n° 58 aprile 2014

Bollettino informativo non periodico della Comunità Cristiana di base di Chieri - Distribuzione gratuita - Stampato c/o Reprograf di Cocco Bruno Corso Casale 123 Torino (To) aprile 2014
Foglio d’informazione della Comunità Cristiana di Base di Chieri
n° 58
esce dal 1989
INCUBI E SOGNI
volta, confesso, faccio fatica a parlare di
Q uesta
politica italiana in senso stretto, anche perché
sinceramente non so più dove andiamo né a che
cosa tendiamo.
Quello che so è che ogni Grande Leader che appaia sulla scena propone il suo Sogno. Per
vent’anni ci siamo abbuffati
del Sogno berlusconiano, un
sogno in verità di plastica e di
burlesque: un milione di posti
di lavoro, godimenti serali da
Maria De Filippi, identificazioni
di maschi vogliosi con il grande Satrapo, di ragazze fisicamente ben dotate con le più
famose Olgettine, facile accesso ai soldi pubblici per privati piaceri da parte di Nominati innominabili e via dicendo.
Anche se di tenore diverso,
anche Grillo ci ha abbagliati
con il suo grande Sogno. Un
sogno di totale palingenesi
morale, verso cui marciare compatti, animo uno et
uno corde, nel segno della Rete e dell’hashtag
rivelatore di verità inconfutabili, verso l’obiettivo
finale della Decrescita felice. A patto però che “tutti
gli altri” – politici, giornalisti, dissidenti, diffidenti
ecc. – la smettano di criticare, anzi di parlare, anzi
fors’anche di respirare.
Adesso si aggiunge a questi il grande Sogno
renziano. Che fosse proprio codesta la “carta vincente” mancante al PD, l’unico grigio partito rimasto senza sogno ma con tante realistiche promesse di “lacrime e sangue”?
Ed ecco il grande e giovine Tosco che promette
sogni a gogò, innamoramenti folli tra giovani ed
istituzioni (i vecchi tacciano e dormano soltanto,
aprile 2014
possibilmente senza sognare alcunché), passioni
ardimentose, frenesie attivistiche e ideali non meglio precisati da realizzare a breve, nel segno di
folgoranti marce calendarizzate su Excel con meticolosa precisione. Nel frattempo c’è qualcuno che
cade, qualcuno che dissente, qualcuno che credeva ma si è dovuto ricredere…qualcuno chi?
A giudicare dai sondaggi, molti Italiani si sentono sempre attratti da uno di questi grandi sogni e
sperano. Altri, per fedeltà, per abitudine o per convinzione ideale, si aggrappano
ancora ai “piccoli partiti”, che
sempre di più pare rivestano il
ruolo di “cespugli” ai piedi della
grande
quercia
o,
all’occorrenza, di “utili idioti”.
Altri ancora – e non pochi –
hanno abbandonato qualsiasi
sogno o convinzione o speranza
e ingrossano le file dei probabili
“renitenti al voto”.
E’ vero che la realtà spesso è
insopportabile e, piuttosto che sogni, fa vivere degli incubi, tanti,
troppi incubi. L’incubo di perdere il
proprio posto di lavoro. L’incubo di
non farcela a lavorare in condizioni
sempre più difficoltose e per un orizzonte temporale
lunghissimo. L’incubo di uscire ogni giorno da casa con
il miraggio di cercare un lavoro che non si trova.
L’incubo di non trovare mai lavoro o di non ritrovarlo
mai più. L’incubo di non riuscire a pagare tasse, mutui,
bollette. L’incubo di non riuscire a tenersi la propria piccola attività artigianale, il proprio negozietto, la piccola
impresa. L’incubo di ammalarsi e di non potersi curare,
di essere sfrattato e di non sapere dove andare a vivere.
Ma proprio questo è il punto. Se la politica non è capace di diradare gli incubi, ha fallito il suo compito e
anche il sogno svanisce.
Intendiamoci: avere un sogno non è affatto
male, anzi! Aiuta a vivere, aiuta a operare nella
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direzione scelta e voluta. Tuttavia…a mio avviso, anche i sogni, quando si incontrano con la
realtà, trovano i loro trampolini di lancio oppure
i loro ostacoli. Il rischio è che si trasformino,
prima o poi, in illusioni, lasciando dietro di loro
vuoto e nebbia, cioè confusione. Certo, realizzare un sogno politico, che riguardi la polis, cioè
la cittadinanza non è facile poiché la realtà sociale è complessa e nessuno ha la bacchetta
magica. Quindi, per prima cosa, io sarei restia
dal credere che un uomo solo, l’Uomo della
Provvidenza, riesca a tanto, comunque egli si
chiami.
Inoltre, sempre a mio avviso, il sogno della
Polis non può riguardare solo pochi privilegiati,
altrimenti rinnega la sua stessa ragione
d’essere: in un periodo in cui, per vari motivi, la
maggioranza della popolazione soffre povertà e
violazione di diritti fondamentali (tra cui il diritto
al lavoro), in alcun modo sono giustificabili pensioni o stipendi d’oro, sprechi di denaro pubblico
per regalie e autogratificazioni, sperequazioni
reddituali intollerabili.
Credo poi che un sogno politico debba fondarsi su valori di onestà, trasparenza e giustizia
sociale, pertanto sono illusorie promesse che
vengono da classi dirigenti o uomini politici che
abbiano già dato ampiamente prova di proteggere comportamenti truffaldini, personaggi equivoci, connivenze similmafiose.
Sono altresì convinta che, in una società democratica, le relazioni a tutti i livelli, a partire
da quello istituzionale (che dovrebbe servire da
esempio e modello), debbano essere improntate
al rispetto reciproco. Che non significa esimersi
dalla critica, anche rigorosa e determinata, ma
dall’insulto facile, dall’invettiva ad effetto,
dall’offesa gratuita e pretestuosa, dalla brutale e
poco fantasiosa battuta razzista o sessista.
Penso ancora che qualche volta forse, più
che farsi la guerra ad oltranza, sarebbe utile riscoprire un minimo di valori e di ideali condivisi
ed operare insieme per realizzare un obiettivo di
bene comune.
Ma forse sto davvero sognando troppo!
Rita Clemente
TEMPLI E PALAZZI
UN SOGNO
Chiudete pure la porta,
non gridate il mio nome.
Me ne resto fuori da solo
sotto questo cielo di presepe
che odora di muschio e cartapesta.
Lo so che dentro siete prostrati
di fronte ai vostri altari:
ostensori, scrigni di preziosi
armadi stipati di sacre teche,
codici, pergamene,miniature,
lasciti, testamenti.
Avete riscattato i vostri compleanni?
Quale profitto dai contratti stipulati?
A quali eredi l’incombenza
del vostro necrologio?
Sento risuonare dall’interno grasse risate,
il ticchettìo della tastiera,
il fruscio di carte e documenti,
il dischiudersi di serrature
e il bip di codici segreti,
il fremito pauroso di ricchezze nascoste
ed il silenzio rabbioso delle povertà subite.
Ascolto il vostro brindisi d’augurio:
sconfiggere la crisi è la priorità.
Di giustizia non se ne parli, è utopia.
Un giorno un farabutto -clown
fece scaturire dalle mani guantate
Una colomba bianca che se ne volò via.
Poi mi sussurrò all’orecchio:
“il re è nudo, smascherato il sacerdote,
fidati di me!”
niente nome o indirizzo
né richiesta di riscatto.
Imbroglione o saggio?
Tenete pure la porta chiusa,
non gridate il mio nome.
Me ne resto fuori da solo:
lasciatemi sognare.
Beppe Ronco
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Che ne sarebbe della Chiesa se fallisse Francesco
di VITO
MANCUSO
la Repubblica 2014
I
n un mondo dove tutto è potere e calcolo, la
figura genuina di questo papa ci fa comprendere che non tutto in noi è potere e calcolo, che c'è
ancora spazio per la gratuità, l'amore sincero, la
volontà di bene per il bene. Il suo fallimento sarebbe la fine della luce che si è accesa
E se papa Francesco fallisse? Non ci sono dubbi che
dietro le aperture riformiste del cardinal Kasper e di
altri cardinali ci sia proprio il Papa, ma che cosa avverrebbe se le riforme auspicate non andassero in porto e
le attese di una nuova primavera si rivelassero solo
illusioni?
Nella relazione al Concistoro straordinario sulla famiglia Kasper ha affermato che "dobbiamo essere onesti
e ammettere che tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti
cristiani si è creato un abisso". Quanto affermato per la
famiglia vale a mio avviso per molti altri ambiti della
dottrina cattolica, anzi io penso
che valga per il concetto stesso di
dottrina, intesa come sistema di
verità stabilite che il credente è
tenuto a professare e su cui vigila
la Congregazione per la Dottrina
della Fede, che prima del 1965 si
chiamava Sacra Congregazione
del Sant'Uffizio e prima del 1908 si
chiamava Sacra Congregazione
della Romana e Universale Inquisizione.
Elencare i molti elementi che rendono l'insegnamento della Chiesa
"lontano dalla realtà e dalla vita"
non è difficile. Oltre alla dottrina
sul matrimonio vi sono la regolazione delle nascite con
il clamoroso fallimento pratico e teorico dell'Humanae
Vitae di Paolo VI, l'identità sessuale e l'omosessualità
al cui riguardo occorre cessare di parlare di malattia
come ancora spesso si fa, il ginepraio della bioetica da
cui non si esce continuando a ripetere solo dei no soprattutto sulla fecondazione assistita, il destino degli
embrioni congelati, la diagnosi degli embrioni prima
dell'impianto, il principio di autodeterminazione a livello
di testamento biologico. Vi sono poi i problemi ecclesiologici che già nel 1987 Hans Küng definiva "noiose
vecchie questioni", cioè la scarsità delle vocazioni sacerdotali e religiose, il celibato del clero, i criteri di nomina dei vescovi, la collegialità come metodo di governo, la questione laicale, la questione femminile, la riforma della curia romana, il rispetto dei diritti umani all'interno della Chiesa (di cui "la tratta delle novizie" denunciata dal Papa è solo un aspetto), la libertà di ricerca in
ambito teologico.
Qui non accenno neppure ai molti problemi
teologici, sia in sede di
teologia fondamentale
sia in sede di teologia
sistematica, che mostrano tutta la fragilità della tanto celebrata dottrina, se
non per dire il problema vero e proprio concerne l'identità del messaggio cristiano, al cui riguardo ci si deve
chiedere: qual è oggi la buona notizia di ciò che viene
detto vangelo?
Penso che questo sia il nodo decisivo e che per scioglierlo occorre alzare la mente e ragionare per secoli.
Se si impara a farlo, si vedrà più lontano, si capirà "che
cosa lo Spirito dice alle chiese" e ci sarà meno paura e
meno pessimismo. Occorre saper vedere infatti non
solo quello che muore, ma anche quello che nasce,
perché a qualcosa che muore si lega sempre qualcosa
che nasce. Che cosa muore? Sant'Agostino diceva che
egli non avrebbe potuto credere al
vangelo se non l'avesse spinto l'autorità della chiesa cattolica (Contra
ep. Man. 5,6: "Ego vero evangelio
non crederem, nisi me catholicae
ecclesiae commoveret auctoritas"),
fondando così il modello della fede
che fa del cristiano un ecclesiastico,
cioè un membro di una struttura di
cui deve accettare la dottrina. Oggi
questo modello sta morendo, l'epoca della fede dogmatico ecclesiastica che implica l'accettazione di una dottrina e di un'autorità
è ormai alla fine perché il metodo
sperimentale della scienza è entrato
anche nella vita spirituale dove ora
il soggetto vuole sperimentare in prima persona, e con
ciò la fede di seconda mano mediata dall'autorità ecclesiastica è superata. Al suo posto sta nascendo un
cristianesimo non-dogmatico che dall'esteriorità dottrinale passa all'interiorità esistenziale, che all'autorità
istituzionale preferisce l'autenticità personale. Il passaggio da Benedetto XVI a Francesco è una manifestazione di questo movimento epocale, così come lo
sono i risultati del sondaggio mondiale commissionato
dal Vaticano che mostrano una grande distanza tra la
dottrina ufficiale e la fede realmente vissuta.
Ne viene che se il cristianesimo vuole tornare a essere
percepito come una buona notizia che risana e rallegra
l'esistenza, e insieme come verità di quel processo che
chiamiamo generalmente mondo, si deve sottoporre a
riforma. La dottrina sulla famiglia è solo il primo inevitabile passo. Se non lo fa, l'esito è segnato dalle parole
di un giovane riportate nelle Conversazioni notturne a
Gerusalemme di Carlo Maria Martini: "Non so che far-
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mene della fede. Non ho nulla in contrario, ma cosa
dovrebbe darmi la Chiesa?". È il pensiero della gran
p a rt e
d e i
g i o va n i
e u ro p e i.
Qualcuno teme che questa riforma possa inquinare
l'identità cristiana. Ma per il cristianesimo la rilevanza è
parte costituiva dell'identità, non qualcosa che viene
dopo. Un'identità irrilevante non può essere un'identità
cristiana, tanto meno cattolica cioè universale. "Voi
siete il sale della terra" (Mt 5,13), "voi siete la luce del
mondo" (Mt 5,14): l'identità cristiana è da subito relazionale, è essere-per, prende senso solo nella relazione, così come il sale ha senso solo in relazione ai cibi
o il lievito alla farina (Mt 13,33: "Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata"). Ne consegue che se viene meno la relazione, viene meno l'identità. Il cristianesimo vive della logica della relazione con
l'alterità e tale logica lo spinge inevitabilmente verso la
riforma, obbedirle non è una concessione al relativismo, è semplicemente un dovere verso il Vangelo.
Ma se papa Francesco non ce la farà? Se non riuscirà
a sanare lo Ior, a rendere il governo della Chiesa cattolica più conforme al volere del Vaticano II, a incidere
sul rapporto con la politica italiana facendo cessare per
sempre la compravendita di favori tra cardinali e ministri troppo sensibili agli interessi della Chiesa, a mettere ordine tra i vescovi e i superiori degli ordini religiosi
richiamando tutti a uno stile di
vita sobrio e conforme ai valori
evangelici, a dare il giusto spazio alle donne a livello di condivisione del potere aprendo al
diaconato e al cardinalato femminili, a riformare la morale sessuale, a impostare su basi nuove il reclutamento e la formazione del clero, a dare finalmente
più libertà alla ricerca teologica?
Se papa Francesco fallisse in
tutto ciò?
Ha scritto qualche giorno fa un
non credente come Eugenio
Scalfari che grazie a Francesco
"Roma è ridiventata la capitale del mondo... Roma, la
città di papa Francesco, è il centro del mondo". Scalfari
parlava ovviamente della leadership spirituale, di cui
l'occidente ha un immenso bisogno per continuare a
credere nei grandi ideali dell'umanità, tradizionalmente
definiti come bene, giustizia, uguaglianza, solidarietà,
fratellanza. In un mondo dove tutto è potere e calcolo,
la figura genuina di questo papa ci fa comprendere che
non tutto in noi è potere e calcolo, che c'è ancora spazio per la gratuità, l'amore sincero, la volontà di bene
per il bene. Il suo fallimento sarebbe la fine della luce
che si è accesa nell'esistenza di tutti gli esseri umani
non ancora rassegnati al cinismo e alla crudeltà della
lotta per l'esistenza, e con Roma che tornerebbe a essere periferia del mondo sarebbe la fine per gli ideali
della spiritualità in occidente. Se lo ricordino i cardinali,
i monsignori e i teologi che stanno facendo di tutto per
bloccare e far fallire l'azione riformatrice di papa Francesco.
C.D.B. Chieri informa
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E se provassimo
ad approvarla?
L
e prossime elezioni amministrative potrebbero cambiare completamente l'assetto
del Comune di Chieri. Sono numerosi i nuovi soggetti politici
che potrebbero introdurre inediti modelli assiologici modificando il volto della città. Un
nuovo consiglio comunale, una nuova giunta e
nuove proposte politiche. Tuttavia, la strada è
ripida ed è tutta in salita.
La campagna elettorale sta iniziando ed è importante oggi come non mai essere maggiormente chiari sulle proposte politiche che si vogliono avanzare per la città. Il Comitato Acqua
Pubblica Chieri ha avanzato negli anni numerose
proposte alla politica locale: poche di queste
proposte sono state accolte ma molte sono cadute nel vuoto. Negli incontri con gli amministratori abbiamo spesso avanzato idee, suggerimenti, consigli per promuovere azioni politiche
coraggiose di fronte ad una situazione critica e drammatica
dove le istituzioni hanno perso
legittimità popolare e dove famiglie e persone sono stretti
dagli affanni economici. Non è
un caso che spesso ci siamo
fatti promotori di una nuova
finanza pubblica e sociale che
vedeva nell'azione della ripubblicizzazione della Cassa Depositi e Prestiti un'inversione di
rotta dalle attuali politiche economiche.
Inoltre, come movimento abbiamo avanzato proposte politiche che sono state legittimate
dal consenso popolare come la proposta di trasformazione di SMAT S.p.A. in ente di diritto
pubblico: caduta in un silenzio assordante, chiusa in qualche cassetto del Comune di Chieri.
Riteniamo opportuno a questo punto che tutte
le forze in campo in questa nuova competizione
elettorale siano chiare e dichiarino da che parte
sono: se mantenere in una società per azioni la
SMAT o se ripubblicizzarla in azienda speciale
consortile. Più di 850 chieresi hanno sottoscritto
quella proposta e meritano di avere una risposta
dalla politica che ad oggi non è arrivata.
Nei prossimi mesi come Comitato Acqua Pubblica Chieri lanceremo un appello affinché le forze
politiche durante la campagna elettorale dichiarino la propria posizione sulla trasformazione di
SMAT in quanto non accetteremo più ambiguità
da parte delle forze politiche e non transigeremo
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C.D.B. Chieri informa
su comportamenti politici scorretti usati per fermare i movimenti dei beni comuni e le proposte
da loro avanzate.
Nel frattempo la politica inizi anche a discutere
di quelle manovre economiche riguardo al servizio idrico integrato che troppo spesso passano
inosservate. L'11 marzo 2014 IREN e SMAT
hanno promosso un'offerta pubblica di acquisto
della SAP – Società Acqua Potabili S.p.A. per
“ottimizzare le possibili sinergie nel settore
dell'acqua, superando la gestione frammentata
a livello locale e realizzando una gestione integrata delle concessioni in cui le tre società sono
attualmente titolari”. Le forze politiche attuali
nel Comune di Chieri sono consapevoli di questa
manovra o sono del tutto ignare? Che cosa ci
aspetta?
Siamo solo alle battute iniziali, ma quest'ultima
operazione permette di comprendere come mai
all'interno di molte forze politiche si continui a
voler mantenere con la forza la società per azioni che altrimenti non avrebbe potuto promuovere tale acquisizioni. Non è ancora dato sapere
quali siano gli scenari futuri di questa mossa,
ma con il tempo avremo maggiori indicazioni
che scommetto non saranno piacevoli. Questi
segnali che possono essere intesi come lontani
dalle scelte politiche ne sono invece la logica
conseguenza ed i cittadini devono percepire tutto ciò come il segnale più evidente della classe
politica su come vengano disattese le scelte di
un voto democratico referendario. Noi vediamo i
sintomi ma non possiamo ignorare la malattia e
allora qualunque buon medico ci consiglierebbe
che prevenire è meglio che curare.
Salvio Calamera
Comitato Acqua Pubblica Chieri
Silenzio
Bambine vendute
Ragazzi sfrontati
Gettati per strada
Ragazzi muti
Di terrore negli occhi
Abbracciati a un fucile
Più alto di loro
Donne stuprate
E abbandonate
Sul ciglio di un deserto
Uomini maturi
Con mani forti e nodose
E una lettera in tasca
Lettera di licenziamento
Uomini e donne gettati
Nei terrori di un ambulatorio
Col biglietto da visita
Di una morte vicina
Vecchi sprofondati
In poltrone fuori moda
E nella disperata follia
Di parole che non vengono
Bambini uomini e donne
Che domani moriranno
Tra le onde del mare
Nelle pieghe di una giungla
In un carcere oscuro
Tra gli assilli della fame
Con il vuoto nelle mani
E la stanchezza nel cuore.
Mondo di dolore
Che precipiti nella resa
D’una vuota non ragione.
Silenzio.
Daisy
T.
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Dio e gli animali
‘S
i narra del cane, all’ indomani della sua creazione, che molto dispiaciuto di dover abbandonare il Creatore, prova in tutti i modi di
convincerLo a lasciarlo rimanere con Lui. Vista
però l’ irremovibilità di Dio nel volerlo inviare
sulla Terra -proprio perché lo considera la sua
creatura meglio riuscita - il povero cane Lo supplica allora di creare, per lui, un compagno terreno. Una nuova creatura che sia il più simile
possibile a Dio stesso, da cui essere inseparabile
e ai piedi della quale potersi stendere a riposare. Dio é perplesso, non vuole cedere, sicuro
com’ é di aver raggiunto il proprio massimo della creazione, realizzando il cane. Ma l’animale
insiste: Gli assicura che si accontenterà del risultato ottenuto, quale che sia. Dio allora ci
pensa un po’ su e, alla fine, rientrato nel proprio
laboratorio, commosso da tanta bontà, accontenta il suo fedelissimo amico: crea l’ uomo.’
Questa breve ma toccante storia si incontra
quasi alla fine del libro di cui vorrei incoraggiare
la lettura: In Paradiso ad attenderci di Paolo
De Benedetti con Maurizio Scordino, lungo dialogo tra un credente, l’autore, e un non credente intorno a temi, religiosi e laici, che li accomunano e li appassionano.
La storia del cane e del suo Creatore é quasi un
ebraico midrash e come tale può essere interpretata. L’eroe é un animale che ha le caratteristiche del cane domestico; in quanto primo cane
é un archetipo non solo della sua razza, ma forse, di tutti gli altri animali nel rapporto con il
Creatore. È innocente, ha sentimenti e bisogni,
é capace di collocarsi al suo posto nel progetto
di Dio per la vita sulla Terra. In quanto cane domestico é affettuoso e fedele. Il racconto ci dice
che avendo già sperimentato la gioia di stare
vicino a Dio non vuole lasciarlo. Soffre per questo, con schiettezza
si rivolge a lui e
patteggia la sua discesa sulla Terra.
Dio é il grande artigiano che, nel suo
laboratorio, ha costruito un capolavoro di cui é fiero: il
cane, non l’ uomo.
Ama questa terra
che noi in seguito
popoleremo e vuole
che là ci sia la sua
opera più bella. Dio
e il cane si parlano,
si confrontano, si
intendono: quasi un
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modello
della
relazione
che
un credente potrebbe
avere
con il suo Dio.
Scandalosamente per il
nostro antropocentrismo il racconto suggerisce che noi esistiamo perché il
primo cane potesse
essere
consolato della
lontananza da
Dio stendendosi
a riposare ai
nostri piedi.
Un finale coerente al racconto e allusivo ad
uno dei temi più arditi del libro potrebbe essere
questo: giunto sulla Terra e assolto, tra gioie e
dolori, il suo compito di amico dell’ uomo, il nostro cane morirà e rivivrà nell’ oltre nella gioia
di essere di nuovo insieme al suo Creatore.
Per come Paolo immagina il paradiso, là certamente ci saranno tutti gli animali e, forse, tutto
ciò che sulla terra ha ricevuto da Dio il dono della vita: ‘Se tutto ciò che Dio stesso ha creato,
infatti, non fosse ammesso a ritornare in vita
nel futuro escatologico in cui fermamente credo,
avrebbe ragione chi ritiene la morte superiore e
definitiva
rispetto a tutto il resto, Dio
compreso’.
Dalle riflessioni di Paolo, spesso riprese e allargate laicamente da Maurizio Scordino, vien fuori
un ritratto di Dio biblicamente fondato in modo
ebraico cristiano e di grande spessore per chi ha
confidenza con il primo e secondo Testamento.
Ne cito alcuni tratti.
L’ esistenza di Dio per il credente non e’
una questione metafisica, bensì dialogica. Dio é il mio tu. Il Dio della Bibbia non
é il Dio dei filosofi.
Si può essere in lite con Dio e questa é
una prova della sua esistenza.
Dio, che ha dato la vita a uomini e animali, ha un progetto che contempla
l’
alleanza con gli uni e con gli altri.
Dio farà tornare vivi tutti i morti: come e
dove ‘sono affari suoi’. Sicuramente la
morte non può essere più potente di Dio.
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Dio ascolta chi si rivolge a lui, uomo, animale, pianta che sia.
Dio é prima di tutto misericordia e compassione. Può farsi asino con l’ asino
maltrattato e perfino forse margherita o
insalata soffrendo con esse quando sono
recise.
Dio soffre in particolare con l’ innocente
perseguitato. A causa del nostro modo di
trattarli gli animali spesso lo sono.
Il pensiero di Paolo sui grandi temi che vengono
affrontati nel libro é talvolta decisamente provocatorio rispetto alla conservazione teologica ufficiale. É però un pensiero comunicativo perché
umile. Quando é il caso, infatti, Paolo intercala
le sue affermazioni con alcune espressioni significative: ‘se così si può dire’; ‘sospeso’, o, detto
in altro modo ‘ Verrà Elia e risolverà le difficoltà;
‘ altra interpretazione’ o, per dirla con l’ esegesi
rabbinica,’ ricerca del settantunesimo senso’;
infine il detto pure rabbinico ’Insegna alla tua
lingua a dire non so, per non passare per
bugiardo’.
Per la sua teologia degli animali ardita e innovativa, Paolo De Benedetti é conosciuto e apprezzato in Italia da molti animalisti e vegetariani non credenti; perfino dai bambini che amano gatti, cani, cavalli, asini e mucche e che hanno ricevuto da genitori e nonni i suoi piccoli libri
di poesie, come Gattilene.
Temo invece che siano ancora troppo pochi i
credenti cristiani che si sono accorti di quanto
evoluta, aperta e gioiosa sia la via verso Dio su
cui Paolo cammina e ci indica, da maestro sapiente.
Tullia Chiarioni
In Paradiso ad attenderci. Il pensiero, l’ impegno e i ricordi del teologo che ama gli animali.
di Paolo De Benedetti con Maurizio Scordino
Edizioni Sonda srl, 2013.
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STORIE DI ORDINARIA PRECARIETÀ
Testimonianze di ragazzi dello
Sportello Lavoro di ASAI
(interviste di Elisa Lupano)
Tahmine. Mille lavori, ma non sa fare i cappuccini.
Tahmine compirà 29 anni a maggio. È venuta in
Italia solo per il desiderio di andare via. Non ha
subito discriminazioni di nessun tipo nel suo paese, l’Iran, ma è un desiderio di molti ragazzi
iraniani di andare all’estero per conoscere il
mondo e capire. Lei ha cercato un modo legale
per uscire, e l’unico era lo studio. Aveva già cominciato l’università in Iran (Informatica), ma
non le piaceva. Dopo un corso di tre mesi di Italiano in Iran è partita, ha fatto l’esame di Italiano in Ambasciata, i test di ammissione (per studenti stranieri) alla Facoltà di Scienze Motorie
ed è stata ammessa.
Intanto viveva in una casa in condivisione con
altri ragazzi iraniani, e lavorava al mattino distribuendo un giornale gratuito: “Eco”, gestito
da un Iraniano. Questo lavoro le durerà 4 anni e
mezzo. Dopo un anno la distribuzione dei giornali è stata presa da una Cooperativa, questo da
un lato le ha permesso una maggiore apertura
(non era più solo a contatto con iraniani),
dall’altro non le ha più permesso la frequenza,
che è obbligatoria a Scienze Motorie, anche
perché dopo i giornali, andava a fare un lavoro
di magazzino e etichettatura, sempre per la
stessa cooperativa. La sua giornata cominciava
alle 7, fino alle 10 distribuiva giornali poi il magazzino fino alle 18 – 19, con a volte solo
mezz’ora di pausa. Aveva un contratto a tempo
indeterminato, ma la Cooperativa ha dichiarato
fallimento (falso), un anno e mezzo dopo la sua
assunzione, e lei ha continuato a lavorare con
loro in nero per qualche giorno alla settimana.
Ma i suoi lavori non sono stati solo questi: contemporaneamente ha fatto altro. Siccome distribuiva giornali nell’isola pedonale di Torino, ha
conosciuto tante persone che le hanno dato altri
lavori, e lei ha sempre tentato tutto. Ha lavorato
per un restauratore molto famoso di Torino, dove ha anche imparato qualche tecnica, poi per
un orologiaio-gioielliere, dove ha fatto la commessa. “Era un pezzo di merda, mi dice, voleva
anche altro, ma io l’ho messo subito a posto.
Però mi ha tenuto a lavorare, perché sapeva
che di me si poteva fidare, e poteva lasciarmi
anche sola alla cassa”.
Ha lavorato come baby sitter, prima a Pino Torinese, dove doveva fare anche tutto il resto, co-
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me tagliare l’erba, pulire casa ecc.: si trattava di
una sostituzione per luglio e agosto, che poi ha
lasciato. Poi a Torino, in una famiglia dove si
trovava molto bene, ma veniva sempre pagata
in nero. È stata questa famiglia a darle una mano quando nel 2009 stava per scadere il suo
permesso di soggiorno, e, dopo la rinuncia
all’Università, quindi con la perdita del permesso
per studio e senza contratto di lavoro rischiava
di essere clandestina: anche se non lavorava più
per loro, si è fatta assumere (pagandosi i contributi) per ottenere il permesso di lavoro. Appena
arrivato il permesso si è licenziata, ormai era a
posto per un po’.
È anche stata in casa di un signore anziano, ma
non era molto chiaro cosa volesse da lei…. E se
ne è andata.
Verso il 2010 le cose incominciano a girare meglio. Fa la baby sitter a un bambino di 6 mesi,
con un contratto in regola. Conosce l’ASAI che,
in collaborazione con la Fondazione Operti, trova un lavoro (5 mensilità) in un bar. C’è stata
20 giorni, ma non ha funzionato. Non faceva
bene i cappuccini, racconta, e la signora sempre
la trattava male. Lei non ha problemi a relazionarsi con le persone, ma lì proprio non riusciva
a ingranare. Allora, per non perdere le quattro
mensilità che le restavano del progetto e non
perdere
credibilità
con
l’ASAI si trova un altro lavoro, in un negozio di abbigliamento. Era un buon
posto, ma anche questo ha
chiuso poco dopo il termine
della sua borsa lavoro,
quindi non è stata assunta.
Dopo un’esperienza in una
pizzeria, in cui faceva la
cameriera, ma anche aiutava nei compiti i figli del gestore, c’è stato il
trasloco dello Sportello lavoro dell’ASAI da via
San Pio V a via Principe Tommaso: in
quell’occasione ha avuto un contratto di lavoro
accessorio da giugno a novembre 2012, ha aiutato nel trasloco, ha dato il bianco, sistemato
insieme al gruppo dello Sportello, i locali della
nuova sede, che erano piuttosto malmessi.
La collaborazione con l’ASAI è proseguita con un
contratto di collaborazione occasionale finanziato dal FEI (Fondo Europeo per l’Immigrazione),
poi con il Progetto LIFT per 5 mensilità. Adesso,
da marzo, continua la collaborazione allo Sportello con un contratto a progetto.
George, ovvero: la strategia del network.
George, è egiziano, laureato in Giurisprudenza,
specializzazione in Diritto Marittimo. Ha 33 anni.
È venuto in Italia nel 2012 per un progetto sulla
produzione di energia solare legato alla nautica
che poi, quando è arrivato, non è stato approvato, quindi si è trovato a Torino, con un po’ di
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soldi, ma senza lavoro. A quel punto ha deciso
di stare in Italia. Non sapeva una parola di italiano e si è iscritto a un corso di Italiano
dell’ASAI, contemporaneamente a uno dell’UPM,
al Centro Interculturale, poi andava a lezioni da
un insegnante privato. In questo modo poteva
avere una visione più ampia, imparare più in
fretta. Questa è stata la sua strategia: George
spesso utilizzerà la strategia del lavorare su più
fronti per i suoi progetti.
I suoi obiettivi sono ben chiari: lavorare per
quello che ha studiato, il Diritto marittimo. Ma il
mercato è fermo, e quindi… ha incominciato come muratore, o come imbianchino, ha dato il
bianco in casa di amici, volontari ASAI, e da chiunque lo chiamasse. Con quello che guadagnava
andava a visitare i saloni nautici che ci sono in
Italia, distribuendo curriculum e presentandosi.
Si è costruito pian piano una mappa delle cose
da fare, degli ambienti da frequentare. Si è pagato l’affitto, condividendo casa con altri amici,
sempre vestito pulito e ordinato. Sa che presentarsi con giacca e cravatta, magari anche con la
valigetta dei documenti fa un’impressione migliore. Ha vissuto così quasi due anni, poi ha
deciso di seguire il consiglio che tutti gli davano,
di andare fuori dall’Italia, e ha cominciato
un’analisi del mercato nautico.
Si è preparato con metodo,
senza tralasciare nulla. Ha
deciso per la Danimarca,
dopo diverse indagini di
mercato, perché sembrava
l’ambiente più favorevole, e
poi era un trampolino di lancio per la Svezia e la Norvegia altri possibili mercati del
suo settore. Ha letto libri
sulla storia e la cultura danese. Ha visto molti film danesi, documentari,
ha imparato le basi della lingua. Ha chiesto aiuto ad amici, che avessero fatto esperienza
all’estero, per avere i riferimenti che gli potevano servire.
Non poteva mantenere contemporaneamente la
casa in Italia, quindi l’ha lasciata, portando la
sua roba nelle scatole nelle cantine degli amici,
per riprendersele al suo ritorno. È partito con il
minimo indispensabile.
Ha sentito la voglia di vincere una sfida, di aprire una strada. Mi dice che questo è un modo
che ha di affrontare la vita. Poi considera i due
anni passati in Italia anni persi, che non hanno
fatto progredire il suo obiettivo, ed era ora di
partire. È importante anche inserire nel curriculum esperienze non troppo lontane dalla tua formazione, e fare il muratore è lontano.
Perché la Danimarca?
“Per capire la serietà di una ditta e la sua stabilità si calcola la velocità di risposta alle mail:
dalla Danimarca hanno sempre risposto in gior-
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nata, dalla Svezia entro le 24 ore. In Italia non
rispondono e basta”.
Come sono le regole per uno straniero?
Con il permesso di soggiorno in Italia, si può
viaggiare all’estero per tre mesi. Se non si ritorna entro sei mesi si perde il diritto di avere il
permesso di soggiorno. Ma c’è poco controllo,
lui ci è stato quattro mesi.
Per trovare un’abitazione ha preso contatti con
la Chiesa copta del posto, lui è cristiano copto,
che l’hanno ospitato per un po’, poi ha trovato
una casa con altre persone.
Cosa serve per trovare lavoro?
Presentarsi come una persona seria, e separare l’amicizia dal lavoro. George si sente
un po’ di usare le persone, perché sfrutta le
conoscenze in suo favore, mi racconta.
Questa è la parte di lui che considera
“cattiva”. Esce anche la sera con qualcuno
che ha conosciuto, ma lascia perdere
l’amicizia se questa non porta a breve un
lavoro. È importante essere sempre disponibili, la gente impara a contare su di te. In
Danimarca ha lavorato in un’impresa di pulizia. Si tratta di lavoro a “basso profilo”,
ma è andato bene anche quello.
È entrato in un Circolo egiziano, anche
questo è servito per trovare un lavoro
per un mese. Poi ha cercato amicizie
danesi, per “aumentare il network, la
rete”, mi racconta. In questo caso si è
iscritto in tre scuole diverse, e poi ha
proseguito dove c’erano più probabilità
di avere contatti utili per il lavoro.
Adesso è tornato, ma ripartirà, per la
Svezia e la Norvegia, anche lì ha intenzione di aprire nuove strade.
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La materia non esiste,
tutto è energia
di Leonardo Boff
Con la nascita dell’universo, ha fatto simultaneamente irruzione lo spazio-tempo. Il
tempo è il movimento della fluttuazione
delle energie e dell’espansione della materia. Lo spazio non è il vuoto statico
all’interno del quale tutto avviene, ma quel
processo continuamente aperto che permette alle reti di energia e agli esseri di
manifestarsi. La stabilità della materia presuppone la presenza di una potentissima
energia soggiacente che la mantiene in
questo stato. In verità, noi percepiamo la
materia come qualcosa di solido perché le
vibrazioni dell’energia sono talmente rapide
che non riusciamo a coglierle con i nostri
sensi. Ma in questo ci aiuta la fisica quantistica, esattamente perché si occupa delle
particelle e delle reti di energia.
L’energia è e sta in tutto. Senza energia
nulla potrebbe esistere. Come esseri coscienti e spirituali, siamo una realizzazione
estremamente complessa, sottile e interattiva di energia.
Cos’è questa energia di fondo che si manifesta sotto tante forme? Non c’è nessuna
teoria scientifica che la definisca. Sempre di
più, abbiamo bisogno dell’energia per definire l’energia. Non è dato sfuggire a questa
ridondanza, notata già da Max Planck.
Questa Energia forse costituisce la migliore
metafora di quello che significa Dio, i cui
nomi variano, ma sempre indicando la stessa Energia soggiacente. Già il Tao Te Ching
(il Libro del Tao e della virtù considerato
come una delle vette del pensiero cinese,
opera di Lao-tse, ndt) diceva la stessa cosa
del Tao: “il Tao è un vuoto turbinante, sempre in azione e inesauribile. È un abisso insondabile, origine di tutte le cose, e unifica
il mondo”.
La singolarità dell’essere umano è poter entrare in contatto cosciente con questa Energia. Egli può invocarla, accoglierla e percepirla nella forma di vita, di irradiazione e di
entusiasmo
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Perdonare e farsi perdonare
Il valore della teshuvà ebraica
Di Franco Barbero
Da un incontro a Piossasco — sbobinatura e adattamento non rivisti dall’autore
"N
ell'ebraismo ci sono alcune parole molto significative che rimandano al concetto di perdono e
di colpa: tikkun “tu hai la possibilità di rigenerare il
mondo”; teshuvà “ritornare verso di noi, verso l’altro,
l’altra, verso Dio”. Queste parole della spiritualità ebraica, che Gesù succhiò con il latte materno e che visse nei villaggi, rappresentano un po’ la pratica del perdono dentro la realtà delle nostre contraddizioni. Per
l’ebraismo c’è una benedizione all’origine del tutto.
All’inizio era la benedizione e non il peccato, ma c’è
anche l’accompagnamento delle nostre incoerenze. Un
libro molto bello che vi raccomando è: “Farsi perdonare. Il valore della teshuvà”, scritto da Paolo De Benedetti con Massimo Giuliani. Come sapete De Benedetti, conoscitore insuperabile dell’ebraismo, nella freschezza dei suoi 85 anni continua a darci una serie di
racconti che lui ha raccolto dalla sua pratica del Talmud e dagli insegnamenti dei rabbini. In questo testo fa
una annotazione sul primo libro della Bibbia e dice: il
capitolo iniziale di Genesi usa sempre, per dire Dio, il
termine “Elohim”, un nome legato al concetto di giustizia. Ma il capitolo secondo, e questa è un’annotazione
precisa, testuale, usa “Jahveh”, che è legato al concetto
di misericordia. Quindi, nei due brani della creazione
Dio, secondo la tradizione ebraica, non fa mai a meno
della giustizia e della misericordia: in qualche modo
anche in Lui c’è un conflitto, una
battaglia, anche Dio è diviso tra
giustizia e misericordia. Ma alla
fine, come vedremo, prevale
sempre la seconda. Noi facciamo
fatica a fare teshuvà, a ritornare a
Dio, a tornare a Lui volgendoci
affettuosamente agli altri, a ravvederci. Facciamo anche fatica a
ritornare verso noi stessi, cioè a
perdonarci. Questo è il cammino
della teshuvà. In tutto il creato
siamo l’unica specie vivente che
può tornare sui propri passi. Una
delle fatiche della nostra vita è
quella di “ritornare”: se l’odio, la
rottura di una relazione hanno costruito una prigione in
noi, un allontanamento, la cosa essenziale, che
nell’esperienza ebraico-cristiana risulta decisiva, è: “io
saprò ripensarmi? saprò rivedermi? saprò convertirmi”.
Perché teshuvà vuol dire questo: “ritornare sui miei
passi, riconsiderare la mia vita e fare un movimento
nella direzione opposta”. Farsi perdonare, perdonarsi e
perdonare è una matassa complessa; verrà poi tradotta
nel greco metanoia: la conversione.
Non c’è un momento
perdonante assoluto.
Specialmente nel Primo
Testamento perdonare,
perdonarsi, farsi perdonare è sempre un cammino, lento, difficile,
contraddittorio. La letteratura del Primo Testamento non mitizza,
non esalta mai la capacità di perdonare d’un
balzo, completamente.
E quindi ripropone
sempre al credente la
teshuvà, momenti anche
liturgici nella preghiera
del mattino, della sera, nello shabbat, nello Yom Kippur, in cui si dice: “ricordati di porre dei gesti di perdono verso gli altri, verso di te, mentre chiedi perdono a
Dio e prendi atto della sua riconciliazione; e in questi
gesti impegna il tuo cuore. Ricordati che un’azione
senza cuore è un’ipocrisia. La teshuvà è compiere dei
gesti lentamente, ripetutamente per farli discendere nel
tuo cuore”.
Nell’esperienza del movimento di Gesù ci sarà
un’esplosione di questo sentimento
della teshuvà.
Devo dire che nei secoli le chiese
cristiane qualche cosa hanno fatto,
hanno cercato di coniugare questa
esigenza con dei riti. Per esempio nel
II secolo nacque la cosiddetta penitenza antica: se tu avevi ucciso non
partecipavi più all’eucaristia, ma rimanevi fuori del luogo di culto, in
attesa di un tempo di conversione.
Inoltre non c’era nessun uomo e nessuna donna che potessero perdonare
un altro liturgicamente; la comunità
si radunava ed organizzava un cammino di conversione. La penitenza
antica non conosceva la figura di un assolutore, di cui
compare notizia, per la prima volta, in un documento
intorno al 560, in Spagna. Ma un Concilio dice:
“abbiamo saputo che c’è qualche sacerdote che dà
un’assoluzione dai peccati: è assolutamente proibito”.
Nel 1215, nel II Concilio Lateranense, viene stabilito
un numero fisso di sacramenti: 7, e viene disposto che
solo il prete, che allora si era già trasformato da presbitero in “sacerdox”, può assolvere dai peccati. Que-
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sto è tutt’ora vigente, ma nel Concilio Vaticano II viene deciso che si può fare la liturgia penitenziale comunitaria, dove nessuno assolve, ma si annuncia che Dio
genera in noi il perdono, ci garantisce la sua riconciliazione. Sono rimaste entrambe: la confessione individuale e quella della liturgia. Lungo i secoli l’esperienza
del perdono ha assunto molte forme. In seguito il potere sacro si è arrogato la facoltà di perdonare: questo è
stato il grande errore. Il perdono è l’azione congiunta
di Dio e nostra; non c’è nessuno che, magicamente o
per una potestà, mi può perdonare. E’ il movimento dei
nostri cuori che asseconda l’azione di Dio, la presa
d’atto che Dio è per noi misericordia.
Nell’itinerario liturgico delle varie confessioni: ebraiche, islamiche, cristiane, ci sono molti momenti belli,
come per esempio nel muro del pianto per l’ebraismo,
nei quali ci si domanda, in silenzio, nella preghiera,
nell’annuncio, nella liturgia, cosa possiamo fare per
ritornare a Dio, per ritornare a noi stessi.
Riandando alla teshuvà si può dire che ha tre chiavi per
perdonare e perdonarsi: una ce l’ho io dall’interno,
un’altra ce l’ha chi mi perdona, ma sovente queste due
chiavi da sole non sono sufficienti, perché nella vita
succede anche l’imperdonabile, come la Shoah per gli
ebrei.
C’è a volte l’imperdonabile tra di
noi, può esserci qualcosa che è più
grande di noi. La mistica cristiana,
in certe forme un po’ devianti, ha
detto che tutto si può perdonare: la
donna stuprata deve perdonare….
L’ebraismo riflette in un altro modo: c’è dell’imperdonabile, esiste
un’impossibilità, a volte, di perdonare, ma c’è una “terza chiave” ed è
Dio che pronuncia il suo unico perdono, ma esige che noi facciamo
giustizia sulla terra.
Nel cammino del perdono proviamo
una grande fatica a perdonarci, perché sovente nasce il rimpianto, la
difficoltà di andare oltre e sorge il cosiddetto “senso di
colpa”. Secondo gli autori del libro noi siamo ad un
bivio: o ci assolviamo totalmente, o ci condanniamo
per tutto. Chi si assolve completamente non diventa
mai un essere responsabile, perché non trova mai la sua
colpa, non riconosce mai dove ha sbagliato; ma chi si
condanna di tutto, ugualmente non si vede nella realtà.
Occorre trovare un equilibrio che mi consenta di essere
responsabile, non girare attorno ai miei errori, non involvere, non imprigionare la mia vita nei miei sbagli.
Nella nostra esperienza cristiana, spesso abbiamo l’idea
di un Dio della perfezione, che esige da noi la santità;
questo ha funestato la nostra educazione religiosa.
L’idea della santità, della perfezione, di un Dio che la
esige da noi, non solo ha offeso la realtà di Dio, ma ha
reso difficili i rapporti tra noi, perché o c’è la finzione
o la menzogna, o il senso di colpa.
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Nel libro ci sono due bei racconti che dicono: Israele,
tu sarai colui che si allontana continuamente da me, ma
io sarò sempre colui che ti cerca; tu non saprai venirmi
incontro, ma io ti incontrerò. Quanto sono belli i racconti del Talmud e delle novelle ebraiche!
Il senso di colpa paralizza il nostro cammino. Quello
che bisogna cancellare dentro di noi è l’idea di perfezione: non saremmo creature! Prendere atto della nostra creaturalità, del nostro limite, della nostra fallibilità
è una delle conquiste del cammino di fede.
Questo è stato l’insegnamento di Gesù ai discepoli: il
vangelo di Luca è tutto un cammino in cui li educa, li
guarda negli occhi, li rimprovera amabilmente, li sorregge in questo percorso.
Rispetto al senso di colpa ci sono due eccessi. Nella
nostra società tutto è diventato possibile, decolpevolizzato e questo è un modo per perdere la responsabilità. Ma all’opposto, nelle nostre tradizioni
religiose ci ha perseguitati lungamente il senso di colpa: non siamo mai all’altezza, non abbiamo mai fatto
abbastanza, non l’abbiamo mai fatto abbastanza bene.
Questo rende brutto Dio, perché Egli non ci vuole santi, ma donne e uomini come siamo e così ci ama. La
condizione per sentirci liberi e in cammino, nella teshuvà è quella di cancellare da noi l’orizzonte della
perfezione, perché essa è una malattia. Vi ricordate il libro della
nostra grande scienziata Rita Levi
-Montalcini:“Elogio
dell’imperfezione”? Se la scienza
non conoscesse l’imperfezione
non procederebbe. E’ proprio
l’imperfezione, la consapevolezza
della nostra creaturalità e della
nostra fallibilità che ci fanno andare avanti.
Che cos’è che ci permette, come
credenti, di perdonare a noi e di
perdonare agli altri? E’ il fatto che
Dio ci perdona. La teshuvà, Dio
che viene a noi, ci permette questa
grande pace con Lui e di recuperare la dimensione del
rapporto con gli altri. Dio come forza, come invito,
come stimolo, sorgente di teshuvà, un Dio che ci viene
incontro perché possiamo andare incontro a noi stessi
ed agli altri. Un’altra riflessione che si deve fare è che
il perdono è un cammino graduale: non siamo angeli
svolazzanti, ma creature camminanti. Dobbiamo essere
consapevoli che nella nostra vita il quotidiano, il piccolo passo che facciamo è veramente quello che Dio ama
e su cui Egli sorride. Ogni persona nella propria esistenza può fare teshuvà, può sentire che Dio viene verso di lei e che, in qualche modo, essa può andare verso
l’amore per sé e verso l’amore per gli altri.
Gesù nell’ebraismo viene visto come il paradosso
dell’amore per il nemico. Dai maestri di Israele Gesù
viene considerato colui che ha portato l’amore
all’estrema conseguenza. Wiesel e i grandi studiosi
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ebraici della figura di Gesù dicono: “Il nostro maestro
Yeshua ci ha superato, perché ha continuato la tradizione del Pentateuco e dei profeti ed andando oltre Geremia ed Ezechiele ha reso il perdono illimitato. Nella
via del perdono non dobbiamo mai tornare indietro, il
perdono è una strada mai finita, una strada in cui dovremo andare avanti sempre.
Nel Secondo Testamento la parola “perdonare” ricorre
142 volte, segno che era già un problema allora. Questo
è molto consolante! Si vede che nelle comunità paoline
il rancore, l’odio erano una realtà molto presente.
L’umanità del Secondo Testamento è straordinariamente bella: 142 volte “perdonare” significa che nella realtà dei nostri vissuti c’è questo grande cammino da
compiere, mai finito, mai da interrompere.
Nella nostra storia c’è stato anche
il perdonismo, che è una cosa
molto diversa dal perdonare! E’
l’incapacità di affrontare i conflitti e di dirci le cose; è quello che
copre, che nasconde le tensioni;
che dice: “volemose tutti bene”
ed ha creato una confusione politica e culturale. Il perdonismo
delle chiese cristiane è quello che
ha impedito a noi di riconoscere,
perdonandoci, i nostri debiti del
passato. Quindi il perdonismo,
come mania politica e culturale, è
nemico della verità.
Un’altra riflessione che mi sembra importante è sulle ferite aperte della nostra esistenza. Sarebbe ingeneroso pensare
che con un atto di fede e di volontà noi dimentichiamo
tutte le lacerazioni irrisolte della nostra vita: impossibile! Il perdono, anche quello di Dio, deve essere situato
nel contesto umano: chi ha perso un figlio nella guerra,
una donna stuprata, un bambino violentato, un operaio
licenziato e vilipeso, e tanti altri esempi che potremmo
fare, sono ferite aperte e bisogna ricordare che chiedere
a queste persone atti di esaltante perdono sovente è una
falsità, è un’ipocrisia.
La teshuvà può rappresentare un cammino verso il perdono, ma non dobbiamo mai sacrificare la nostra umanità. Noi siamo persone di cui si possono curare le ferite, qualche volta anche guarirle. Ma certe afflizioni
lasciano una traccia che nemmeno Dio può chiederci di
dimenticare. Ci possono essere delle sofferenze enormi
nella vita, a livello personale, o anche collettivo: non è
lecito dire a chi ha avuto un figlio bruciato nel forno
crematorio: “devi perdonare…”
Non c’è un cammino di fede che prescinda dalla nostra
umanità e sarebbe una pessima educazione cristiana per
i bimbi, i giovani, le persone, ma prima di tutto per noi,
quella di vedere nella fede il superamento di tutte le
nostre difficoltà. Dio è un Dio che cammina con noi;
anche nella teshuvà è un Dio che ci aiuta a perdonare
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agli altri, alle altre, a noi stessi e soprattutto che vuole
darci la pace.
Quello che abbiamo fatto e ciò che non abbiamo fatto
sta nel perdono e nelle mani di Dio. La nostra vita, nella sua semplicità, è sotto il sorriso di Dio. Che bello
questo pensare il Dio della compagnia!
Nei due passi di Geremia 31,26-29 e di Ezechiele 18,1
-4 si legge: “non dite mio padre, mia madre hanno sbagliato e io ne porterò le conseguenze”; purtroppo nella
storia si subiscono alcuni effetti, ma non c’è il peccato
di qualcuno che ricade su di te: davanti a Dio tu nasci
nella tua identità, Egli non ti carica le colpe del tuo popolo, perché il Suo amore, come dice il salmo 136, non
ha mai fine. Per l’ebreo la teshuvà vuol dire vivere in
pace, sapendo che Dio ti accompagna, in pace con ciò
che tu sei stato, sei stata, con
ciò che hai potuto/non hai potuto fare; in pace, se puoi, con gli
altri. Cerca questo cammino,
perché ricordati che solo se hai
la pace fai tikkun; solo se sei un
uomo, una donna di pace potrai
costruire qualcosa nel mondo,
nelle relazioni. Se tu non ti sei
perdonato, se non hai accolto il
perdono di Dio dentro di te,
non c’è tikkun che tenga, non si
costruisce il futuro. Senza la
pace nel tuo cuore, senza il sorriso di Dio sopra di te, tu vagherai, ma non costruirai il
mondo nuovo, quello che viene chiamato “il regno
di Dio” .
tempi di fraternità
donne e uomini in ricerca
e confronto comunitario
Fondato nel 1971 da fra Elio Taretto
Contribuisci al progetto
CAITH La casa famiglia
fondata da Vittoria Savio
a Cusco in Perù
Per informazioni: Maria 349.7206529
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“Noi: gli idioti”.
Passato e futuro
di un epiteto.
N
el mondo latino fu presto attribuito ai cristiani l’epiteto di idioti; l’etimologia del termine
stava ad indicare colui che ama una vita dedita al
privato, lontana dall’esercizio del potere politico.
Questo atteggiamento incline a vivere da privato
cittadino disinteressato, indifferente o irridente nei
confronti dell’impegno politico si era diffuso in generale nelle filosofie ellenistiche, ma in particolare
di quella epicurea.
Anche questo termine va inteso nel suo significato
denotativo e non in quello connotativo e dispregiativo che ha assunto attraverso i secoli.
La filosofia del giardino – così era anche indicata
dal luogo in cui Epicuro incontrava i suoi discepoli
- si interrogava su come raggiungere la felicità o
atarassia che consisteva nella mancanza di turbamenti.
Visto che, secondo Epicuro, l’infelicità scaturiva
dai bisogni inappagati, il filosofo
con lungimiranza profetica distinse tre tipi di bisogni: quelli
naturali e necessari; quelli naturali, ma non necessari; quelli né
naturali né necessari.
Tali, non naturali e non necessari, erano giudicati dal maestro la
ricerca della gloria e del potere
ottenuti attraverso la partecipazione politica: essa quindi era
sconsigliata al saggio.
L’epicureismo fu particolarmente
osteggiato a Roma poiché per
un romano il negotium, ovvero
l’impegno politico, rappresentava l’essenza stessa del suo essere cittadino
dell’Urbe.
La filosofia del giardino, quindi, con la sua preferenza per una vita lontana dalle seduzioni del potere, volta a cogliere soprattutto le piccole gioie e
a coltivare l’amicizia sincera fondata sull’affinità di
gusti, aveva preparato il campo ai cristiani.
Questi, infatti, fecero propria la scelta di “vivere
nascostamente”: e fu così che si “meritarono”
l’epiteto di idioti nel significato originario di cittadini
disinteressati all’agire politico.
A ciò contribuirono probabilmente altri fattori come la
necessità di doversi nascondere a causa delle persecuzioni e il rifiuto dei “valori” pagani antitetici a quelli
cristiani.
Al di là di queste cause contingenti, tuttavia, credo che
valse un motivo più radicale: una diffusa diffidenza nei
confronti del potere in quanto tale.
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D’altra parte qual era stato l’atteggiamento del maestro
a tal proposito?
Quale giudizio aveva trasmesso il Cristo ai suoi discepoli e, quindi, ai suoi seguaci su questo argomento?
Vediamolo attraverso le scritture.
In Marco 12,13-17 leggiamo l’episodio in cui il Rabbi
viene interrogato dai farisei riguardo al dovere di pagare il tributo a Cesare.
E’ noto che egli risponde:
“quel che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che
è di Dio a Dio.”
Aggiungiamo il testo delle tentazioni di Gesù nel deserto trattato in Marco, Matteo e Luca: lo scenario è quello
del monte sopra Gerico dove il Rabbi é condotto per
essere tentato.
Da quell’altura satana mostra a Gesù tutti i regni della
terra e glieli offre: “ti darò tutto questo potere e la loro
gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio.
Perciò, se ti prostrassi in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo.”
Conosciamo il rifiuto reciso di Gesù; la Sua ripugnanza
marchia il potere come una prerogativa diabolica.
Un ulteriore riscontro neotestamentario si trova in Apocalisse 13 dove viene descritto il potere della prima
bestia, (identificata con l’impero romano di Domiziano
81-96 d. C., proclamatosi “dominus et deus) : “le (alla
bestia) fu concesso di fare guerra contro i santi (i cristiani) e di vincerli; le fu dato potere su ogni tribù, popolo, lingua e
nazione.”
C’è poi un altro passo, presente
soltanto in Marco e Matteo: mi riferisco all’episodio in cui, nel corso
del terzo annuncio della passione,
salendo a Gerusalemme, la madre
di Giacomo e Giovanni, figli di
Zebedeo, avendo ascoltato il Rabbi preannunciare l’avvento di un
regno, gli chiede di riservare una
collocazione di riguardo ai suoi
due figli.
E’ notevole come questa donna
non sia indicata dagli evangelisti
con un nome proprio, ma con quello generico di madre ad intendere che anche quel ruolo, che pure appare sacro in quanto legato al dono della vita, può essere vissuto con egoismo ed aridità: infatti essa pensa soltanto alla sistemazione dei propri
figli mostrando di non aver compreso la novità del Nazareno.
Questi comprende di essere stato frainteso anche dagli
altri discepoli altrettanto desiderosi di una
“sistemazione” e afferma:
“Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su
di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così, ma
chi vuol diventare grande tra voi sarà vostro servitore e
chi vorrà essere il primo tra voi sarà vostro schiavo.”
Parole simili da una parte azzerano di colpo l’ illusione
dei discepoli che la sequela del maestro potesse o
possa avere come compenso la possibilità di fare carriera, dall’altra appaiono durissime nei confronti degli
imperi.
Il termine greco- traslittero nell’alfabeto latino- katexousiàzo era stato tradotto nella versione della Bibbia
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CEI del 1974 con l’espressione “esercitano il potere”,
mentre nella versione del 2009 è stato tradotto con il
più drastico “opprimono”.
Certamente è arduo stabilire quale sia la traduzione
corretta, cioè quella più vicina alle intenzioni di Cristo,
visto che Marco e Matteo usano lo stesso verbo, tempo
e persona.
La verifica, quindi, non può scaturire da un confronto
tra le fonti, non può essere filologica, ma misurata in
termini storici e sul nostro vissuto.
A proposito del termine impero mi sovviene il titolo della prima puntata della saga di “Guerre stellari” intitolata appunto “L’impero colpisce ancora”: a dimostrare
come, persino a livello di intrattenimento, siamo portati
a vedere nell’impero l’organizzazione politica più disumana e più lontana dal cristianesimo.
Gli imperi, infatti, si fondano su una rappresentazione
mitica e non reale della natura umana avallando la
contrapposizione di padroni vs schiavi con la conseguenza che sul piano economico si giunge al paradosso che i padroni sono mantenuti dagli schiavi.
Queste caratteristiche sono vigenti non soltanto negli
imperi propriamente detti, ma anche negli Stati moderni, là dove lo Stato diviene un idolo che richiede come
ogni divinità antropofaga, sacrifici.
La logica adattiva dell’uomo fa sì che questa rappresentazione mitica, in grado di millantare e giustificare la
distinzione tra individui superiori contrapposti ad altri
inferiori, diventi un messaggio subliminale indiscusso
dalle masse acritiche i cui desideri sono stati artatamente trasformati in bisogni
Ne consegue che viene accettato persino il tributo di
sangue- sofferenze- che lo Stato/idolo chiede giustificando tale richiesta ora con la necessità storica, ora
economica, ora politica, ora sistemica cosicché la sofferenza dell’altro è data come inevitabile.
In questa follia collettiva si interrompe la relazione autentica e cresce l’entropia di percorsi individuali che si
incentrano nel conflitto, nella dissimulazione,
nell’ipocrisia: tutte emozioni negative, malsane che
dovrebbero essere epurate dall’educazione impartita
dalla famiglia e dalla scuola per garantire sia igiene
mentale, sia una società armoniosa; invece esse vengono incoraggiate dai mezzi di comunicazione che si
nutrono proprio di questa negatività finalizzata allo
spettacolo.
Diventa difficile esercitare lo spirito critico contro questo perverso sistema; richiede coraggio fare parte di
una minoranza tacciata di profetizzare sventure e catastrofi; risulta più facile arrendersi alla maggioranza.
Quindi, come affermava Marcuse:
« Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica
non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata,
segno del progresso tecnico. »
Che il cristianesimo organizzandosi nelle chiese sia
venuto a patti con i sistemi politici è cosa nota e questo cedimento rende le chiese responsabili, o perlomeno corresponsabili, delle aberrazioni del potere a cui ha
saputo opporre soltanto un galateo perbenistico per la
propria conservazione.
Dall’altra parte i martiri di tutti i tempi, invece, hanno
pagato con la vita la loro opposizione alla bestialità dei
regimi.
C.D.B. Chieri informa
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Il cristiano, infatti, grazie all’azione di Cristo nostro Salvatore, è divenuto persona nel senso pieno del termine, cioè dotato di libertà che lo fa agire seguendo impulsi costruttivi, servendo i propri simili, capace di relazioni gratuite.
Ora che la crisi del sistema capitalistico ha mostrato il
suo volto disumano, procurando sofferenze, insicurezza, ed ogni tipo di fuga da queste condizioni quale sarà
il ruolo dei cristiani? Abbiamo spiragli d’azione coerenti
con il nostro credo? O siamo condannati ad essere
ancora e sempre (?) “idioti”?.
Cettina Centonze
RINGRAZIAMO
tutte e tutti coloro, che hanno
risposto al nostro appello e ci
hanno inviato il loro contributo.
Ci aiuterà a sopportare meglio i
costi di distribuzione che tendono a strangolare le piccole e piccolissime testate.
Interpretiamo questo vostro sostegno come un incoraggiamento al dialogo, alla ricerca biblica
e teologica, al pluralismo nella
comunità dei credenti, Vorremmo che questo foglio diventasse
sempre di più uno “spazio” per
chi è in ricerca, per credenti e
“diversamente credenti” in questa difficile stagione politica ed
ecclesiale
Aprile 2014 - n. 58
Il professore e lo zingaro.
Seconda parte.
di Rita Clemente
I
l Campo era addobbato a festa, con palloncini colorati a
nastri multicolori. Era una mite serata di fine settembre,
faceva frescolino fuori e Miro, previdente, aveva detto a
Giuseppe di prendere un maglioncino di lana. Ma i bambini
in giro schizzavano da tutte le parti vestiti – i maschietti –
con pantaloncini e magliette colorate; le femminucce con
gonnelline svolazzanti e corpettini luccicanti. Erano tutti in
maniche corte e non sembravano patire per questo, anzi! Una
fiammata naturale di allegria si sprigionava da quelle piccole energie di folletti straripanti vitalità. Giuseppe assisteva a
uno spettacolo pirotecnico di fuochi d’artificio fatti di braccine e di gambette svolazzanti, di vocine acute, di corpicini
piroettanti come in un enorme circo che era semplicemente
la vita. Le donne e le ragazze erano bellissime: indossavano
gonne fruscianti, corpetti inamidati e maniche a sbuffo, con
perline e strass che mandavano ipnotici bagliori; avevano le
pettinature e il portamento da regine. Anche gli uomini erano
eleganti: taluni con la barba lunga, altri senza, tutti con capelli nero corvini e gli occhi ardenti di passioni le più svariate.
Gli zingari! – pensava Giuseppe – come ce
li immaginiamo noi gli zingari? Donne lamentose che chiedono l’ elemosina, ragazzette sporche e scaltre che s’infilano negli appartamenti per rubare e giovani scapestrati
che vivono di espedienti, senza arte né parte!
Che ne sappiamo di tradizioni millenarie che
hanno aiutato questi popoli a sopravvivere
nel caos rutilante della storia, in mezzo a pregiudizi, violenze, guerre, disprezzo, persecuzioni! Non sono angeli, certo! Nomadi, dicono! che vuol dire? siamo tutti nomadi della
vita! dove vivevo io solo tre anni fa? chi sono
io adesso, se non un profugo esiliato per sempre dalla sua storia, dai suoi affetti, dalle sue
abitudini!
E pensando così gli cadde addosso
un’opprimente pietà per se stesso. Si sarebbe
messo a piangere se una ragazza bruna, bella
come una madonna ancestrale, non si fosse
avvicinata a lui con un bicchiere colmo di un
liquido rosso:
- Bevi, nonno, bevi! questo dà forza, dà allegria!
Giuseppe ringraziò, prese la tazza e cominciò a sorseggiare.
Vino, era vino, dolce e frizzante. Risentì la voce un po’ roca
di suor Angelica:
- Signor Giuseppe, non abusiamo con il vino! fa male!
Fa male? ma è la vita che fa male! chi mi guarirà dalle
sue ferite e dalle sue illusioni? questa gente ha capito il
meglio: vivi e lascia vivere! non sono dentro i marchingegni della nostra società organizzata e putrefatta? forse non
sopravviveranno o forse anche loro cambieranno e da indigeni del mondo si trasformeranno in cittadini ossequiosi di
uno Stato e di una bandiera. Ma questo domani. A noi è
data solo la benedizione e la tortura dell’oggi. E oggi io
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sono qui, più nomade di loro perché espulso dalla mia stessa vita. Oggi è festa e voglio godermela tutta!
Sull’onda di questi pensieri, bevve tutto il vino, si pulì
con la manica del maglione e restituì il boccale alla ragazza.
- Grazie! davvero buono! – Lei sorrise, civettuola, riprese la
tazza e con un fruscio svanì in un’ondata di colore scuro.
Passò la malinconia, il vino rosso aveva portato nelle sue
vene un ardimento da troppo tempo sconosciuto. Si lasciò
trasportare e divenne ilare, gioioso, quasi infantile. Mangiarono agnello cotto al barbecue, pitta di erbe e formaggio,
peperonata all’agro e tanti, tanti dolci. Poi cominciarono le
danze. Qui lo spettacolo raggiunse il diapason e Giuseppe si
sentì trasportare lontano, in un paradiso fatto di gonne svolazzanti, di piedi dal passo irruente, di corpi che
s’inarcavano, si piegavano, si slanciavano in alto, o dondolavano lenti al ritmo di un sogno.
Una signora poderosa, con capelli crespi e due vistosi orecchini tondeggianti in similoro abbrancò la sedia a rotelle con
una stretta vigorosa e gli disse:
- Balliamo, nonno!
Lui si lasciò trasportare, si lasciò volteggiare, si lasciò stordire da mille mani che si passavano la sedia dall’una all’altra
con vigore, ma anche con grande delicatezza. Quando, dopo
un quarto d’ora di quella sarabanda, la donna lo riportò al
suo posto, era ebbro e stranito. Rideva, rideva come un bambino insensato.
- Se…. adess…adesso mi vedess…vedesseee suor An…
gelica! – riuscì ad articolare, tra
una sillaba ed una risata.
- Bene! prossima volta portiamo
qui suor Angelica. Vedrai lei come si diverte! – fece Miro. E insieme risero come due forsennati.
Al termine delle danze, ci furono i canti. Solisti o in gruppo, tutti
i cantanti trasmettevano un non so
che di pizzicore nella pelle e di
struggimento nel cuore. Ma il canto più bello venne alla fine.
- Questo è l’inno del nostro popolo – gli disse Miro – Si chiama
Djelem djelem, che significa Andiamo andiamo. Perché noi sempre andiamo in un viaggio continuo che è la vita, che è il dolore di
non avere casa e la felicità di avere come casa il mondo! ma pochi
capiscono questo. Per questo noi
sempre diciamo Lacho drom,
buon viaggio!
Si levarono, alte e solenni, portate
al diapason da una voce maschile e da un coro di voci miste,
le note di Djelem djelem.
- Questo è anche il canto di nostro sterminio, sai? tutti conoscono sterminio degli Ebrei, ma pochi sanno di zingari morti
in campo di concentramento. Era il Porrajmos.
A Giuseppe ricadde addosso una strana tristezza, ma non
pesante, non oppressiva, come quella di prima. Perché non
era la sua tristezza, ma una sottile, penetrante sensazione di
empatia. E per la prima volta nella sua vita provò, per gli
zingari, un sentimento molto simile all’ ammirazione.
A casa di Miro ritrovò la sua famiglia, che già aveva conosciuto alla festa. La moglie, Jovanka, era la donna vigoro-
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sa e allegrissima che lo aveva invitato a ballare. Gli offrì
ancora dei biscotti e dello slatko di prugne.
- Questo viene da nostra terra! – disse. E Giuseppe, a dispetto delle raccomandazioni di suor Angelica, fece onore anche
a quelle prelibatezze.
Miro aveva cinque figli, di cui tre in età scolare, una d’asilo
e l’ultimo nato, di sette mesi.
- Sapete? – fece Giuseppe con voce scherzosamente severa –
io sono un professore. Posso interrogarvi tutti e mettervi il
voto.
I ragazzi ridevano.
- Ma che professore! – fece Vladimir, il secondo nato – tu sei
nonno!
- Nonno sì – ribattè lui – ma anche professore!
- Vuoi vedere mio quaderno? – gli chiese Marika, la maggiore, signorinetta di 12 anni, che frequentava prima media.
- Certo che voglio vederlo!
E allora fu un turbinio di fogli, di quaderni, di libri, di disegni.
- Guarda anche il mio!
- Anche il mio!
- Guarda, nonno il mio disegno!
- Basta, basta – si udì perentoria la voce di Jovanka – tardi,
tardi! Ora di dormire! Nonno stanco!
- Sì, nonno vecchio! – disse con sussiego Irina, la terzogenita.
- Ma che dici! – la rimproverò suo padre.
- No, dice la verità – fece Giuseppe –
nonno vecchio e stanco! sapete quanti
anni ho? indovinate!
- Venti!
- Eh, no, molti, molti di più!
- Cinquanta!
- Di più, di più!
- Nonna ne ha cinquantadue! – fece il
saputello Vlady.
- No, io di più, di più!
- Allora cento! – buttò lì Marika.
- Beh, adesso non esageriamo! ve lo dico
io: ne ho 86!
- Ahhh! ahhh! ahhh!
- Tu tanto, tanto nonno! – fece Jasmine,
la bimba dell’asilo.
- Sì, hai ragioone piccolina. Io tanto, taaaanto nonno!
Tutti risero.
- Bene, ora di dormire – fece Miro – Nonno dorme in nostra
camera.
Lasciarono a Giuseppe la loro camera matrimoniale e loro
andarono a dormire con i figli: Miro nella camera dei maschietti e Jovanka in quella delle femminucce.
Giuseppe era tanto stanco, ma felice. Aveva l’impressione di
avere vissuto. Solo, gli restava dentro un tarlo…come una
specie di sorda malinconia…Ma perché?
Nessuno dei miei nipoti mi ha mai chiesto di vedere i loro
quaderni. Formulando questo pensiero, diede un volto e un
nome alla malinconia che gli scorreva dentro, come un rigagnolo infetto. Sentì un discreto bussare alla porta.
- Giuseppe, tutto bene? – echeggiò il vocione di Miro nella
casa ormai silenziosa.
- Sì, sì, grazie…Ah, Miro?
- Sì?
- Puoi entrare un momento per favore?
Miro entrò nella stanza.
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- Ti ringrazio per la splendida serata e per la tua magnifica
ospitalità.
- Ma niente, per noi, normale. Gente va, gente viene, casa
nostra casa di tutti amici.
- Senti, vorrei chiederti un ultimo favore…
- Sì, dimmi.
- Quella canzone…quella che avete cantato alla fine…
- Djelem, djelem?
- Sì, quella. Andiamo, andiamo. Se potrai…vorrei venisse
cantata al mio funerale.
Riecheggiò un’altra risata.
- Tu non sai cosa dici. Noi zingari mai parlare di morte, specialmente quando contenti.
- Oh, scusa…non sapevo!
- Ma quel viaggio tutti faremo, Giuseppe. Forse viaggio più
bello, chissà! Io ti prometto canteremo canzone se…
- Grazie! grazie di cuore! buona notte!
- Lacho drom nel regno dei sogni, Giuseppe!
PARTE TERZA
A novembre la nebbia si dipanava sottile con le sue graffianti goccioline sulle curve silenziose e imbarazzate dei
colli. Ogni gocciolina era un umido artiglio che si conficcava
nella carne dei vecchi, procurando dolori da tempo familiari.
Alle quattro del pomeriggio, come al solito, Luisella passò
con il suo carrello:
- Tè o succo di frutta?
Giuseppe non rispose. Era troppo intento ad assaporare le fitte acute che si dipartivano dal suo costato e percorrevano
in rigagnoli rossi l’itinerario delle ossa
provate.
- Signor Giuseppe!
- Oh, mi scusi, non l’avevo sentita! Tè,
grazie!
- Ma… pensavo succo di frutta…lei non
prende mai il tè!
- Mai essere prevedibili, Luisella!
La donna sorrise.
- Come ha chiamato la bimba?
- Deborah. Ma perché non va un po’ giù
in salone? Vede un po’ di gente!
- No, grazie! Oggi va bene così.
Tutto uguale, tutto come prima, salvo
che c’era una piccola Deborah e che il
signor Giuseppe prendeva il tè, invece del succo di frutta. La
settimana precedente Miro gli aveva detto:
- Purtroppo ti porto notizie non belle.
- Spara subito, non tenermi in ansia!
- Il mio contratto di lavoro con la Casa di Riposo si
concluderà venerdì prossimo. Torna signora Luisella.
- Ah! Beh, questo lo sapevamo! E l’altra notizia?
- E’ scoppiato incendio al Campo Nomadi dove erano miei cugini. Roulotte bruciata. Loro devono andare via. Ma dove?
- Terribile! Ma come è successo?
- Oh, queste cose molto frequenti per noi. Quando
gadgi non vogliono più campo…scoppia incendio…e noi via! Lacho drom!
- Che farai adesso, Miro?
- Per lavoro, non preoccupato. Cerco altro posto. Ma
cosa fare per miei cugini? Ora ospito in casa mia,
ma poi?
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-
Mi dispiace, non sai quanto.
Ma per noi, niente cambia. Io, quando posso, vengo
trovarti.
- Grazie. Lo so, sei un amico.
- Solo, per qualche settimana non potrò. Finché non
sistemo questione. Con associazioni di volontariato
abbiamo fatto Comitato, io mediatore culturale.
Avremo molto da fare.
- Lo capisco. Ma come è potuto scoppiare questo
incendio?
- Loro dicono, colpa nostra. Ma non è così. Mio cugino ha visto: due giovani con moto l’altra notte giravano attorno al campo…
- Pensi sia stato doloso?
- Ci sono indagini in corso…ma daranno colpa a zingari. In ogni caso, loro devono andare via!
Giuseppe tacque, pensieroso. Ricordava quel giovane alto e
bruno, che suonava il violino. E la moglie, la ragazza prosperosa che gli aveva offerto il vino rosso. E i bambini, quei
fuochi d’artificio schizzanti dappertutto. Ricordava la loro
voglia di vivere, la loro allegria. In fondo, si accontentavano
di poco: un pezzo di terra, e poi lo trasformavano in un piccolo Eden di suoni, colori, musiche, profumi d’agnello, sensualità di corpi in movimento, spettacolo pirotecnico di bambini folletti. Poi, un incendio…Gli zingari devono sgombrare
il campo! Gli zingari vanno via, scompaiono all’orizzonte e
nessuno ne saprà più nulla. Del resto, chi mai aveva saputo
come si chiamavano, come vivevano, che
cosa gli piaceva fare…
- Ora cugino vuole comprare pezzo di terra per portare sua famiglia.
La voce di Miro gli giungeva come
da lontananze estreme.
- Però di sicuro verrò da te prima
di Natale. Farti gli auguri!
Natale! Già, era “quasi” Natale. Eppure,
gli sembrava ancora lontano, lontano,
come avesse dovuto scalare una montagna
per raggiungerlo! Coraggio, andiamo attraverso i giorni! Djelem, djelem! Chissà
se gliela faremo ad arrivare! Per un vecchio di 86 anni compiuti anche un solo
giorno è come una montagna da scalare.
Il giorno dell’Immacolata c’era un gran daffare alla “Casa
di Riposo”! Bisognava addobbare l’albero nel salone grande,
mettere i decori alle finestre, sistemare in cappella le stelle di
Natale per la vigilia, e poi preparare i dolcetti e il vin brulé.
Sarebbero venuti gli animatori – i giovani di una Associazione di volontariato – e avrebbero allietato le serate di ospiti e
parenti. Poi, per le feste, chi poteva sarebbe stato portato a
casa dei figli o dei nipoti, gli altri sarebbero rimasti…La
Superiora si dava un gran da fare e suor Angelica, mite ed
efficiente, cercava di assecondarla in tutto. Nel reparto affidato alle sue cure sarebbero andati via tutti. Tutti, tranne –
naturalmente – il professore Olivieri. Oh, i suoi figli avrebbero inviato una cospicua somma perché non gli mancasse
nulla, e per le necessità della Casa. Lo avevano raccomandato in modo speciale a suor Angelica, che conosceva la moglie di Lucio, erano state compagne di scuola. Magari, il
pomeriggio di Natale avrebbero fatto una scappata…
Nella mattinata suor Angelica portò il professore in cappella per la messa e poi in salone, dove due signore volonta-
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rie, lì del paese, si recavano verso le 11 per leggere i giornali. I dolorini al costato intanto si erano fatti più intensi e ricorrenti, ma Giuseppe non disse nulla. Assistè alla messa
(da giovane non era mai stato né credente, né praticante, ma
da quando aveva perso la sua Giulia e altre disgrazie avevano funestato la sua famiglia sentiva il bisogno di ancorarsi a
qualcosa di consolante e di duraturo). Guardando la statua
della Madonna sorridente, con le braccia accoglienti, sentiva
scorrere lacrime sulle guance. Aveva considerato sempre il
Cristianesimo un fatto storico – culturale, la devozione non
lo aveva mai interessato, eppure…eppure in quel momento
sentiva tutto il bisogno della mano di un Padre o di una Madre, chiunque fosse, che si prendesse cura di lui, e delle creature che lui amava. Così aveva pregato!
Nel salone, sebbene non ne avesse particolare voglia,
ascoltò diligentemente le notizie pubblicate su “La Stampa”,
il giornale di Torino.
Il Campo Nomadi di Lungo Stura, dove alcuni giorni fa è
divampato un incendio che ha distrutto otto roulottes, è
stato completamente evacuato. Tutti gli zingari che lo occupavano sono andati via. Resta da vedere se troveranno
un’altra sistemazione confacente. L’Amministrazione Comunale…ecc. ecc.
Giuseppe si fece rileggere tre o quattro volte questa notizia
da Monica. Poi – con grande sorpresa della ragazza – si prese il volto tra le mani e scoppiò a piangere.
Solo suor Angelica riuscì a capire il motivo di quel pianto.
Allora lo riportò in camera e – su sua
richiesta – gli portò il giornale, poi carta e penna. Quel giorno Giuseppe non
scese a pranzo né a cena.
La notte le fitte al costato erano diventate incalzanti e dolorosissime. Si
lamentava così tanto che Anselmo ritenne opportuno chiamare l’infermiera
di guardia. Gli misurarono la temperatura: 39. Il giorno dopo lo ricoverarono
d’urgenza e la diagnosi fu: broncopolmonite.
Il professore Giuseppe Olivieri non
ce la fece ad arrivare sino a Natale:
morì cinque giorni dopo l’Immacolata,
esattamente il giorno di santa Lucia.
Poiché non aveva parenti in loco, la
salma venne riportata alla Casa di Riposo e le suore dovettero organizzare il funerale. Ovviamente i suoi parenti erano
stati informati, ma due giorni dopo il ricovero di Giuseppe,
le suore, costernate, ricevettero questo telegramma:
Familiari prof. Olivieri impossibilitati venire delegano suor
Angelica Ricciardi approntare tutto quanto necessario bene nostro congiunto, anche assistenza privata.
Non fu lasciato solo: le suore, a turno, si diedero il cambio
per assisterlo, ma più a lungo di tutte rimase con lui suor
Angelica, nelle cui mani – la notte tra il 12 e il 13 dicembre
– Giuseppe rese l’ultimo respiro.
Il funerale venne stabilito per il 15 dicembre, nella piccola cappella della Casa di Riposo. Per la traslazione del corpo
al camposanto si sarebbe interessata una lontana cugina, che
avrebbe presenziato alla cerimonia. Così, alle ore 10.00 del
15 dicembre 2010, ebbe inizio la cerimonia funebre per dare
l’addio al professor Giuseppe Olivieri, ospite da quattro anni
della Casa di Riposo “Anni Sereni”. C’era pochissima gente:
tre suore, tra cui – naturalmente – suor Angelica; il signor
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Anselmo e la lontana cugina, una signora sui sessanta, grassoccia, non molto alta, con una chioma impertinente di capelli biondo - ossigenati.
Poca gente, la cerimonia sarà brevissima era il pensiero
recondito di tutti. A don Pino toccava anche – naturalmente
– dire quattro parole, ma non conoscendo l’uomo e sicuro di
non dover sollecitare nessuna particolare corda emotiva, si
tenne molto sulle generali, parlando della morte come riposo
eterno e della speranza cristiana nella risurrezione. L’unica
che versò qualche lacrima fu suor Angelica: quell’uomo burbero e scontroso, ma anche così solo, le aveva fatto sempre
tanta pena, e molto più ora, che se ne andava così, senza nessuno, nessuno dei suoi cari. Piangeva anche perché lui le
aveva affidato la sua ultima lettera, quella che aveva scritto
nella sua camera il giorno dell’Immacolata, quando le aveva
chiesto carta e penna. Le aveva anche chiesto il grande favore di leggerla attentamente e poi di consegnarla ai suoi figli.
Cari figli – era scritto su quel foglio – vostra madre e io
abbiamo fatto per voi tutto il possibile perché aveste una
vita dignitosa. In questi ultimi anni non ci siamo visti spesso, ma non ve ne faccio una colpa: ognuno di voi ha i suoi
problemi. So che avete provveduto a me nel modo migliore
che vi è stato possibile: qui, grazie alle suore, sono stato
trattato bene, seguito e curato. Ora vi chiedo solo un grande favore, e non potete negarlo al vostro povero padre. Per
quello che mi resta di mio – anche vendendo la casa di proprietà – ho stabilito una quota per ciascuno di voi, secondo
le sue necessità. Vi chiedo di devolvere il dieci per cento di quello
che riceverete a un mio carissimo
amico, Miroslav Seferovic, che lo
destinerà a un suo progetto di
utilità sociale. Ve lo chiedo perché quest’uomo mi è stato molto
vicino in questi ultimi mesi e per
me è stato un grande amico…
Suor Angelica ricordava queste
parole e piangeva. Immaginava lo
sconcerto dei familiari e le loro
possibili obiezioni:
Ma chi è quest’uomo? E cosa
c’entra con noi? E cosa ha fatto
a nostro padre per indurlo a destinargli del denaro? Con tutto il
bisogno che abbiamo noi, di soldi! Con tutto quello che
abbiamo speso per lui! Uno zingaro, poi!
Ma forse no, forse avrebbero capito…e accettato. Il discorso
di don Pino volgeva al termine ma…ad un tratto le suore
videro che si bloccava a metà di una frase, che guardava
stupito verso la porta d’ingresso della cappella…
- Ma chi è questa gente? – chiese alla Superiora.
In effetti, i pochissimi presenti sentirono anch’essi un trepestio concitato di passi. Si voltarono, e videro un gruppo di
una trentina di persone, uomini e donne, vestiti in maniera
strana: giubbotti, pantaloni attillati e gonne lunghe…Li guidava un signore piuttosto corpulento, di media statura, che
fece loro cenno di prendere posto e di fare silenzio.
La superiora riconobbe, nel signore che guidava il gruppo,
l’inserviente Miroslav Seferovic e fece cenno al prete di continuare a officiare. La piccola cappella era piena e i posti a
sedere risultarono persino insufficienti: alcuni fra gli strani
personaggi rimasero indietro, in piedi.
A suor Angelica scappò un sorriso e in cuor suo ringraziò
il Signore di questa estemporanea novità. La cerimonia con-
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tinuò e gli zingari vi assistettero in rispettoso silenzio. Solo
verso la fine, Miro si avvicinò a suor Angelica e le sussurrò
qualcosa all’orecchio. Lei fece sì, sì e i due si scambiarono
un sorriso d’intesa.
Dopo la benedizione della bara, si udì, alta e acuta, la voce
di suor Angelica che chiedeva a tutti:
- Vi prego, non uscite ancora!
Poi si rivolse a don Pino e spiegò:
- Questa è una richiesta particolare del professore
Olivieri, una cosa a cui il nostro caro Giuseppe teneva molto. Voleva che, alla sua cerimonia funebre,
questi suoi amici gli dedicassero un loro canto, che
lui amava molto.
L’uditorio si rimise seduto e suor Angelica, rivolta a Miro,
fece:
- Prego!
Si udì l’avvio frusciante di un violino e una acuta introduzione musicale. Poi, alte e solenni, si levarono voci di uomini e
di donne, prima il solista, poi il coro. Nessuno capiva le parole, ma tutti rimasero colpiti e come affascinati: il canto,
triste e struggente, li trascinava in una sconosciuta e altissima regione dello spirito, dove non c’era tempo, né differenze, né incombenze, né età, né morte…
Djelem, djelem, lungone dromenca
Maladilem baxtale Romenca
Aj Romale, katar tumen aven
E Čahrenca baxtale dromenca /
E Cahrenca bokhale chavenca
Aj, Romale, Aj, Čavale,
Aj, Romale, Aj, Čavale.
Vi-man sas u bari familija
Mudardala e kali legija.
Ora non era più suor Angelica a
piangere. Piangevano anche Miro e
Jovanka e i loro cugini, e le suore.
Perfino la lontana cugina biondo –
ossigenata si lasciò prendere dalla
commozione e anche don Pino. Il
professore Olivieri se ne andò così
all’ultima dimora, scortato da un
numero imprecisato di amici e fratelli e sorelle e figli e figlie che mai
e poi mai avrebbe immaginato di avere.
F I N E
Semestrale di formazione comunitaria
Aprile 2014 - n. 58
C.D.B. Chieri informa
AGENDA CDB DI CHIERI
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La comunità cristiana di base di Chieri si ritrova ogni mercoledì alle ore 21 presso la
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L’eucarestia viene celebrata l’ultimo sabato o domenica di ogni mese
Il “Perdono comunitario” due volte all’anno, prima di Natale e prima di Pasqua
Lettura biblica. Una ricerca e una riflessione attraverso lo studio delle scritture ebraiche e cristiane libero da ogni condizionamento dogmatico o istituzionale:
quest’anno leggiamo il vangelo di Matteo
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