimo di “iscritti
a Rifondazione”, e dunque minoranza radicale per definizione, oltre ogni possibile verifica (Sartori 2005; contra Pasquino 2005), le primarie hanno evidenziato
la scollatura tra la nomenklatura partitica e gli umori profondi dell’elettorato di
centrosinistra. In questo senso il caso di Bari costituisce effettivamente un precedente, tutto lo schieramento avendo dovuto convergere alla fine, obtorto
collo, sul nome di Emiliano, promosso, come precedentemente accennato, dalla
stampa locale e dalla cittadinanza attiva.
6.1 Fattori organizzativi, procedurali
6
Nel quale, accorpando
la Bat, la percentuale di
votanti alle primarie sul
totale è risultata pari al
38,99 %.
72
L’affermazione di Vendola, garantita da poco più di mille voti oltre quelli di
Boccia, si fonda in larga misura sul consenso ottenuto a Bari e provincia, dove il
deputato del PRC ha raccolto 17 delle 40 mila preferenze complessive, con una
performance (55,7 %) che gli ha consentito di contenere la differenza risultata a
favore di Boccia nelle altre quattro province.
Successo sostanzialmente uniforme quello di Vendola nel capoluogo e nell’hinterland, rilevabile anche scomponendo la provincia di Bari al fine di procedere a
uno screening dei dati che metta in gioco la sesta provincia, la costellazione della
Bat. Anche tra gli ulivi di Barletta (soprattutto), Andria, Trani e dintorni il rendimento di Vendola è stato talmente positivo da far registrare uno scarto di voti
(854) in grado di ammortizzare pienamente il successo di Boccia nel foggiano
(Milella 2005, 1192).
In considerazione del peso specifico del territorio barese6, non può trascurarsi
che l’indice di copertura dei seggi per elettore, ossia la proporzione di elettori
con almeno un seggio nel proprio comune di residenza, ha raggiunto il picco
proprio qui (93,9 %) e il minimo nel leccese (47,6 %), zona della regione rivelatasi più ostica per Vendola sotto ogni punto di vista (Giaffreda 2006, 144).
Ragioni dovute non da ultimo alla peculiarità del Salento, disseminato di comuni dalle ridottissime dimensioni, che ha tuttavia alimentato a posteriori, nell’entourage dello sconfitto, il dubbio che la gestione dell’evento sia stata affetta da
una micidiale miscela di superficialità e dolo, onde favorire un esito finale che
depotenziasse l’adesione acritica dei militanti locali alle indicazioni di partito, per
poter quindi ridimensionare le pretese di D’Alema, notoriamente di casa tra
Gallipoli e Casarano, dove aveva avuto il proprio collegio elettorale sin dal 1994.
Alessandro Lattarulo
Le stagioni della Puglia
Obiezione non del tutto peregrina, anche se il trasporto organizzato in particolare dalla Margherita ha pur sempre sortito l’effetto di rendere il totale dei voti
validi alle primarie nel brindisino e nel leccese la percentuale più alta (rispettivamente il 10,7 e il 12,8 %) sui voti ottenuti dai partiti di centrosinistra in occasione delle europee del 2004 (Giaffreda 2006, 148).
Dato che insomma sembra ridimensionare gli appigli degli sconfitti alla tattica
“vittimista”, sottolineando piuttosto la pigrizia mobilitatrice dei partiti “moderati” e, ancor di più, la congenita debolezza del candidato Boccia, incapace di risalire la classifica di popolarità nei confronti di Vendola.
Anche in virtù di tale considerazione, appare di modesto spessore la denuncia in
base alla quale, soprattutto nella realtà cittadina di Bari, si sarebbero recati alle
urne noti iscritti o simpatizzanti del centrodestra, “infiltratisi” al fine di favorire,
per quanto nelle loro possibilità, la vittoria di Vendola, imprudentemente reputato un candidato sicuramente perdente contro Fitto. Il risultato conseguito da
Vendola non solamente a Bari, dove ha severamente sconfitto Boccia persino nel
quartier generale della Margherita, nella centralissima Via Calefati, ridimensiona
qualsiasi intervento “avversario”, favorendo inoltre la considerazione per cui l’esperienza delle successive elezioni di aprile dovrebbe aver debellato futuri interventi di disturbo. Il dato politicamente rilevante consiste piuttosto nell’aver sancito una pesante sconfitta per Emiliano, sponsor di Boccia, incapace di garantire
al proprio assessore un’affermazione nella città conquistata appena qualche
mese prima, testimoniando quanto – e tra il proprio elettorato di riferimento in
misura preoccupante – le prime scelte effettuate nell’amministrazione della cosa
pubblica, con il contorno di consulenze d’oro elargite con scarsa attenzione ai
bilanci e al rigore promesso, abbiano eroso nel volgere di pochi mesi la fiducia
nei suoi confronti.
E comunque il tentativo di gettare fango sul risultato delle primarie si sfarina di
fronte all’impossibilità di rilevare attendibilmente se e quanta parte delle scelte a
favore di Boccia abbia avuto alle spalle una radicata convinzione, oppure sia stata
favorita dall’espressione di una sorta di voto strategico da parte di elettori di centrosinistra che in Boccia abbiano individuato un candidato dotato di un’electability pensata più debole per Vendola.
Un ultimo fattore organizzativo merita attenzione. Sui 112 seggi distribuiti nella
regione, ben 34 (il 30,36 % del totale) erano costituiti da sezioni del PRC, anche
per l’avversione più marcata verso evanescenti tipologie di “partito leggero”,
privo di luoghi di incontro e di dibattito. Certo è che l’aver potuto giocare “in
casa” un numero superiore alla media di match con regole mai sperimentate
prima ha prodotto l’ineguagliata situazione di un’affermazione di Vendola in 30
di questi 34 seggi (l’88,23 %), con uno scarto di voti talmente ampio da aver concorso in misura rilevante alla costruzione del successo finale. Questo ha infatti
preso corpo, malgrado la vittoria di Vendola in meno seggi di Boccia (53 a 59),
grazie alla capacità di capitalizzare le proprie affermazioni nei contesti ambientali più “favorevoli”.
6.2 Stile comunicativo e sostegni al candidato Vendola
Dovendo risalire la china, rispetto alla forza dell’appoggio garantito ufficialmen-
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te a Boccia dalle forze più rilevanti della coalizione, Vendola ha evidenziato una
migliore e rizomatica capacità di copertura del territorio con il proprio messaggio, potendo mettere a frutto la notorietà acquisita al fine di impiegare più efficacemente le doti comunicative.
Boccia, viceversa, che pure non ha disdegnato la partecipazione a decine di iniziative pubbliche, potendo contare sull’ampio supporto logistico dei numerosi
partiti di riferimento, ha scontato il fattore “notorietà”, senza riuscire a porvi
rimedio, nel brevissimo volgere della campagna per le primarie, con una comunicazione politica altrettanto efficace rispetto a quella di Vendola. In considerazione della striminzita durata della campagna, questo ha strategicamente investito tutto sulla scommessa di rendere pulsante “La Puglia nel cuore”, sfibrandosi,
come nelle sue corde, in quasi cento iniziative attraverso le quali emozionare e,
coinvolgendo molti giovani, indicare l’opportunità di costruire anche in Puglia
un futuro di speranza, non di cinica rassegnazione. Alla nascita dei comitati locali spontanei che in Vendola hanno intravisto una figura in grado di dare gambe
al desiderio di prolungare la “primavera pugliese”, sfilandola dall’imbuto della
sua riduzione a etichetta appannata di una svolta immediatamente “normalizzata”, è corrisposta, da parte di Boccia, la volontà di privilegiare incontri su tematiche economiche, senza rinunciare ad approfondimenti insidiosi per molti cittadini, onde accreditarsi dell’aura di “tecnocrate” dotato di un bagaglio di competenze che il tessuto produttivo locale avrebbe appoggiato nel confronto con un
politico “generalista” come Fitto. Non a caso sfidato (nell’ottimismo delle intenzioni iniziali) facendo leva su uno slogan, “La Puglia per tutti”, chiaramente finalizzato a supportare, con il materiale cartaceo distribuito e con i manifesti affissi,
una lenta ma inesorabile demolizione delle politiche pubbliche del Governatore
uscente. La propaganda di Boccia si è però rivelata poco focalizzata sulle più
innovative forme di comunicazione, come quella garantita da Internet, viceversa
sfruttata senza indugi e ritardi da Vendola, intenzionato a caratterizzare anche
mediante il web uno stile partecipato e orizzontale, maggiormente disposto a un
incontro con ristretti gruppi di cittadini e ostile al datato appoggio fornito da
politici “romani” con la loro presenza diretta, che ha creato la perversa situazione di un candidato (Boccia) in cerca di notorietà appoggiarsi a politici di caratura nazionale senza radicamento in Puglia e ignari dei problemi del territorio.
Vendola ha applicato a ogni incontro una affabulazione, con un percorso di passione e interesse che non è arrivato immediatamente al merito “tecnico” delle
proposte, pur risultando in parziale controtendenza con le schematizzazioni
della politica-spettacolo. Egli non ha cercato di bruciare le tappe della risposta
politica e istituzionale, preferendo stimolare la partecipazione (Cristante 2005,
76). Il suo stile comunicativo è stato orgogliosamente puntato sulla matrice
popolare della propria appartenenza, perché da tempo gli era ben chiaro che se
la partecipazione politica si cristallizza sui segmenti centrali della società, come
accaduto con l’indebolimento della presenza organizzata dei partiti di massa, gli
effetti di tale partecipazione esclusiva e in fondo anche escludente finiscono per
favorire soprattutto i loro interessi, rafforzare le loro posizioni e accrescere così
le disuguaglianze sociali (Biorcio 2003, 49). La strategia di Boccia è invece sembrata accettare l’inesorabilità di tale trend, contro cui Vendola ha sostanziato il
proprio infaticabile impegno per attivare inediti processi di formazione di identità collettive che sfruttassero a fini aggregativi caratteristiche trasversali ai tradi-
74
Alessandro Lattarulo
Le stagioni della Puglia
zionali cleavages in grado di consolidare la formazione di partiti e persino movimenti sociali, cercando di trasformare l’occasione delle primarie, a prescindere
dal loro esito, in un’offerta esplicita di azione collettiva verso portatori di domande e rivendicazioni latenti, tra cui quel composito pluriverso di soggetti dalle
caratteristiche eterodosse come Vendola stesso. Comunista, poeta, cattolico e
omosessuale dichiarato, il suo profilo identitario plurale da anni lo aveva reso un
comunicatore anomalo, sperimentatore di formule originali attente a mai pescare da un’unica fonte o tradizione e anche per questo a proprio agio in mezzo alla
gente più che in televisione, dove si sconta l’immane fatica di far passare la voce
di un’anomalia (Cristante 2005, 81).
A doti personali del candidato Vendola, come la ricordata notorietà e il carisma,
si sono aggiunte dunque variabili tecniche, come la più efficace comunicazione,
e “partitiche”, ossia la compatta mobilitazione dei suoi sostenitori, a cui aggiungere, in special modo per le conseguenze che ne scaturiranno in sede di effettiva campagna elettorale, i significativi appoggi ricevuti sia nel mondo politico che
in quello associativo. Per anni rimasto il principale esponente parlamentare di
tutta la sinistra a mantenere, nonostante il ruolo dirigente nel partito, un contatto fisico continuo con gran parte del territorio pugliese, ergendosi a patrimonio comune anche per fasce non residuali dell’elettorato diessino e del Pdci,
Vendola ha guadagnato il sostegno di Pietro Folena, transitato solo successivamente dalla Quercia a Rifondazione, ma, soprattutto, decine di dichiarazioni di
appoggio in spregio alle indicazioni dei relativi partiti. Citiamo, fra tutti, il peculiare caso dei Comunisti italiani, pronunciatisi con la segreteria regionale a favore dell’astensione dalle primarie, ma la cui ambigua scelta è stata ampiamente
sconfessata in decine di realtà locali, dove gli iscritti si sono attivati a favore del
“compagno Vendola”, anche al fine di non smentire con i fatti la linea imposta
dal Segretario nazionale, Diliberto, sempre spesosi a favore di una prospettiva
unitaria della sinistra e contro duelli favoriti dalla “sindrome del divorziato” per
la ferita aperta dalla scissione del 1998.
Vendola ha altresì captato immediatamente il favore delle associazioni ecologiste, anche quando non collaterali ai Verdi o al PRC, per la centralità riservata nelle
proprie battaglie alla tutela, talvolta un po’ scomposta, dell’ambiente su delicate
questioni quali l’emergenza rifiuti o la spina del rigassificatore a Brindisi, o, ancora, sull’inquinamento prodotto a Taranto dall’Ilva.
Egli, infine, è stato amichevolmente sostenuto dall’avanguardia dell’associazionismo cattolico maggiormente attivo nel sociale, pescando quindi in maniera non
trascurabile tra le fila di un elettorato potenzialmente di riferimento per Boccia
attraverso il tramite della Margherita. In particolare, il sostegno fornito dalle associazioni contro le mafie, la droga, e la sensibilità, coerentemente cristiana, verso
i poveri, i carcerati, hanno sortito un effetto di trascinamento per i cattolici laicamente scevri da pregiudizi retrogradi, garantendogli un consenso che ha sfilato a Boccia prima e a Fitto poi fondamentali pietre angolari per l’edificazione
degli attesi successi.
7. Il voto regionale
Se aderiamo alla tesi di Albert Hirschman, il quale, malgrado rifiuti di rapportar-
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si all’individuo razionale della dottrina economica generalmente accettata, sostiene che «gli atti di consumo, e come questi gli atti di partecipazione agli affari pubblici, sono intrapresi perché ci si attende che procurino soddisfazione, e tuttavia,
in realtà, generano anche delusione e insoddisfazione» (Hirschman 1995, 18),
allora il caso delle primarie pugliesi, nonostante lo spirito unitario che le aveva
pervase sia tra gli organismi dirigenti dei partiti che tra gli elettori, pone un interrogativo generale, ma ancor più interessante vista la vittoria dell’“estremista”
Vendola: come impedire che tra l’elettorato potenzialmente di riferimento, che
ha scelto o ha guardato con maggior simpatia Boccia, si insinui il distruttivo
germe della delusione, soprattutto per il timore che il successo della risicata maggioranza destini l’intera coalizione a sicura sconfitta contro l’incumbent, Fitto ?
Si considerino le aspettative nutrite dagli individui nell’elaborare il progetto di
fare una determinata cosa. Collocandosi in tale prospettiva, si potrebbe concludere che, trattandosi di una esperienza senza precedenti del genere per i pugliesi, ed essendosi registrata un’affluenza inattesa, la delusione per gli sconfitti sia
risultata attenuata nonostante e oltre le immediate strette di mano tra Vendola e
Boccia e le garanzie di lealtà della minoranza. Riprendendo alcune suggestioni di
Pasquino, si può ragionevolmente concludere che il grande entusiasmo da parte
degli elettori di centrosinistra per le primarie possa aver sopito la delusione degli
sconfitti sia nel caso pugliese che in occasione di quelle dell’ottobre successivo,
perché con quello strumento sarebbe stata risolta l’annosa questione della leadership. Non si dimentichi, infatti, che su scala nazionale, ancora alla vigilia delle
primarie, la costituita Unione non era riuscita del tutto a legittimare Prodi come
leader indiscusso capace di tenere insieme tutti i partiti della coalizione, come
invece, sin da prima delle vittoriose elezioni del 2001, era evidente per gli elettori della CdL con Berlusconi (Pasquino 2002a, 131).
L’inserimento delle primarie regionali entro una cornice politica complessiva
segnata da un’opposizione movimentista senza sconti al Governo Berlusconi in
carica, attraversata da una tensione etica ripetutamente delusa dalla moderazione venata da tentazioni compromissorie dei vertici partitici, anche a causa della
già accennata difficoltà di comporre coerentemente le variopinte anime del centrosinistra, avrebbe dunque alleviato il malcontento dei sostenitori di Boccia per
la scelta di Vendola, sia in considerazione delle linee programmatiche indicate
per il governo della Regione, per esempio molto nette in tema di lavoro precario, non combattuto invece in sede parlamentare con altrettanta decisione,
accentuando di conseguenza la dissonanza cognitiva tra i partecipanti alle primarie. Il superiore estremismo degli elettori della GAD, poi Unione, rispetto alle
classi dirigenti dei partiti, ha accentuato la pervasività della dissonanza cognitiva,
vale a dire l’autoinganno nel quale si rifugiano le persone che hanno effettuato
una scelta o fatto un acquisto, evitando ogni informazione “dissonante”, cercando in ogni modo di confermare la bontà della scelta collettiva, anteponendo il
successo collettivo alle scelte personali, anche al fine di sentirsi pienamente protagoniste di tale esito. Ciononostante rimane incontestabile che Vendola ha ottenuto più voti nelle elezioni laddove era andato meglio alle primarie, e meno in
quei paesi in cui era risultato più forte Boccia.
In verità, anche qualora permanga qualche dubbio sull’eventuale malessere di
taluni elettori più “moderati”, la peculiarità del sistema elettorale adottato imporrebbe una verifica empirica sulle schede che si concentri su due tipologie di
76
Alessandro Lattarulo
Le stagioni della Puglia
voto. Considerato che la mera selezione di un partito sulla scheda elettorale trasferisce automaticamente il voto anche al candidato Presidente della coalizione,
al più consentendo di scegliere esclusivamente quest’ultimo, potrebbe costituire motivo di interesse verificare se i voti andati alla Margherita o all’Udeur siano
privi di un’esplicita indicazione per Vendola in misura rilevamentemente superiore alla media. Un secondo tipo di analisi avrebbe potuto riguardare il ricorso
al voto disgiunto, onde verificare quale o quali partiti in particolare nel centrosinistra siano stati oggetto di preferenza invece destinata a Fitto come candidato
presidente. Il tasso del voto personale per Vendola, comunque, segnala un’evidente capacità del candidato della GAD di penetrare tra le maglie dell’elettorato,
conquistandolo sorprendentemente più di Fitto, Governatore uscente di uno
schieramento dalle più ostentate pulsioni presidenzialiste. Mentre infatti la vittoria del centrosinistra conteggiando esclusivamente i voti di lista è ridotta a
4.500 voti (1.064.410 a 1.059.869), il margine di distacco si è leggermente ampliato in virtù dei voti personali collezionati da Vendola (101.126), quasi diecimila in
più dell’avversario (91.536), sconfitto pertanto proprio sul terreno presupposto
più congeniale. E sconfitto soprattutto per l’elevata personalizzazione del voto
nel barese (escludendo la sesta provincia), dove Vendola ha raccolto il 40,98 %
dei voti maggioritari a proprio favore (41.439) in tutta la Puglia, staccando talmente Fitto da non consentire a quest’ultimo di recuperare nonostante l’eccellente rendimento nel basso Salento (25.078 voti personali).
Vittoria nel complesso di misura, maturata pur non raggiungendo il 50 % dei voti
validamente espressi, favorita dalla transumanza del partito dei Pensionati dal
centrodestra alla GAD e dalla formazione di una neo Democrazia Cristiana (la
DCU), nonché vittoria in merito alla quale rimarcare quattro elementi, che analizzeremo sinteticamente ma puntualmente:
a) la capacità di Vendola di mantenere intatto, se non addirittura di incrementarlo, l’entusiasmo generato dalle primarie, con l’inattesa partecipazione del 16
gennaio;
b) la vittoria di Vendola come paradigma del riscatto del Politico impegnato a
intraprendere una sfida per l’egemonia, rifiutando il compito di gestire l’esistente mediante scelte annacquate, per sfuggire al rischio della precipitazione del
neutralismo impolitico;
c) la capacità di innescare un effetto traino a favore dei partiti di sinistra, pur in
una gestione dell’immagine mai schiacciata sulla propria appartenenza;
d) l’abilità nell’impostare una campagna elettorale i cui effetti ne hanno accentuato la personalizzazione, in parte contraddicendo lo sforzo di coinvolgere orizzontalmente i cittadini, e ridimensionando l’illusione di chi, passando in rassegna il voto del 3 e 4 aprile, nei suoi esiti scorgerà l’irreversibile tramonto del berlusconismo.
7.1 Sfruttare il momentum
I comitati spontanei, quelli di “partecipazione democratica”, hanno sostenuto
con entusiasmo raramente rintracciabile in occasioni elettorali la candidatura di
Vendola. Sorti persino all’estero, essi si sono contraddistinti nella quasi totalità
dei casi per specializzazione tematica (ad esempio sul Parco dell’Alta Murgia),
77
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per appartenenza categoriale (gli “artisti per Nichi”), e/o per l’impegno sui temi
generali della partecipazione politica (i comitati per la cittadinanza attiva). Tale
intensa mobilitazione, come suggerito da alcune letture degli avvenimenti, sarebbe stata stimolata da un senso di responsabilità nei confronti del candidato: l’aver
contribuito in prima persona a designarlo, spezzando ossidati bilanciamenti nel
centrosinistra, ha condotto i suoi sostenitori della prima ora a condividere il destino elettorale e quindi a mettersi attivamente in gioco per tutta la durata della campagna, in una sorta di “chiamata di correità” (Romano 2005, 230).
L’apporto dei comitati sia nella definizione di taluni punti programmatici che nell’azione di propaganda ha consentito allo staff di Vendola di limitarsi a fungere
da struttura di collegamento tra i numerosi candidati, specialmente con un
costante aggiornamento del sito Internet. Dinanzi infatti a partiti ormai abituati
a procedere in ordine sparso, tanto più che il proprio risultato era chiaramente
legato al consenso personale che sarebbero stati in grado di catalizzare i loro
esponenti, a partire dai consiglieri uscenti, la funzione di coordinamento del
comitato elettorale di riferimento ha permesso di ottimizzare l’impiego di molte
risorse umane, garantendo a tutte le esperienze periferiche, nessuna esclusa, la
presenza di Vendola in almeno un’occasione.
7.2 Vittoria del Politico
Aprendo una crepa nel sistema blindato dell’ideologia del neutralismo speculare
delle proposte elaborate in sede politica rispetto al senso comune, o al più distorcendolo per accordi sottobanco, le primarie sono state trasformate da
Vendola nell’occasione mediante la quale farsi visibilmente soggetto di una visione che alla Politica ridotta ad amministrazione dell’esistente cerca di sostituire
idee forti, riconoscibili, reali prospettive di mutamento. Vendola riesce su Boccia
prima e su Fitto poi perché, rigettando, quanto meno sul piano retorico, velleità
sbiaditamente riformiste del versante più conservatore della coalizione, esplicitamente considera limitata la capacità umana di immaginare il cambiamento
sociale, e sceglie di battere la via che riconduce i fattori del mutamento entro lo
schema forse semplicistico, ma non privo di sicura efficacia, di proporre su alcune tematiche cruciali l’opposto dello stato presente, invece di qualcosa di sfumatamente diverso, costringendo in tal modo Fitto ad arroccarsi, persino al di là
delle intenzioni, sulla difesa rigida dello status quo, aggravata dall’omogeneità
della maggioranza che lo ha sostenuto con quella parlamentare.
Con un’anomalia, tra l’altro. Quella della Lega, reificazione partitica della tentazione padana di un’Italia a due velocità. Sfruttando l’esacerbamento di un malcontento che in passato Fitto non aveva esitato a direzionare contro le riforme
costituzionali perorate dal centrosinistra e che adesso, con le iniziative secessioniste, andava a toccare le corde più profonde dello stato d’animo meridionale
segnato dalla deprivazione, perennemente inclinato alla rivendicazione lacrimosa rispetto a quanto sarebbe stato strappato al Mezzogiorno “povero” dal resto
del paese “benestante”. Maliziosamente tentato di fare delle regioni meno sviluppate discariche a cielo aperto da ricompensare con un po’ d’elemosina.
Vendola ha evocato le paure più recondite dei suoi corregionali, al fine di mutare in orgoglio quel ribellismo da frustrazione verso chi sta meglio del Sud, pro-
78
Alessandro Lattarulo
Le stagioni della Puglia
mettendo al Mezzogiorno di poter scegliere una versione di sviluppo alternativo,
storicamente compresso sino al punto di coincidere nell’immaginario collettivo
con il galleggiamento nell’arretratezza della rete ferroviaria locale, con la cronica
mancanza d’acqua in alcune zone della Puglia per la trasformazione in scelte
antieconomiche, in perfetta coerenza con l’ideologia neoliberista, della necessità di mettere mano alle condutture dell’Acquedotto Pugliese. Secondo le oleografie alle quali si dedicano i quotidiani (Merlo 2005), Vendola ha pervicacemente cercato di presentarsi come un leader gentile e delicato, un Masaniello sui
generis, sfruttando a proprio favore la statura molto meridionale e la timidezza
accentuata dai capelli a caschetto.
7.3 L’effetto traino per la sinistra della candidatura Vendola
La candidatura di Vendola e l’immediato supporto, quasi di stampo militare, fornitogli dagli attivisti del PRC e da altri settori dell’associazionismo collaterali al
partito o comunque tutt’altro che ostili allo stesso, gli hanno consentito di favorire un’eccellente affermazione di Rifondazione, attestatasi con il 5,1 % quale
terza forza della GAD, senza che il risultato andasse a scapito del Pdci, cresciuto,
rispetto al 2000, dal 1,7 al 2,3 %, a confermare che la disposizione dell’elettorato
a muoversi, sia pure quasi esclusivamente entro le coalizioni, sia la prova patente dell’errata convinzione assolutistica nutrita dai ferventi sostenitori della priorità di conquistare il “centro”. Il crollo della Margherita al 7,1% dal 12,3 % ottenuto nel 2000 da Popolari e Democratici, non compensato da una significativa
crescita dell’Udeur (3,3 % rispetto al 2,8 %), anzi coincidente con il ridimensionamento di Forza Italia (anche a voler sommare i consensi della lista di Fitto si
registra un calo dell’1,8 %) e con la lievissima crescita dell’UDC, ha segnato, certamente con pretesa marginale, un recupero dei partiti “laici”, e delle liste socialiste oltre tutte le altre. Il “fattore DC” nel nuovo sistema partitico, pur mantenendo un’indubbia persistenza rispetto al passato, è risultato ammaccato, anche
se affidiamo al tempo la lucidità di giudicare se ciò concerna più il piano simbolico che quello reale.
Vendola è riuscito a non trasformare la scelta di Rifondazione di essere pienamente associata alla GAD prima e all’Unione poi in appiattimento su posizioni di
“governo” costrette a misurarsi con le scelte ancora equivoche del centrosinistra,
garantendo una proiezione pubblica di partito anche “di lotta” e tuttavia attento
a demolire con i propri comportamenti il persistente pregiudizio di chi lo giudica “anti-sistema”.
Annodando il rapporto lasco, che nel 1996 aveva dato vita, in sede elettorale, alla
“desistenza”, Rifondazione, a seguito di una decennale opera di tessitura degli
organismi dirigenti regionali, tra i più sensibili a tessere trame di organica collaborazione con l’Ulivo, non foss’altro che per far fruttificare un discreto patrimonio di consensi in Capitanata e nell’entroterra barese, con pochi eguali nel
Mezzogiorno profondo, ha potuto far leva sul carisma di Vendola, ritornando
persino ad affacciarsi nell’underclass, da anni orientata a destra. E anzi, il consenso indirizzato al solo Vendola, al di là degli “errori” nell’espressione del voto
e come effetto più immediato della campagna elettorale, consente di rilevare che
l’ostilità nei confronti dei “comunisti”, agitata ossessivamente da Berlusconi, sia
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n.15 / 2006
di sicuro impatto tra gli elettori più fidelizzati del centrodestra, ma possa attenuarsi quando l’evocazione del “pericolo rosso” appostata dietro la falce e martello risulti “coperta” dall’investimento sull’immagine del candidato, in grado di
trasmettere una coesione unitaria dello schieramento a proprio sostegno, lavorando per infrangere la perversa circolarità di una propria dipendenza dal partito di riferimento, che ne farebbe collimare le sorti.
La vera sconfitta delle regionali è così risultata “La Primavera pugliese”, in grado
di raggranellare appena il 2,6 %, e soprattutto in evidente sofferenza per non
aver saputo liberarsi del proprio imprinting “baricentrico”, legato ai nomi di
Emiliano e Divella, il primo specialmente in debito di consensi. Nell’incapacità di
trasformarsi in lista d’opinione più diffusamente radicata sul territorio, essa ha
inteso il proprio appoggio a Vendola come sostegno a un personaggio in grado
di indicare, in ciò al pari dell’Emiliano impegnato nella campagna elettorale per
il Comune di Bari, una capacità di “stare tra le gente” innovativa per l’aristocratico centrosinistra pugliese, sebbene oggetto di una strumentale intensificazione
a ridosso delle elezioni, come analizzeremo adesso.
7.4 La campagna elettorale
Mentre nel 2000 il centrosinistra aveva scelto un candidato “centrista”
(Giannicola Sinisi, come nel 1995 con Luigi Ferrara Mirenzi), nel 2005 sono stati
i suoi elettori a preferire un cambio di rotta, puntando su Vendola, deputato dal
1992, abile oratore, impegnato, come già accennato, in battaglie difficili e minoritarie, non sempre garanzia di ritorni elettorali, come quella contro la criminalità organizzata. Ma che ciò rappresentasse un problema per la rassicurazione dell’elettorato moderato, verso il quale altrimenti Fitto avrebbe rischiato di sfondare, è stato chiaramente evidente nella campagna elettorale di Vendola.
Egli, per di più, doveva vincere il pregiudizio che accompagna molti cittadini nei
confronti degli omosessuali e si è ritrovato a combattere contro un tradizionalismo indisposto ad accettare l’autenticità valoriale del suo cattolicesimo, giudicato in alcuni ambienti clericali “incompatibile” con tendenze sessuali “anormali”.
Sconfiggere in un sol colpo l’essere comunisti, gay e praticanti rappresentava
uno scoglio appuntito che esempi rassicuranti garantiti dall’estero non aiutavano a inabissarsi, e non solamente perché nell’Italia meridionale il tutto avrebbe
potuto rivelarsi un limite insormontabile.
Curata dall’agenzia barese “Proforma srl”, che si era già occupata con successo
della campagna elettorale di Emiliano, quella comunicativa di Vendola ha privilegiato registri lessicali diretti, senza imboscarli dietro frasi di circostanza, tatticamente adoperate per guadagnare il favore degli indecisi. Contro i pregiudizi
ideologici e sessuali che rischiavano di ricoprire, per quanto si fosse abili nel loro
contenimento, un peso decisivo nel determinare il vincitore, Vendola ha agito su
due piani contemporaneamente:
a) si è impegnato senza reticenze in una modalità comunicativa ecumenica, con
la quale ha guidato tutta la coalizione in campagna elettorale, anche al fine di
dimostrare di possedere quelle indispensabili capacità di coordinamento che il
mero impegno parlamentare richiede in misura inferiore e per dimostrare di
riuscire a imporre l’attenuazione dei toni delle proposte che non avrebbero
80
Alessandro Lattarulo
Le stagioni della Puglia
avuto il consenso da parte di tutte le liste a suo sostegno (Cristante 2005, 78);
b) attraverso i curatori della campagna, ha capovolto a proprio favore gli aggettivi con i quali gli avversari erano soliti apostrofarlo più spesso, con il non misconosciuto intento di demolire un linguaggio, quasi un gergo, alimentato dal quarto potere, ma il cui senso è diametralmente alternativo a un utilizzo libero da
precomprensioni distorte. La sua “diversità” è stata manipolata per farla diventare elemento di rottura con il disastro regionale (“Diverso: da quelli che oggi
governano la Puglia”). Oppure l’estremismo associato alla propria appartenenza
politica è stato trasformato in un modo d’essere “estremista” sì, ma “nell’amore
per la Puglia”. Autobollandosi nella cartellonistica come “pericoloso”, “sovversivo”, adducendo però nelle didascalie spiegazioni positive, Vendola ha cercato di
stabilire un’interazione con il lettore-cittadino, la necessità di misurarsi con un
pensiero depurato dai tipici lustrini della convention. Assecondando tale tattica,
sono risultate depotenziate le accuse che il centrodestra, ma non esclusivamente, era solito muovergli proprio con tali portati di durezza. Anche gli spot di
Alessandro Piva, tentando di denudare i guasti del modello pugliese propugnato
da Fitto, hanno puntato l’indice contro la modernità rivendicata per la Puglia dal
centrodestra, evidenziando che, grattando sotto la superficie, si presentava un
groviglio di drammatici problemi irrisolti, per disinnescare i quali era necessaria
un’alternativa, della cui possibile applicazione Vendola si faceva garante verso lo
spettatore.
Vendola ha insomma demitizzato il proprio estremismo, l’appartenenza a un partito sul cui nome Berlusconi ha costruito, sin dalla “discesa in campo”, il fronte
di una paura sociale evocando lo spettro della continuità con un totalitarismo
tragico che la storia ha in Occidente archiviato.
Raccogliendo alcuni aggettivi usualmente associati a una connotazione politica
“radicale”, “estrema”, Vendola è arrivato persino a ironizzare sul portato allarmante, facendo leva su un malcontento nei confronti della politica attuale che
fende trasversalmente tutti gli elettori, per dimostrare che la durezza di certe
prese di posizione non può essere banalmente ricondotta a una collocazione tra
le forze politiche incompatibile con la pretesa di diventare il vertice istituzionale
regionale. È lo spazio politico che si è modificato negli ultimi anni, contraendosi in una gelatinosa consonanza di policies tra gli schieramenti che soffoca tutte
le voci dissenzienti rispetto ai dogmi liberisti e monetaristi.
Egli ha sfruttato il rapporto con la madre sul versante della rassicurazione, al fine
di evidenziare quanto la propria dichiarata omosessualità, – che gli aveva prontamente garantito in fase di confronto per le primarie l’appoggio di Franco
Grillini e dell’Arcigay e che lo aveva fatto partecipare al Gay Pride di Bari senza
remore – non possa finire tra le volgari considerazioni di alcuni avversari politici, ma sia parte della proiezione pubblica di un uomo il quale, come tutti, mantiene un legame di infinita tenerezza con la mamma, tanto più nel Mezzogiorno
supremo riferimento per la famiglia. Nei manifesti elettorali Vendola le si appoggia delicatamente, girando lo sguardo quasi a voler ritagliare per la propria emozione una dimensione residualmente privata, mentre la madre sorride gioiosamente all’obiettivo. Si è cercato di solleticare la condivisione di un rapporto con
la genitrice attorno al quale si rompono i rigidi schemi politici, rivolgendosi quindi potenzialmente a tutti i pugliesi. Strategia elettorale volta a rafforzare l’idea
comune che la Mamma riesca a smussare ogni asperità, ogni peculiarità esclu-
81
n.16 / 2006
7
Tesi sostenuta con
decisione dallo stesso
neo-Presidente
(Vendola 2005b)
82
dente, nei suoi confronti ritrovandosi una perfetta coincidenza nei comportamenti di un omosessuale come Vendola con quelli di qualunque elettore, per sfilare a quest’ultimo l’alibi del comodo ricorso immotivato al pre-giudizio.
Normalizzare la diversità, le inclinazioni annidate tra i versi delle proprie poesie,
ha significato anche far passare attraverso i media l’immagine autorevole di un
candidato adeguatamente capace di rivaleggiare in stile sartoriale con le impeccabili tonalità scure di Fitto, i cui completi blu ne hanno definito contorni mimeticamente replicanti di Berlusconi, a cui l’ex Governatore continua a essere associato, talvolta con ostentazione eccessiva. Se da un lato, pertanto, Fitto non ha
rifiutato la ricerca di una connotazione che potesse delinearne la piena autonomia da un governo della Repubblica in evidente crisi di consenso, confezionando una lista civica, “La Puglia prima di tutto”, che sin dal nome intendeva prendere le distanze dall’accondiscendenza di Forza Italia, dell’UDC e di AN nei confronti della Lega, impostandone il colore prevalente sull’arancione, dall’altro
Vendola si è autonomizzato dalla declinazione forzata che altri avrebbero voluto
darne, attraverso la madre garantendo sulle proprie personali capacità, mentre
su Fitto, che pure non aveva rinunciato a farsi fotografare con la mamma intenta a schioccargli un bacio, è rimasto sempre aleggiante il ricordo del padre.
Nell’inevitabile oscillazione tra il codice materno e quello paterno, reciprocamente esclusivi, il primo produce una società dei fratelli – la cui sottesa solidarietà rappresenta per il Mezzogiorno l’unica credibile strategia di salvezza –,
mentre il secondo genera la società dei mercanti e dei predoni, come ha rilevato Pietro Barcellona sulla scia di Pasolini e Fornari (Barcellona 2006, 42).
In considerazione di tutto ciò, quando solleviamo alcune perplessità circa la conclusione di Cotturri in merito al significato della vittoria di Vendola come certificazione del superamento del berlusconismo7, intendiamo sottolineare l’importanza ricoperta dalla campagna elettorale, dalle strategie di marketing politico
veicolate con spot e cartelloni, non persuadendoci affatto che queste siano risultate secondarie rispetto allo sforzo di organizzare significativi appuntamenti di
confronto e scambio di idee (Cotturri 2005a).
Sarebbe impossibile imporre al cittadino-elettore-consumatore una strategia che
pretenda di localizzare la scelta politica nelle sezioni di partito, nelle piazze o nei
mercati e non anche in televisione o con abili fotografi e truccatori. Quel che la
campagna per le primarie e quella per le elezioni regionali hanno evidenziato è
l’esigenza di somministrare con grande perizia all’attento consumatore dosi di
fidelizzazione verso un candidato da trasformare necessariamente in leader, con
un coinvolgimento non eccessivamente impegnativo ma che non sia angustamente sacrificato nel passivo ascolto di un comizio.
I fautori della democrazia partecipata fanno da alcuni anni largo all’idea di autoistituzione: non ci si illuda che esista un popolo già formato da rispecchiare, ma,
à la Castoriadis, vi è un processo continuo e mai concluso di costruzione partecipata e discorsiva del bene comune, della verità e della stessa identità dei singoli, disposti, però, se necessario, a delegare i propri poteri per farsi rappresentare da politici e cittadini comuni non ricompresi entro tradizionali categorie di
appartenenza.
Una vittoria elettorale non può essere figlia, tra l’altro nata – come nel caso di
Vendola – da una gestazione parecchio inferiore ai nove mesi, di cambi improvvisi di idee e di mentalità, ma queste possono al massimo risultare liberate da
Alessandro Lattarulo
Le stagioni della Puglia
schermi coprenti mediante tecniche manipolatorie e accordi elettorali. Coglie
pertanto nel segno Onofrio Romano quando scrive che «Vendola è stato capace
di dare cittadinanza a dimensioni espunte da anni dalla sinistra politica e monopolizzate da Berlusconi: ha somministrato alla sinistra alcune dosi omeopatiche
di berlusconismo, che il codice riformista si ostina a schernire. Ha dato voce ai
moti profondi dell’anima. Ha emozionato. Ha commosso» (Romano 2005, 236237). A conti fatti, il vero antiberlusconiano è stato Fitto, inchiodato dal suo strapotere sull’esigenza di non tradire la pratica di governo democristiana appresa in
famiglia.
8. Conclusioni
«Il fatto che la Puglia sia una regione di regioni costituisce […] un vantaggio,
perché esistono più tradizioni» che oggi trovano uno spazio prima loro negato.
Il declino relativo di Bari e il successo di Lecce e del Salento possono essere decifrati in tale ottica (Botta 2004, 20). Nella vita, in fondo, tanto più in una realtà globalizzata che impone di ripensare i modelli di sviluppo dominanti nel passato, è
importante sia per i singoli che per le collettività diventare sempre qualcosa di
diverso, di nuovo.
Vendola ha saputo interpretare più abilmente di Fitto questa esigenza in sede di
campagna elettorale, sintonizzandosi sui più frammentati e polverizzati umori
dei giovani, utilizzando con maggiore efficacia e disinvoltura Internet, cogliendo
senza tentennamenti che, dinanzi all’impossibilità di considerare specifici ceti
sociali quali punti di forza di un partito, diventa fondamentale lavorare su fratture di genere, sulle coorti d’età, sempre proponendosi in prima fila per affrontare tutte le emergenze esistenti e che rendono penosa la vita dei pugliesi in un’ottica di problem-solving.
Un ruolo senza dubbio centrale è stato ricoperto dalla società civile, un serrato
confronto con la quale, costringendo il retrivo ceto politico del centrosinistra a
smuovere il proprio immobilismo, si è alla fine rivelato un elemento di cambiamento, fornendo un prezioso apporto nelle vittorie che hanno costellato il biennio 2004-2006.
Sicuramente la reciproca maturazione ha contribuito a mettere in evidenza la
composizione proteiforme del sistema politico regionale, nel quale i partiti sono
solamente uno dei pilastri, ancora necessario, indispensabile, ma tutt’altro che
sufficiente.
Basterebbe pensare alle decine di comitati che hanno sostenuto Vendola, al pari
degli artisti che, garantendogli il proprio appoggio, hanno portato in tante piazze momenti di spettacolo gratuito, accessibile a tutti, fino a una vera e propria
maratona di chiusura della campagna elettorale che ha contribuito a inorgoglire
tanti pugliesi per la centralità guadagnata in un evento a cui decine di mass
media hanno dedicato la propria attenzione.
Ciò ha tuttavia testimoniato l’impossibilità di sottrarre alla comunicazione la centralità che al suo ruolo è garantito da quest’epoca, e, soprattutto, di evidenziarne pienamente la mistificazione a cui essa si accompagna: «presentarsi sotto le
insegne del progressismo democratico, mentre costituisce la configurazione
compiuta dell’oscuramento populistico» (Perniola 2004, 6). Sottraendosi a ogni
83
n.16 / 2006
8
E che contraddice la
meritocrazia di taglio
imprenditoriale garantita come stella polare
delle proprie scelte a
tutti i media a vittoria
appena conquistata
(Vendola 2005a).
9
Quando la CdL, in
Puglia, ha sconfitto
l’Unione sia alla
Camera (51,54 % a
48,29 %) che al Senato
(51,89 % a 47,86 %).
84
determinazione, aspirando a essere contemporaneamente una cosa, il suo contrario e tutto ciò che sta in mezzo tra i due opposti, essa manifesta il proprio totalitarismo pervasivo nella ricerca di comprendere persino l’antitotalitarismo
(Perniola 2004, 9). Essa immerge tutto nell’immediato, dissolvendolo nell’istante,
riducendolo a un vitalismo che si esaurisce in un’infinita sequenza di momenti
saturi. L’estrema consumabilità del messaggio nel labirinto mediatico della videopolitica, che non tollera una memoria troppo lunga, lo proietta a barcamenarsi
ambiguamente tra slogan che garantiscano visibilità e polisemia (Prospero 2001,
31). Le primarie non sono sfuggite a tale trappola, e ovviamente non ne è risultato indenne il loro esito, nonostante l’interpretazione benevola che potremmo
suggerire affiancando alle scelte propagandistiche ufficiali lo sforzo di coinvolgimento della cittadinanza nel contribuire a progettare il futuro condiviso.
Anche in ragione di siffatto sforzo ha deluso tante aspettative la formazione di
una Giunta “Bari-centrica”, di profilo inferiore alle attese, solcata da alcune profonde contraddizioni, ancora irrisolte, come l’esclusione di uno degli alleati, il
Pdci, aggravata dall’equivoco di volergli dare in quota uno degli assessori scelti
direttamente dal Presidente. Prosternazione a una logica da manuale “Cencelli”
che ha ricondotto i propositi vendoliani della vigilia ad affievolirsi nella sapiente
regia per il proprio partito nell’occupazione sistematica e famelica delle cariche
pubbliche, in adesione a una pratica di spoil-system che rende il turnover innescato in questi anni vorticoso come mai si era visto nei decenni passati8. La nuova
Giunta, peraltro, ha dovuto misurarsi, fuori dagli schemi delle promesse elettorali, con ben noti problemi, come quello dei rifiuti e quello energetico, assumendo nella prima fase della propria esistenza atteggiamenti equivoci e troppo
spesso reticenti rispetto alla chiarezza garantita in campagna elettorale, così contribuendo a una rapida erosione dei consensi, come verificatosi nelle politiche
del 20069.
La “primavera” ha già ceduto il passo all’autunno del malcontento ?
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Alessandro Lattarulo è docente a contratto di Sociologia dei fenomeni politici
all’Università di Bari.
a.lattarulo@formazione.uniba.it
86
Elio Franzin
Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa
Borderline
La comunicazione, su ”Silvio Trentin in Francia,
dall’antifascismo in Guascogna agli esordi della
Resistenza a Tolosa”, presentata da Paul Arrighi al
quarto convegno su Silvio Trentin, promosso dal
Centro studi e ricerca che ne porta il nome (Jesolo,
2-3 aprile 2004) sul tema ” L’antifascismo italiano
tra le due guerre alla ricerca di una nuova unità”,
contiene alcune informazioni sulla ripresa della
partecipazione di Trentin alla vita massonica. La
fonte documentaria di Arrighi è costituita da una
corrispondenza fra organismi massonici, che si
trova presso l’archivio del Grande Oriente di
Francia, di notevole interesse ai fini della ricostruzione della biografia del più autorevole esponente
del pensiero federalista italiano del Novecento.
Alla fine di questo scritto, viene fornita la trascrizione della parte essenziale della prima delle quattro lettere e le altre tre lettere.
Il 21 marzo 1935 il venerabile della loggia o atelier
“La parfaite harmonie” scrisse al Grande Oriente
di Francia informandolo che: “il fratello Silvio
Trentin attualmente librario a Tolosa, al n. 46 della
via Languedoc, ha manifestato il vivo desiderio di
assistere ai lavori della R. L. la Parf. H.
Le referenze più serie sono state presentate dai
nostri f.[rères] Costeodat e Rabary tutti e due della
P. H. Referenze morali, ben inteso. Il f. Trentin è
di una vasta cultura e renderà dei servizi. D’altra
parte questo f. esiliato per le sue opinioni ed atti
antifascisti ha un urgente bisogno di aiuto morale.
Egli si trova solo, smarrito, un po’ scoraggiato. Il
nostro dovere urgente è quello di dargli tutto il
nostro appoggio. Il f. Trentin ha dichiarato che egli
era stato iniziato alla L.[oggia] Darwin di Pisa –
(Ven. il professore Pozzolini). Entrato in sonno nel
1906, egli domandò di riprendere la vita Massonica
attiva nell’ottobre 1925, nel momento in cui fu
depositato il progetto di legge Rocco per lo scioglimento della F.[amiglia] M.[assonica] Italiana.
Egli fu allora collegato al G. O. [Grande Oriente] di
Roma.
Il f. Trentin è nato l’11 Novembre 1885 a San Donà
di Piave – Venezia.
Io vi prego M.Ill. F., se voi ne avete la possibilità, di
farmi conoscere se le dichiarazioni del f. Trentin
sono esatte e d’altra parte, se il nostro At.[elier]
può, senza creare qualche spiacevole precedente,
accettare questo fratello alle sue riunioni.
Io vi sarò molto obbligato di farmi conoscere il
vostro parere nel più breve termine di tempo”
(Archivio del Grande Oriente di Francia, cartella
Tolosa).
Trentin si era iscritto al primo anno della facoltà di
giurisprudenza dell’Università di Pisa due anni
prima della entrata nella loggia pisana, il 9 dicembre 1904.
Agli inizi del Novecento la massoneria era ancora
in Italia l’organizzazione di tutte le forze che sostenevano e davano coesione allo Stato.
L’adesione di Trentin alla massoneria, l’unico partito reale ed efficiente creato dalla borghesia italiana che sta avendo in quegli anni, quelli dell’uomo
politico piemontese Giovanni Giolitti, il suo massimo sviluppo, è coerente con le tradizioni risorgimentali della sua famiglia e la sua formazione scolastica. Alla scuola elementare, in quarta e in quinta, è stato allievo del maestro Secondo Ciceri
influenzato dal pensiero democratico di Giuseppe
Mazzini. Al ginnasio-liceo Marco Foscarini di
Venezia ha avuto come docente il conte Pietro
87
n.16 / 2006
Orsi, autore di un’opera di storia italiana di orientamento liberale ed anche anticlericale, nella quale
aveva espresso, fra l’altro, una critica severa nei
confronti di Carlo Tivaroni, notissimo esponente
del radicalismo veneto (Orsi, 1901 - Per alcuni riferimenti al ruolo culturale di P. Orsi a Venezia, M.
Isnenghi 1984).
Orsi era a Venezia uno dei dirigenti dell’Unione
democratica, un’organizzazione che nel 1912 si era
fusa con il partito radicale (Piva, 1977, 26). A
Venezia il partito radicale, espressione dei ceti
intermedi, era caratterizzato in senso fortemente
anticlericale.
L’anticlericalismo era una posizione condivisa
anche da molti liberali e socialisti nei confronti dei
quali, soprattutto dei primi, il partito radicale rivolgeva delle proposte di alleanza politica ed elettorale. L’anticlericalismo aveva anche la funzione di
dividere i moderati laici dai moderati cattolici. Il
partito radicale raccoglieva un certo consenso non
soltanto dei ceti medi in città ma anche in provincia, a Portogruaro e a San Donà di Piave, da parte
della borghesia agraria impegnata, mediante capitali propri e mediante i consorzi di bonifica, nella
lunghissima, complessa e difficile operazione della
bonifica delle paludi (Fassetta, 1977)
La famiglia Trentin possedeva dei terreni agricoli.
Trentin, pur non appartenendovi, era molto vicino
allo strato della borghesia agraria protagonista
delle bonifiche delle paludi del Basso Piave ai margini della laguna di Venezia.
Nelle note sulla politica agraria del fascismo, pubblicate su “Giustizia e libertà” del 1938, Trentin
esprime il suo legittimo orgoglio per la tradizione
veneta delle bonifiche, quella del Magistrato alle
acque e dei consorzi della Repubblica di Venezia.
Egli esalta i sacrifici sostenuti dai contadini, che
spesso morivano molto giovani per bonificare le
terre; inoltre difende i risultati ottenuti nella bonifica dalla legge Baccarini del 25 giugno 1882.
I suoi primi saggi giuridici, pubblicati anche prima
della laurea, sono dedicati ai consorzi di bonifica,
una storica istituzione creata nella prima metà del
Cinquecento nella Terraferma veneta dalla
Repubblica di Venezia nella quale si realizzò, almeno in parte, il principio della sussidiarietà.
Tuttavia al congresso regionale veneto delle bonifiche, che si svolse a San Donà di Piave dal 23 al 25
88
marzo 1922, Trentin presentò, oltre alla relazione,
una mozione che fu duramente contrastata dagli
agrari bonificatori per due richieste in essa contenute nei punti 3 e 7, relative al diritto di ispezione
del Governo nelle bonifiche private e alla responsabilità dei proprietari terrieri per la malaria contratta
dai loro braccianti quando essi fossero stati inadempienti nel provvedere alle misure profilattiche (Sulla
diffusione della malaria nel Sandonatese e nel
Veneto, P. Sepulcri 1936).
Trentin appartiene alla classe dei proprietari terrieri ma per il suo reale e coerente umanitarismo
non esita ad entrare in conflitto con esponenti
autorevoli della classe dirigente del suo ambiente
di appartenenza.
Per Trentin la bonifica umana, cioè quella delle
condizioni di vita dei braccianti, è veramente lo
scopo prioritario della bonifica idraulica ed agricola. Egli supera di gran lunga la filantropia del pensiero e della tradizione massonica. La radicalità
della sua posizione umanitaria assunta nel convegno del marzo 1922, quando egli è ancora nella
prima fase del suo pensiero, quella liberal-democratica, è un precedente importante che consente
di capire la dura critica del capitalismo monopolistico e finanziario e della proprietà privata che
fece parte, agli inizi degli anni Trenta, delle sue
nuove posizioni politiche e filosofiche espresse
nelle due opere decisive della “svolta” dell’autonomia e quindi del federalismo: Riflessioni sulla
crisi e sulla rivoluzione (1933) e La crisi del diritto e dello stato (1935).
Nell’agosto 1924 il consiglio nazionale del Partito
fascista non solo ribadì, con un ordine del giorno
presentato da E. Bodrero, l’incompatibilità tra l’appartenenza al PNF e alla massoneria, ma pose tra
gli scopi principali del fascismo la lotta contro di
essa, cioè contro la vecchia classe dirigente postrisorgimentale (De Felice, 1966, 679-670).
Una forte presenza massonica caratterizzò non
solo la Democrazia sociale, che era la formazione
politica originaria e di provenienza di Trentin, ma
anche l’Unione nazionale, una organizzazione politica coerentemente antifascista che ha avuto come
esponente più autorevole Giovanni Amendola, alla
quale Trentin aderì nel novembre 1924 in un
periodo di piena crisi delle opposizioni antifasciste (Carocci,1956, 166)
Elio Franzin
Dopo il delitto di Giacomo Matteotti (10 giugno
1924), Mussolini, con il suo discorso del 3 gennaio
1925, diede inizio ad una nuova fase del fascismo
ponendo alcune delle premesse politiche e giuridiche per la sua trasformazione da governo in regime, ridimensionando e liquidando gli esponenti
del vecchio stato conservatore e laico. Il 19 maggio 1925 con 304 voti a favore fu approvata alla
Camera dei deputati la legge contro le associazioni
segrete cioè la massoneria, che era stata la principale organizzazione del vecchio stato laico. Il 16
maggio era intervenuto contro il provvedimento
anche Antonio Gramsci ben consapevole della
svolta nella storia dello stato italiano rappresentata
dalla liquidazione della massoneria (Gramsci,
1971, 75-85). Nello stesso mese il nome di Trentin
apparve nella seconda lista dei firmatari del
“Manifesto degli intellettuali” redatto da
Benedetto Croce.
Il 5 novembre furono arrestati, con l’accusa dell’organizzazione di un attentato a Mussolini, l’exdeputato Tito Zaniboni del Partito socialista unitario e il generale Luigi Capello legato agli ambienti
della massoneria (De Felice, 1968, 139-147). La
responsabilità della preparazione dell’attentato del
Gran Maestro della massoneria di palazzo
Giustiniani non fu dimostrata al processo, anche se
indubbiamente alcuni ambienti massonici erano
stati a conoscenza del progetto di Zaniboni che
prevedeva prima l’attentato a Mussolini e poi l’instaurazione di un governo militare.
Zaniboni aveva progettato, contemporaneamente
all’attentato a Mussolini, anche l’intervento di gruppi di azione nell’Italia settentrionale. Mussolini ne
approfittò per decidere lo scioglimento di tutte le
logge della massoneria di palazzo Giustiniani, della
quale Capello era uno dei maggiorenti, e la sorveglianza di quelle di piazza del Gesù.
Secondo Antonio Gramsci, “col colpo Zaniboni si è
chiuso una ciclo della storia del nostro paese, il
ciclo apertosi con l’occupazione delle fabbriche”.
Egli riteneva che l’episodio Zaniboni spiegasse l’atteggiamento di molti partiti, come ad esempio
quello repubblicano e quello socialista massimalista,
i quali avevano delle illusioni nei loro “strani progetti e metodi di lotta” (Gramsci, 1971, 476, 478)
Il 24 dicembre 1925 fu approvato il decreto legge
n. 2300 il quale privava gli impiegati dello stato
Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa
della libertà politica. Esso all’articolo 1 concedeva
al governo la facoltà di dispensare dal servizio i
funzionari pubblici di ogni ordine e grado che per
“ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o
fuori di ufficio” non diano “piena garanzia di un
fedele adempimento dei loro doveri o si pongano
in condizioni di incompatibilità con le generali
direttive del Governo”.
In seguito all’arresto del 5 novembre di Tito
Zaniboni e del generale Luigi Capello, a Venezia si
intensificarono le aggressioni fasciste nei confronti della massoneria, ed anche dei docenti antifascisti di Ca’ Foscari.
È molto probabile che l’intimidazione personale,
raccontata da Vittorio Ronchi, subita da Trentin da
parte di uno squadrista che gli impedì di tenere
lezione a Ca’ Foscari e della quale egli informò inutilmente il prefetto, si sia verificata dopo l’approvazione della legge antimassonica del 19 maggio
1925 (Ronchi, 1975, 47-48 - Per la biografia di V.
Ronchi, D. Casagrande 2000).
Il 7 gennaio 1926 Trentin inviò al direttore del R.
Istituto universitario di Ca’ Foscari le sue dimissioni da professore stabile di diritto pubblico. Il 2 febbraio 1926 lasciò l’Italia assieme alla sua famiglia
per recarsi nella località di Pavie a tre chilometri di
Auch nel dipartimento del Gers (Languedoc) dove
acquistò una azienda agricola.
Trentin fu introdotto in alcuni salotti ed ambienti
radicali e massonici della regione dal giornalista italiano Luigi Campolonghi che amministrava le proprietà francesi del giornalista milanese Della Torre.
Per la sua cultura ed il suo impegno politico conquistò ben presto una notevole popolarità nella
regione, ma la sua gestione dell’azienda agricola
acquistata si concluse in modo negativo. Riuscì poi
a farsi assumere come semplice operaio nella tipografia Bouquet di Auch dalla quale fu licenziato nel
maggio 1934 per aver partecipato ad uno sciopero.
Agli inizi del 1935 comprò una libreria a Tolosa ed
iniziò la nuova attività (Arrighi, 2004).
Gli anni dell’esilio non furono certamente facili sul
piano personale ma non lo furono neanche sul
piano politico. Fino al 1930 gli articoli, i saggi e le
opere di Trentin hanno come argomento esclusivo
il fascismo. Una di esse, Dallo statuto albertino al
regime fascista contiene una ricostruzione, notevole sul piano storico, della evoluzione graduale
89
n.16 / 2006
dello stato italiano sul piano costituzionale
(Trentin, 1983). La tesi generale sostenuta da
Trentin è quella della continuità e del rafforzamento del carattere liberale dello stato unitario italiano
che, improvvisamente e per una fortuita concomitanza di circostanze accidentali, viene eliminato dal
fascismo. È sostanzialmente la stessa tesi di
Benedetto Croce, espressa nella sua Storia d’Italia
dal 1871 al 1915 pubblicata nel 1928.
È una tesi storiografica rifiutata dalla grande maggioranza delle forze politiche dell’emigrazione
antifascista, estranee alla classe dirigente liberale e
impegnate in una ricerca sulla storia di lunga durata dell’Italia e sui limiti strutturali del
Risorgimento. In un momento di grande difficoltà
di ogni genere, professionale, psicologica e politica, nell’inverno 1933-1934, Trentin intensifica la
sua amicizia con Emilio Lussu, praticandolo quotidianamente ad Auch. Lussu è un federalista che,
come Trentin, ha partecipato quale interventista
alla Prima guerra mondiale e ha diretto in prima
persona in Sardegna una formazione federalista, il
Partito sardo d’azione. L’influenza di Lussu è stata
uno stimolo decisivo per l’autocritica di Trentin
che nei suoi primi scritti, seguendo l’insegnamento del suo maestro Giovanni Vacchelli, ha esaltato
il ruolo dei Comuni come modello per la democrazia ma ha rifiutato la tesi regionalista.
Il 1933 è l’anno della svolta politica di Trentin che
pubblica le sue Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione individuando nell’autonomia il principio
fondamentale della futura Costituzione della
Repubblica italiana, la cui realizzazione è resa possibile da una rivoluzione economica con obbiettivi
simili a quelli della rivoluzione russa. Trentin è
decisamente antieconomicista sul piano economico, e laico ma antimaterialista su quello filosofico.
L’enunciazione del principio dell’autonomia, contenuta nelle Riflessioni, è stata ripresa, citando il
brano, anche in due opere successive da Trentin
che ha voluto così sottolineare l’elemento fondante e fondamentale della sua concezione del federalismo. Peraltro, Trentin era consapevole della
insufficienza della enunciazione del principio dell’autonomia nell'opera del 1933 e della necessità di
risalire alle fonti del principio dell’autonomia e
cioè al pensiero giusnaturalista di Grotius, Kant e
Rousseau.
90
Nell’inverno 1933-1934 Trentin stava portando a
termine la stesura de La crisi del diritto è dello
stato (Trentin, 2006), la sua opera filosofica principale, iniziata probabilmente nel 1931 (anno in cui
comincia a ricevere il sostegno economico da
parte del professor Fritz Fleiner), nella quale
Trentin ha illustrato il principio dell’autonomia,
base del federalismo, la cui realizzazione è resa
possibile da un programma economico di ispirazione socialista.
Secondo Trentin, la rivoluzione economica socialista ha una carattere strumentale rispetto al principio dell’autonomia che ha un valore assoluto. È
una posizione esattamente opposta a quella sostenuta dai partiti della Internazionale comunista, per
i quali i diritti e le libertà sostanziali, quelli economici, sono prioritari nella scala dei valori rispetto ai
diritti ed alle libertà cosiddette formali.
Il 15 maggio 1934 si riunì il Consiglio generale
della Concentrazione antifascista, alla quale non
partecipavano i comunisti, che venne sciolta.
Trentin, per la prima volta, assunse una parte di
responsabilità nel movimento.
Nello stesso mese, Trentin perdette il modesto
lavoro di operaio in tipografia. Più o meno nello
stesso periodo, l’insurrezione operaia di Vienna
venne abbandonata al proprio destino dalla socialdemocrazia europea.
Poco dopo in Francia, nel giugno, cominciò a formarsi il Fronte popolare. Gli articoli scritti nel
1934: Bisogna decidersi, Rivoluzione e ceti medi,
sono scritti da un uomo politico molto critico nei
confronti del socialismo riformista e deciso a partecipare al Fronte popolare ma anche a mantenere
una differenziazione assoluta rispetto al partito
comunista pur non escludendo delle alleanze. In
Rivoluzione e ceti medi vi è una citazione di
Trotsky, di dura critica ai socialisti riformisti, che
Trentin condivide. Ma il nucleo centrale delle sue
posizioni nell’estate del 1934 è ben altro. La sua
autocritica di ex-combattente della Prima guerra
mondiale, spinta al punto più estremo, secondo la
quale la gioventù repubblicana e democratica si è
posta al servizio degli speculatori dell’interventi, è
in relazione con la lettura di Lenin e con le analisi
del capitalismo svolte dal rivoluzionario russo.
Trentin ritiene che il capitalismo sia giunto ad un
nuovo stadio caratterizzato dalla concentrazione
Elio Franzin
della produzione e delle imprese e che questa sia
la causa della sua crisi.
La negazione del ruolo autonomo dei ceti medi
nella rivoluzione antifascista deriva dal cambiamento dei ceti medi nella rivoluzione e la critica al socialismo riformista è la conseguenza sul piano politico
della lettura della nuova fase del capitalismo che, a
volte, è accompagnata anche da una interpretazione “catastrofista” della crisi capitalistica.
Non bisogna dimenticare che Trentin non è un
economista. È un giurista che studia l’economia
mondiale e ne ricava delle conseguenze sul piano
politico.
È del tutto infondata, a mio avviso, l’affermazione
di F. Rosengarten sulla influenza del pensiero di
Trotsky su quello di Trentin negli anni della”svolta” (F. Rosengarten, 1980)
È perfettamente comprensibile che, alla fine del
1934, in una situazione di pesanti difficoltà economiche e di forte discontinuità politica e filosofica,
perfino di crisi psicologica, Trentin abbia sentito
anche l’esigenza di affermare la continuità di uno
degli elementi della sua storia ed identità personale, ossia la partecipazione alla vita di una Loggia
massonica francese, tipica organizzazione di ceti
medi. Egli aveva ricevuto una formazione laica di
matrice risorgimentale ma anche il suo laicismo ha
avuto successivamente una evoluzione in relazione al superamento del liberalismo mediante l’affermazione del principio dell’autonomia e del
federalismo operato con La crisi del diritto e dello
stato.
La Loggia La Parfaite harmonie di Toulouse verso
la metà degli anni Trenta non è caratterizzata soltanto dal laicismo. Dopo il gravissimo attacco di
massa al Parlamento del 6 febbraio 1934, organizzato dalle organizzazioni antiparlamentari di
destra ed anche filofasciste, la Francia si divide. Il 9
febbraio La Parfaite harmonie si schiera su posizioni antifasciste chiedendo la creazione di gruppi
di difesa proletaria contro il fascismo. Nel marzo
all’Università di Toulouse si verificano degli scontri
fra studenti fascisti e antifascisti. Alcuni docenti
vengono attaccati dalla stampa di destra e la Loggia
interviene in loro difesa. Nel novembre essa si
schiera contro il progetto di riforma costituzionale
del presidente G. Doumergue.
Trentin nell’opera Alle origini del fascismo (1931),
Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa
successiva alla firma dei Patti Lateranensi (11 febbraio 1929) da parte del regime fascista e del
Vaticano, traccia un profilo molto semplice del
ruolo della Chiesa. La Chiesa è impegnata in una
eterna lotta contro lo spirito e il senso della libertà; è un potere che ha la pretesa di imporre dogmaticamente le sue regole nelle relazioni della vita
sociale. Manca da parte di Trentin qualsiasi analisi
storica dei cambiamenti interventi nell’Ottocento
e nel Novecento nel rapporto fra il Vaticano e la
vita economica, gli Stati, le masse popolari, i partiti. I Patti Lateranensi sarebbero semplicemente
l’incontro di due autoritarismi malgrado le riserve
sul fascismo precedentemente espresse da Pio XI
(Trentin, 1988, 162-166).
Ben diversa è la capacità di analisi che dimostra un
altro esule antifascista, Palmiro Togliatti, nel suo
saggio Fine della questione romana nel quale si
individuano i cambiamenti della Chiesa per superare la distanza che la separava dal mondo capitalistico, per assimilare una parte del metodo liberale ed
anche di quello socialista. I Patti Lateranensi rispondono anche all’esigenza dello stato italiano di superare la ristrettezza originaria delle sue basi sociali.
Cona la firma dei patti, afferma Togliatti,
“Mussolini, come al solito, realizza un successo in
quanto conduce a termine con spregiudicatezza
quello che altri avevano intuito, preparato, incominciato a tradurre in atto”. (Togliatti, 1929, 17-28).
Nel successivo saggio La libertà e le sue guarentigie (1932), dedicato agli amici di “Giustizia e
Libertà”, Trentin prevede nella futura Costituzione
italiana l’affermazione del principio della laicità,
mediante la separazione della Chiesa dallo Stato e
l’organizzazione della scuola, di ispirazione risorgimentale. Egli riprende, non per caso, lo stesso termine guarentigie usato nella legge del maggio
1871. E’ ancora un uomo molto legato alle tradizioni laiche e laiciste del Risorgimento. (Trentin,
1985, pp. 90-93).
La crisi del diritto e dello stato, l’opera della svolta autonomista e federalista, segna una modificazione, un cambiamento anche del suo laicismo.
D’accordo con Francois Gény, Trentin riconosce il
ruolo dei Padri della Chiesa, dei teologi e dei canonisti nella trasmissione della nozione di diritto
naturale, poi laicizzata a partire dalla fine del sedicesimo secolo. Egli cita l’affermazione di Gény
91
n.16 / 2006
secondo il quale il fondamento della civiltà occidentale è la tradizione greco-latina-cristiana, la
quale si è costantemente mantenuta nel senso di
un diritto naturale uscito dalla natura e dalla ragione, poi laicizzato e come tale indipendente dalla
rivelazione e dai suoi dogmi religiosi, i quali possono confermarlo e svilupparlo ma non potrebbero né supplirlo né assorbirlo.
Alla conclusione de La crisi, quando afferma la
necessità di una rivoluzione fondata sulla dignità
dell’uomo, sulla ripresa dall’origine del processo
di formazione dello statuto della vita sociale,
Trentin cita i Vangeli.
Al ritorno a San Donà di Piave, avvenuto il 6 settembre 1943, i suoi compaesani vollero che
Trentin incontrasse subito pubblicamente, appena
attraversato il ponte sul Piave, l’arciprete del paese
monsignor Luigi Saretta, già diretto collaboratore
del vescovo della diocesi di Treviso Giacinto
Longhin, uno dei principali protagonisti della vita
sociale sandonatese dal giugno 1915 il quale negli
anni successivi alla Prima guerra mondiale aveva
polemizzato spesso e duramente con la massoneria. La caduta del fascismo stava riorganizzando in
modo nuovo anche a San Donà le relazioni fra gli
schieramenti politici (Autori vari, 2004; Parrocchia
del Duomo di San Donà, 2004).
DOCUMENTI
I
25 mars 1935 194660
A la Grande Loge de France
TT.CC.FF.
Une de nos Loges de l’0. de Toulouse nous signale la situation mac. du F. Silvio TRENTIN, sujet italien, actuellement libraire, 46 rue de Languedoc a
Toulouse.
Le frère TRENTIN est né à San Donà di Piave
(Venise), le 11 novembre 1885 ; il a déclaré avoir
été initié, il y a fort longtemps à la L. Darwin (Ven.:
il F. professeur POZZOLINI). Entré en sommeil dès
1906, il aurait repris l’activitè au mois d’Octobre
1925, lorsque fut deposé le projet de Loi Rocco,
tendant à la dissolution de la franc-mac. italienne.
Il fut alors rattaché au G. O. de Rome. Finalement
il dut quitter l’Italie, et il se fixa à Toulouse.
Le F. TRENTIN a formulé le désir, auprès de quel-
92
ques-uns de nos FF. de prendre part, en qualité de
F. visiteur, aux travaux d’une de nos loges de l’O.
de Toulouse.
Nous vous serions très obligés de bien vouloir
nous faire connaitre si, par l’intermédiaire de vos
Loges italiennes, il serait possible de controler les
déclarations du F. TRENTIN, et d’avoir des renseignements précis à son sujet.
Veuillez agréer, TT.CC.FF., l’assurance de nes sentiments frat. et dévoués.
LE CHEF DU SECRETARIAT
II
RITO SCOZZESSE ANTICO ACCETTATO
GRANDE LOGE DE FRANCE
8, Rue Puteaux
O. de Paris, le 4 avril 1935 E.V.
Au GRAND ORIENT DE FRANCE
TT.CC.FF.
Comme suite à votre pl. du 25 mars, concernant le
F. Silvio TRENTIN, j’ai la faveur de vous donner ciaprès copie de la lettre que nous recevons de
notre L. ITALIA NUOVA.
« En réponse à votre pl. du 28 Mars dernier concernant le F. Silvio TRENTIN, j’ai la faveur de vous
faire connaitre que les déclarations que ce F. a faites à une des LL. de l’Orient de Toulouse sont tout
à fait exactes.
Il s’agit d’un F. de toute confiance, d’une probité
et d’une honneteté absolues. Il est digne de la plus
haute considération.
Le F. TRENTIN a tous sacrifié: situation, richesse,
bonheur pour la cause de la liberté. Son caractère,
sa vie privée et tout ce qu’il accomplit soit comme
professeur de droit, soit comme deputé, font de
lui un parfait macon».
Veuillez agréer, TT. CC. FF., l’expressione de mes
sentiments frat.
Le Grand – Secrétaire
Firma illeggibile
Elio Franzin
Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa
III
6 AVRIL 1935
194660
A LA L. LA PARFAITE HARMONIE
O. DE TOULOUSE
TT.CC.FF :
A la suite de votre pl. du 21 mars écoulé, relative
au F. Silvio Trentin et à sa situation maconnique,
nous nous sommes adressés à la GRANDE LOGE
DE FRANCE, en la priant de nous faire savoir si, per
l’intermédiaire de ses Loges italiennes, il était possible de controler les déclarations du dit F. TRENTIN.
LA GRANDE LOGE DE FRANCE vient de me communiquer la lettre qu’elle a recue à ce sujet de sa
L. ITALIA NUOVA, et je m’empresse de vous donner copie ci-dessous:
«En réponse à votre pl. du 28 mars écoulé, concernant le F. SILVIO TRENTIN, j’ai la faveur de vous
faire connaitre que les déclarations que ce f. a faites à une des LL. de l’Orient de Toulouse sont tout
à fait exactes.
Il s’agit d’un F. de toute confiance, d’une probité
et d’une honnetteté absolue. Il est digne de la plus
haute considération.
Le F. TRENTIN a tout sacrifié: situation, richesse,
bonheur pour la cause de la liberté. Son caractère,
sa vie privée et tout ce qu’il a accompli, soit
comme professeur de droit, soit comme deputé,
font de lui un parfait macon».
Veuillez agréer, TT.CC. FF., l’assurance de mes
sentiments frat. et devoués.
LE CHEF DU SECRETARIAT
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Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa
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Lidia Lo Schiavo
Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in
International Thought, Cambridge, Cambridge
University Press, 1998, pp. 284.
Il Sestante
Potrebbe essere considerata soltanto come l’ultima “migrazione” , in ordine di tempo, del tema del
repubblicanesimo da un settore disciplinare all’altro, quindi dalla storia del pensiero politico, da cui
ha inizio il suo percorso nel dibattito storico-politologico contemporaneo, alla filosofia politica, alla
teoria politica, per approdare infine alle Relazioni
Internazionali. Probabilmente però, nell’intenzione di Nicholas Onuf, comunemente considerato il
fondatore dell’approccio costruttivista nelle scienza politica internazionale, vuole essere molto di
più. Seguendo per un momento il filo tracciato
dalle posizioni (post-strutturaliste) più radicali,
nell’ambito del variegato panorama della teoria
costruttivista, in tema di critica della modernità
politica, possiamo meglio comprendere quale
impatto abbia il ricorso da parte di Onuf alla categoria del repubblicanesimo nell’affrontare i temi
centrali della teoria generale delle relazioni internazionali.
Il primo dato che emerge si riferisce all’analisi dei
caratteri fondanti del processo di strutturazione
dello spazio politico moderno, definitosi, attraverso la costruzione del sistema territoriale di Stati,
intorno alla fondamentale cesura tra interno/esterno, cioè tra pacificazione all’interno dei confini
nazionali e condizione permanente di anarchia in
ambito internazionale.
Secondo la teoria post-strutturalista, questa architettura si cristallizza in una duplice temporalità.
Quella propria della politica interna, in cui opera la
100
dimensione del mutamento sociale, e quella della
politica internazionale di cui si postula una condizione di anarchia permanente, quindi immutabile.
Sul piano epistemologico, questa duplice temporalità si traduce nella pressoché totale esclusione
della variabile del mutamento dall’analisi della
politica internazionale. In questo quadro il riferimento al Repubblicanesimo, qui inteso come onda
lunga del politico nella civiltà occidentale (dall’età
pre-moderna a quella moderna a quella tardomoderna), viene utilizzato da Onuf dapprima
come grimaldello (la pars destruens) attraverso cui
de-costruire questa architettura culturale e politica, poi come prisma, punto di osservazione privilegiato per l’analisi dei processi di trasformazione
della politica internazionale in questa fase storica.
Per ciò che riguarda invece la pars construens, si
tratta di capire in quali termini il repubblicanesimo
(ovvero, come si vedrà, il costruttivismo nell’accezione di Onuf) implichi una concezione inclusiva
dello spazio politico, in grado di sostituire al dualismo tra politica interna e internazionale, tra locale
e globale, tra continuità e mutamento, la dualità
inclusiva della “politica interna del mondo”, della
società civile globale, del “glocale”.
Questa dualità viene ricomposta nella visione postmoderna del rapporto tra micro e macro, tra
“agente e struttura” (nei termini giddensiani).
Questo rapporto ha natura riflessiva ed è esemplificato dal carattere ricorsivo di una relazione di
mutua costituzione processuale di questi stessi ter-
Lidia Lo Schiavo
Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought...
mini. Quanto alla vicenda storica del repubblicanesimo nella modernità politica, secondo Onuf, è
possibile fare riferimento ancora ad una duplice
temporalità, stabilita in questo caso dalla determinazione del prius e dal posterius che conseguono
ad una fondamentale cesura, quella cioè che sancisce la fine (apparente) di questa stessa vicenda,
quando nel XVIII secolo il repubblicanesimo
moderno lascia spazio alla vittoria del liberalismo,
affermatasi sia in termini ontologici che epistemologici.
Apriamo qui per ciò che riguarda quest’ultimo
punto, solo un breve spazio di riflessione. La vicenda del pensiero politico occidentale si accompagna all’affermarsi della epistemologia positivista
con i suoi modelli esplicativi-predittivi della realtà
politica. Quanto al problema ontologico, entrando
per questa via nel vivo del dibattito teorico delle
Relazioni Internazionali contemporanee, si può
cominciare col dire che il progressivo stabilizzarsi
della istituzione fondamentale delle moderne relazioni internazionali, ovvero la sovranità, implica
l’affermarsi di una sistema – liberale – dei rapporti tra Stati, garante di una convivenza di stampo
lockeano, che si stabilisce cioè tra “rivali” e non più
tra nemici, à la Hobbes. Il senso di questa distinzione tra tipologie di rapporti, cioè tra un modello
di mera coesistenza hobbesiana e uno di cooperazione lockeana, è stato individuato da un altro
costruttivista, Alexander Wendt, autore di un
approccio “stato-centrico” alla politica internazionale, e artefice della distinzione tra cultura hobbesiana e cultura lockeana, ovvero kantiana, considerate costitutive della stessa struttura del sistema
internazionale. Ebbene, secondo Wendt, il motore
del mutamento della politica internazionale consiste nei processi di identificazione e di socializzazione tra Stati, che esemplificano il ciclo istutizionalizzazione-mutamento-istituzionalizzazione. Ciò
avviene nella cornice costituita dalla struttura della
politica internazionale, costruita processualmente
attraverso il raw material fatto di idee, di contenuti intersoggettivi condivisi (oltre che delle componenti materiali cui quei contenuti intersoggettivi
danno significato).
La struttura, intesa come il core ontologico della
politica internazionale, è dunque culturale e cogni-
tiva, in quanto costituita da un insieme di norme,
identità e interessi condivisi. Se questa è la rappresentazione della politica internazionale secondo
l’approccio costruttivista, la visione consolidatasi
con l’affermarsi del paradigma neorealista prima e
neo-liberale poi nelle Relazioni Internazionali,
approda a conclusioni ben diverse. Sul piano ontologico si consolida infatti il paradosso costituito dal
modo di concepire il rapporto tra attori statali, in
quanto egoisti razionali, e la dimensione della
socialità pur presente nel sistema internazionale.
Le posizioni neorealiste condividono con quelle
neo-liberali gli assunti razionalistici relativi al comportamento degli attori statali la cui identità è data,
nel senso che risulta esogena rispetto ai processi
di interazione.
Quanto alla struttura, stando ad una delle più
recenti ed eleganti formulazioni teoriche neorealiste (quella di Waltz), esse figurano al più come un
insieme di condizioni di costrizione, che si limitano cioè a riflettere la “posizione” delle unità (definite in termini di distribuzione delle capacità materiali) nel sistema internazionale. In questo senso la
struttura diventa determinante per il comportamento degli attori. Stando a questa concettualizzazione, da una parte, gli Stati sono attori egoisticamente orientati, autonomamente in grado di definire i loro interessi, dall’altra il loro comportamento viene condizionato deterministicamente dalla
struttura del sistema internazionale, che li rende,
per così dire, reattivamente passivi.
In più passaggi della sua argomentazione Onuf etichetta uno specifico modo di intendere la politica
internazionale riconducendolo alla visione dei
cosiddetti “weak liberals”. Il senso debole della
loro posizione teorica consiste nel porsi di fronte
al “paradosso” senza poterlo sciogliere. Nell’essere
consapevoli, cioè, delle implicazioni dell’assunto
centrale della visione “realista”, ovvero convenzionalista della politica che solo il recupero delle
matrici repubblicane delle relazioni internazionali
può avviare a soluzione. Il problema del rapporto
tra condizione di autonomia degli attori statali e
delle loro reciproche relazioni nella “società internazionale”, rimanda, secondo Onuf, ad una sorta
di regresso infinito alla ricerca degli elementi di
priorità logica e ontologica dei termini di questo
101
n.16 / 2006
rapporto. Nella visione liberale (in particolare
quella forte o realista tout court) gli individui (in
questo caso gli Stati) creano la società spinti da
una motivazione egoistica, quindi spinti da una
logica strumentale. Al contrario, in termini repubblicani, la società non è puro artificio (leggi convenzione) ma è prioritaria nel senso forte secondo
cui l’attore e l’azione sociale sono possibili e acquistano senso solo in presenza della cornice della
socialità.
A chiarire i caratteri della posizione dei weak liberals può servire ricordare che essi hanno in comune, con la visione realista, la concezione anarchica,
stato-centrica della politica internazionale. Sul
piano analitico questa visione si concreta nel considerare identità e interessi degli Stati come variabili esogene, e nell’attribuire un ruolo ancillare alle
istituzioni della politica internazionale, considerate
come variabili intervenienti ed assunte nella funzione di riduzione dei costi di transazione nella
cornice dei rapporti tra Stati, o come veicoli di
informazione e di monitoraggio per l’avvio ed il
mantenimento di processi cooperativi. L’idea di
istituzioni della politica internazionale intese in
senso forte viene avanzata dall’approccio costruttivista, nel sostenere che le costruzioni intersoggettive (idee, informazioni, interessi ovvero il modo
di percepire e definire bisogni e “desideri”) vengono incorporate e veicolate come DNA strutturale
nelle stesse istituzioni. In questo senso, esse sono
costitutive degli attori e dei processi, si configurano come le componenti cognitive ed “etiche” fondamentali della politica internazionale, mentre veicolano tanto i meccanismi di conservazione della
struttura, quanto i processi di mutamento.
Il paradosso viene sciolto, in termini costruttivisti,
sulla base del processo di mutua costituzione di
agente (gli attori statali) e struttura (il sistemasocietà internazionale). Questo rapporto, come
sottolinea Onuf, in particolare, implica che non
può darsi attore sociale senza contesto sociale
strutturato da regole. È a questo punto che emerge la specificità della posizione di Onuf rispetto ad
altre voci presenti nell’approccio costruttivista. In
questo senso, il mondo sociale è un universo di
enunciati linguistici, ovvero di norme (rules) che
costituiscono processualmente agente e struttu-
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re/istituzioni. Si tratta di norme di carattere costitutivo (per capirci, come lo sono per il gioco degli
scacchi le regole che lo definiscono) e di norme
con funzione regolativa (prescrittive di comportamenti). Il carattere costitutivo delle regole ha una
dimensione pratico-cognitiva (l’agire diviene possibile e acquista significato in forza di esse), e politica (le regole decidono chi ottiene cosa, quando e
come). Un insieme di regimi, saldati tra loro da
regole “secondarie” di riconoscimento e di mutamento (in grado di garantire il raccordo tra insiemi
di regole ed i processi di mutamento in ciascun
specifico ambito), costituiscono la stessa dimensione sociale. In questo contesto, la società internazionale può essere considerata semplicemente
come il regime più ampio e inclusivo, di cui gli
Stati (e non solo) sono membri.
Vale la pena a questo punto ricordare la definizione stipulativa del concetto di regime riconosciuta
nelle RI: un insieme di principi, di norme, regole e
procedure decisionali, implicite o esplicite, su cui
convergono le aspettative degli attori in un determinato settore della politica internazionale.
Emerge in questa definizione la concezione liberale dei rapporti tra Stati, secondo la quale le norme
esercitano una valenza esclusivamente regolativa,
irreggimentando le preferenze di attori auto-interessati e garantendo la formazione di cornici istituzionali per la gestione di determinate aree problematiche. Il carattere costitutivo delle regole viene
fatto emergere invece dall’approccio costruttivista,
secondo il quale i regimi sono parte integrante
delle pratiche di costruzione sociale della politica
internazionale, ovvero dei processi di socializzazione e di identificazione degli attori. In particolare,
essi sono in grado di indurre gli Stati ad elaborare
identità collettive anziché egoistiche. Ad esempio,
ciò è quanto accade all’interno delle “comunità di
sicurezza”, in cui cioè la cooperazione governata
da regole può mutare in senso altruistico l’orientamento degli attori.
Sin qui abbiamo discusso del problema definito dal
rapporto tra attori e sistema sulla base dell’assunzione implicita che fa degli Stati gli attori della politica internazionale per antonomasia, nel senso che
politica e Stato, ovvero sistema di Stati, si sovrappongano fin quasi ad esaurire lo spazio della politi-
Lidia Lo Schiavo
Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought...
ca. A questo riguardo può essere utile fare riferimento ancora a Wendt ed alla sua analisi dello Stato
come identità corporata. Lo Stato come attore unitario risulta dalla stratificazione di una serie di componenti che Wendt prende in considerazione
rispettivamente sub specie “identità corporata”,
identità tipo, identità di ruolo e identità collettiva.
Lo Stato è in altre parole la risultante di un cluster
di componenti in “equilibrio omeostatico”. Vi è,
quindi, secondo Wendt una componente minimale
imprescindibile, molto “sottile” e generalizzabile in
una visione “trans-storica” della statualità, ed una
forma contingente che connota diversamente nella
storia le diverse forme. Lo Stato di Wendt, dunque,
è in primo luogo uno Stato weberiano, cioè una
organizzazione per il monopolio della violenza fisica, ma è anche uno Stato marxiano, nel senso che
esso esemplifica la “struttura della autorità politica”, e risulta dalla relazione di mutua costituzione
del complesso “società-stato”, ovvero uno stato
nell’accezione pluralista, da cui risulta imprescindibile la dimensione della società (nazionale).
Per Wendt queste tre diverse concettualizzazioni
danno ciascuna una diversa risposta al problema di
come non sia possibile raggiungere una soddisfacente definizione dello Stato (seppure minima,
come egli si propone) se non in connessione con
la società, in quanto interdipendenti, e tuttavia al
tempo stesso distinguibili. Cambia per ciascuna
concettualizzazione, sia il modo di considerare lo
Stato come referente, sia i termini del rapporto tra
società e Stato. La visione weberiana è quella che
indica come oggetto di riferimento un “attore
organizzato”, in grado di esercitare poteri e funzioni a servizio della società (in primo luogo la
sicurezza) dalla quale sarebbe, prima ancora che
concettualmente, ontologicamente distinto.
Speculare a quella weberiana è la visione pluralista,
che, come sottolinea Wendt, “riduce” lo Stato ai
gruppi di interesse ed agli individui in una società.
In questo caso non si riconosce ad esso alcuna
identità autonoma, se non quella incarnata dal
governo e dai gruppi di potere che lo formano.
Nella teoria marxista, il referente non è lo Stato né
la società ma lo è la “struttura”, dal momento che
né l’uno, né l’altra possono sussistere senza la
struttura dell’autorità politica che li costituisce.
Tale struttura di autorità è costituita dall’insieme
delle norme, regole e principi finalizzati alla gestione del conflitto ed al “governo” della società, oltre
che alla distribuzione di sacrifici e risorse.
Da queste concettualizzazioni scaturiscono le proprietà costitutive dello Stato-attore nella visione di
Wendt. In questi termini, sovranità e monopolio
dell’uso legittimo della forza gravitano nel polo
weberiano della costellazione di elementi che
costituiscono lo Stato, mentre la società, identificata con un patrimonio di regole e di conoscenza
condivisa entro determinati confini, delinea il polo
pluralista; il territorio, ovvero il radicamento territoriale sembrano collocarsi tra questi due poli. Il
complesso dei rapporti di interazione tra società e
Stato, mediati dalla struttura di autorità, definiscono la configurazione marxiana. La visione di insieme che ne risulta, la definizione minima di cui
Wendt è alla ricerca, è quella che considera lo
Stato come un attore organizzato immerso
(embedded) in un ordine istituzionale, “legittimato” dalla sovranità e autorizzato all’esercizio della
forza in un dato territorio.
Tuttavia da questa definizione emerge un dato che
giustifica l’etichetta di “realista” (oltre che Statocentrica, a livello sistemico) o “costruttivista neoclassico” che viene attribuita a Wendt nell’ambito
dello stesso approccio costruttivista. Sembra infatti che egli, sebbene riconosca alla società potenzialità di auto-organizzazione, incentri la sua visione dei rapporti stato/società secondo una dinamica prevalentemente top-down, di governo della
società da parte dello stato.
Queste premesse definitorie servono a Wendt per
procedere nell’individuazione di quattro diversi
modi di intendere lo Stato come attore, attraverso
il concetto di identità. L’identità corporata (corporate identity) – alla quale più si avvicina, secondo
Wendt, la visione weberiana –, assunta dagli attori
individuali, membri delle organizzazioni, come l’idea del tutto in riferimento alla quale agiscono le
parti (gli individui), è quella che implica una visione “antropomorfica” dello Stato. L’identità tipo
(type identity) è quella che esemplifica la forma di
Stato nel senso del tipo di regime, del principio di
legittimità politica. Con l’identità di ruolo ci si sposta decisamente dal lato della “fisicità” a quello
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n.16 / 2006
della socialità. Il ruolo (role identity), ovvero la
posizione di ciascun attore-Stato è quello che
viene attribuito a questo dai suoi simili. Infine l’identità collettiva (collective identity) implica il
definirsi di processi di cooperazione in un ambiente di socialità, sia pure “anarchico”, in cui si avvia la
trasformazione delle identità da egoiste ad altruiste, quando cioè si delinea un processo di carattere cognitivo in cui la linea di distinzione tra
Self/Other, finisce con l’assottigliarsi e venir meno.
Ciò tuttavia può avvenire in aree circoscritte e specifiche della politica internazionale e si accompagna a tendenze che contrastano questo processo.
Da queste premesse dovrebbe essere emersa la
salienza dell’operazione di de-costruzione/ricostruzione della modernità politica condotta da
Onuf sub specie “repubblicanesimo”. La specificità
della concezione repubblicana-costruttivista della
politica internazionale consiste nella capacità di
risolvere la tensione implicita nel paradosso che
scaturisce dall’assunzione (realista ma anche neoliberale) secondo cui lo Stato è da considerarsi
come un attore indipendente dal contesto sociale,
una sorta di traslato dell’homo oeconomicus, che
tuttavia, a dispetto di questo assunto, vive immerso in un mondo di socialità, a partire dallo stesso
principio “individualistico” di sovranità, che di
fatto opera come una regola di riconoscimento
reciproco, come insieme di significati e aspettative
intersoggettivi nell’ambito della comunità di Stati.
Da questo paradosso scaturisce anche la tensione
implicita nella moderna spazialità politica (fondata
sui confini territoriali) che si articola lungo la polarità tra locale e globale. Questa tensione si registra
anche nel nucleo fondante del patrimonio normativo e istituzionale del sistema di Stati, ovvero nel
rapporto tra inviolabilità dei confini e principio di
solidarietà, quindi tra divieto e richiesta di intervento per il “bene comune”. Da questa ambiguità
scaturisce il carattere della sovranità come “ipocrisia organizzata” (per citare una felice espressione
di Krasner). Questa ipocrisia viene cioè istituzionalizzata, da una parte attraverso la costante riaffermazione, sul piano dei principi, della inviolabilità
dei confini statuali e, dall’altra, sulla base dell’altrettanto costante interferenza nel riservato dominio di ciascuno Stato.
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L’obiettivo potremmo dire programmatico assunto da Onuf, è quello di recuperare i frammenti, i
“legati” (legacy) del repubblicanesimo nel pensiero e nelle istituzioni della modernità politica occidentale, di contestualizzarli storicamente ma
anche di mostrare quanto “sostanziale” sia la loro
presenza nel mondo di oggi. Questo perché il
repubblicanesimo continuerebbe a innervare la
stessa concezione liberale dei rapporti tra Stati e
ad esprimere tutta la sua salienza nella teoria politica internazionale, della quale Onuf vuole portare
alla luce i fondamenti storici (historical underpinnings). Procede in questa direzione svolgendo,
come si vedrà, un’interessante operazione concettuale di scavo rispetto ai principali elementi fondanti della modernità politica, dal principio di
sovranità, a quello di costituzione, a quello di
società internazionale fino alla dottrina della pace
democratica. L’indagine compiuta ha l’obiettivo di
mostrare come il repubblicanesimo, muovendosi
lungo un percorso sotterraneo nel corso della
modernità, non solo ha continuato a permeare di
sé (to color) il pensiero politico moderno, ovvero
liberale, ma ha finito con il riaffiorare in veste
costruttivista alla fine di questo percorso, nella
politica internazionale dell’età postmoderna.
Può essere utile a questo punto descrivere brevemente l’architettura dell’analisi costruita da Onuf. Il
testo viene diviso in tre parti fondamentali. La
prima affronta per così dire trasversalmente gli elementi centrali del pensiero repubblicano, così
come individuati dall’autore attraverso una prima
operazione di definizione lessicale del termine-concetto e degli elementi che lo connotano. La seconda parte è utilizzata per l’analisi dei “legati” atlantici del repubblicanesimo, mentre la terza (e ultima
parte) ne prende in considerazione l’eredità continentale. Alla prima di queste storie, il politologo
riconduce il pensiero di Machiavelli, Harrington,
Montesquieu, Hume, Rousseau, dei teorici della
Rivoluzione americana, quindi di Vattel (il quale,
come puntualizza l’autore, non viene incluso nella
narrazione del momento machiavelliano di Pocock
in quanto fa parte di un’altra storia, quella della
politica internazionale). Alla seconda schiera l’autore riconduce Grozio, Altusio, Leibniz, Wolff e
Kant.
Lidia Lo Schiavo
Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought...
Per ciò che riguarda la parte iniziale, il primo complesso tema ad essere affrontato è quello posto dal
modo di concettualizzare natura (nature) e convenzione (convention), ovvero physis e nomos,
nell’ambito del pensiero aristotelico. La continuità
del rapporto postulata tra politica e natura, tra
razionalità politica e razionalità sociale (il bios politikos), implica che la polis venga ricondotta all’ordine della natura e che, al tempo stesso, la pratica
politica venga considerata come un’arte (quindi
come un’attività intenzionale). In questo senso la
polis va distinta dalla politeia, ovvero dalla costituzione pratica e dal modo di governare la città in
concreto. Nel prosieguo dell’analisi, vengono presi
in considerazione il tema del mutamento politico, il
valore della stabilità e del conflitto nella politica
(tema centrale nella mediazione machiavelliana del
repubblicanesimo), il concetto di virtù civica, di
dovere, di bene comune.
In questo contesto, si dà spazio anche alla vicenda
della costruzione del lessico della modernità politica. In particolare per ciò che riguarda lo slittamento nell’uso del termine respublica (e degli altri
termini che, nella ricostruzione di Onuf, ne condividono il campo semantico, come quello di civitas
ovvero anche di commonwealth) dal riferimento
alla forma istituzionale del politico in generale a
quello ad una specifica forma di governo. Dunque,
per ciò che riguarda la prima accezione, si affermerà il neologismo moderno “Stato”, mentre il termine repubblica diviene recessivo. Viceversa, il termine repubblica entra a far parte a pieno titolo del
lessico politico moderno e contemporaneo in relazione alla definizione della forma dei regimi politici. Per quanto riguarda invece la specificità della
dimensione internazionale, Onuf fa riferimento
rispettivamente alla concezione di Wolff (repubblicano continentale) ed a quella di Vattel (rappresentante della versione “atlantica”), segnatamente
per ciò che concerne l’idea di civitas maxima e
quella di Europa (l’insieme delle nazioni europee),
costituitasi come “Repubblica” in forza dello sviluppo delle relazioni di commercio e dell’ottemperanza all’insieme delle regole “volontarie” del
diritto internazionale “pubblico” (in cui viene dato
sempre più spazio al diritto pattizio dei trattati).
Lo specifico dell’eredità di Vattel, nella vicenda
atlantica del Repubblicanesimo moderno, consiste
nella sua lettura della vicenda internazionale, i cui
protagonisti sono le nazioni europee sovrane e la
loro capacità di “cooperazione”, tendente verso la
costruzione di una “società internazionale” (ovvero la repubblica delle nazioni europee). In particolare, Vattel ha proposto una configurazione dei
rapporti tra nazioni sovrane come di per sé giuridici, sulla base di una dottrina in cui non si riconosceva soluzione di continuità tra Stato di natura e
Stato di diritto, non veniva separato il diritto dalla
morale ed erano considerati giuridici anche gli
obblighi non sanzionati. Gli Stati come “persone
libere” possono giudicare “secondo coscienza”
cosa i doveri naturali richiedono loro e, quindi, ciò
che può essere fatto o non fatto. Nell’ottica di
Vattel, la società politica “ben ordinata” è quella
che si fonda sulla costituzione formale, attraverso
cui una nazione si costituisce in Stato, dopo che
attraverso il “compact” un popolo si è fatto nazione. E tuttavia, secondo Onuf, Vattel sarebbe stato
forse eccessivamente ottimista nel ritenere che la
regola dell’equilibrio europeo, del balance of
power, sarebbe stata in grado di assicurare la convivenza pacifica, dal momento che tale equilibrio
era fondato sulla regola della competizione tra
Stati. Del resto, ricorda Onuf, la Rivoluzione francese e gli eventi che ne seguirono, posero fine alla
pur breve storia della Repubblica delle nazioni
europee, mentre si consolidava il sistema di Stati,
già scaturito dalla logica westphaliana. Da quanto
detto sin qui risulta dunque che la tradizione atlantica del repubblicanesimo nella teoria internazionale lascia emergere in modo più netto la sfera
della socialità. In questo senso, amplia il legato
atlantico in tema di costituzione della società internazionale, la concezione costruttivista espressa da
Onuf nei termini dei processi di costruzione sociale della politica internazionale.
Per quanto riguarda invece il repubblicano continentale Wolff, la sua idea di civitas maxima può
essere ricondotta, secondo Onuf, alla tradizione
aristotelica della concezione dello spazio politico,
dal momento che, come afferma l’autore, Wolff ha
fatto riferimento ad una rappresentazione spaziale
costruita per ordini e gradi, estesa in una sequenza ascendente di diverse “associazioni” collocate
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su più livelli, fino alla magnitudo civitatis, comprendente l’umanità intera (totum Genus humanum). La civitas maxima di Wolff tuttavia, non
esaurisce l’eredità del repubblicanesimo continentale; a questo contesto Onuf riconduce il tema
della società civile internazionale, considerata
come sistema di bisogni, della dottrina della pace
democratica (si pensi alla società civile kantiana),
edell’epistemologia positivista.
Tra i “temi vatteliani”, centrale, come si è detto, è
il concetto di sovranità. La ricostruzione condotta
da Onuf in questo caso è sia concettuale che lessicale. Non manca in questo caso il riferimento al
metodo skinneriano di indagine del pensiero politico compiuto “in contesto”, ovvero nella cornice
storico-politica in cui si sviluppa uno specifico linguaggio politico. In particolare, secondo Onuf, l’evoluzione di tale fondamentale istituzione della
politica internazionale, va letta nella cornice della
più ampia serie di “discontinuità epistemiche”
scandite dalle fasi del processo di modernizzazione. Se, come ha affermato Onuf, “il mondo e le
parole si costituiscono reciprocamente”, allora
diventa particolarmente saliente l’indagine “intertestuale”, condotta dall’autore, del termine-concetto sovranità, di cui egli scandaglia le componenti. In particolare, la vicenda della sovranità
viene qui ricostruita in prima istanza attraverso la
ricognizione degli “antecedenti”, derivanti dalla
concezione pre-moderna della politica, a partire
dall’età classica. Questi vengono individuati rispettivamente nella “maestà” (majestas), in quanto
della componente valoriale, “sacra” del potere
politico, nell’imperium (la garanzia del rispetto
della legge e l’amministrazione del territorio), nel
diritto (rule), ancora, nella fiducia come collante
dei rapporti sociali (public trust). In questo contesto, il processo di evoluzione dell’istituzione sovranità funge, nell’ottica costruttivista, da prisma per
osservare i processi di mutamento della politica
internazionale.
Per ciò che riguarda tale dimensione diacronica,
secondo Onuf, occorre leggere queste vicende
seguendo la triplice trama delle interrelazioni tra
l’uso del termine, il significato attribuitogli e la
realtà socio-politica cui esso è riferito. Al consolidamento moderno della sovranità segue la sua
106
implosione, e la conseguente frammentazione
delle sue componenti, in età postmoderna. Così ad
esempio, la componente sacrale-valoriale sembra
ora configurarsi non più appannaggio degli Stati
ma di gruppi religiosi (musulmani ma anche cristiani), che contestano dal di dentro e dall’esterno
l’auctoritas statale. L’elemento relativa alla allocazione delle funzioni amministrative subisce ora un
duplice processo di de-concentrazione territoriale,
a livello locale e sopranazionale, attraverso la redistribuzione delle funzioni tra diversi livelli di competenza. Il riferimento è al costituirsi delle strutture di governance sopranazionale ed all’assottigliarsi della linea di separazione tra pubblico e privato.
Ancora (tra i temi vatteliani), Onuf indica il “principio di intervento” per il bene comune; nulla di più
controverso probabilmente in questa fase storica,
in cui il lessico delle “tecnologie” di esportazione
della democrazia sembra aver assunto una forte
caratterizzazione egemonica.
La terza ed ultima parte del testo è dedicata alla
enucleazione dei “legati” continentali, per continuare con la metafora proposta dall’autore. Qui in
primo luogo figura il tema epistemologico nello
studio della politica internazionale, condotto attraverso la distinzione di livelli analitici in cui Onuf
scorge, come si è detto, l’eredità della costruzione
geometrica dello spazio politico moderno. Questa
impalcatura analitica pone su una linea di continuità la concezione moderna della territorialità
(caratterizzata da un’organizzazione accentrata
dello spazio, sia in termini cognitivi che amministrativi, coerente con la concettualizzazione di un
unico punto prospettico nelle arti visive), e la rappresentazione dell’individuo come io cartesiano,
resosi, per così dire immune dagli effetti dei processi di costruzione sociale della realtà (cognitiva e
politica). Per ciò che riguarda l’eredità kantiana,
Onuf fa riferimento alla dottrina liberale della pace
democratica. Al di là delle diverse articolazioni
assunte da questa tesi (che si distingue fondamentalmente nelle due versioni, monadica, secondo la
quale gli Stati democratici sono sempre e comunque poco inclini a ricorrere alla forza, e diadica, per
cui si ritiene che gli Stati democratici non combattono tra loro ma solo con gli Stati non-democratici), l’accento è posto sulle premesse liberali costi-
Lidia Lo Schiavo
Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought...
tuite dal cosiddetto triangolo kantiano - commercio/diritto internazionale e ordinamento repubblicano (interno) - considerato come garanzia di
cooperazione pacifica tra stati.
In questo contesto, quelle che Onuf ha raccontato,
come si è detto, sono “due storie” del pensiero
repubblicano - una “atlantica”, l’altra “continentale” – che indica, metaforicamente, come due fondamentali “capitoli” del più ampio e complesso
macro-testo costituito dai processi di modernizzazione (qui assunti nell’accezione weberiana).
Se è vero che Onuf utilizza l’opera di Pocock come
criterio guida lungo tutto il suo percorso di analisi,
pure si possono notare alcune differenze che contribuiscono a determinare la specificità del repubblicanesimo à la Onuf. Quanto alle differenze, queste emergono in particolare, in relazione al diverso
metodo con cui la vicenda del repubblicanesimo è
stata ricostruita nel dibattito storico e filosofico.
Nella storia delle dottrine politiche, l’opera di
Pocock e la sua tunnel history svolgono un ruolo
determinante nel prosieguo del dibattito. Ma in
questo ambito disciplinare non si fa riferimento ad
un repubblicanesimo di tradizione continentale
nei termini utilizzati da Onuf, che lo considera
infatti come una sorta di liberalismo in senso debole, distinguibile, se così può dirsi, dalla corrente
atlantica del repubblicanesimo, sulla base del riferimento alla natura, ad un ordine politico iscritto
in essa. Se infatti la tradizione giusnaturalista e
contrattualista ha un carattere specifico, questo
consiste proprio nel diverso ruolo che la “natura”
assume come referente, ovvero come esperimento
mentale, per la ricostruzione della sfera politica.
Questa tradizione si fonda sulla negazione dello
Stato di natura, secondo il modello hobbesiano
che ha carattere dicotomico e chiuso (o lo stato di
natura o lo stato civile).
Il modello aristotelico tradizionale ha invece carattere plurimo, gradualistico, aperto, nel senso che il
passaggio dallo stato prepolitico allo stato politico,
avviene per un naturale processo di estensione
dalle società minori alla società maggiore, per
effetto di cause naturali e non per un atto di volontà razionale. D’altra parte, nell’ambito della storia
del pensiero politico, il discrimine tra le tesi à la
Pocock e quelle à la Skinner, è costitutito dalla
posizione assunta rispetto al rapporto di continuità-discontinuità del pensiero politico moderno
con la “politica aristotelica”, dal ruolo più o meno
ampio attribuito alla “mediazione” del pensiero di
Machiavelli, e dall’influenza riconosciuta alle elaborazioni filosofiche e storiche romane. La distinzione tra le due sponde dell’Oceano serve invece
ad Onuf anche per far emergere che, nella declinazione atlantica del repubblicanesimo, uno dei
temi ricorrenti è costituito dal riferimento alla
dimensione del mutamento, mentre nella versione
continentale prevale una concezione statica della
politica. Questa a sua volta sfocia altresì in una
postura epistemologica che finisce con il sostituire
il “metodo” scientifico all’ontologia della realtà
sociale, finendo cioè con l’assimilare la rappresentazione architettonica del mondo come una
costruzione spaziale collocata su più livelli, con la
distinzione delle diverse unità di analisi. Al contrario la dimensione dello spazio nel repubblicanesimo di matrice “atlantica” viene risolta nella costruzione federalistica, alternativa all’architettura spaziale geometrica westphaliana e alle dinamiche
centralizzatrici che la caratterizzano.
L’intera vicenda storica del repubblicanesimo va
ricondotta, come argomenta l’autore, nel più
ampio ambito dell’analisi dei meccanismi del processo di modernizzazione. Nell’alveo di questo
macro-processo, sono riconoscibili i processi di
razionalizzazione dell’autorità politica (che, nel linguaggio di Onuf, sono indicati dal prevalere delle
regole di tipo “direttivo”, ovvero amministrativo),
la differenziazione dei ruoli e delle funzioni, l’ampliamento della partecipazione politica sub specie
politica di massa. Per ciò che riguarda la politica
internazionale, in età postmoderna, questi processi contribuiscono alla costruzione di una “società
civile globale”, in cui si esprime al massimo livello
la dinamica della differenziazione funzionale. Per
Onuf questa nuova declinazione della struttura
della politica internazionale esprime, nell’ambito
dell’eredità continentale, il trionfo dell’accezione
hegeliana della società civile, intesa come “sistema
dei bisogni” (system of needs). Questo sistema ha
un carattere omogeneizzante; come un “lattice”
pervasivo ingloba in sé gli Stati, insieme a una
“miriade” di associazioni sorte ad ogni livello di
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questa struttura dalla natura mutante, polimerica.
Questo lo stato dell’arte. Ma dal momento che l’obiettivo di Onuf è quello di “guardare avanti”,
dopo aver proiettato lo sguardo indietro, rimane,
in senso prasseologico, un compito da svolgere
per il repubblicanesimo riaffiorante, quando cioè
la sovranità è in crisi ed il mondo westphaliano cristallizzatosi nel XVIII secolo, si trasforma. In questo senso, occorre tornare al lessico repubblicano
del vivere civile, della partecipazione, del perseguimento del bene comune per rendersi conto,
cioè, che la mera espansione del “lattice” della differenziazione funzionale fino al disegno di una
società globale, non è sufficiente a costruire una
società politica, un nuovo ordine politico “repubblicano”. Infatti, questo sistema globale, o se si
vuole, questa “società in rete” che si regge sui nodi
costituiti dalle città globali, si configura come una
società includente (o se si vuole pervasiva), ed
escludente al tempo stesso, costruita intorno al
paradosso di un’umanità simultaneamente più
unificata e più frammentata.
Al contrario, una concezione tocquevilliana-gramsciana della società civile globale (e si noti che il
pluralismo associativo viene ricondotto da Onuf
all’eredità atlantica del repubblicanesimo), pur
presente in altri contributi che arricchiscono l’attuale dibattito sul tema nelle Relazioni
Internazionali, probabilmente è quella che più si
avvicina all’idea del repubblicanesimo sostenuta in
questa sede da Onuf.
L’accezione fatta propria da Onuf della società civile internazionale serve ad esemplificare un aspetto
dei processi di mutamento della world politics
nella fase attuale. In questo senso la lettura di Onuf
si aggiunge al quadro analitico in via di consolidamento che fa riferimento a questa categoria interpretativa in modo sempre più articolato. Tanto da
poterci consentire una sintesi dei diversi frames
teorici proposti in relazione ai diversi aspetti della
complessa “realtà” in evoluzione della politica
internazionale che gli studiosi ora indicano con il
termine società civile internazionale. In realtà vengono utilizzate tre aggettivazioni diverse, con qualche scostamento di significato tra l’una e l’altra o,
come più spesso avviene, con l’indicazione di un
diverso referente. In un caso, infatti, quello seman-
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ticamente più ampio, la “società civile internazionale” è sovrapponibile al concetto di world politics. La nuova condizione esistenziale dell’umanità
cui essa è riferibile è quella determinata dai processi di globalizzazione, ed è identificabile attraverso la cifra qualitativa della “politica interna del
mondo”. Né il “sistema internazionale”, né la società internazionale, fatti di Stati, esauriscono la complessità della vita politica internazionale. Ad un
ampliamento della soggettività politica internazionale, si accompagna l’inserimento, la “compressione” degli Stati in questa cornice più ampia e più
complessa. Questa visione della società civile internazionale è anche quella che conduce al superamento dell’idea di anarchia internazionale. Il riferimento alla società civile transnazionale esemplifica
la condizione di interdipendenza transnazionale e
la sempre maggiore interpenetrazione tra arene
politiche, nazionale, transnazionale, internazionale. In questo contesto, l’analisi del crescente protagonismo degli attori della società civile, dalle
organizzazioni non governative ai movimenti globali, mette in luce i processi di mutamento della
sfera politica internazionale. Vi è chi riconduce alla
dimensione interpretativa della società civile transnazionale sia il processo di trasformazione dell’ontologia della politica internazionale determinatosi
con la fine della guerra fredda, sia l’articolarsi di un
“activist stratum”, di attori collettivi in grado di
agire nella sfera transnazionale tematizzando
issues globali. La “società civile globale” si configura invece come il referente più ampio, e riassorbe
in sé le due precedenti definizioni. In questo quadro viene identificata un’agenda della politica della
società civile globale, che spazia dalle questioni
ambientali, alle cosiddette missioni umanitarie,
alla politica dei diritti umani, alle proteste messe in
atto dagli attivisti globali, alla costruzione di campagne internazionali per obiettivi specifici (si pensi
alle mine antiuomo, o alla politica di genere). Si
identificano altresì “posizioni” specifiche nella
“sfera pubblica internazionale” che si definiscono
essenzialmente nelle diverse sensibilità e livelli di
consapevolezza della globalità dei problemi.
Vi sono quindi in letteratura, accezioni più o meno
ampie della società civile globale. Il discrimine –
proprio quello individuato da Onuf – tra processi
Lidia Lo Schiavo
Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought...
di estensione globale funzionale (dalle dinamiche
economiche, alle organizzazioni trans-governative
e intergovernative, alla definizione di aree di
cooperazione economica, tecnologica, organizzativa nei regimi internazionali), e l’emergere della
consapevolezza globale, nei termini di una sociologia della condizione globale, indica la linea di
divisione tra i due modi di interpretare la politica
internazionale in questa fase storica.
Una prima linea interpretativa fa riferimento ad
una fase di transizione (la società civile globale in
senso debole), caratterizzata da sopravvivenze del
precedente “ordine” e le manifestazioni di uno
incipiente. La seconda linea interpretativa usa la
cifra del mutamento di paradigma (la società civile
globale in senso forte), facendo appello all’uso di
rinnovate capacità interpretative.
A questo si aggiunge il contributo della teoria normativa delle relazioni internazionali che si traduce
nella definizione dell’obiettivo del mutamento
della politica internazionale nel senso della costruzione della democrazia internazionale. È a questa
dimensione prasseologica che è riconducibile una
parte della operazione concettuale condotta da
Onuf, che per questa via si avvicina in qualche
misura ai costruttivisti riconducibili all’alveo della
teoria critica. In questo senso la politica globale
può essere “riformata” attraverso un sempre più
ampio processo di networking transnazionale (di
cui si registrano le prime manifestazioni, sulla base
delle esperienze dei movimenti dei new globals,
che si mobilitano secondo il macro-frame della globalizzazione dal basso). La possibilità di riforma
dell’indirizzo della politica globale viene riconosciuta, nell’analisi di un altro costruttivista, Robert
Cox, nel sorgere di un postmoderno “nuovo principe” (questa volta collettivo) quindi di una nuova
“sfera pubblica”, che scaturisca dalla connessione
delle società civili e politiche nazionali per il perseguimento di obiettivi politici globali, anzi glocali,
e per la conduzione di un’azione di contrasto alle
spinte disgregatrici, populiste, fondamentaliste,
violente che, in questa fase, stanno dettando l’agenda della politica globale.
D’altra parte, a questo quadro è possibile aggiungere che, una lettura del repubblicanesimo che
consenta di attribuire un ruolo di primo piano al
contributo di Vico, consente di valorizzare la società civile, intesa non solo come sfera distinta dallo
Stato (nel senso della tutela delle libertà individuali) ma anche come dimensione precipua della partecipazione politica messa in atto da parte di identità collettive indipendenti dallo Stato, a riprova
dell’autonomia della dimensione della socialità
anche a fronte del processo di spoliticizzazione
della società che ha accompagnato la formazione
dello Stato moderno. Né il riferimento al termine
glocale, né il richiamo al pensiero di Vico possono
tuttavia rimanere indicati semplicemente in modo
poco più che evocativo. In particolare, l’uso del
termine glocale ricorre in modo sempre più frequente non solo nella letteratura specialistica,
rischiando per questa via di diventare un termine
presente nel linguaggio comune. Tuttavia, alla frequenza dell’uso non si accompagna necessariamente il rigore concettuale. Anzi! Spesso viene utilizzato come espressione di sintesi per indicare
questioni complesse, che rimangono non esplicitate. Brevemente proveremo dunque a far chiarezza, sulla base di una ricostruzione delle condizioni
in cui questo termine viene impiegato.
A questo proposito, può essere utile tornare alla
distinzione tra il piano ontologico e quello epistemologico. Il glocale, cioè, può essere utilizzato per
indicare la condizione di complessità dei mondi-divita globalizzati, come termine centrale nel lessico
di una “sociologia della cultura globale”, o come
sintesi delle trasformazioni dell’organizzazione
sociale e politica. Nell’uno e nell’altro caso si tratta
di due assunti che hanno una serie di implicazioni.
In un contesto in cui i confini perdono salienza
politica e culturale (o assumono paradossalmente
una salienza esasperata), in cui lo Stato vede ridursi le sue funzioni di regolazione entro i confini
delle società nazionali – denazionalizzazione –
ovvero il monopolio dell’esercizio e del controllo
di queste stesse funzioni – destatalizzazione –
(quando cioè la funzione del government si dilata
nei suoi scopi e nella gamma dei soggetti legittimati ad esercitarla, spostandosi cioè verso la
governance). Un mondo glocale è anche quello in
cui i flussi di risorse materiali e simboliche tendono a non obbedire più a sequenze e percorsi ordinati dal gioco a somma zero del rapporto territo-
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riale e culturale tra centro e periferia, ma seguono
traiettorie più complesse. Queste si irradiano
lungo una nuova “struttura della centralità” geopolitica, ora reticolare. Flussi di persone, di denaro,
tecnologici costituiscono la nuova “struttura” della
globalità. Flussi di immagini e informazioni e
costruzioni intersoggettive di comunità immaginarie cambiano “dal di dentro” la natura della località;
i paessaggi cognitivi globali come complessi di
significati condivisi, sono situati, globali ma costruiti in contesti specifici.
Il riferimento al piano epistemologico è quello che
ci permette di seguire un percorso potremmo dire
evolutivo negli studi sulla globalizzazione.
Potremmo cioè ricondurre il termine glocale ad
una seconda stagione di questi studi. Quella cioè in
cui ci si libera da un approccio dicotomico nella
visione dei problemi per adottarne uno inclusivo.
Si dà corso ad una visione della complessità in cui
cioè eventi “paradossali” possono essere ricondotti
ad una comune cornice interpretativa. Questa cornice interpretativa si muove sul piano cognitivo
attraverso l’uso di coppie di termini. La globalizzazione può essere cioè spiegata come il risultato di
una serie di compresenze, tra la condizione di
incertezza e quella di consapevolezza, di estensione ed approfondimento dei processi sociali, di
dimensione globale e locale, di inclusione ed esclusione. Si tratta dunque di abbandonare una concezione interamente omogeneizzante dei processi di
globalizzazione (il lato della standardizzazione funzionale) o interamente frammentante (il lato degli
etnicismi, dei nazionalismi, dei comunitarismi),
come nel caso di interpretazioni riassumibili nei
termini di “Jihad versus Mcworld”. Piuttosto si può
pensare a processi di istituzionalizzazione globale
del locale (per esempio attraverso la definizione di
standard minimi di diritti che vengono adottati
localmente) e di incorporazione o traduzione locale del globale. L’idea della interpenetrazione e della
complementarietà di globale e locale, di “incorporazione selettiva” del primo da parte del secondo e
della creazione di una nuova località ridefinita globalmente sta al cuore della proposta interpretativa
del glocale individuata da Robertson, e si avvicina
alla sintesi proposta da Rosenau con il neologismo
“fragmegration” (in relazione alla compresenza di
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dinamiche di frammentazione e di integrazione
nella cornice della world politics).
Ancora sotto il profilo epistemologico si tratta di
fare riferimento ad una nuova stagione, iniziata nei
primi anni ’90, nella teoria sociale, quella che è
segnata da una sua “spazializzazione”. Il recupero
della salienza dello spazio rispetto al tempo come
categoria interpretativa della realtà sociale è la conseguenza dell’abbandono delle grandi narrazioni
sull’unidirezionalità della storia, su una sua concezione come “meccanismo efficiente”, in grado di
passare da una condizione di equilibrio all’altra. La
teoria sociale si spazializza ed è così in grado di
guardare rispettivamente alla modernità ed alla
globalità come a costellazioni complesse di processi, non seguendo la linea teorica che considera
la globalizzazione come “conseguenza” della
modernità, senza sottrarsi all’analisi delle relazioni
che intercorrono tra le due costellazioni. Il riferimento allo spazio e al tempo rimanda all’uso di
altri termini-concetti che possono essere ricondotti alla “glocalità”. La glocalità presupporrebbe infatti il costituirsi di una nuova natura della località,
considerata come il risultato di processi di estensione delle relazioni sociali nello spazio e nel
tempo e del loro ricollocarsi in mutati contesti
“locali”.
Il riferimento al quadro teorico proposto dagli
studi internazionalistici in campo politologico e
sociologico non sarebbe completo se non si prendesse in considerazione il concetto di interdipendenza transnazionale (che nella sua accezione
debole è riferito alle crescenti “emissioni” che
attraversano i confini di una data comunità e
divengono una variabile di cui tener conto nei processi di regolazione sociale, mentre nella sua versione forte indica il formarsi di una società globale
sempre più integrata, diversa cioè da una costellazione di società “internazionalizzate”) costituisce il
sostrato di una condizione di “connettività complessa”, di “compressione” spazio-temporale, ottenuta con “l’annullamento dello spazio per mezzo
del tempo”. Da questa scaturirebbe una condizione generalizzata di prossimità, nel senso del diffondersi della percezione della tendenziale condizione di “unicità” del mondo.
Nelle prime battute della nostra lettura del testo di
Lidia Lo Schiavo
Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought...
Onuf abbiamo fatto cenno ad una “vittoria” del
liberalismo nel suo rapporto con il repubblicanesimo, proposta dall’autore come frame interpretativo del percorso storico del pensiero politico occidentale. A questo punto del nostro discorso, questo riferimento ci consente di introdurre i termini
vichiani del discorso repubblicano. Onuf include
l’idea di una “vittoria” del liberalismo nel contesto
della vicenda storica e politica del moderno sistema di Stati in cui, per un lungo tratto di questo
percorso, politica e statualità non erano completamente sovrapponibili. La dimensione del politico
era cioè più ampia e inclusiva. In questa ottica allora il posto che Onuf riserva al repubblicanesimo
nella sua analisi della politica internazionale e della
conoscenza di questa è duplice. Da una parte infatti mette in evidenza che le istituzioni “interne”
degli Stati, dalla costituzione all’idea di libertà,
sono legati del “republican ways of thinking”
[Onuf, 1998, 3], dall’altra che questa stessa eredità
non è facilmente rinvenibile nel “pensiero internazionale”.
Questo perché essa è divisa in “molti pezzi” (several pieces) e che gli internazionalisti hanno difficoltà a ricondurre ad un quadro coerente proprio
perché manca loro il riferimento comune al
“repubblicanesimo” come concezione politica ma
anche cognitiva, nel senso costruttivista della
costruzione sociale della conoscenza, accanto alla
costruzione intersoggettiva della realtà sociale.
Come dire che diverse forme di regolazione della
vita associata, politica, economica, etica e cognitiva
si intrecciano nei processi di interazione sociale.
Per Onuf il recupero-rilettura del passato serve
come acquisizione di consapevolezza per il presente. In questo contesto, ci sembra di poter affermare che con il riferimento a Vico, che pure Onuf
omette nella sua ricostruzione, può essere utile a
chiarire il senso del riferimento dello stesso Onuf
al carattere inclusivo della concezione della politica repubblicana e costruttivista. Per Vico infatti la
“socialità” preesiste alla istituzione dello Stato. La
società civile è lo spazio della libertà e della partecipazione politica. Si costituisce come ambito
autonomo, pluralistico quindi non neutralizzabile
nella sua dimensione conflittuale, né amministrabile dall’alto, attraverso l’organizzazione burocrati-
ca dello Stato. Sotto il profilo cognitivo, l’idea
vichiana delle diverse forme che può assumere il
rapporto capo/gregari, Stato/società civile, rimanda ad una concezione “democratica” della logica,
che non esclude cioè i gregari “dalla produzione di
senso che conta”, quella cioè che definisce l’agenda della politica ed il modo di interpretare e dare
significato alla realtà.
Rispetto alle altre “migrazioni” da un contesto
disciplinare all’altro, come si accennava, la ricostruzione della vicenda del repubblicanesimo operata da Onuf presenta indubbiamente caratteri di
specificità rispetto alle modalità utilizzate nel
dibattito politologico interno. Rimane tuttavia la
convergenza degli “obiettivi” oltre ad una certa
vicinanza lessicale. Anche in questo caso, infatti, si
tratta di ricostruire una tradizione di pensiero e,
per questa via, di ricercare una diversa fondazione
del pensiero politico moderno. In questo contesto, Onuf è costretto, se così può dirsi, a tenere in
conto anche la peculiarità dell’evoluzione disciplinare delle Relazioni Internazionali, nell’analisi
della politica internazionale. In questo campo,
infatti, le RI sono storicamente le ultime arrivate.
In questo caso, la “tradizione” è quella tracciata del
diritto internazionale, a partire dall’età della sua
“fondazione mitica” – riconosciuta nell’opera di
Grozio (repubblicano continentale) secondo la lettura di Onuf – in cui sono riconoscibili due componenti fondamentali (appunto tradizioni), quella
giusnaturalista e quella giuspositivista. Le Relazioni
Internazionali, fin dal loro atto di fondazione accademico tra il primo e il secondo dopoguerra,
hanno intrapreso immediatamente un’operazione
“ideologica” di fondazione.
In questo caso i “realisti” hanno guardato a
Tucidide, a Machiavelli e ad Hobbes come ai padri
fondatori della disciplina. Tuttavia, la costruzione
di questa linea di continuità viene revocata in dubbio non solo dai costruttivisti à la Onuf, ma anche
al di fuori delle Relazioni Internazionali. Già la lettura pocockiana, ma soprattutto skinneriana del
lessico politico moderno, mette in luce la differenza del pensiero politico di Machiavelli e di Hobbes.
La costruzione geometrico-politica hobbesiana
persegue l’obiettivo di neutralizzare il conflitto, di
“derubricare” la dimensione politica ad ammini-
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strazione delle cose. Al contrario, la politica è interpretata da Machiavelli attraverso la categoria del
conflitto, inteso come manifestazione del vivere
civile e della libertà, ovvero della partecipazione
responsabile, contro la minaccia della corruzione.
Ebbene, la disciplina internazionalistica riconosce i
propri natali in tre tradizioni fondamentali. Quella
machiavelliana, (realista e neo-realista), quella grotiana (liberale), e quella kantiana (solidaristacosmopolitica). Tali tradizioni generano, secondo
Onuf, delle aporie, presenti nell’approccio neoliberale (riconoscibili in particolare nella versione
istituzionalista dei weak liberals). In questo ambito
infatti se la dimensione istituzionale e delle regole
viene inserita come variabile nei modelli esplicativi del comportamento degli attori, rimangono
invariate le premesse ontologiche (lo Stato come
egoista razionale) su cui si fonda tale visione della
politica internazionale. In forza di queste premesse ontologiche, infatti, l’identità degli attori sociali
viene assunta come variabile esogena, mentre alle
norme e alle istituzioni si riconosce un mero ruolo
regolativo della politica internazionale.
Quanto affermato sin qui contribuisce a spiegare
almeno in parte le ragioni della difficile convivenza, per così dire, tra relazioni internazionali e filosofia politica (international ethics), tra teorie esplicative e teoria normativa. Questa impasse potrebbe tuttavia essere superata in due modi. In prima
istanza distinguendo tra livelli diversi di problematicità e complessità della politica internazionale,
per cui solo in relazione ai massimi problemi concettuali (quali il fondamento e la natura del sistema internazionale) è possibile porsi domande di
carattere normativo. Oppure facendo appello alla
lettura costruttivista della politica internazionale,
posto che in questo caso gli elementi normativi
sono riconosciuti come parte integrante dello stesso processo di costruzione sociale della realtà.
Anche se in questo caso occorre sottrarsi al rischio
di sovrapporre indebitamente l’interpretazione
della realtà sociale condotta da chi agisce (first
order interpretation) a quella del ricercatore
(second order intepretation), di chi cioè osserva a
sua volta una realtà già interpretata. Quanto al tipo
di “trattamento” del concetto repubblicanesimo
operato da Onuf, oltre alla distinzione delle due
112
vicende, atlantica e continentale, rispetto al discrimine fondamentale individuato nell’ambito del
dibattito sul repubblicanesimo in ambito teoricopolitico, Onuf sembra assumere una posizione
peculiare, riconducendo la tradizione aristotelica
alla sola componente continentale del repubblicanesimo. Nella storia del pensiero politico la distinzione fondamentale è posta tra tesi continuiste e
discontinuiste nella ricostruzione del pensiero
repubblicano, ovvero tra chi, come Pocock, postula una linea di continuità tra aristotelismo e repubblicanesimo, e chi, come Skinner, ritiene che l’elaborazione dell’ideologia repubblicana nell’età dell’umanesimo civile italiano, non avesse dovuto
attendere il recupero di Aristotele, utilizzando
piuttosto le elaborazioni storiche e filosofiche
romane (teoria neo-romana).
In questo ambito disciplinare, il campo semantico
è stato costruito intorno a tre fondamentali figure.
A partire da Pocock, centrale è stato il ruolo di
Quentin Skinner e poi di Pettit, mentre Habermas
da una parte ed i comunitaristi dall’altra, hanno
contribuito ad articolare e arricchire tale dibattito.
Habermas ha legittimato la sua posizione nei termini di una “terza via” tra individualismo liberale e
comunitarismo di matrice aristotelica, per ciò che
riguarda la pensabilità del politico e del rapporto
individuo-società. Per i comunitaristi la riconduzione del repubblicanesimo ad una forma di aristotelismo politico (tesi continuista) è stata, se così
può dirsi, funzionale alla contrapposizione con
l’individualismo liberale, così come lo è stata la tesi
della discontinuità per i costituzionalisti liberali, e
per lo stesso Habermas (a sostegno della proposta
deliberativa-procedurale di democrazia). La terza
figura fondamentale nel dibattito “interno” sul
Repubblicanesimo, è, come è noto, quella di Philip
Pettit, in particolare per ciò che riguarda la critica
della concezione liberale della libertà negativa,
intesa come “non-interferenza”. L’alternativa proposta da Pettit è quella della libertà come “nondominio”, in quanto esclude tutte le forme di
dominazione e di arbitrio.
Questa digressione, sul diverso modo di organizzare il dibattito nella ricerca storiografica e nella
teoria politica rispetto alla modalità seguita da
Onuf nell’ambito delle RI, da una parte ci consen-
Lidia Lo Schiavo
Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought...
te di comprendere quale sia stato il ruolo del dibattito sul repubblicanesimo nella teoria democratica
e nella scienza politica nell’ultimo trentennio del
secolo appena trascorso, dall’altra contribuisce a
far emergere la specificità di questa ricostruzione
nel campo della scienza politica internazionale.
Ciò è quanto, almeno in parte, abbiamo cercato di
chiarire sin qui.
Concludiamo questo percorso con una riflessione
sull’operazione concettuale affrontata da Onuf,
utilizzando altresì questo spazio per inserirci nel
dibattito su uno dei temi cruciali degli studi internazionali, affrontati sia attraverso l’analisi dei processi decisionali, sia con la riflessione sulle linee di
tendenza dell’indirizzo politico globale. La componente ricostruttiva dell’analisi condotta del politologo non esaurisce il senso della sua operazione
intellettuale. Vi è, come si è detto, anche una componente normativa, rispetto alla quale Onuf mette
in evidenza il contrasto tra i due mondi che costituiscono la politica globale in questa fase storica.
Da una parte, il mondo liberale delle transazioni
economiche, dell’interdipendenza, dei sempre più
veloci e intesi processi di comunicazione, della prosperità e della pace, dall’altra quello che resta del
“mondo dei territori”, caratterizzato da insicurezza,
povertà e guerra. Il primo mondo è anche quello
della società civile globale, di cui, nel prossimo
futuro, verrà messa in gioco la capacità inclusiva.
La posta in gioco consiste cioè nella possibilità che
possa o meno aprirsi una finestra di opportunità in
senso democratico nella politica globale. Si tratta
di capire cioè quali siano i margini per la realizzazione di un’agenda normativa qui espressa attraverso il lessico della concezione repubblicana della
politica, quindi mediante il linguaggio della partecipazione, della cittadinanza e dell’empowerment.
Al momento, rispetto a quest’agenda, l’estensione
globale dei processi funzionali, economici, comunicativi, costituisce solo una parte, peraltro sempre più spesso segnata da contraddizioni, del processo di costruzione di un nuovo ordine politico
globale.
113
Silvia Bedin
Il deficit democratico dell’Unione europea:
tra politics e policy
Il Sestante
Nel ripercorrere le tappe del processo d’integrazione spesso si afferma come le prime comunità
siano figlie della seconda guerra mondiale in quanto nate dall’esigenza di superare la rivalità francotedesca causa dei mali dell’Europa nei primi anni
del novecento; tuttavia, è leggendo l’autobiografia
di Monnet che si può cogliere il senso profondo di
tale affermazione, che si capisce come l’integrazione europea si basi su convinzioni ed idee maturate nel corso delle esperienze di una vita, quella di
Jean Monnet appunto, che ha fatto della costruzione di una nuova Europa un imperativo morale ed
una filosofia d’azione nella convinzione che la
riflessione non potesse essere separata dall’azione
(Monnet 1978, 29). Tale è stata la sua influenza nell’informare il progetto comunitario che, come
vedremo, autori quali Featherstone riconducono
alla sua filosofia le radici del deficit democratico.
Testimone ed attore della costruzione dell’Europa,
ideatore del metodo comunitario, promotore della
federazione europea, sono quindi solo alcune
delle definizioni a cui possiamo ricorrere per
descrivere vita e ruolo di Monnet nell’Europa del
dopoguerra.
Da tali considerazioni nasce l’idea di anteporre
all’analisi puntuale del deficit una riflessione sulla
vita e sulle esperienze di colui che è stato definito
l’architetto delle Comunità. Nato a Cognac nel
1888 da una famiglia di commercianti, si dedica fin
da giovane all’attività di famiglia, il commercio del
cognac, che lo porta a viaggiare e a conoscere
nuovi mondi e realtà, dapprima Londra quindi
l’America e il Canada. Sarà tuttavia l’esperienza
114
della Prima Guerra Mondiale a segnare il punto di
partenza, “l’anno zero”, della sua filosofia dell’azione resa nelle formule: «unità di vedute e di azione;
concetto d’assieme; messa in comune delle risorse» (Monnet 1978, 51). Libero da pregiudizi e ricordi del passato, egli comprende che la guerra nella
quale ci si stava imbattendo sarebbe stata diversa
dalle precedenti e avrebbe richiesto pertanto
nuove forme di organizzazione ed una revisione
del concetto di alleanza. Seguendo il principio che
avrebbe caratterizzato anche le sue azioni future,
«prima avere un’idea, poi, cercare l’uomo che abbia
il potere di realizzarla», e nella convinzione secondo cui l’autorità è legittima nella misura in cui è
utile, Monnet individua nel presidente del
Consiglio Viviani l’uomo che ha il potere di realizzare la sua idea e, tramite un amico di famiglia,
riesce ad esporgliela (Monnet 1978, 41).
Nasce così, dalla necessità della guerra, il fulcro
della filosofia monettiana che si riassume nella proposta di mettere insieme dei paesi per realizzare
un obiettivo comune ripartendo le responsabilità
in funzione delle capacità di ciascuno o, nel caso in
questione, «organizzare degli organi comuni capaci di valutare le risorse dell’Intesa, di suddividerle
e di equilibrare i carichi» (Monnet 1978, 42). La
creazione nel 1916 del Wheat Executive, ovvero
della Commissione esecutiva per il grano quale
istituzione interalleata per la gestione comune, fu
il primo successo registrato da Monnet che corrobora la sua idea secondo la quale gli uomini sono
portati ad accordarsi nel momento in cui si accorgono che hanno degli interessi in comune.
Silvia Bedin
Commentando la sua filosofia Monnet dirà «gli
avvenimenti avrebbero dimostrato che questa filosofia relativa soprattutto a ciò che è necessario è
più realistica di quella che considera soltanto ciò
che è possibile» (Monnet 1978, 136).
Soffermandosi sulle pagine dedicate alla narrazione di quei giorni, si nota come vi sia un termine su
cui Monnet torna più volte con insistenza, necessità: «…solo la necessità costrinse a stabilire qua e là
interventi e controlli» (Monnet 1978, 43); «…non
ci sarebbero stati sviluppi se non fossero stati stimolati da urgentissime necessità finanziare…»
(Monnet 1978, 44), etc.
Ripercorrendo con attenzione le tappe fondamentali della vita di Monnet, si evince come il tema della
necessità sia una sorta di fil rouge dell’intera narrazione, ma anche come essa venga designata motore
ed ispiratrice del processo di integrazione: «l’artefice della federazione non sarebbe stato un uomo,
ma sempre la stessa potenza astratta e multiforme
che si impone a tutti gli uomini: la necessità»
(Monnet 1978, 313). Tale potenza astratta è quindi,
secondo la lezione che Monnet ci tramanda, motore della storia e pre-condizione per il cambiamento
al punto che, quando essa viene a mancare, si registra un ritorno allo status quo preesistente.
Come possono tali riflessioni incidere sull’analisi
del deficit democratico dell’Unione europea?
Punto di congiunzione, tra Monnet ed il deficit, è
la necessità; in altre parole, il metodo elaborato da
Monnet per l’integrazione dell’Europa deve essere
adottato e può funzionare proprio perché vi è un
deficit democratico. Come durante la prima guerra mondiale i comitati interalleati sono nati e
hanno potuto funzionare in ragione delle necessità della guerra, così la nuova Europa ideata da
Monnet nasce e prospera dapprima sulla necessità
di pacificare i rapporti tra Francia e Germania, successivamente sulla necessità di risolvere il deficit di
legittimazione democratica. La federazione europea non nascerà quindi da un processo di costituzionalizzazione, ma da tentativi successivi di
affrontare le necessità contingenti e i problemi del
momento all’interno di “un’organizzazione collettiva e [attraverso] una consultazione collettiva”
(Monnet 1978, 194), ovvero all’interno di quadri e
norme d’azione condivisi che le istituzioni comuni
Il deficit democratico dell’Unione europea
avranno contribuito a creare (Monnet 1978, 337).
Seguendo la tesi di Monnet della necessità quale
federatore dell’Europa, possiamo leggere il trattato di Maastricht e le innovazioni in esso contenute,
dall’introduzione della cittadinanza europea alla
procedura di co-decisione e dall’estensione del
metodo di voto a maggioranza qualificata alla predisposizione della moneta unica, quali azioni volte
ad affrontare necessità contingenti.
Ricapitolando, le riflessioni formulate a partire dal
pensiero di Monnet ci portano a considerare il
deficit quale realtà ineluttabile e componente
intrinsecamente legata alle sorti dell’integrazione;
tuttavia, per valutare quanto forte sia tale legame,
necessitiamo di una definizione del problema
medesimo, di una panoramica su studi e riflessioni aventi ad oggetto il deficit dell’Unione europea.
Tre sono le linee interpretative principali ricavabili
dalla letteratura in materia. Realtà complessa e
multisfaccettata, il deficit democratico si presta
infatti a diverse e, a volte contrastanti, declinazioni: ad autori che imputano alla costruzione europea un deficit di democrazia, si affiancano autori
che le attribuiscono un deficit di democraticità ed
autori che mettono in discussione tanto l’esistenza
di un deficit, quanto l’opportunità di interventi istituzionali volti a politicizzare l’Ue. Molteplici sono
d’altraparte le accezioni e le spiegazioni a cui gli
studi del primo filone ricorrono per definire le
lacune democratiche dell’Unione: le responsabilità
del metodo Monnet; la tecnocrazia; la debole legittimazione democratica di cui l’Unione gode in termini di partecipazione e rappresentatività; la disaffezione e l’ininfluenza dei cittadini europei; lo
squilibrio istituzionale; la mancanza, a livello nazionale, di un dibattito sull’Unione e, a livello europeo, la mancanza di politics; l’assenza di una cultura politica democratica.
Settorialità delle analisi, mancanza di una definizione chiara ed universalmente accettata del fenomeno nonché di un comune frame di riferimento,
sono quindi i principali problemi che si incontrano, accingendosi allo studio delle presunte carenze democratiche dell’Ue. Per quanto attiene, in
particolare, alla mancanza di consenso, tanto sulla
natura quanto sull’accezione di deficit, essa può
trovare una spiegazione nelle diverse occasioni di
115
n.16 / 2006
democrazia che vengono applicate alla realtà sovranazionale (Pasquino 2000, 15), rendendo così
necessaria la ricerca di una definizione di democrazia ed in particolare di una definizione empirica
della stessa che, individuando elementi essenziali e
caratteristiche base, ci consenta di discernere tra
un regime democratico e non. Così, se il nostro
modello di riferimento è la democrazia parlamentare, definiremo il deficit quale «…mancanza o sottosviluppo delle istituzioni e dei meccanismi della
democrazia parlamentare» (Majone 2003, 31).
Pur privilegiando la dimensione empirica, non
possiamo tuttavia prescindere dal dover-essere
della democrazia, dalla prescrizione; come ci insegna infatti Sartori, «ciò che la democrazia è non
può essere disgiunto da ciò che la democrazia
dovrebbe essere. Una esperienza democratica si
sviluppa a cavallo del dislivello tra dover-essere ed
essere, lungo la traiettoria segnata da aspirazioni
ideali che sempre sopravanzano le condizioni
reali» (Sartori 1994, 12). La ricerca di una definizione ideale di democrazia non deve tuttavia essere
concepita come il tentativo di individuare un assioma, una verità inconfutabile e definitiva che fissi un
limite allo sviluppo democratico. Condividendo
infatti la concezione di Dahl (2002, 10) della democrazia quale prodotto della storia, nonché la tesi
della processualità della stessa, non possiamo che
concepire la definizione ideale quale ottimizzazione piuttosto che massimizzazione democratica,
come fa Sartori.
Ideale e fattuale, normazione ed implementazione
sono, o dovrebbero essere, entrambe componenti
fondamentali della teoria democratica in quanto,
«senza l’accertamento la prescrizione è "irreale";
ma senza l’ideale una democrazia "non è" (…). La
democrazia ha in primo luogo una definizione normativa; ma non ne consegue che il dover-essere
della democrazia sia la democrazia e che l’ideale
democratico definisca la realtà democratica»
(Sartori 1994, 12).
Partendo da tali premesse e attraverso il contributo di un allievo di Sartori, Leonardo Morlino, possiamo classificare i criteri democratici in due
macro-settori: da un lato, i criteri prettamente
empirici, dall’altro i criteri che ci aiutano a rilevare
lo scarto tra l’essere e il dover-essere, tra l’ideale
116
democratico e la sua realizzazione. Mentre i primi
sono funzionali ad una definizione minima di democrazia, e quindi all’individuazione e alla classificazione di un regime come democratico sulla base di un
semplice riscontro empirico, i secondi rilevano la
soglia oltre il minimo: la valutazione della qualità e
della maturità di un regime democratico.
Suffragio universale, elezioni libere e ricorrenti,
presenza di più di un partito, alternative e diverse
fonti di informazione, sono gli elementi minimi
che, Morlino docet, un regime deve almeno possedere per essere qualificato come democratico.
Viceversa, competizione e responsività sono «centrali per valutare la distanza di un regime reale da
una democrazia ideale, ma marginali per giudicare
un paese come una democrazia reale (…). In altre
parole, se competizione e responsività sono quasi
inesistenti, ma vengono garantiti concretamente
diritti e libertà e, dunque, vi è partecipazione e
possibilità reale di dissenso, non siamo forse in un
regime democratico?» (Morlino 2003, 20).
Alla luce di siffatti ragionamenti, laddove nel sistema politico europeo fossero rintracciabili i criteri
minimi individuati dall’autore, non dovremmo
forse concludere che l’Unione rientra nel novero
dei regimi democratici? Precisiamo tuttavia che
una sua classificazione quale democrazia non
implicherebbe una valutazione, né positiva né
negativa, sulla sua democraticità. Infatti, mutuando le parole di Sartori, «qualsiasi regime, il cui personale politico "controllante" viene scelto tramite
elezioni libere, competitive, e non fraudolente, è
da classificare come democrazia. Non sarà per questo buona, né altro; ma democrazia è: supera la
prova che fa da prova» (Sartori 1994, 134).
Ricordiamo come per l’autore l’indizione di libere
elezioni costituisca il criterio principe ed il discrimine fondamentale tra democrazia e non.
Indipendentemente dalle valutazioni sulla possibilità-opportunità di ricondurre l’Unione nel novero
delle democrazie, non possiamo non evidenziare
come il ragionamento di Morlino possa portare ad
una rivalutazione del deficit. Infatti, se riconosciamo nell’Ue un sistema democratico, sulla base
della definizione minima dell’autore, non possiamo che concludere che la mancanza di responsività e di competizione, imputate spesso al sistema
Silvia Bedin
sovranazionale, sono indici di un deficit di democraticità, piuttosto che di democrazia. Gli eventuali aggiustamenti volti ad aumentare la capacità di
risposta dell’Unione alle esigenze ed ai bisogni dei
cittadini come i tentativi di introdurre una maggiore competizione partitica o elettorale, non sarebbero quindi tanto funzionali ad accrescere la
democrazia europea quanto a colmare il divario tra
l’essere e il dover-essere della stessa contribuendo
ad una maturazione del sistema democratico
sovranazionale.
Ad un’analisi della democrazia quale coordinata di
riferimento e pietra di paragone per poter valutare
le eventuali o presunte lacune attribuite all’Unione
non può che seguire una ricostruzione storicoconcettuale del deficit quale riflessione a partire
da, ed attraverso le diverse declinazioni, interpretazioni e connotazioni attribuite al fenomeno.
Una prima possibile lettura individua nel metodo
Monnet le premesse del deficit democratico
dell’Unione nonché il responsabile di meriti e
demeriti, pregi e difetti della Commissione europea che, assieme al Parlamento, sono le istituzioni
su cui si concentra il dibattito in materia.
Sostenitore assieme a Schuman, di un’Europa funzionalista, l’architetto delle Comunità europee,
Jean Monnet, riteneva che l’Unione europea
potesse essere costruita solo attraverso integrazioni settoriali «solo in questo modo, e cioè attraverso successive, parziali e graduali cessioni di sovranità a nuove Istituzioni indipendenti dagli Stati, si
possono porre le basi di una nuova struttura del
potere in Europa, che possa garantire una nuova
‘casa comune’ agli Europei» (Olivi 2001, 28). Fu
così che si arrivò alla creazione della prima
Comunità europea, la CECA, per la quale i padri
fondatori pensarono che, dopo le atrocità della
seconda guerra mondiale, i vantaggi per le popolazioni europee, in termini di pace e prosperità, fossero e sarebbero stati, delle giustificazioni sufficienti ed autoevidenti per avviare il progetto integrativo; di qui l’esclusione dei cittadini ed il loro
non coinvolgimento nelle decisioni di realizzare il,
e nell’evoluzione del, processo medesimo.
Esemplificativa è la constatazione di come i passi
avanti nell’integrazione, guidati dalle dinamiche
del mercato comune e dall’evoluzione del diritto
Il deficit democratico dell’Unione europea
europeo, siano stati realizzati attraverso negoziati
poco pubblicizzati e senza un effettivo coinvolgimento dei cittadini degli Stati membri.
Solo che nel lungo periodo tale approccio, presupponendo un’insicurezza collettiva e un successo economico continui, si è dimostrato incapace di
procedere oltre un certo limite: se dopo la
Seconda Guerra Mondiale i cittadini hanno accettato favorevolmente l’avvio del processo integrativo consci dell’utilità e dei vantaggi che la Comunità
europea avrebbe loro portato, oggi, quegli stessi
cittadini sono sempre più scettici verso il progetto
europeo, non ne capiscono più l’utilità né le finalità, essendo venute a mancare le premesse di
necessità su cui si fondava l’approccio iniziale. Se
infatti la pace, in Europa, sembra ormai un bene
scontato, il benessere lo è sempre meno, soprattutto dopo il rallentamento del boom economico.
Sono inoltre cambiate, negli ultimi cinquant’anni,
le necessità, i bisogni e le paure dei cittadini europei. Ormai in cima a tutto troviamo l’insicurezza
sociale, la globalizzazione, il terrorismo internazionale, il difficile rapporto con l’Islam. Di fronte a
questi cambiamenti, l’Unione è restata immobile,
imprigionata tra gli egoismi nazionali e i tentennamenti dei leaders politici che sembrano mancare
dell’immaginazione, della fantasia, nonché del
coraggio necessari per far progredire l’Unione.
Avendo impostato lo sviluppo dell’integrazione su
una legittimazione di tipo tecnocratico, che trova
nei successi – quali la pace; il mercato unico; l’affermazione delle quattro libertà fondamentali;
l’euro; etc. – la sua ragion d’essere, il “metodo
Jean Monnet” si è rivelato tanto più controproducente quanto più l’incomprensione dei fini
dell’Unione europea e il meccanismo del blameshift, che fa configurare l’Europa quale responsabile di disagi e mali nazionali, hanno portato a mettere in discussione l’efficienza dell’Unione stessa
(Weiler 2001, 63).
Ricapitolando, le critiche di tecnocrazia, opacità e
depoliticizzazione mosse all’Unione ed in particolare al suo esecutivo, la Commissione, deriverebbero dalla filosofia di Monnet che può essere riassunta, secondo l’analisi di Featherstone
(Featherstone 1994, 150), nell’idea pragmaticofunzionalista dei piccoli passi e nel gradualismo
117
n.16 / 2006
incrementale. D’altra parte, lo stesso autore, riconosce come non vi fossero alternative possibili a
quella intrapresa dai padri fondatori; se, infatti, la
via federale non fosse stata accettata, l’ipotesi di
un’Europa guidata dai soli Governi nazionali avrebbe condannato il progetto europeo a progressi
limitati.
L’esistenza dell’odierno deficit democratico sarebbe quindi imputabile a Monnet e alla sua visione
"of a Europe united by a bureaucracy" basata sul
coinvolgimento e la "conversione" alla causa europea delle élite piuttosto che delle masse; scrive
infatti Monnet: «We believed in starting with limited achievements, establishing de facto solidarity,
from which a federation would gradually emerge. I
have never believed that one fine day Europe
would be created by some great political mutation,
and I thought it wrong to consult the peoples of
Europe about the structure of a Community of
which they had no practical experience. It was another matter, however, to ensure that in their limited field the new institutions were thoroughly
democratic; and in this direction there was still
progress to be made....the pragmatic method we
had adopted would....lead to a federation validated
by the people’s vote; but that federation would be
the culmination of an existing economic and political reality, already put to the test» (citato in
Featherstone 1994, 159-160).
Monnet, non solo afferma la necessità di una
costruzione de facto, prima ancora che de jure,
dell’Europa nella convinzione che non sia possibile istituzionalizzare ciò che deve ancora essere
costituito, ma privilegia la strada di un gradualismo
incrementale. Mutuando la definizione di Luigi
Bobbio (2004, 33), il modello incrementale presuppone un aggiustamento in itinere dei fini a
seconda dei mezzi disponibili, privilegiando «i piccoli passi» alle «grandi riforme» nella convinzione
che sia possibile conseguire notevoli mutamenti in
modo graduale. L’incrementalista è in sintesi colui
che aspira «a ciò che è di volta in volta concretamente possibile, piuttosto che perseguire ciò che
è astrattamente desiderabile». Così, negli intenti di
Monnet, la federazione è la meta, il traguardo finale del processo integrativo, che tuttavia si raggiungerà gradualmente, come d’altra parte futura è la
118
prospettiva di un Parlamento europeo.
Privilegiando infine, una conoscenza di tipo ordinario basata sull’esperienza, Monnet ritiene che
non sia opportuno coinvolgere e consultare «the
peoples» sul processo d’integrazione nei confronti
del quale «they had no practical experience».
Nonostante l’impostazione tecnocratica ed elitista,
non manca il riferimento alla necessità che le
nuove istituzioni siano democratiche, anche se si
rinvia la soluzione del problema a futuri ed imprecisati progressi.
Nell’affrontare problemi ed obiettivi che di volta in
volta si pongono alla sua attenzione, Monnet privilegia un approccio empirico, operativo, basato
cioè su casi concreti che fungono da esempio per
dimostrare la teoria che sottostà all’azione.
Accanto al tema della necessità troviamo anche
quello dell’azione: «…bisognava agire empiricamente, partire da alcuni casi concreti per dimostrare col loro esempio che…» (Monnet 1978, 43);
«…bisognava mettere a punto un certo numero di
misure concrete… le nostre strutture erano pragmatiche…» (Monnet 1978, 67); o, ancora,
«…bisognava cominciare con realizzazioni che
fossero allo stesso tempo più pragmatiche e più
ambiziose, e attaccare le sovranità nazionali con
più audacia su un aspetto più limitato» (Monnet
1978, 205). Approccio pragmatico e filosofia dell’azione costituiscono i punti di forza del metodo
ideato da Monnet il cui successo, in settori contingenti e circostanze peculiari, lo porta tuttavia a
sopravvalutarne le capacità di risoluzione, come si
può evincere dalla proposta di unire Francia e
Gran Bretagna, al momento della crisi di
Dunkerque nella Seconda Guerra mondiale, in
un’unione indissolubile basata sulla fusione dei
parlamenti e dei popoli; in questo caso egli abbandonava, spinto da una necessità che era solo logica ma non politica (la Francia preferì a quel
momento Petain a De Gaulle) la ritrosia dei piccoli passi per promuovere e sostenere un’integrazione top-down, guidata dall’alto e realizzata mediante fusioni al vertice.
Tecnocrazia, elitarismo, ma anche sopranazionalità
sono le parole chiave per comprendere il pensiero
e la strategia di Monnet nonché i "responsabili" di
meriti e demeriti, punti di forza e debolezza, del-
Silvia Bedin
l’attuale Commissione europea. Se da un lato la
scelta della sopranazionalità e la volontà di superare vincoli e costrizioni dell’intergovernativismo
sottostanno all’ideazione dell’Alta Autorità e giustificano la ritrosia di Monnet circa la creazione di un
Consiglio dei Ministri – anche se alla fine le pressioni dei governi belga e olandese, fermi nella decisione di istituire un’istituzione che garantisse un
controllo sulle decisioni adottate dall’Alta Autorità,
fecero capitolare Monnet che dovette accettare la
creazione dell’istituzione intergovernativa – dall’altro, l’approccio tecnocratico ed elitista spiega la
natura di quella che è oggi la Commissione e l’esclusione dell’uomo qualunque dal progetto di
integrazione sovranazionale.
Cuore del pensiero monettiano, scrive Radaelli
(1999, 520), è poi il ruolo riconosciuto ad esperti e
gruppi di interesse nella formulazione delle politiche sovranazionali, favorendo e promuovendo un
government with the people, piuttosto che by the
people. L’importanza dei gruppi di interesse,
soprattutto nella fase iniziale di formazione della
proposta legislativa, è tale che Marco Mascia li
paragona ai partiti politici: «…il gruppo di interesse economico è essenziale al funzionamento del
sistema dell’integrazione europea come il partito
politico lo è rispetto ai sistemi nazionali democratici» (Mascia 2001, 128). Ricordiamo in particolare
il ruolo giocato da esperti nazionali e gruppi di
interesse nella fase di elaborazione della proposta
legislativa. Come ricorda Panebianco (2005, 88) le
proposte di policy vengono infatti elaborate all’interno delle DG da funzionari che si avvalgono delle
conoscenze e delle informazioni tecniche di soggetti esterni quali i gruppi di interesse.
Esclusi, almeno direttamente dal gioco politico fino
al 1979, data delle prime elezioni dirette del
Parlamento europeo, restano invece i cittadini.
Come sottolineano infatti Wallace e Smith «la strategia di Monnet consisteva in un gradualismo trainato dall’élite, con l’aspettativa che il consenso
popolare sarebbe cresciuto col tempo. In un simile
approccio indiretto all’integrazione politica, il fatto
di attirare le organizzazioni di interesse - dell’impresa, del lavoro e degli enti amministrativi nazionali - era una priorità assai più sentita del coinvolgimento diretto di un pubblico all’epoca ancora poco
Il deficit democratico dell’Unione europea
informato» (citati in Radaelli 1999, 521).
Riassumendo, la ricetta di Monnet prevedeva un
mix di tecnocrazia ed interessi economici quali basi
per costruire coalizioni transnazionali che sostenessero la costruzione europea (Featherstone
1994, 155).
Ulteriore ingrediente dell’universo deficit è la legittimità democratica o meglio il deficit di legittimità,
intesa quale input-legitimacy, ovvero quale partecipazione e rappresentatività. Questo aspetto del
deficit legge, nell’astensionismo registrato in occasione delle elezioni per il rinnovo del legislativo
sovranazionale, nella diversa funzione delle elezioni europee, attraverso le quali non si esprime la
volontà collettiva del popolo europeo né si conferisce al Parlamento il compito di formare l’esecutivo e, in sintesi, nel diverso funzionamento del
sistema politico europeo rispetto all’alter ego
nazionale, le cause delle lacune democratiche
dell’Unione europea.
L’avvio del dibattito sulla legittimità democratica
del processo di decision-making, delle strutture di
governance nonché, dell’intero processo di integrazione, può essere fatto risalire ad una decina di
anni fa, alla crisi che ha accompagnato negli anni
‘90 la ratifica del Trattato di Maastricht sull’Unione
europea. Vi sono tuttavia autori, tra i quali Giraudi
(2005, 27), che fanno risalire la nascita del problema alle controversie tra la Corte di giustizia europea e le Corti costituzionali italiana e tedesca.
Quest’ultime, infatti, rivendicavano il diritto di esercitare il sindacato di costituzionalità delle leggi,
anche nei confronti del diritto comunitario direttamente applicabile, ritenendo che il sistema comunitario, in ragione della debole rappresentanza
politica diretta, non fosse in grado di assicurare che
le disposizioni comunitarie non ledessero i diritti
fondamentali riconosciuti dai rispettivi Stati.
Fino alla metà degli anni ‘80, sottolinea Höreth
(1998, 4), il problema della legittimità democratica
dell’Ue non sussisteva; si riteneva, infatti che la sua
legittimità fosse indirettamente fornita dagli Stati
Membri e dai loro Parlamenti: non erano forse stati
quest’ultimi ad autorizzare la ratifica dei Trattati
europei? La costruzione europea non era forse
stata approvata democraticamente attraverso le
procedure costituzionali degli Stati membri?
119
n.16 / 2006
Il fallimento del referendum sul TUE in Danimarca
e l’esito non incoraggiante seppur positivo, di
quello in Francia (entrambi nel 1992) – lo scarto
tra i "si" e i "no" fu infatti minimo 51% vs. 49% –
segnano dunque la fine di un periodo positivo
nella storia dell’integrazione durante il quale l’assenza di critiche e dissensi al progetto europeo era
stata letta come indice di popolarità e di successo
del processo medesimo.
Non dovrebbe tuttavia stupire che si cominci a parlare dell’esistenza di un deficit democratico proprio in concomitanza dell’adozione del Trattato di
Maastricht che, come è ben noto, segna un importante passo avanti nella storia dell’integrazione:
pensiamo all’introduzione della cittadinanza europea; della procedura di co-decisione; del pilastro
dedicato al settore della giustizia e degli affari
interni e a quello dedicato alla politica estera e di
sicurezza comune o, ancora, all’estensione del
metodo di voto a maggioranza qualificata e alla
predisposizione della moneta unica. Nel momento
in cui l’Unione acquisisce funzioni e caratteristiche
tipicamente statali diventa più pressante la questione su come armonizzare gli standard comunemente accettati di governance democratica, con il
trasferimento di prerogative nazionali verso il livello europeo (Rittberger 2003, 3). Era inimmaginabile, sottolinea Höreth (1998, 9), che l’acquisizione
da parte dell’Ue, di competenze rappresentanti il
fulcro della sovranità statuale potesse continuare
ad essere legittimato indirettamente.
Si avverte, ad un certo punto, la necessità di un
maggiore coinvolgimento dei parlamenti nazionali, di una ripartizione più equilibrata dei poteri tra
le istituzioni sopranazionali, nonché di un sostegno popolare diretto. Sostegno che tuttavia tarda a
realizzarsi, come dimostrano la crisi aperta in occasione della ratifica del Trattato sull’Unione
Europea o, per arrivare ai nostri giorni, le difficoltà
a ratificare il Progetto di Trattato per una
Costituzione Europea rappresentate dai “no” di
Francia ed Olanda in occasione dei referendum
sulla Costituzione svoltesi rispettivamente il 29
maggio e il 1 giungo 2005.
Dobbiamo tuttavia ricordare che vi sono diverse
interpretazioni della crisi aperta a Maastricht.
Infatti, ad autori che vi leggono una crisi di legitti-
120
mità si affiancano autori, tra cui Peterson, che
riconducono la difficile ratifica del trattato a problematiche più prettamente "quotidiane" quali:
«gli effetti impopolari delle politiche di austerità
necessarie per rispettare i parametri legati alla realizzazione dell’unione monetaria; le conseguenze
che l’allargamento ad est avrebbe provocato, con
la relativa riduzione dei fondi strutturali; l’incapacità dell’Unione (…) di affrontare in maniera efficace la crisi della mucca pazza» (Panebianco 2005,
93). Per questi autori, quindi, la crisi aperta nel
1992 va letta come una contestazione del modo in
cui veniva condotto il processo di costruzione
europea, non tanto come un ammonimento a colmare le lacune democratiche dell’Unione.
In linea con quest’ultima declinazione, l’analisi di
Pasquino (2000, 7) legge il deficit democratico
attraverso la discrepanza tra la partecipazione elettorale alle elezioni nazionali e a quelle europee,
ovvero, in termini di partecipazione ed influenza
dei cittadini medesimi. Secondo l’autore, sono due
i requisiti minimi che un’istituzione deve rispettare per essere considerata accettabilmente democratica: l’elettività e la responsabilità. Requisiti che,
seppur presenti, non pregiudicano «eventuali valutazioni qualitative, ad esempio, democratico, ma di
bassa qualità, ovvero deficitario» (Pasquino 2000,
7). Applicando questi due criteri alle principali istituzioni comunitarie – Parlamento, Commissione e
Consiglio dei ministri – solo il primo sembra,
almeno formalmente, rispettarli. Come si spiegano
allora le critiche mosse da alcuni autori al Pe?
Come conciliare l’elettività del legislativo sopranazionale con le tesi che lo vogliono deficitario?
Pasquino prova a superare tale contraddizione
facendo derivare il deficit dalla natura nazionale
delle elezioni europee e dalla disaffezione che
sempre più i cittadini dimostrano in occasione del
rinnovo del corpo legislativo (Pasquino 2000, 8).
Quella che potrebbe sembrare una contraddizione
rispecchia la realtà dei fatti: non solo, sottolinea
l’autore, in occasione delle elezioni sopranazionali
si contrappongono liste di partiti nazionali su scala
nazionale, ma anche le tematiche sottoposte agli
elettori non sono davvero europee. Le elezioni
europee finiscono così per fungere da "banco di
prova" per testare il consenso o il dissenso nei
Silvia Bedin
confronti dei politici nazionali. Si può così spiegare come l’aumento dei poteri del Parlamento europeo sia stato accompagnato da una crescente disaffezione che si è poi riflessa in una crescente diminuzione della partecipazione alle elezioni. I progressi realizzati, la sua maggiore influenza sul processo legislativo ed il controllo delle altre istituzioni non sono stati quindi sufficienti a far crescere
l’interesse per il Pe e per la sua elezione che rimane nell’immaginario collettivo, un’istituzione
secondaria e non rilevante.
Le carenze democratiche del Parlamento europeo
sarebbero quindi, sulla base di quanto fin qui affermato, imputabili ai partiti e alla loro scarsa capacità di offerta e di attrazione, giustificata tenendo
presente che il loro interesse è per la politica
nazionale piuttosto che per quella europea. A corroborare quanto fin qui affermato è la constatazione della mancata nascita di veri e propri partiti
transnazionali europei che rispecchia come schemi interpretativi e sistemi di appartenenza, tanto
della classe dirigente quanto del cittadino medio,
siano ancora nazionali.
Tuttavia Pasquino introduce una nota di ottimismo
e di speranza per il futuro nel momento in cui
ricorda come «…il Parlamento Europeo, per quanto possa apparire democraticamente deficitario,
(…) ha acquisito maggiore potere politico rispetto alle altre istituzioni e maggiore legittimità democratica da parte dei cittadini attraverso la sua elezione popolare diretta» (Pasquino 2000, 9). Inoltre,
«è possibile e persino probabile che quanto più il
luogo delle decisioni politicamente rilevanti si sposti dai livelli nazionali al livello europeo tanto più
gli stessi partiti nazionali si rendano conto della
necessità di spostare le loro risorse a quel livello e
quindi di mobilitare i loro elettori su tematiche
europee, nel frattempo diventate più comprensibili per i loro elettori e ancora più influenti sulla loro
vita quotidiana» (Pasquino 2000, 9).
Adottare un’interpretazione che legge nella poca
legittimazione del Parlamento, a sua volta determinata dalla bassa percentuale di elettori che concorrono a inviare i loro rappresentanti a Bruxelles e
nel poco potere politico effettivo (Pasquino 2000,
8), le principali cause del deficit dell’Unione europea, porta a privilegiare quali possibili vie di uscita
Il deficit democratico dell’Unione europea
quelle riforme istituzionali che consolidano il legame tra cittadini ed istituzioni. Consolidamento
che, seguendo un’impostazione parlamentarista,
trova una risposta al deficit nel rafforzamento del
ruolo del Parlamento. Riconoscendo al legislativo
sopranazionale il diritto di dare vita all’esecutivo e,
perché no?, di scegliere la squadra di governo tra i
parlamentari stessi, si rafforzerebbe la sua funzione di controllo dell’esecutivo e, al contempo, si
accentuerebbe l’importanza delle elezioni europee
con il risultato di attribuire loro una forza ed un
significato propri, rimediando alla sensazione che
esse non siano altro che mero terreno di scontro
tra le forze politiche nazionali. Viceversa la proposta di riconoscere ai cittadini il diritto di eleggere
direttamente l’esecutivo risponde ad una logica
presidenzialista e permette di perseguire contemporaneamente due obiettivi: il maggior coinvolgimento degli elettori e la rivitalizzazione dei partiti.
L’eventuale futura elezione diretta della
Commissione europea incentiverebbe inoltre la
costruzione democratica di una leadership politica
che, puntando alla rielezione, sarebbe favorevolmente propensa a perseguire interessi e preferenze degli elettori nonché a rendere conto del proprio operato, aumentando così la sua accountability (Pasquino 2000, 16); anche se, in questo contesto, sembra più opportuno paralare, di responsability, definita da Pellizzoni, quale dovere e capacità di rispondere, ma anche quale possibilità di
attribuire un’azione al suo agente (citato in Gelli
2006, 16).
Riassumendo, la soluzione prospettata passa per
una politicizzazione tanto della Commissione
quanto, del Parlamento, spesso accusati di privilegiare, quale modus operandi, la ricerca del consenso che differisce dall’esperienza nazionale del
conflitto.
Secondo Caporaso invece, le radici del deficit
democratico andrebbero ricercate nello squilibrio
tra istituzioni legislative e governative, tanto a livello europeo quanto nazionale. Se da un lato, il trasferimento di nuove competenze decisionali a
Bruxelles ha determinato una perdita di potere
decisionale dei parlamenti nazionali, rafforzando il
potere degli esecutivi, dall’altro non c’è stato un
rafforzamento del Parlamento europeo sufficiente
121
n.16 / 2006
e proporzionale al trasferimento del potere decisionale o, nelle parole di Williams, «la perdita di
accountability verso i parlamenti nazionali non è
stata compensata dall’aumento di accountability
verso il Parlamento europeo» (Caporaso 2004, 81).
Infine, la percezione collettiva di un Parlamento
sovranazionale e delle relative elezioni, quali
secondari, non rilevanti ed ininfluenti giustificano
la crescente disaffezione ed apatia che i cittadini
europei dimostrano nei confronti delle istituzioni
sovranazionali.
Tecnocrazia, mancanza di legittimità democratica
e squilibro istituzionale, delle analisi proposte,
informano d’altraparte la chiave di lettura che la
stessa Unione, nel suo sito internet, propone: «Il
deficit democratico è una nozione invocata principalmente per sostenere che l'Unione europea e le
sue istanze soffrono di una mancanza di legittimità
democratica e sembrano inaccessibili al cittadino a
causa della complessità del loro funzionamento. Il
deficit democratico rispecchia la percezione
secondo cui il sistema istituzionale comunitario
sarebbe dominato da un'istituzione che cumula
poteri legislativi e di governo, il Consiglio
dell'Unione europea, e da un'istituzione burocratica e tecnocratica che non ha un'effettiva legittimità democratica, la Commissione europea»
(www.europa.eu.int).
La letteratura sul deficit non si esaurisce tuttavia
nella valutazione della dimensione tecnocratica o
in quella della mancata legittimità democratica;
essa propone, infatti, quali ulteriori e complementari chiavi interpretative: la mancanza, a livello
nazionale, di un dibattito sull’Unione e, a livello
europeo, la mancanza di politics, rilevata da
Schmidt, infine, la mancanza di cultura politica
democratica, rilevata da Weiler.
Dalla mancanza di una classe politica europea
discende, nelle riflessioni di Schmidt (2003), l’impossibilità di sanzionare i leaders sovranazionali
per il loro operato, continuando così a giudicare
gli eletti nazionali anche in relazione a materie
sulle quali non esercitano più alcun controllo. A
ciò si aggiunge il rischio di una crescente de-politicizzazione e di un decrescente coinvolgimento dei
cittadini nella politica, quali conseguenze delle
tematiche su cui si realizza lo scontro elettorale a
122
livello nazionale ed europeo: mentre le elezioni
nazionali si focalizzano su tematiche risolvibili solo
attraverso un coordinamento sopranazionale –
quali, l’immigrazione, la crescita economica, la
sicurezza alimentare – le elezioni europee, tendono a focalizzarsi su issues che possono essere risolte solo a livello nazionale dagli attori statuali quali
le riforme istituzionali. I cittadini si trovano così ad
esprimere le loro preferenze su questioni che poi
saranno trattate ad un livello diverso da quello per
il quale hanno votato. D’altra parte l’incomprensione dei cittadini circa l’impatto che Unione ha
sul funzionamento delle loro democrazie deriva
dalla mancanza di un dibattito sui cambiamenti
prodotti dall’integrazione europea. I leaders nazionali hanno infatti preferito enfatizzare l’idea tradizionale di una democrazia nazionale, piuttosto che
riconoscere i cambiamenti prodotti dall’integrazione e ridefinire il concetto e le pratiche della democrazia medesima.
La crisi democratica che tanto l’Unione quanto i
suoi membri stanno vivendo è invece, nell’analisi di
Weiler, imputabile ad una crisi di cultura piuttosto
che di istituzioni. Detto altrimenti, la mancanza di
una cultura politica democratica è più rilevante di
assetti e procedure istituzionali. In un contesto
quale quello europeo, dove vi è un Parlamento cresciuto «senza acquisire l’abitudine al potere democratico, soprattutto in relazione alla funzione di
controllo sull’esecutivo» (Weiler 2001, 60), e dove,
per molti anni, si è soprasseduto all’importanza di
trasparenza, rappresentatività ed accountability, si
è realizzato quello che Weiler definisce il "paradosso del successo". Il conseguimento di successi e la
realizzazione di finalità importanti diventano fonti
di legittimazione, «malgrado il fatto che la legittimazione tramite il processo e il discorso politico
democratico sia così scarsa» (Weiler 2001, 64), disincentivando al contempo una legittimazione fondata sulla partecipazione.
Tale ricchezza, ma al contempo complessità concettuale si compone poi dei contributi di coloro
che, partendo dall’ipotesi secondo cui l’Unione
sarebbe una democrazia potenziale, sostengono
come essa sia affetta da un deficit di democraticità
piuttosto che di democrazia, considerando le
carenze della stessa come limiti di un sistema poli-
Silvia Bedin
tico ancora incompiuto piuttosto che componenti
congenite dello stesso. Di tale avviso Pasquino:
«…per coloro che ritengono che l’esistenza del
deficit democratico dell’Unione Europea venga
eccessivamente e inopportunamente enfatizzata, il
circuito [istituzionale] non è affatto privo di potenzialità e neppure di effettività democratica. Al contrario, configura un assetto complessivo che consente rappresentanza e decisionalità, controllo e
responsabilità tutt’altro che limitate e disprezzabili, in special modo in un sistema politico che rimane incompiuto. In questa prospettiva, se di deficit
democratico è utile continuare a parlare, allora
bisogna farlo sapendo che il termine non indica
affatto assenza di democrazia, ma segnala i limiti
della democrazia esistente a livello europeo»
(Pasquino 2000, 15).
Richiamando i ragionamenti iniziali, ricordiamo
come l’analisi di una democrazia consti di due
diversi steps: l’accertamento che un dato regime
sia effettivamente democratico e la successiva valutazione della qualità democratica dello stesso.
Quest’ultima fase di controllo circa la "bontà
democratica" di un regime riguarda quindi solo
quelle democrazie che, in base alla definizione
minima di Morlino, si caratterizzano per essere tali,
laddove cioè siano presenti e garantiti suffragio
universale, elezioni libere e ricorrenti, più di un
partito, pluralità delle fonti di informazione. Solo
per questi regimi si procederà ad analizzare lo stadio di realizzazione dei due principi fondanti una
democrazia ideale: libertà ed eguaglianza. «Una
buona democrazia ovvero una democrazia di qualità [è infatti] quell’assetto istituzionale stabile che
attraverso istituzioni e meccanismi correttamente
funzionanti realizza libertà ed uguaglianza dei cittadini» (Morlino 2003, 228). Ne deduciamo che
possiamo attribuire la qualificazione di "buona
democrazia" a quel regime che:
•sia ampiamente legittimato e generi soddisfazione;
•garantisca libertà ed uguaglianza per i cittadini;
•consenta ai governati di controllare come, e in che
misura, libertà ed uguaglianza siano perseguite e realizzate, ma che consenta anche di monitorare l’applicazione delle norme vigenti, nonché di permettere ai cittadini di valutare la responsabilità degli eletti
in relazione alle decisioni e alle scelte compiute.
Il deficit democratico dell’Unione europea
La misurazione della qualità democratica o, democraticità, ci riconduce quindi al tema dell’ideale
democratico e alla tensione verso quest’ultimo.
In controtendenza rispetto agli autori analizzati,
Moravcsik non condivide né l’eccezionalità riconosciuta all’Unione europea – al pari delle classiche
organizzazioni internazionali, sarebbe quindi
dominata dagli Stati membri – né le accuse di essere non-democratica. La distanza tra i cittadini e
l’Unione, come la mancanza di un background
storico, culturale e simbolico comune – riconducibili l’una alla natura dell’Unione quale organization of continental scope, l’altra alla sua multinazionalità – non sono giustificazioni sufficienti a
qualificarla come non legittimata democraticamente (Moravcsik 2002, 604). Il sistema di pesi e contrappesi garantito dai trattati, la legittimità indiretta derivante dagli Stati membri nonché gli aumentati poteri del Parlamento europeo sarebbero, a
detta dell’autore, elementi sufficienti a garantire
trasparenza, chiarezza ed efficienza del policymaking europeo. D’altra parte, la natura ancora
prettamente intergovernativa dell’Unione fa sì che
siano gli esecutivi degli Stati membri, e non le elezioni sopranazionali, ad assicurare l’accountability
democratica all’Ue. «Se tutte le decisioni chiave
sono in mano agli esecutivi nazionali e [quest’ultimi] sono eletti democraticamente e democraticamente responsabili verso i propri cittadini, allora il
Consiglio dei ministri dell’Unione europea e il
Consiglio europeo sono luoghi dove la rappresentanza politica è assicurata in maniera sostanziale»
(Giraudi 2005, 36). Secondo Moravcsik, l’accusa di
mancata legittimazione democratica deriverebbe
quindi, da un lato, dalla tendenza di studiare l’Ue
comparandola ad un modello ideale, cioè astratto,
di democrazia; dall’altro, sempre Moravcsik,
sostiene con Sharpf, come essa celi scetticismo e
preoccupazione per una Europa attenta solo alle
dinamiche di mercato ma che presta scarsa attenzione alle politiche sociali, disattendendo così uno
degli elementi basilari di una polity democratica,
l’equilibrio tra mercato e protezione sociale
(Moravcsik 2002, 617). Laddove, per polity intendiamo la dimensione territoriale dei confini, della
comunità politica e delle sue norme.
Neppure limiti e debolezza delle elezioni europee,
123
n.16 / 2006
seppur riconosciuti dallo stesso Moravcsik, sono
letti dall’autore quali fattori di deficit. Dal momento che «l’attività legislativa e regolativa dell’Unione
europea è inversamente correlata con la salienza
delle issues nelle menti degli elettori europei, qualsiasi sforzo volto a espandere la partecipazione è
improbabile che riesca a superare l’apatia»
(Giraudi 2005, 37). L’interesse degli elettori per
tasse e metodi di spesa del denaro pubblico, prerogative dello Stato e non dell’Unione, spiegherebbero così la disaffezione verso le elezioni sopranazionali. Secondo l’autore, tuttavia, l’irrilevanza o,
altrimenti detto, la mancanza di salienza politica
dell’Ue, ha dei risvolti positivi «[nel]l’isolamento
del policy-making comunitario dai contesti di confronto politico maggioritario che caratterizzano le
democrazie nazionali. Grazie a questo isolamento
l’Unione europea sarebbe in grado di proteggere e
promuovere interessi di minoranza che altrimenti
verrebbero cancellati da una competizione politica
maggioritaria (…)» (Giraudi 2005,37). Adottando
l’approccio di Moravcsik si arriva non solo a negare l’esistenza del deficit, ma anche ad affermare
che «l’Unione europea può essere più rappresentativa proprio perché è, in senso stretto, meno
democratica» (Giraudi 2005, 38).
Possiamo giungere alla stessa conclusione, in termini di insussistenza del deficit, anche partendo da
un diverso approccio: l’approccio della regolazione di Majone, in base al quale l’Unione europea
deve essere concepita, sottolinea l’autore, «come
uno Stato regolatore, cioè come una struttura istituzionale dotata di autonomia dedita esclusivamente a fronteggiare i fallimenti dei mercati nazionali» (Giraudi 2005, 38). Diversamente dagli Stati
che la compongo l’Unione si è specializzata, anche
e soprattutto in ragione del bilancio limitato e
della mancata funzione impositiva, nella produzione di politiche regolative il cui fine non è l’equità
sociale, ma la produzione di situazioni ottimali
«cioè di situazioni nelle quali l’incremento del
benessere di uno o più parti non determina una
diminuzione del benessere di nessun altro attore»
(Giraudi 2005, 39).
Si potrebbe obbiettare a Majone che la principale
politica comunitaria, la Politica agricola comune, è
una politica distributiva e non regolativa.
124
Caratteristiche degli interventi regolativi sono: la
stabilità nel tempo delle soluzioni approntate, evitando cioè che siano condizionate dalle tornate
elettorali, e la natura di esperto indipendente del
regolatore che è quindi sottratto dalle dinamiche
conflittuali che caratterizzano la politica partitica.
In quest’ottica, il deficit verrebbe ridimensionato
nella misura in cui, secondo Majone, «il policymaking comunitario non deve essere democratico, o almeno non lo deve essere nei termini usuali nei quali questo concetto è normalmente inteso»
(Giraudi 2005, 40). Infatti, nel momento in cui la
produzione degli interventi regolativi fosse affidata
ad istituzioni maggioritarie (vedasi il Parlamento
europeo), diventerebbe uno strumento in mano
della maggioranza di turno per il perseguimento di
obiettivi particolaristici di breve periodo in vista
della rielezione. «La politicizzazione dell’Unione
europea [scrive Majone] di fatto rischierebbe di
distruggere, invece che aumentare, la legittimità
della stessa Unione» (citato in Giraudi 2005, 40).
Le declinazioni fin qui proposte possono essere
ricondotte all’approccio di politics che privilegia,
quali elementi di analisi, il comportamento elettorale, il sistema partitico ed il comportamento di
specifiche istituzioni, richiamando quindi all’attività che ha a che fare con il potere e con la lotta per
la conquista dello stesso. Da tale prospettiva non è
difficile arrivare alla conclusione secondo cui
l’Unione europea, il cui funzionamento diverge da
quello degli Stati nazionali, non possa essere equiparata alla democrazia convenzionalmente intesa,
risultando sotto questo profilo, deficitaria.
Dove stanno in tutto ciò le policies? Qual è, rifacendoci al titolo del presente lavoro, il loro ruolo
nel deficit democratico? Prendendo ad esempio
tre delle politiche comunitarie più rilevanti, la politica agricola comune (PAC), i fondi strutturali (FS)
e la politica dell’allargamento, l’ipotesi interpretativa proposta legge le politiche pubbliche quali
“specchio ed anima” delle necessità contingenti
nonché quali vettori, a seconda del contesto, di
approfondimento e/o di attenuazione del deficit.
Ricordiamo, prima di proseguire nel ragionamento, come il concetto di policy si presti ad una pluralità di accezioni. Le politiche pubbliche possono
infatti essere intese: o quale mero risultato della
Silvia Bedin
competizione elettorale, nella convinzione che la
politica faccia le politiche, cioè in una prospettiva
di politics; oppure possono essere declinate, alla
Wildavsky, «una politica è sia un prodotto che un
processo» (Crosta 2006, 3); o alla Giuliani, «le politiche non sono "solo" intenzionalità, non coincidono con gli outputs decisionali, dovendosi comprendere in esse anche gli effetti imprevisti delle
azioni intenzionali» (Giuliani 1996, 319).
Declinazioni quest’ultime che ci portano a considerare l’implementazione delle politiche pubbliche non come una mera esecuzione di decisioni
prese dall’alto ma, come sostiene Lewanski quale
«insieme di processi complessi a cui prende parte
una molteplicità di attori istituzionali e "sociali"
destinatari delle politiche (…). I destinatari non
recepiscono passivamente le politiche, ma interagiscono, esercitano pressioni sia sugli stessi esecutori che sui decisori affinché a loro volta mutino le
politiche o introducano deroghe, eccezioni (…)»
(Capano 1996, 186). La fase d’implementazione va
quindi considerata più che un prodotto, un processo caratterizzato da aggiustamenti ed adattamenti continui, un momento di coinvolgimento e
mobilitazione di attori, territori, conoscenze e
saperi, un momento di ridefinizione e di aggiustamento dell’intervento medesimo secondo processi di apprendimento.
Tipica politica distributiva la PAC nasce dall’esigenza di tutelare il settore agricolo che nell’Europa del
dopoguerra occupava circa il 25% della popolazione, e dalla consapevolezza che esso, lasciato alle
leggi del mercato, non sarebbe riuscito a seguire
l’espansione generale dell’economia. Tre sono le
caratteristiche fondamentali dell’intervento distributivo: l’asimmetria tra benefici e costi che rende
facilmente individuabili i destinatari di sussidi e
trasferimenti monetari senza che vi sia una esplicita sottrazione di risorse a carico di un altro gruppo
sociale; la rilevanza attribuita alla creazione delle
condizioni ottimali per accaparrarsi il beneficio,
che diventa il vero problema “politico”; la proliferazione di siffatti interventi in contesti istituzionali
poco trasparenti e frammentati nei quali è difficile
individuare chi è responsabile della decisione.
Scarsa conflittualità, opacità e mancanza di
accountability caratterizzano quindi le politiche
Il deficit democratico dell’Unione europea
distributive e con esse la PAC, ma richiamando i
ragionamenti sopraccitati sono anche le principali
accuse mosse all’Unione europea nonché le cause
del deficit democratico. In tal senso possiamo
affermare come la politica agricola europea rispecchi e perpetui il deficit medesimo, ma anche come
essa sia veicolo di uno specifico volto dell’integrazione e di una peculiare visione dell’Unione europea ovvero, di un’integrazione imposta dall’alto ed
attenta a soddisfare forti interessi peculiari e di
un’Europa dispensatrice di sussidi.
Diversamente dall’intervento distributivo, quello
redistributivo, tra cui possiamo annoverare i fondi
strutturali e le politiche per l’allargamento, si connota per un evidente trasferimento di risorse tra
gruppi sociali consapevoli. Mobilitando risorse, ma
al contempo valori – quali l’equità, la solidarietà, la
coesione economica, sociale e territoriale – tali
politiche possono essere fonte di conflitti e suscitano una maggiore sensibilità nell’opinione pubblica.
Sebbene già il preambolo del Trattato di Roma
enunciasse tra i compiti della Comunità la promozione di uno sviluppo armonioso, equilibrato e
sostenibile è solo negli anni ’70, acquisita la consapevolezza che i persistenti divari in termini di sviluppo tra le regioni della Comunità potevano ostacolare il processo d’integrazione economica, che
vengono introdotti i primi interventi strutturali.
Inizialmente pensati quali strumenti per favorire
uno sviluppo armonioso delle attività economiche,
i fondi struttali hanno contribuito, e contribuiscono tuttora, a connotare di un “volto sociale” il processo d’integrazione. Interessante notare come
politica regionale e fondi strutturali vengano introdotti nel meccanismo integrativo negli anni in cui
gli effetti distorsivi della PAC, in termini di eccedenze e aumento delle spese agricole, contribuiscono a creare malumori ed opposizioni alla politica agricola medesima. Fatto quest’ultimo che, può
essere ricondotto (richiamando la spiegazione di
Ferrera) ad « una “crisi di politica pubblica”: ossia
[ad] acuti scollamenti fra nuovi bisogni e vecchi
programmi... In tali casi, lo status quo distributivo
non è più sostenibile e occorre definire nuove
regole stabilendo chiaramente che guadagna e chi
paga» (Capano 1996, 326).
A partire quindi dagli anni ’70, con l’istituzione del
125
n.16 / 2006
Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), fino
ad arrivare agli anni ’90, con l’affermazione dei
principi di coesione e di sussidiarietà, l’Unione
dedica una maggiore attenzione al territorio e ai
suoi attori perseguendo contemporaneamente più
obiettivi: sussidiarietà, democrazia locale, sviluppo
armonioso ed equilibrato. Contribuiscono al perseguimento degli obiettivi enunciati, anche i
Programmi di iniziativa comunitaria, cui è destinato parte del bilancio dei fondi strutturali. Concepiti
quali vettori di uno sviluppo endogeno dei territori, promuovono una partecipazione dal basso
attraverso il coinvolgimento degli attori locali
riuniti in partenariati pubblici-privati e sostengono
la creazione di reti e di relazioni informali attraverso le quali condividere e trasmettere esperienze e
conoscenze. Tali programmi ben evidenziano la
natura bi-direzionale del processo di europeizzazione innescando processi di apprendimento, di
ridefinzione e di adattamento del modus operandi nazionale a partire dalle direttive europee, e
promovendo la partecipazione degli attori locali,
beneficiari e destinatari del programma, attori che
conoscendo esigenze e peculiarità del territorio
trasformano indicazioni generiche e tecniche in
interventi concreti, producendo un feedback in
termini di conoscenza ed esperienza verso il livello sopranazionale. Volendo riprodurre graficamente i processi così innescati potremmo immaginare
flussi discendenti che si intrecciano con flussi
ascendenti creando un continuum.
In continuità con gli obiettivi di territorializzazione, democratizzazione e sussidiarietà vanno letti
gli interventi di soft-governance, che si propongono come alternativi al metodo comunitario caratterizzandosi per «experimentation and knowledge
creation, flexibility and revisability of normative
and policy standards, and diversity and decentralisation leaving final policy-making to the lo west
possible level» (Smismans 2005, 3). Introdotto dal
Consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000,
l’Open Method of Coordination (OMC) viene portato come esempio di intervento soft. Finalizzato a
rafforzare la cooperazione tra gli Stati membri
facendo convergere le diverse politiche nazionali
su alcuni obiettivi condivisi, l’OMC si basa principalmente sulla definizione comune di una serie di
126
obiettivi da raggiungere, sull’individuazione degli
strumenti necessari per la misurazione dei risultati
(statistiche, indicatori) e per la verifica dell’evoluzione verso gli obiettivi prefissati, nonché sulla
messa a punto di strumenti comparativi per favorire l’innovazione e la qualità degli interventi (diffusione di “buone pratiche”, progetti pilota, etc.).
Così se il classico metodo comunitario, basato sul
riconoscimento alla Commissione del diritto esclusivo dell’iniziativa legislativa e sui poteri legislativi
di Parlamento e Consiglio dei ministri, viene identificato quale old mode of governance nonché
espressione di hard law, l’OMC viene apportato
quale esempio di new modes of governance ed
espressione di soft law. I sostenitori degli interventi soft law evidenziano come l’assenza di «obligation, uniformity, justifiability, sanctions» che li
caratterizza, presenti innumerevoli vantaggi in termini di flessibilità, di ‘tolleranza’ di fronte alle differenze che contraddistinguono gli Stati membri
nonché di maggiore capacità di affrontare situazioni di incertezza che richiedono aggiustamenti e
sperimentazioni continue. Sebbene il dibattito
sulle nuove forme di governance ne enfatizzi le
potenzialità democratizzanti, in termini di maggiore partecipazione ed inclusione degli attori,
Smismans non condivide totalmente questo entusiasmo infatti, «although there are some signs of
civil society involvement in the OMC (…) the
dominant picture remains one of a narrow, opaque and technocratic process involving high
domestic civil servants and EU officials in a closes
policy network, rather than a broad transparent
process of public deliberation and decisionmaking, open to the participation of all those with
a stake in the outcome» (Smismans 2005, 14).
L’introduzione di politiche redistributive e di
nuove forme di governance, sembrerebbe dunque
giocare un ruolo determinante nell’attenuazione
del deficit democratico nella misura in cui si favorisce un’integrazione dal basso e si mobilitano
nuovi attori e territori. In realtà, politica regionale,
fondi strutturali e politica dell’allargamento, contribuiscono a connotare per una maggiore complessità le politiche pubbliche europee, piuttosto
che a risolvere in via definitiva le lacune democratiche dell’Unione. Infatti, se da un lato li possiamo
Silvia Bedin
qualificare quali interventi redistributivi, dall’altro
non possiamo dimenticarne la componente regolativa, le cui peculiarità corroborano le tesi secondo cui le policies comunitarie esprimerebbero e
aggraverebbero il deficit dell’Unione. Caratteristica
fondamentale delle politiche regolative è il porre
in essere degli interventi e delle misure che intenzionalmente vadano a modificare il, e ad incidere
sul comportamento dei singoli attori. Pensiamo ai
criteri di Copenaghen adottati nel 1993 per valutare le possibilità d’ingresso di nuovi paesi
nell’Unione proprio attraverso il soddisfacimento
di condizioni economiche, politiche e dell’acquis,
in cui gli stessi sono ripartiti, non vanno forse essi
ad incidere sul comportamento dei singoli paesi
candidati che, al fine di “guadagnare” l’accesso
nell’Ue, devono porre in essere un’economia di
mercato funzionante, istituzioni democratiche,
nonché garantire il rispetto dei diritti umani e delle
minoranze? Gli interventi regolativi si basano dunque sull’imposizione di parametri di riferimento e
standard validi erga omnes, la cui definizione può
richiedere una conoscenza tecnica, puntuale ed
esperta; ma essi vanno anche ad incidere e ad
influenzare sistemi di valori, sollevando non pochi
problemi di legittimità democratica dal momento
che la politica regolativa è spesso affidata ad esperti non eletti.
Riassumendo, Radaelli sottolinea come la «conoscenza intervenga nella formazione delle politiche
pubbliche [europee] in virtù della presenza di
esperti e comunità epistemiche e dell’imprenditorialità della Commissione europea, un’organizzazione che ha come sua principale risorsa proprio la
conoscenza. (…) La dimensione cognitiva della
politica ha tuttavia anche un lato oscuro: il suo
nome è tecnocrazia. Non sorprenderà, a questo
proposito, che politiche gestite da esperti e
imprenditori di policy non elettivi finiscano sotto
accusa per prime. Mentre la democrazia è basata
su consenso, libere elezioni e partecipazione, la
tecnocrazia attribuisce all’expertise il ruolo di
unico fondamento dell’autorità e del potere»
(Radaelli 1999, 518). Capiamo così le ragioni di
coloro che imputano alle stesse politiche pubbliche comunitarie un deficit di democrazia; tuttavia,
attraverso gli esempi proposti si avanza l’invito di
Il deficit democratico dell’Unione europea
guardare alle policies europee come a realtà complesse e multisfaccettate che potrebbero contenere potenzialità, oggi nascoste, di attenuazione
delle lacune democratiche dell’Unione.
Confrontandosi con il problema del deficit emergono una molteplicità di scenari, di interstizi e di
spazi per l’analisi e l’approfondimento, ma anche
per la rivisitazione di modelli e costrutti analitici in
nostro possesso. Rivisitazione che può o potrebbe
portare ad inventare e ad immaginare nuovi orizzonti concettuali. Un esempio? Partendo dal presupposto secondo cui la democrazia è un prodotto della storia ed un processo, quindi un projet
inachevé, si deve riconoscere la necessità di un
approccio empirico allo studio della stessa.
Laddove per projet inachevé si intende, nell’interpretazione del Consiglio d’Europa un progetto
incompiuto in costante evoluzione, non riconducibile ad un modello specifico o predefinito in quanto espressione di un insieme di valori e di principi
che interagiscono di volta in volta in modo differente, dando vita ad esiti diversi e per questo non
definibili ex-ante. In sintesi un progetto in tensione verso un modello ideale, che però va di volta in
volta contestualizzato e calato nelle realtà peculiari. La definizione di democrazia di conseguenza
non può che essere posteriore alla ricerca e allo
studio di caso.
Date tali premesse, perché non studiare la democrazia a partire dalle politiche pubbliche, andando
ad analizzare ed osservare come si producono partecipazione e apprendimento, come sono gestite
le conseguenze inattese, come si svolge la fase dell’implementazione delle politiche stesse?
Lo studio del deficit apre poi ad una serie di quesiti, qui non affrontati, ma comunque complementari al problema: nonostante, o sebbene, la proliferazione degli studi sul deficit, siamo sicuri che si
tratti di un problema veramente sentito dai cittadini europei? O dovremmo piuttosto considerarlo
un’invenzione di accademici ed intellettuali?
Siamo sicuri che la retorica che spesso accompagna i dibattiti sul deficit non sia funzionale alle
remore di politici poco lungimiranti che vedono
nelle presunte lacune dell’Unione una sorta di
baluardo difensivo per procrastinare la delega
all’Unione di nuove competenze?
127
n.16 / 2006
A fronte dei cambiamenti e delle sfide poste dalla
globalizzazione e dalla crescente interdipendenza
mondiale, siamo sicuri che la partecipazione, quale
unica fonte di legittimazione, sia ancora attuale o
quanto meno sufficiente? Data l’impossibilità per i
cittadini di influenzare l’azione dei governi su problemi che loro stessi non riescono più ad affrontare e la cui gestione viene delegata ad istituzioni
sopranazionali, non sarebbe forse più opportuno
ricercare e potenziare fonti di legittimazione alternative? Perché non considerare il deficit in riferimento alle aspettative dei cittadini? Se questi ultimi sono abituati a ragionare in termini di rappresentanza nazionale, e se comunque non sembrano
insoddisfatti delle istituzioni europee che essi
hanno (a parte la volontà di andare con i piedi di
piombo negli allargamenti successivi), perché non
interpretare la responsiveness in riferimento a queste aspettative e non soltanto in riferimento al concetto generale e astratto della rappresentatività?
Perché non pensare che si possa parlare di deficit
di rappresentatività solo laddove sia soggettivamente percepito dai cittadini e non che se ne
debba o possa parlare solo perché oggettivamente
non ritroviamo nel sistema politico sovranazionale
quell’iniezione di legittimità che le elezioni nazionali garantiscono alle istituzioni statali?
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lis81@libero.it
Silvia Bedin è dottore magistrale in Politiche
dell’Unione Europea.